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Autore: Cassie chan    10/02/2018    14 recensioni
ATTENZIONE: non tiene conto degli eventi del settimo libro...!!Sono passati alcuni anni dalla fine della guerra, ed Hermione Jane Granger vive estromessa dal suo mondo, quello della magia, a causa di una condanna ricevuta tempo prima. Fidanzata delusa, disoccupata cronica, cinica perenne, Hermione ormai dispera dell'arrivo del principe azzurro. Ma quando arriva, non è facile riconoscerlo nelle fattezze affascinanti ma DECISAMENTE irritanti di Draco Lucius Malfoy, specie se babbano anche lui... ma la vita è decisamente strana e può anche capitare che ci si imbatta in una piccola fiaba, proprio quando si credeva di vivere in un incubo...:) PUBBLICAZIONE CAPITOLO 51 : 14 LUGLIO 2020
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Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Lavanda Brown, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'THE "HAVE A LITTLE FAIRY TALE" SAGA. '
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RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia, dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di essere non solo innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio, sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo. Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro, forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente Eva Dubois nascosta in mille fogge accomunate dal cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente solo compagna di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia, in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in questo mondo, indica sempre il mare.

Capitolo 48: Disturbia, step two: about serendipity (part II)

 

20 dicembre

 

Quando scese dal treno di Hogwarts, per le vacanze di Natale del suo dodicesimo anno di vita, Rose Weasley non era più una bambina.

Aveva dismesso incolume le piume infantili per una creatura imberbe ed ancora informe che non sapeva dirsi donna, ma nemmeno più fanciulla. Conosceva già la precisione inconsapevole di piccoli gesti involontari che la facessero sentire “grande”: le spalle più aperte, la schiena più dritta, l’attitudine di acconciare i capelli meno nelle trecce e più in boccoli sciolti, la voce meno stridula e più compassata come se sapesse chissà che profonda verità.

C’era poi anche qualcos’altro: un muscolo nel petto che aveva preso a vivere in modo autonomo, sconveniente, fastidioso, bruciando i polmoni quando avvistava qualcuno nei corridoi di scuola.

Quel segreto stazionava in lei come una goccia di rugiada dentro una rosa: lo custodiva gelosa, lasciandolo decantare dentro come se il tempo lo potesse solo rendere ancora più profumato di gioia candida. Con pazienza, aspettava la persona degna perché lei si confidasse.

E credeva, con uno slancio di fiducia, di averla trovata.

Non suo padre, che pure era sempre stato il suo confidente preferito: divertente, scanzonato, ironico, pronto a sollevarle i pesi dalle spalle a suon di rassicurazioni scherzose e motteggi lievi.

Ma sua madre: l’algida, perfetta, forse pure noiosa, Hermione.

Quella era una cosa seria. E la mamma spandeva serietà come un’istitutrice tedesca. La mamma aveva sempre le risposte, le piovevano nelle mani come pesci e pani in una parabola.

Rose Weasley, 12 anni appena compiuti, si presentava all’appuntamento con la sua mamma d’alabastro, convinta che la vita lontana da casa da quasi quattro mesi l’avesse resa pari alla donna che l’aveva generata e che aveva sempre invidiato, temuto ed adorato, sin da quando era nata. Hermione, finalmente, avrebbe riconosciuto in lei una controparte affidabile e matura.

Accadde: ma non nel modo che pensava lei.

Non accadde perché Hermione vide in lei, ora, un’adulta. Ma perché Rose spiò in lei la donna, non più la mamma rassicurante e scontata, tinteggiata sul fondo dei suoi anni di bambina come un colore scuro e deciso, dai tratti sicuri.

Il treno entrò in stazione con un rombo netto, Rose si alzò dal sedile con spavalderia, sollevando il mento come faceva sempre Hermione. Guardò fuori dal finestrino, in un lampo di colori sua madre emerse dal fondo di persone come un grigio indistinto.

Non pensava che la guardasse, non aveva ancora percepito il treno arrivare.

Fu solo un secondo.

Lontana dalla sua famiglia che chiacchierava in un capannello cremisi, suo padre in testa come un leone orgoglioso. Lei, invece, sua madre, era seduta poco più in là, su una panchina. Piegata su sé stessa, i gomiti sulle ginocchia e le mani a raccogliere il viso a coppa, come a tenersi assieme.

Respirava avida nel collo della sua sciarpa grigia, il torace le si sollevava sotto il cappotto in modo febbrile persino a vederla da lontano. Gli occhi, screziati di agata, ora erano spenti, fissi, asciutti.

Quando sentì il treno, fu come se fosse stata punta da un’ape a tradimento sulla schiena.

Si alzò rapida, raggiunse gli altri in un balzello scomposto.

Quando Rose scese dal treno, l’abbraccio di sua madre non aveva nulla di diverso. Sempre un po’ rigido, sempre profumato di vaniglia, sempre accompagnato da raccomandazioni sollecite.

Rose, però, l’aveva vista: non si scampava, ormai.

Aveva visto la Hermione Granger dietro sua madre, non se la sarebbe più tolta dagli occhi. E paradossalmente questo, la fece indorare di imperfezione lieta agli occhi della figlia, così che, davvero, adesso lei desiderasse parlarle.

“Mamma capirà”, si disse Rose. “Non è così perfetta, anche mamma è confusa e triste. Come adesso, anche se mi abbraccia forte”.

Rose restò nell’abbraccio di sua madre, amandola più di quanto avesse mai fatto.

Sfuggendo un’altra somiglianza tra lei ed Hermione.

Anche lei guardava i Malfoy da lontano e ne cercava gli occhi.

Non trovandoli mai.

 

 

Il senso di colpa è un animale che si mangia famelico la coda tornando sempre negli stessi posti, anche quando fai di tutto per evitarlo. Penso che, per questo stesso motivo, l’assassino torna sempre sul luogo del delitto: è un richiamo ancestrale che non può minimamente impedirsi. O forse, come suggeriva il mito delle Erinni, furie vendicatrici delle colpe contro gli innocenti, è il destino stesso e la vita che ti si ritorcono contro, portandoti a sbattere sempre contro i medesimi nodi irrisolti, come se fossi un pesce che si dimena dentro la rete di una barca.

Il pomeriggio è cominciato innocente, permeato della gioia di riavere mia figlia a casa: le stanze sono state inondate dalla luce spavalda che è Rose, qualcosa che lei sprigiona da dentro come un manto inconsapevole di grazia, di cui si rivestono tutte le cose. Mi sembra che persino gli oggetti più banali del mio salotto, l’orologio azzurro, la tenda a righe tortora, il vaso di vetro soffiato, ora cantino e brillino di lei. Allo stesso modo, reagiamo io, Ron e persino Hugo, che prima della scuola con lei litigava sempre e comunque, qualsiasi cosa facesse.

Rose mi è subito sembrata diversa: i miei occhi di madre non hanno fatto fatica a notare che sembra dimagrita, ma in quella maniera consapevole che può essere solo dovuta ad un’attenzione femminile al peso. Gli occhi, azzurri come poche cose al mondo, sono quasi sempre allungati da una linea sottile di matita nera, ancora messa in modo goffo e distratto, dato che sbava sempre sull’angolo esterno dell’occhio, causandole una macchia scura attorno alle ciglia che la fa somigliare ad un panda.

Ma la cosa più evidente di lei ad essere mutata, è la voce. Sapevo di ragazzini che, d’improvviso, dismettono la voce stridula da bambini, per montarne una grave, baritonale, fonda come se traesse origine dal fondo del torace. Era successo a Teddy anni fa, ricordo ancora il sobbalzo che feci quando lo sentii parlare di nuovo, dopo mesi di lontananza a scuola.

Ma, a quanto pare, quella metamorfosi fonica ha interessato anche mia figlia, dal sesso indiscutibilmente femminile: Rose, che aveva alla partenza un tono di voce urlato, chiassoso, sempre acuto, ha invece assunto una voce cristallina, lieve, soffusa, quasi come se nemmeno articoli le corde vocali a parlare, ma lasci fare tutto a piccoli emissioni di fiato sfuggite per caso, quasi per errore.

Avevo anche notato, non senza un’ombra di piacere, che la mia bambina era molto più interessata alla mia compagnia rispetto al solito; aveva sì abbracciato il padre, pianto un po’ di nostalgia sulla sua spalla e commentato gli ultimi risultati delle partite delle Holyhead Harpies, ma poi con risolutezza aveva preso a seguirmi in ogni singola faccenda domestica, fedele guardiaspalle. Spiandola con la coda dell’occhio, la vedevo aprire e chiudere le labbra come un pesce rosso, a cercare evidentemente coraggio per dirmi qualcosa di importante, qualcosa che, per intenderci, le arrossava le guance di carminio e le faceva luccicare gli occhi come se avesse la febbre. Poi, con frustrazione, si arrendeva, le spalle le si afflosciavano, montava un broncio ancora infantile e proseguiva a rispondermi a tentoni alle domande sulla scuola, sulle materie preferite, sugli insegnanti, la testa a mille miglia da qui.

Comprendendo l’antifona, sapendo che se le avessi chiesto direttamente qualcosa, mi avrebbe risposto stizzita, dicendo che non aveva assolutamente nulla da dirmi e che le mie erano solo fantasie, avevo optato per la tecnica migliore tra tutte: l’uscita mamma – figlia per comprare gli ultimi regali di Natale, con la promessa di tè finale con biscotti allo zenzero che lei adorava.

Si era ovviamente rianimata, probabilmente rincuorata dal fatto che, in assenza di suo padre e di Hugo che trotterellavano per la casa, le parole le sarebbero venute fuori meglio e prima.

Ed è a questo punto che mi trovo adesso, alle sue parole. Le avevo già immaginate, intuite. Avevo già focalizzato il loro contenuto ed il modo in cui le avrebbe pronunciate. Già me la vedevo seduta di fronte a me nella sala da tè con le mani che si torcevano frenetiche in grembo, il volto rosso, la testa bassa. Tutto avrebbe ruotato attorno al nome di un ragazzo appena conosciuto, per il quale avrebbe professato un eterno ed incrollabile sentimento che era nato come un fiore a marzo, senza preavviso, solo con un grande senso di confusione, profumata come la corolla di una primula.

Sapevo che voleva risposte, punti fermi, consigli, e mi ero preparata come per una lezione universitaria, scegliendo accuratamente le parole mentre mi vestivo e mi truccavo, esercitandomi anche davanti allo specchio con le espressioni da assumere al suo discorso, così da riportare diligenti all’ordine sopraccigli indagatori e labbra accondiscendenti.

Quello a cui non ero preparata, era il nome. Quello che adesso ancora aleggia tra me e Rose, scolpito nell’aria dorata del pomeriggio come se fosse fatto di roccia dura. Il nome che, senza che nemmeno lo conoscessi, mi si è incuneato nello spazio tra i polmoni, come la spada di certe Madonne della mia infanzia, in Sicilia.

“Scorpius Malfoy, mamma. Credo… di essermi innamorata di lui”.

Quel cognome, oggi, adesso, a bruciapelo, sembra una punizione celeste.

Mia figlia, colpita dal mio silenzio e preoccupata che io disapprovi, si esibisce in un appello accorato in favore del giovane Malfoy, elencandomi tutti i motivi per cui si è innamorata di lui. Il mio sguardo vagante nella sala da tè si sofferma sulla macchia di rossetto che ha sul polso, cosa che mi fa curiosamente sorridere: si sente un’adulta fatta e finita al punto di potersi truccare, ma come una bambina si dimentica di esserlo e si macchia gli abiti, imbranata ed assente.

Rose continua a raccontarmi di Scorpius, del loro incontro, dell’amicizia con Albus, ed io mi limito a cenni distratti con il capo per non farle intendere che critichi il suo innamorato; in realtà, ciò che con estrema diligenza tesse mia figlia sul ragazzino, non fa altro che riportarmi indietro all’immagine di suo padre. E alle parole che, qualche settimana prima, gli ho rivolto in terrazza dai miei suoceri, ricordandogli il tentato omicidio di Silente ed asserendo convinta che era davvero sua intenzione assassinare il vecchio preside.

Deglutisco a disagio un paio di volte, sorseggiando il tè al gelsomino che si è fatto freddo, scivola nella mia gola come se avesse la consistenza della confettura.

Draco Malfoy mi ha inseguito nei pensieri dall’ultimo giorno in cui ci siamo visti, ammantato da questo senso greve ed acre di colpa che non mi lascia in pace, nauseandomi senza riposo. Ormai anche la nausea che provo spesso, è diventata una sorta di compagna quotidiana che mi avvisa di quanto io sia stata meschina nei suoi confronti. Sono abituata all’autoanalisi, sono abituata a cercare ogni falla in me stessa che sia il punto in meno nell’autentica perfezione da me bramata, ma non sono abituata a sentirmi così fuori posto come in questo momento.

Sento di aver toccato una sorta di limite, ed al contempo di fondo, che non ero nella posizione di toccare. Come se ci fosse una sorta di patto tacito tra noi, che io ho infranto con predeterminazione, solo per difendere me e il mio traballante matrimonio.

Non mi riconosco in ciò che ho fatto a Malfoy, non è da me, non è assolutamente da me perdere così tanto il controllo di me stessa da dire cose che non dovrei dire, senza pensarci su.

E il karma sembra essersi messo d’impegno ad inseguirmi senza posa, scegliendo persino come sicario mia figlia che, accalorata, prende fiato e continua a pontificare su Scorpius Malfoy. Ogni sillaba di quel nome sa di sigarette e neve fresca.

Nel silenzio di quella notte sentii persino il respiro trattenuto di Draco Malfoy, quell’autentico tonfo nel petto, come se ci sprofondasse qualcosa nel buio, affogando.

Ho pensato, certo, di scusarmi con lui, è stato il primo pensiero dopo che quelle parole terribili avevano lasciato le mie labbra. Ma si era rivelato molto più difficile del previsto. L’orgoglio mi frena come se fosse la catena di una bestia feroce che tiene legata al laccio.

Penso sempre alla reazione tronfia che avrebbe, alle domande che mi rivolgerebbe, alla giustificazione che dovrei dare di una reazione eccessiva, che nemmeno io ho compreso così bene. Dovrei forse dirgli che stava girando troppo attorno al cuore del discorso, ai dubbi che avevo sul mio matrimonio? Impossibile, sarebbe come consegnare la testa al boia.

Senza però quella spiegazione, la mia richiesta di scuse perdeva consistenza, peso, valore, ed il mio gesto assumeva davvero la dimensione di un puntiglio odioso da ragazzina saccente, vogliosa solo di infliggere crudelmente una punizione.

Mi sono lambiccata per ore sul punto, cercando parole, gesti, frasi, ed intanto ho disertato casa dei miei suoceri, temendo di incontrarlo. Il soffitto, nelle notti bianche in cui non riuscivo a prendere sonno, disegnava solo ulteriori momenti di umiliazione che mi avrebbe inflitto per vendicarsi. Arrabbiata con me stessa per pensarci ancora, mi voltavo febbrile nelle lenzuola, chiudendo gli occhi e dicendomi spavalda che avevo solo detto la verità e che non c’era nulla di cui scusarsi.

Nessuno di noi sa davvero che cosa avrebbe fatto Malfoy se non fosse stato interrotto.

E lui non ne ha mai parlato con nessuno.

Perciò ci sta ogni supposizione, anche delle peggiori. Era un suo dovere, al massimo, smentirmi.

Peccato che questa mia giustificazione regga per otto secondi netti. Gli occhi si spalancano nel buio, le labbra si mangiano freneticamente tra loro, lascio Ron nel letto a russare e cerco di trovare allo specchio le parole giuste da rivolgergli.

Questo, in un giro eterno che dura da giorni ormai.

Rose, intanto, di fronte al mio perdurante silenzio, pensa bene di mettere il muso, incrociando le braccia innervosita, interpretando la mia mancanza di reazioni come la più classica delle rimostranze da mamma per il ragazzo di cui è così tanto innamorata. Distinguendo il tremore del labbro inferiore che preannuncia l’inizio della più grossa crisi isterica dai tempi della scomparsa dell’orso Kebab dalla sua stanza, mi affretto a recuperare il tono della conversazione, deglutendo con forza un paio di volte per far scivolare il nome di Malfoy in fondo allo stomaco, assieme al tè gelido che ingurgito con foga.

“E’ molto bello che tu provi queste cose, tesoro…” sussurro con partecipazione, chiudendo la mia mano sulla sua, contratta freneticamente sul tavolo accanto al vaso di peonie bianche. Le guardo per qualche istante, con l’impressione che mi ricordino qualcosa, ne studio distrattamente un petalo come alla ricerca di… una sorta di… macchia nera… ma non vedo nulla ed intanto la nausea mi riannebbia i sensi, quindi desisto. Rose, intanto, convinta dalla mia affermazione, si rianima con calore, accendendosi come un fuoco d’autunno, il viso come il compagno perfetto della sua capigliatura scarlatta: “Lo pensi davvero, mamma? Non sei… delusa che sia proprio un Malfoy?”.  

Sorrido incoraggiante, accarezzandole con il pollice il dorso della mano: “Ma no, Rose, non pensarlo nemmeno. Io, papà e zio Harry abbiamo lottato per anni perché il mondo cambiasse, e perché tu potessi sentirti libera di provare affetto anche per Scorpius”. Ometto volutamente con un accenno di confidenza il cognome del ragazzo, così da non avere nuove reazioni inconsapevoli che mia figlia possa fraintendere.

Ci pensa, però, Rose a finire il lavoro che aveva già iniziato con la sua confidenza, andando direttamente al punto con decisione: “Lui non è come suo padre, mamma. E’ gentile, dolce, educato. Non è come mi avete parlato del signor Malfoy”.

Scorpius non ha quegli occhi grigi che sembrano assieme di un angelo, e poi di un demone? Non ha quelle parole che, dentro, scavano trincee come trivelle alla ricerca dell’acqua? Quando non la trovano, si mettono a scartavetrare la pelle nuda, così da mangiarti viva.

Non è così, Rose, il tuo innamorato? È ancora innocente e puro come carta di riso, come il sapore latteo dei neonati, come il fiore fresco di pioggia della prima alba?

Come ti abbiamo parlato di Malfoy, tesoro, quando eri bambina?

Di un bulletto egoista che prendeva di mira la tua mamma e il tuo papà, tormentandoli?

Magari tu hai pensato al giorno in cui ci saremmo potuti vendicare ed avere giustizia. Nelle nostre storie hai fatto il tifo per noi, come se fossimo degli eroi di carta e inchiostro dentro i tuoi fumetti o i tuoi libri, quelli che sceglievo diligente, attenta al messaggio giusto.

La vendetta è arrivata, Rose, glielo ho servita su un piatto di neve sporca e sigarette alla vaniglia.

Peccato che, nel suo fuoco amico, ha fatto a pezzi anche me.

Prima di intraprendere la strada della vendetta, scavate due tombe: questo diceva qualcuno.

Sembra che lui stesso con quegli occhi mostruosi spali terra sulla mia testa, seppellendomi.

Ricaccio indietro quei pensieri assurdi, mettendomi i capelli dietro le orecchie con un gesto nervoso delle dita, prima di chiedere un altro tè al cameriere. Poi, con un profondo sospiro, biascico velocemente: “Rose, la nostra storia con il papà di Scorpius… è qualcosa di diverso. C’era la guerra… il mondo… non è quello che conosci tu, quello a cui tu per fortuna sei abituata. Non possiamo giudicare correttamente una persona per quello che era in quel momento. C’erano troppe cose che potevano pregiudicare l’onestà e la bontà di una persona, specie se si trattava della sopravvivenza della propria famiglia. Credo… che per questo… non sia facile parlare di chi era in quel momento… il signor Malfoy…”. Pronuncio il suo cognome con un’emissione di fiato più forte, come a farmelo uscire velocemente dal petto prima che prenda troppo spazio.

Rose mi guarda apparentemente convinta seppure confusa, i suoi occhi azzurri mi guardano come se fossi una sorta di enigma in cardigan rosso e sciarpa grigia.

Mi affretto ad aggiungere allora a mo’ di spiegazione, consapevole che non può seguirmi in tutto il mio tentativo di redenzione mentale: “Quello che intendo dire, Rose, è che non devi farti condizionare da quello che eravamo noi a scuola. Te l’ho già detto alla stazione, quando papà ti ha suggerito scherzosamente di batterlo in tutti gli esami. Voi… siete un’altra cosa, tesoro. Non c’entrate con noi. Sii amica di chi vuoi. Innamorati di chi vuoi. Non pensare a chi è figlio di chi”. 

Finalmente Rose comprende che ha avuto una sorta di benedizione da parte mia, con slancio si alza in piedi, facendo cadere la sedia alle sue spalle. Mentre già mi inalbero per la sua poca delicatezza, lei si getta tra le mie braccia, stringendomi forte ed avvolgendomi nel suo profumo di pesca. “Grazie mamma…” sussurra dolce con un accenno di pianto.

Commossa come solo la madre di un’adolescente può essere di fronte alle dimostrazioni di affetto, quando esse diventano sempre più sporadiche e rare, le accarezzo piano i capelli stringendola a mia volta e baciandole la tempia.

“Mamma, posso invitare Scorpius a Natale dai nonni?” mi chiede Rose infervorata, staccandosi da me. Le parole le escono velocemente dalle labbra come saette di fiato, scampate dalla costrizione della laringe. Si accavallano le sillabe per l’emozione e la cosa mi intenerisce al punto che, in un rapido cenno del capo, le dico di sì senza alcuna remora o esitazione.

Lei mi abbraccia ancora, saltella sul posto e poi scappa via dal locale, dicendomi che deve assolutamente andare da Dominique che le deve prestare un suo vestito da paura per incontrare Scorpius a Natale.

Resto con la mano aperta sospesa in un saluto, anche quando la sagoma di mia figlia sparisce dietro l’angolo. Dopo, quando me ne rendo conto, abbasso il braccio e lo lascio piegato sul tavolo, il pugno contratto.

Ho mentito a mia figlia ed è la prima volta nella vita.

Le ho detto di credere in un mondo immacolato e vergine, che le donerà solo amore e gioia.

Non sa quanto sono stata bugiarda.

 

 

24 dicembre

 

Da sempre il piatto tipico della Vigilia di Natale a casa Weasley è il rognone di vitello con le cipolle caramellate: è il cavallo di battaglia di Molly, una sorta di bomba H gastronomica di calorie e trigliceridi, il cui odore impregna persino le ossa, anche se trascorri pochi minuti alla Tana.

Oggi, per l’occasione, nel salotto sono stati fatti Evanescere tutti i mobili ad eccezione di un lungo tavolo rettangolare, apparecchiato con tozze candele rosse e stoviglie spaiate. Rami di vischio un po’ rinsecchiti pendono sbilenchi da ogni parte, l’ultimo dei Tiri Vispi Weasley: al passaggio di una persona qualunque, esplodono stelle rosse ed oro al suono dello schiocco rumoroso di un bacio.  Sempre da tradizione, non appena si arriva alla Tana, si opera la scissione vecchia di decenni tra appartenenti al cromosoma XX ed appartenenti al cromosoma XY: le donne si rintanano tutte in cucina, nei loro abiti scarlatti e nelle loro chiacchiere rumorose ed acute, mentre si mescola, impasta, sminuzza, cuoce, soffrigge, insaporisce, più cibo di quanto si mangerebbe mai in otto settimane. La regina incontrastata è Molly che con rapidi colpi di bacchetta, mette in riga e in mostra il suo arsenale alimentare.

È il suo momento, quello per cui spasima ogni anno, arrivando quasi al collasso per la ricerca della perfezione, simulando teatrali svenimenti per ogni persona che viene meno o non gradisca qualcosa.

Ci sono rituali consueti, che vanno ripetendosi di anno in anno: le caramelle alla fragola che finiscono prima del pranzo, divorate da Ginny; il calcolo mentale dei giorni di digiuno che attendono Fleur, dopo questa “catastrophe”; la mia rimostranza di fronte al rognone e il candore stupito di Molly che sostiene che io l’abbia sempre mangiato, cosa che naturalmente non ho mai fatto.

Gli uomini, assieme ai ragazzi e ai bambini, restano fuori nel giardino, intenti ad accendere qualsiasi cosa contenga polvere da sparo: nel cielo notturno, lucido di neve inespressa, brillano girandole fucsia, viola, argento, celeste. C’è sempre l’attrazione dell’anno, la novità: un anno c’era stato un enorme drago argento ed oro che aveva solcato le montagne e le nuvole, esplodendo dopo ore in una pioggia di coriandoli al gusto di pizza. Un altro anno, era stato il turno di piccoli quadrifogli verde smeraldo, fioriti nel giardino davanti a casa dei miei suoceri e che, rilucenti nel buio, esplodevano di mille odori diversi se sfiorati o colti.

La costante sono sempre i visi scarlatti per il freddo, le urla di mamme e mogli, l’immancabile influenza che si prenderà qualcuno nel periodo immediatamente successivo tra Natale e Capodanno.

Poi finalmente tutti a tavola: ogni anno, ci sono sempre troppe poche sedie, troppe pietanze, troppi avanzi. E la stanza straborda di mille conversazioni diverse vagamente intrecciate, confuse in un modo quasi tattile, come una nebbia che condensa sulle cose rendendo tutto indistinto.

Mi è sempre piaciuto il Natale, il mio da bambina era una festività tripersonale che diventava solo vagamente più frequentata se decidevamo di andare in Sicilia da mia nonna.

Quello dei Weasley era invece caotico, rumoroso, colorato. Ed io lo avevo adorato fin dal primo momento. Senza eccezione. Anche nel dubbio, anche nella tristezza, anche nella guerra, anche nella frustrazione rabbiosa dei litigi con Ron: le discussioni finivano sempre per risolversi nel calore famigliare, evaporando e sciogliendosi come volute di fumo acre, mentre ci scambiavamo di malavoglia un bacio alla mezzanotte, scoppiando a ridere poi come due adolescenti.

Quest’anno, però, senza che esista un motivo apparente, mentre tutti i riti restano ancora in piedi, mi sembra di essere in una specie di bolla d’aria dove tutto mi giunge attutito, offuscato, sbilenco, ovattato, come se provenisse da un’altra dimensione. Persino i miei movimenti mi paiono rallentati, alla moviola, e tutti devono ripetermi le cose circa dodici volte prima che mi giungano davvero nel cervello, la sensazione stopposa di camminare sulla gelatina.

In fondo allo stomaco, come il presagio sventurato di Cassandra, sento il diffuso furore cieco dell’ultimo Natale… così. Come se sapessi con certezza che l’anno prossimo le cose saranno tutte diverse, completamente. La ragione mi risponde che, certo, chissà cosa potrà succedere in un anno esatto e che, in certo qual modo, tutto cambia alla velocità della luce.

È una costante, se uno ci pensa, non è che ci vuole Natale per dirselo.

Ma, mentre vedo le labbra di Ginny muoversi mentre mi dice qualcosa ridendo, qualcosa che non arriva alle mie orecchie, comprendo che non è questo: non è quel avvertimento sulla fugacità del tempo presente che, di tanto in tanto, ci coglie come una spada di Damocle e ci spinge a rivalutare ogni singolo istante. Ed allora, con uno slancio furente, ci si abbraccia di più, si dicono più ti amo o si perdona qualcosa che si considerava indimenticabile.

La sensazione che mi pulsa persino nelle orecchie come un ronzio regolare, infido, sinistro, è di una sorta di chiusura di un ciclo, di un mondo che finisce, di una vita che volta l’angolo e che non sarà più la stessa. E che invece di portarmi ad essere più sollecita ed attenta nei confronti dei miei cari, paradossalmente mi chiude in un isolamento dorato, dove ogni parola è disturbo e molestia.

Credo di ravvisare ogni segno di quel mondo che finisce nelle piccole cose che mi circondano, dandomene così una spiegazione: dai capelli sempre più grigi di Molly e dal fatto che non riesca a portare in tavola il grosso e pesante tegame di rognone, all’andatura sempre più curva di Arthur che non lascia mai la sua poltrona preferita, fino a Rose che non partecipa ai fuochi d’artificio di famiglia, restando invece a sospirare contro il cielo in veranda.

Evito di ripensare a che cos’altro è successo in quella veranda qualche giorno fa, stasera non si pensa a Malfoy, quello si starà rimpinzando di caviale e champagne alla faccia mia, maledetto stronzo di un riccone, e cerco di dare un peso a quello che mi circonda, riprendendo a gravitare diligente come un membro della famiglia compito e coinvolto.

Mi decido evidentemente troppo tardi, perché in quel momento Molly annuncia con voce squillante, ma in qualche modo meno tonante del solito, di sedersi a tavola. Sospiro a lungo, imitata e seguita da mia figlia che è appena rientrata in casa, le metto un braccio sulle spalle, incoraggiandola. Le ho consigliato di chiedere a Ron di invitare qui Scorpius una volta finito il cenone, contando sulla solita pinta di Acquaviola fatta in casa che si sarà scolato con i suoi fratelli. Contavo, in realtà, anche sulla presenza salvifica di Teddy e Victorie per impedire che perdesse le staffe, ma a quanto pare la ragazza non si è sentita bene ed è rimasta a casa. Naturalmente, quindi, anche Bill, Fleur, Dominique e Louis hanno colto la palla al balzo per saltare il luculliano pasto offerto da Molly, considerando che ogni anno erano loro quelli a fare più storie per non ingurgitare quel calorico e troppo condito cibo.

Per una volta, la nausea gravidica è diventata contagiosa.

Mangio a piccoli bocconi, annuendo di tanto in tanto ai discorsi dei miei cognati, sempre con quel senso di estraniamento addosso che mi circonda come una sorta di pelle infetta. Le varie portate mi passano davanti come sotto il tasto di avanzamento veloce, le tocco appena, mi sembra che abbiano tutte lo stesso sapore insipido e scialbo.

Quando sto dando la colpa in modo automatico del mio stato mentale al fatto che quest’anno mia mamma abbia deciso di restare in Italia per Natale e di non venire qui, cosa che mi spinge a decidere di chiamarla per sapere se stia bene, mi rendo conto che siamo arrivati ad un altro dei tanti riti natalizi, inaugurato dopo la fine della guerra.

All’inizio, il promotore era stato Arthur, lo ricordo ancora seduto a capotavola, la posa severa, la schiena dritta, il bicchiere di sherry stretto nella mano e brandito come se fosse il Santo Graal.

Era il primo Natale dopo la sconfitta di Voldemort, ed anche il primo che io e Ron passavamo da fidanzati, ricordo le mani intrecciate sotto il tavolo, la fuga in dispensa per pomiciare, la mia ricerca frenetica di un regalo e l’ansia che non gli piacesse.

E poi, tutti i miei pensieri sparirono nel discorso toccante di Arthur che, partendo dal proprio figlio Fred, propose un brindisi per tutti coloro che erano morti durante la guerra e che non erano lì in quel momento a festeggiare con noi. Scorsero calde lacrime, un accenno di applauso, un brindisi rumoroso e selvaggio come quell’impeto alla vita che sentivamo forte, come un dovere verso chi non c’era più. Alla fine, con la conta delle vittime sempre aggiornata, divenne un’abitudine natalizia.

I nomi dei caduti divennero alle orecchie dei nostri figli una filastrocca di malinconia e dolore al sapore di christmas pudding.

Quando Arthur non fu più in grado di restare a lungo in piedi e di tenere così alta la voce, il testimonio passò inevitabilmente a Ron: c’erano i suoi fratelli maggiori ovviamente prima di lui, ma era lui l’eroe di guerra. Ha sempre visto quel momento come qualcosa di molto importante, al pari di un’investitura ufficiale che si era guadagnato negli anni.

Anche quest’anno, quindi, sapendo quanto ci tenga, cerco di focalizzare l’attenzione su di lui che richiama l’ordine, facendo tintinnare con un cucchiaio il bicchiere di vetro smerigliato.

Cade il silenzio, come di abitudine. E le parole di Ron sono quelle di sempre: calde, commoventi, emotive. Sento un singulto di orgoglio e fierezza per mio marito che, nella mia inconsistenza di pensiero, sembra farmi ritornare a questo momento come se ci appartenessi per diritto.

Non lascia fuori nessuno, nemmeno chi è perito successivamente anche al di fuori della guerra, come Andromeda. Tutti esplodiamo in un triste applauso, mentre come sempre George abbraccia Molly in lacrime e singhiozzi al pensiero mai sopito di Fred.

Ron conclude con un sorriso mesto, sollevando il calice: “Che il vostro Natale sia felice quanto e più del nostro. E che continuiate a vegliare su di noi…”, poi, gettando un’occhiata sardonica di soppiatto a tutti i presenti, come se stesse per rivelare un segreto, sussurra afflitto: “E che possiate perdonarci… se diamo accoglienza ed ospitalità ogni giorno ad uno dei vostri quasi assassini. Non preoccupatevi. Non saranno mai come noi”.

Non comprendo subito a che cosa alluda e nemmeno il resto della mia famiglia. Cade solo un silenzio fangoso, viscido, ruvido, che sembra in contraddizione con tutto quello che c’è stato fino a poco fa.

La consapevolezza mi giunge nello stesso momento in cui, con un gran fracasso, sento il rovinare di una sedia che cade per terra, risuonando sorda nell’aria circostante.

Rose si allontana, correndo sconvolta, in lacrime. Le mani che stringeva in grembo nell’attesa di chiedere il permesso di invitare Scorpius per Natale, sono sbiancate come bucaneve congelati. Sibila solo, tagliente come la lama di un coltello: “Sei una bugiarda, mamma”.

Le parole di Rose hanno l’effetto di spaccare a metà il guscio ottuso che, amniotico, sembrava racchiudermi intatta e lontana da qui. L’accusa fende il mio petto come una freccia alla ricerca del bersaglio, che trova nel mio ventricolo sinistro. Mentre tutto si sgretola, riappare l’aspetto ordinario delle cose e delle persone, con colori ed odori persino più violenti del solito, che mi travolgono come se fossi al mio primo giorno di vita.

Mi manca il respiro, come se annegassi.

Cercando di recuperare ossigeno, guardo affannata Ron, i suoi capelli rossi, le gote arrossate dalla foga del suo discorso e dall’alcol ingerito, le orecchie paonazze. Tutto mi pare una sorta di affronto personale, il fastidio mi incendia lo stomaco come una petroliera in fiamme.

“Non potevi resistere, vero?” inveisco a fatica, il respiro spezzato dall’ira, guardandolo in tralice, prima di sbattere violentemente i pugni sul tavolo, i bicchieri tintinnano come feriti “Te la stavi preparando da… quanto? Da quando Malfoy ha messo piede qui? O da prima?”.

Attorno a me, solo Harry scuote il capo con rimprovero, limitandosi solo a pronunciare il nome di Ron severamente. Gli altri restano in silenzio, guardandosi le mani poggiate sulle ginocchia o nello spazio sul tavolo tra un commensale e l’altro, nella solita omertà che protegge il cucciolo, sebbene sia ormai già diventato un padre di famiglia che dovrebbe pensare prima alla propria figlia e poi a tutto il resto.

Scossa dalla rabbia, come se fossi un fuscello secco in un tornado, biascico senza prendere fiato, come se le parole si accavallassero una sull’altra alla stregua di naufraghi che cercano salvezza: “Tua figlia si è innamorata di Scorpius Malfoy. Già, dello stesso Scorpius con cui le hai consigliato di mettersi in competizione, quando non era nemmeno salita sul treno per Hogwarts…”, il viso di Ron sbianca come se il sangue affluisse improvvisamente tutto altrove, da qualche parte lontana dal suo corpo. Il silenzio attorno diventa ancora più denso, profondo, come un liquido che non fa filtrare la luce.

“Ed io l’ho rassicurata che il suo mondo fosse diverso dal nostro. Che lei potesse persino… provare affetto o innamorarsi per di chi credeva…” mormoro ad un passo dalle lacrime che bussano già moleste dietro le palpebre pesanti “E tu, oggi, mi hai reso una bugiarda con nostra figlia. Tu con i tuoi maledetti rancori da ragazzino troppo cresciuto”.

L’insulto, ben congegnato dalla mia testa abituata a colpirlo puntualmente dove fa più male, naturalmente ha l’effetto di renderlo ben più prolisso ed aggressivo di quanto fosse stato fino ad ora, mentre incassava e basta. Scaraventa il bicchiere di sherry per terra infrangendolo in una cascata di gocce dorate ed argentate, e comincia ad urlare in modo scomposto, infiammato dall’alcol: “I miei rancori?! I miei rancori? Qui non si parla di rancore, Mione! Qui si parla di proteggersi a vicenda, come abbiamo sempre fatto in guerra, come abbiamo sempre fatto tra noi, prima che tu te ne dimenticassi completamente, con tutte le tue teorie egualitarie e liberali da fottuta maestrina ingenua…”, Harry cerca di farlo calmare riportandolo seduto, ma naturalmente non funziona.

Non funziona mai.

Mi guardo attorno solo per vedere se Hugo è ancora fuori in giardino con Fred Jr a sparare altri fuochi d’artificio, le esplosioni ritmiche mi informano che è così, rilassando le mie spalle. Ron continua, ormai senza controllo: “Sono fetidi assassini tutti loro, tutta la loro marcia specie. E nessuno di noi ci dovrebbe avere nulla a che fare! Nessuno, tantomeno Rose! Tantomeno tu, razza di stupida! Ti sei scordata cosa ti diceva Malfoy nei corridoi? Ti sei dimenticata di quante volte ci piangevi come una mocciosa sui suoi insulti? O quando ti hanno torturato a casa sua? Te ne sei scordata, eh?”. Naturalmente, il gioco al massacro funziona sempre perché è biunivoco.

L’accenno alla mia tortura durante la guerra, è il colpo basso. Perché il corpo ricorda sempre di più di quello che la mente vorrebbe dimenticare. Alle sue parole quindi, come una specie di segnale di attivazione, riprendono a pulsare cicatrici e ferite, segni e graffi, escoriazioni e lividi, come se fossero ancora tutti sparsi sulla mia pelle.

E mi risale in gola il vomito della bile e dell’odio, quello per cui l’impotenza di quel momento mi rimase dentro le costole come un miasma tossico, spingendomi a pensare di diventare un Auror per non sentirmi mai più così. Torna l’aspirazione segata in vita per l’amore dell’uomo che ho davanti. Confondo l’odio e l’amore come sempre, come ogni volta, come ogni maledetto momento in cui passiamo il limite e in cui passo al setaccio ogni cosa per essere quanto più letale possibile.

Pensavo che con Malfoy fosse stata la prima volta.

Colpire nel modo peggiore, per non essere ferita.

Invece ho fatto allenamento per anni ed anni. Con il mandante migliore.

Ron, ringalluzzito dal mio silenzio, prosegue con tono appassionato, indicandomi dall’altra parte del tavolo con l’indice tremante: “Non me ne frega un emerito cazzo di Teddy e della sua riconciliazione famigliare. E non mi interessa nulla nemmeno di quello che ne dirai tu, mia cara paladina delle cause perse. Andate ad adottarvi una schiera di elfi domestici e fate una fottuta manifestazione di difesa, tu e tua figlia. Ma non esiste che abbiamo a che fare con i Malfoy, più di quanto sia necessario. Sono stato chiaro?!”.

L’urlo finale finisce con un pugno forte sul tavolo che gli fa sanguinare le nocche. Solo allora, non prima, Molly interviene con un canovaccio umido per fermare la blanda emorragia del figlio, redarguendolo. Come un segnale nascosto, tutti si precipitano allora a minimizzare, a consolare, a dirmi di stare tranquilla, a dire a Ron di non esagerare, a rassicurare che siano solo cotte infantili che passano presto, così che le parole di Ron prendano a fruttificare nei miei polmoni come spore tossiche e la mia risposta resti invece lì, seppellita in una tomba vergine, marcendo inutilizzata. Nei miei canoni, naturalmente, mi rendo conto di averlo lasciato finire e vincere, nell’indolenza che, ad un certo punto dei suoi insulti, mi ha raggiunto di nuovo dentro le ossa, sgonfiandomi come un palloncino bucato. Ora so, per certo, che sebbene ostenti il trofeo della superiorità maschile, Ron si è già pentito di quello che ha detto, spia la mia reazione, aspetta solo che io dica qualcosa di troppo per farlo passare automaticamente, di nuovo, dalla parte debole nella discussione: quella della vittima sacrificale che tanto gli si addice e che si affibbia nelle chiacchierate confidenziali con cognati e fratelli.

Questa volta, stanca come se avessi percorso duemila chilometri a piedi, scelgo volutamente di deluderlo. Pronunciando a tavola davanti a tutti, con una perfetta torsione della bacchetta, a quarantadue minuti dalla mezzanotte, la formula della Smaterializzazione.

Scompaio davanti ai loro occhi sbigottiti come le girandole rosse ed oro che ancora esplodono nel cielo.

 

 

Nonostante la mia drammatica uscita di scena, non appena arrivo a casa, mi rendo conto di aver lasciato entrambi i ragazzi alla Tana e di non sapere come stia Rose. L’istinto mi dice di prendere e tornare immediatamente indietro per andare a consolare mia figlia, ma poi penso che sia maggiormente il caso che sbollisca da sola.

Se ha ereditato questo lato sia da me che da Ron, so che è la scelta migliore. Al momento penso che vorrebbe impalare entrambi i suoi genitori, diventando felicemente orfana.

Per maggiore mia tranquillità, comunque, mando un gufo a Ginny dicendole di controllarli entrambi, specie adesso che Ron sarà sbronzo e furioso, nonché intento a demolirmi completamente davanti alla sua famiglia. Lei mi risponde subito scrivendomi di tornare.

Non puoi passare la mezzanotte per conto tuo, cavolo!

Nel buio della mia casa, con diligenza brucio il suo messaggio con la punta della mia bacchetta.

Non se ne parla proprio. Nella mia testa, implacabili come quadratini di celluloide, rivedo ogni singola scena della litigata, passandola al setaccio come sabbia di fiume per il cercatore d’oro.

Cerco bisbigli, sussurri, parole. E trovo solo silenzio. Impenetrabile. Ed è la cosa peggiore del mondo.

Mi fa ribrezzo quello della mia famiglia che non ha pensato nemmeno per un istante di intervenire alle parole di Ron, sicuramente con la scusa per cui era alticcio e non voleva dire quello che stava dicendo. Mi risponderebbero con un’alzata di spalle, imponendomi con l’atteggiamento verecondo della moglie ritrosa, di avere pazienza e sopportare. Forse le mie cognate, dall’alto delle loro più moderne esperienze matrimoniali, se ne uscirebbero con i loro aneddoti di sopportazione coniugale al limite della santità, dicendomi che quello che Ron ha detto, è assolutamente nulla in confronto. “Una volta, Percy…” di qui, “Quella volta, Fred” di là o “Non ne parliamo poi di Harry, Mione”, e tutto diventerebbe una sorta di incidente da dimenticare facilmente.

Non so perché, ma ho l’impressione che le sole che non contribuirebbero al quadretto, sarebbero le mie cognate assenti: Fleur e Cora. Loro penso che paradossalmente avrebbero persino scornato Ron come un ragazzetto discolo.

A ripensarci, però, la cosa che maggiormente stride nelle mie orecchie come una sorta di melodia stonata, è il mio di silenzio. Quell’accettazione pigra e sbiadita di tutto quello che mi stava dicendo Ron in modo passivo ed incolore, anche se mi feriva: sono sempre abituata ai siparietti dialettici di ore, ai sillogismi convincenti, alle orazioni spavalde che dovevano inevitabilmente portare al risultato finale. Il fatto che me ne stia stata in silenzio, come una bimbetta scornata, mi fa ribollire di rabbia come prima reazione, spingendomi quasi a tornare alla Tana per urlare come una straccivendola. Ma la seconda reazione è un’ulteriore fiera apatia, davvero come se non mi importasse nulla di quello che Ron stesse dicendo. Ed è una spina dolente sotto pelle che mi fa sanguinare più della furia, della rabbia e della tristezza che non riesco a provare.

Davvero non mi interessa più nulla di quello che dice o pensa di me?

Siamo arrivati anche a questo?

Per darmi tregua, mi dico spavalda e convincente che la mia assenza di risposte era motivata solo dal fatto che, tecnicamente, stavo difendendo Malfoy e non è che io sia del tutto convinta della sua innocenza. D’altronde, come faccio a non sentirmi ipocrita rimproverando Ron, se io stessa pochi giorni fa gli ho sputato in faccia la sua fama di quasi assassino?

Respiro profondamente, la casa buia mi rimanda l’eco di quel sospiro trattenuto: se non ho intenzione di tornare indietro, rimanere a casa è la peggiore delle soluzioni possibili. È ovviamente il primo posto dove verranno a cercarmi e a riprendermi, non appena comprenderanno che non tornerò indietro.

Peccato che, nella notte di Natale, chi non si trova collocato nella casella miracolosa della propria amorevole famiglia, è come un pezzo spaiato di un gioco da tavolo. Minimo, sarà inopportuno, molesto, finanche sgradito, in qualsiasi posto sceglierà di andare. Le strade, illuminate dalla luce rara di una luna ghiacciata, sono deserte, i negozi chiusi, gli amici impegnati altrove.

Medito persino di andarmene in ufficio, approfittando dei turni notturni al Ministero, imbastendo una convincente scusa, cosa che risulta patetica anche mentre la sto pensando.

Nel salotto buio, sempre più nervosa ogni minuto che passa, vado avanti ed indietro come una bestia braccata, cercando di trovare la quadra del cerchio. Ed è a quel punto, mentre infilo la sciarpa grigia con l’idea di andare davvero in ufficio, che qualcosa si affaccia nella mia mente.

La quadra del cerchio. Il posto dove andare.

Le associazioni si moltiplicano come funghi, innaffiati da semi invisibili.

Quando poi arrivo all’ultima definizione, è come se mi esplodesse lo stomaco. Sento la nausea consueta, ma è nulla in confronto a tutto il resto che ribolle e fermenta dentro di me.

Mi fermo al centro esatto del salotto, il torpore passa come una nube sotto il sole.

So perfettamente dove andare, dove sarò assolutamente inopportuna, molesta, finanche sgradita.

Ma dove quel silenzio ostile, quello della mia stessa bocca, si scioglierà, come miele nel latte caldo. Si affaccia nella mia mente la quadra del cerchio, il posto dove andare.

Ed infine il motivo che cerco.

 

 

Hermione Granger sapeva perfettamente dove il suo amico e cognato, Harry Potter, eroe del mondo magico, tenesse nascosto il Mantello dell’Invisibilità. Era stato lui stesso a dirglielo quando si erano trasferiti nella nuova casa. Era come una specie di anatema contro il destino avverso rivelare la sua collocazione, perché dopo la guerra loro non ne avevano avuto più bisogno.

Il Mantello serviva solo per le emergenze, mai per altro.

E le emergenze erano solo Maghi oscuri desiderosi di vendetta omicida.

Quindi, finché restava lì, nascosto dalle marachelle dei figli, sapevano di essere al sicuro.

Hermione Granger, nella notte di Natale del suo trentaseiesimo anno di età, ruppe quella santa e tacita promessa fatta all’amico di infanzia: mentre cercava la chiave di scorta dell’abitazione dei Potter e faceva irruzione dentro l’appartamento, sentiva come se avesse sciupato con feroce ingordigia qualcosa che, fino a quel momento, sapeva di fiducia, abbandono, sicurezza.

Poteva dire di avvertirne il peso, come una coltre salmastra dentro la gola, non la faceva quasi respirare. I suoi passi nelle stanze vuote, fino al nascondiglio del cimelio donato dalla Morte, le parvero pesanti e goffi come quelli di un ladro maldestro, poco avvezzo al crimine, molto abituato al pentimento. Eppure non si fermò mai, neanche quando con le dita che tremavano, spostò l’asse sconnessa del parquet sotto il letto dei Potter, estraendone il Mantello.

Lo soppesò tra le dita, era leggero e lieve come il respiro di una nuvola, era come lo ricordava. L’odore, stantio di naftalina, si era associato nella mente all’infrazione delle regole, alla trasgressione, al pericolo di essere scoperti: tutto ciò che, di fondo, anche adesso, faceva rima con quel cuore in gola e con quel viso accaldato, mentre formiche rosse di eccitazione si arrampicavano lungo gli arti inferiori.

Eppure, Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, sapeva bene in una parte recondita di sé stessa che non si trattava solo di quello. Non era solo un ricordo giovanile, che si presentava nel bel mezzo del momento meno indicato dell’anno.

La nausea la annebbiava al punto che quel pensiero restava sconfitto, sepolto, sotterrato, implorando di non venire fuori, scongiurando di restarsene lì, incolore e grigio come le cose che non si comprendono o non si vogliono conoscere.

Lei, naturalmente, non era masochista. E non fece eccezione. Non si avventurò sotto le coltri seppellite di sé stessa alla ricerca del motivo per cui, tra tanti posti, nella sera dove ogni persona desidera la propria casa, lei avesse scelto di andare lì.

Nel posto che meno sapeva di casa al mondo: il posto dove meno avrebbe dovuto avere desiderio di andare, specie nella notte di Natale.

Malfoy Manor. 

 

 

Nel buio, Malfoy Manor riluce come una perla nera, solitaria ed austera come il suo proprietario. Quando il contraccolpo della Smaterializzazione passa, assieme allo sfarfallio negli occhi, controllo con attenzione che il Mantello mi copra completamente, d’improvviso vergognosamente conscia dell’idea assurda che mi è venuta in mente. Una parte di me, nemmeno tanto piccola e nemmeno tanto poco savia, continua a guardare le mie azioni dall’esterno e a giudicarle senza ritegno.

Notte di Natale. Famiglia mollata su due piedi. Corsa nel cuore della notte nella casa del peggior nemico dei tempi della scuola. Rischio concreto di beccarsi una Maledizione senza perdono da Mangiamorte pseudo-redento, ubriaco di cherry e scotch, in pieno stile Natale alcolico.

Scrollo il capo senza ritegno come se fosse pieno di acqua, con l’obiettivo poco serio di far uscire fuori ogni spinta alla razionalità che la mia mente brama. Quando si tratta di Malfoy, è come se il mio cervello mollasse gli ormeggi e partisse per una vacanza attorno al globo.

La cosa bizzarra è che dovrei definirla dimenticata come sensazione, probabilmente è qualcosa risalente ai tempi della scuola, ma invece sembra qualcosa di stranamente familiare, alla stregua di una abitudine.

Cosa naturalmente impossibile, dato che non frequento Malfoy da anni.

Riassumo mentalmente che, evidentemente, era qualcosa di così traumatizzante da ragazzina che il segno mi è rimasto anche da adulta. In realtà, non mi sembra questa la spiegazione corretta, ma nel moto consueto di nausea che mi prende alle cose senza motivazione, la accetto in mancanza di alternativa.

E’ comunque questa sorta di abitudine monca che mi fa restare ben piantata qui, davanti al cancello della villa, come se avessi ogni diritto e dovere di essere qui.

Lo faccio per mia figlia. Devo sapere con chi ha a che fare, mi dico quando quel coraggio insolente manca, causandomi un moto nervoso dei piedi.

Manca ormai poco a mezzanotte e le finestre del castello sono tutte illuminate di una luce calda e festosa che non pensavo sarebbe mai appartenuta a questo luogo: nei miei ricordi, quelli che premono per entrare come mendicanti lerci, questo castello è oscuro, immerso nelle tenebre, soffocato dall’oscurità e mangiato dai tarli di una dittatura malvagia.

Ora, invece, è la casa di una famiglia con un ragazzino dodicenne, dove spesso mio nipote Teddy viene a far visita, dove forse si mangiano dolcetti alla zucca la sera di Halloween e si beve cioccolata alla cannella nelle serate fredde, dove ci sono calze con nomi cuciti sopra e cassetti di pergamene dei tempi della scuola. I riverberi delle luci del primo piano, argento, verde, blu e viola, suggeriscono la presenza di un tronfio albero di Natale, probabilmente colmo di pacchetti.

Noto subito quanto le cose siano cambiate e quanto questo, probabilmente, sia merito della moglie di Draco, Astoria Greengrass: nel giardino, intravedo alberi di magnolia, cespugli di fresie, rampicanti di edera. Tutto è costantemente in fiore, portato allo stremo da un eterno ciclo di fioritura. I ciottoli bianchi nei vialetti sono cosparsi di petali profumati, fluttuanti nel vento freddo della sera. Le siepi quadrangolari che delimitano l’esterno della proprietà sono disseminate di piccole luci tremule oro, ne tocco una con curiosità: sembrano candele ma sono come fiamme sospese nel buio che non bruciano la pelle.

Sicuramente, l’ultimo grido delle decorazioni natalizie di Diagon Alley.

Ripenso con un po’ di vergogna frammista a nostalgia al vischio rinsecchito della Tana, quello che ha visto i bambini crescere, sposarsi e metterne al mondo degli altri, restando sempre lì. 

Dall’interno della villa, giungono nenie natalizie al pianoforte e voci concitate ed allegre, tutte in attesa della mezzanotte. Devono esserci almeno un centinaio di persone.

Nella mia lucida follia, credo di non aver considerato la probabile difficoltà ad entrare nell’abitazione di un Purosangue tra i più ricchi ed aristocratici del mondo magico, sicuramente preoccupato della sua sicurezza e della sua riservatezza. Il cancello, infatti, è ovviamente chiuso e non vedo nessun pertugio da cui potermi intrufolare all’interno senza correre il rischio di attirare l’attenzione di qualcuno.

Mi sgonfio come un pesce spinato, naturalmente potrei benissimo farmi annunciare e chiedere di vedere Malfoy immediatamente, ma penso che, come minimo, sarei presa per pazza. Dubito che lui abbia rivelato alla sua cerchia fidata di amici le sue ultime frequentazioni, senza contare che anche se ciò fosse accaduto, sarebbe comunque vista come un’intromissione bella e buona che mi sia presentata qui, di notte, la sera della vigilia di Natale, con un motivo così volatile tra le mani da farmi sentire un’imbecille.

Mentre medito su questo, pensando contemporaneamente a come poter entrare ugualmente e a come poter sparire senza perdere del tutto la dignità, alla maniera di un segno del destino il cancello si apre con un cigolio metallico, che risuona tutto attorno come una campana a morto.

Naturalmente, ispirata, prima ancora che si apra del tutto, mi intrufolo dentro velocemente, respirando di qualcosa di frammisto tra il sollievo e l’eccitazione.

Solo allora, notando la presenza di qualcuno accanto a me, mi do pena di guardarmi attorno per capire di chi si tratti. Mi paiono due figure, sebbene siano scarsamente illuminate dalla luce della luna: una delle due, più bassa e magra dell’altra, è ancora ferma nel gesto di puntare la bacchetta contro il cancello nell’atto di aprirlo. Indossa un mantello color glicine di pesante lana d’angora, un tessuto prezioso che costa svariate centinaia di sterline.

Figuriamoci, in questa casa ci sarà riunito stasera almeno la metà del PIL magico dell’Inghilterra.

Il cappuccio violaceo cela il viso di quella che, dall’abbigliamento, suppongo essere una donna. Depone anche in quella direzione l’acutezza di singhiozzi appena trattenuti, provenienti da essa. L’altra figura, invece, anch’essa coperta da un mantello con cappuccio di colore scuro, sta trattenendo la prima per il polso, biascicando delle parole che di primo acchito non comprendo, dato che sono frammiste da un respiro corto e quasi sibilante, come se stesse per avere un attacco di asma.

Ovviamente, deve trattarsi di un litigio tra innamorati, giunto a fagiolo della mia decisione di intrufolarmi al Malfoy Manor non invitata.

Scrollo le spalle noncurante, non ho l’indole della pettegola incallita alla Leda, quindi decido di lasciare i due amanti alla loro discussione natalizia, senza curarmi di indagarne i motivi. Sto già per incamminarmi lungo il viale d’ingresso, attenta che i miei piedi non facciano rumore sui ciottoli, che un nome attira la mia attenzione sopita: “Non puoi farmi questo, Blaise. Non puoi pretendere di continuare a farmi questo… anche oggi… sempre…”.

Mio malgrado, sebbene voglia restare indifferente, comprendo che uno dei due avventori sia Blaise Zabini, intento dunque a litigare con sua moglie Daphne Greengrass, la cognata di Draco Malfoy. Li conosco sommariamente, lui lavora al Ministero e spesso è capitato di incrociarci a ricevimenti, cerimonie o premiazioni. Sono sempre seri, sono sempre l’immagine patinata della rivista di moda, lei non sorride nemmeno per sbaglio e lui ha sempre l’aria disgustata, come se avesse sotto il naso una torta d’anguilla. Se non ricordo male, hanno due figli, un maschio ed una femmina, esattamente identici a loro.

Voltandomi indietro, sebbene non lo riconosca nel buio dato che mi dà ancora le spalle, la sagoma alta ed imponente mi suggerisce che devo averci visto giusto, sembra Zabini.

Quello che, però, mi lascia sconvolta, con la gola secca e la bocca impastata, è riconoscere l’altra figura sotto il cappuccio violetto. La donna, infatti, guarda negli occhi Blaise, porgendomi il viso che, nella luce adamantina della luna e delle luci del giardino, mi appare evidente come una meteora nel deserto.

E’ indiscutibilmente Pansy Parkinson, non credo di averla più vista da anni, eppure sembra non essere cambiata di un giorno: stesso sguardo arcigno, stessi occhi scuri pieni di ombre nere, stesso incarnato pallido su cui spiccano rosse le labbra, come un taglio nel sangue. Provo persino un moto di invidia del tutto gratuita ed inconsueta per la giovinezza dei suoi tratti, ancora longilinei e sottili come quelli di una ragazzina, cosa enfatizzata dai capelli castani a caschetto, corti sotto le orecchie.

Dopo, però, ogni ammirazione cessa bruscamente. Pansy ha gli occhi rossi, cerchiati. A lunghi e scuri rivoli, il mascara crolla sulle guance macchiandole di nero. La magrezza delle guance pare qualcosa di imposto, scomodo, malato. Le labbra, poi, ad un secondo sguardo, sono bianche come quelle di una morta, mangiate tra loro come frutti aspri. Ed il fulgore degli occhi che aveva a scuola, come una piega d’orgoglio da sfoggiare come un talismano, pare evaporata come neve al sole.

La guardo quasi non capacitandomene, sembra tutto stridente su quel viso di porcellana, come se non c’entrasse nulla. A prima vista, pare bellissima come la statua di una dea, dopo capisci che la dea è morta ed è rimasto solo il marmo levigato di un cadavere imputridito. Ha qualcosa nell’espressione che mi ricorda qualcuno di preciso, ma non capisco come possa venirmi una tale associazione di persone, visto che non hanno nulla a che vedere tra loro.

Mi ricorda il viso di Dean Thomas, giovane come un ragazzino, ma vecchio nel cuore di mille anni.

Cerco di fare mente locale per rammentare il destino della Parkinson e trovo poche notizie sparute, figlie delle chiacchiere con Ginny: ridevamo spesso del fatto che non fosse ancora sposata, né tantomeno fidanzata. Avevamo concluso ciniche che la rovina della sua famiglia doveva averle inimicato metà dei rampolli del mondo magico, condannandola al nubilato, senza peraltro che lei decidesse di abbassare i suoi standard elevati della ei-fu-ereditiera.

Ora, sentendomi crudele come solo le parole a Malfoy mi avevano fatto sentire, comprendo che forse il motivo era un altro. Un motivo che a che fare con la mano che Blaise Zabini continua a tenerle artigliato sul polso, mentre lei cerca di divincolarsi.

Nella mia distrazione, Blaise deve aver fornito qualche giustificazione, qualche spiegazione. Lei urla, grida, piange, però mantiene la voce bassa e vellutata come per non sconfessarlo ancora, come a proteggerlo, nonostante tutto. Stringo i pugni colta dal nervoso, pregandola quasi nel buio di mandarlo a quel paese, di graffiarsi le corde vocali per sbattergli contro tutto il suo disprezzo, di attirare così l’attenzione di qualcuno che riveli così la sordida relazione clandestina.

Ma Pansy resta sempre soffusa e soffice nel tono, alla fine si arrende ad una promessa che suona vecchia e stanca persino mentre la sento io per la prima volta. Blaise le mormora nei capelli che aspetterà che passino le feste di Natale, che trascorra almeno il compleanno di Daphne, che Jacob ed Arielle, i suoi figli, siano cresciuti un po’. Lei, vinta come un’aquila dagli artigli mozzati, annuisce senza forze, forse neanche per assenso, solo per stanchezza e rassegnazione, accettando il diamante tagliato a cuore che lui le regala, infilandoglielo al dito come una fede nuziale.

Pansy lo guarda come si guarda un pezzo di vetro, pronto a tagliarti la mano.

“Dovresti sposarti anche tu, invece…” aggiunge Blaise spronato, finalmente più calmo “Il matrimonio… quella è un’altra cosa. Io e te lo sai che siamo ogni cosa”.

La dichiarazione mi trasmette un tale senso di disagio e claustrofobia che, frettolosa e rapida, mi allontano, non preoccupandomi nemmeno di essere silenziosa: al mio passaggio, i ciottoli battono ritmici come un cuore in corsa, ma Pansy e Blaise non se ne rendono conto, di nuovo persi nel loro mondo grande come una scatola di scarpe.

Penso che nemmeno ad una come lei, avrei augurato un destino del genere.

Scaccio da me la sensazione che la coppia mi ha trasmesso, arrivando nel porticato della dimora. Anche la porta d’ingresso è cambiata diventando di acero bianco, con una ghirlanda di arance secche e bacche di cannella, in occasione delle festività natalizie. La spingo con delicatezza e, come mi aspettavo, non è chiusa: la apro d’impeto alla maniera di una corrente di vento molesta e, proprio per non correre rischi, la lascio aperta dopo essere entrata. Un elfo domestico, sollecito, corre subito a chiuderla, incespicando nelle sue stesse scarpe.

Ad accogliermi, è un calore fondo ed intenso come se in ogni stanza ci fosse un camino acceso al massimo: le donne che mi sfilano davanti, infatti, sono tutte in abito da sera, scollate e con la schiena scoperta come se fossimo in giugno. E’ tutto un brillare di oro, seta, diamanti, smeraldi, rubini e zaffiri, che fanno paio ed eco alle decorazioni delle pareti, fatte di puro ghiaccio luccicante e che non si scioglie ovviamente, nonostante la temperatura mite. Gli uomini, eleganti come se fossimo nella prima classe del Titanic, sono tutti vistosamente alticci e ridono e scherzano a voce altissima, coprendo persino la voce da usignolo della soprano che, nel salone sulla mia sinistra, proprio accanto al pianoforte, sta intonando le note di “Holy Night”.

Tutto è così opulento da fare male alle orecchie e agli occhi: le decorazioni di ghiaccio, la mobilia di ebano e cristallo, gli alberi di Natale in ogni stanza, il vischio annodato attorno alle colonne e al corrimano della scala, senza contare nemmeno la lunga tavolata ricolma di ogni genere di cibo esistente e possibile.

Non credevo di poterlo dire, ma mi manca il Manor di prima, quello lugubre, silenzioso e non disgraziatamente irritante per le cornee.

Del resto, la casa urla Greengrass da ogni angolo: non ci sono più arazzi recanti la progenie dei Malfoy, né tantomeno trofei di caccia o artefatti antichi, tipici della lunga tradizione famigliare. Tutto appare pacchiano e moderno, senza storia, senza passato, solo sospeso in un godereccio presente. Tutto non è meno che luccicante, lucido, brillante. L’aria è appestata di una mistura tra profumo di abete, sudore ed arrosto di maiale.

Come le linee immaginarie che nei quadri portano al centro della scena, tutto fa convergere l’attenzione verso la regina della casa, Astoria. Mi avvicino a lei, cautamente, guardandola con attenzione, dato che la conosco solo di nome e di vista.

Istintivamente, la prima reazione che ho al suo cospetto è un’inspiegata sensazione di gelo, come se fossi caduta nell’acqua ghiacciata di un lago. Mi riavvolgo stretta nel mantello, quasi a ricavarne una sorta di calore. Proseguendo nell’esame, però, concludo subito di non essermi persa granché: la moglie di Draco è una bella donna sicuramente, bionda, alta, magra, da un affilato sguardo azzurro. Ma non ha niente di più di questo, aggiungendoci anche il costoso vestito in broccato viola con ametiste coordinate in parure.

Pare semplicemente… ornamentale.

Seduta nel salotto come una regina in trono, ride stupidamente con le sue amiche, portandosi vezzosamente una mano curatissima sulla bocca, mentre addenta pasticcini alla fragola e panna, che nemmeno Maria Antonietta nel film della Coppola. Trattiene spesso per un braccio un ragazzino che, dopo essermi avvicinata, si presenta con la sua somiglianza con il padre: deve trattarsi naturalmente di Scorpius Malfoy, versione imbronciata. È lui ovviamente che studio meglio, considerando la cotta di mia figlia. È un ragazzino grazioso, dal volto ancora efebico e fanciullesco: ha i capelli biondissimi come quelli del padre, lisci e lucidi esattamente come i suoi. Gli occhi, invece, non hanno i toni grigi di Malfoy senior, ma quelli azzurri della madre, qualcosa che ne addolcisce molto lo sguardo, rendendolo meno affilato di quello del padre. Sembra piuttosto alto per la sua età, cosa non molto percettibile adesso, visto che è seduto scompostamente, mentre sbuffa all’indirizzo della madre, sgualcendosi continuamente il completo di velluto verde bottiglia, cosa che Astoria non manca di fargli notare nelle pause tra le sue risate stridule.

Quel piccolo moto di fastidio, più che giustificabile di fronte all’idiozia di quella donna, me lo rende simpatico oltre misura, facendo onore alle scelte sentimentali di mia figlia Rose.

Come diamine ha fatto Malfoy a sposarsela, Dio santo…

E’ quel pensiero che, prepotente, mi riporta alla mente il motivo della mia visita, dopo che le luci e i colori sembrano avermi annebbiata e offuscata, come una falena ipnotizzata. Esplode in quel momento la mezzanotte, annunciata da una cascata di petali rossi ed argento che invadono la casa di odore di rosa ed anice, cosa che riacuisce la mia nausea. Mi guardo attorno per qualche secondo, ma, mentre scoppiettano attorno a me abbracci ed auguri, mi rendo conto che Malfoy non è qui, nel salone, con famiglia ed amici.

Mi allontano bruscamente dalla stanza, timorosa che qualcuno mi urti, facendomi scivolare via il mantello o rivelando semplicemente il mio essere corporea ma invisibile, e resto poggiata allo stipite della porta, osservando tutte quelle manifestazioni di affetto eccessive e sguaiate. Per un attimo, penso a quelle che mi sto perdendo io, a casa mia, e mi chiedo ancora che cosa ci faccia qui a spiare la vita e la presunta felicità altrui. Seguo tutte le linee paonazze di quei volti per un po’, giocando a riconoscere qualcuno che conosco ed aspettando che Malfoy compaia a salutare la sua famiglia augurando loro “Buon Natale”, ma i minuti passano e lui non ricompare, apparentemente senza che nessuno se ne preoccupi.

Il posto designato è vuoto e noi siamo altrove.

La somiglianza tra me e lui mi colpisce infida alla bocca dello stomaco, la metto a tacere mentre intercetto il dialogo tra Scorpius e la madre.

“Mamma, non dovrei andare a chiamare papà?” chiede il ragazzino speranzoso, ballando sui piedi dalla voglia di allontanarsi.

Astoria, con un tono severo ma al contempo stridulo come quello di un’aquila in posizione di combattimento, parte con un’invettiva contro il marito che, nel caos generale, non sento appieno. Distinguo solo l’ammonimento a Scorpius di non muoversi da lì e l’imprecazione contro Malfoy a starsene di sopra a fare l’asociale snob.

E’ di sopra, quindi.

Di corsa, vogliosa anche io di fuggire dalla confusione generale e dal timore che qualcuno mi sfiori per sbaglio, salgo velocemente la scala di marmo, coperta da un lunghissimo tappeto verde di velluto che attutisce i miei passi. Quando la scala termina e metto il piede sull’ultimo gradino, i suoni provenienti dal piano inferiore cessano all’improvviso, facendo cadere la casa nel silenzio più fondo, come se non ci fosse nessuno a parte me.

Mi volto bruscamente su me stessa, distinguendo sempre la folla di persone che ballano e festeggiano appena ai piedi della lunga scalinata, le cui labbra si aprono e chiudono senza produrre alcun suono. Anche la musica non si sente più.

Un incantesimo Insonorizzante. Ed anche di quelli potenti.

Il primo piano del Manor sembra somigliare maggiormente a quello dei miei ricordi. Tappezzeria rosso sangue, legno scuro di porte, quadri nei corridoi dall’aspetto antico e prezioso con raffigurazioni di scene di lotta o caccia, senza contare i numerosi ritratti di progenitori ed antenati defunti. Al posto d’onore, con un mazzo di rose bianche dall’odore pungente, torreggia il ritratto di Lucius Malfoy nel pieno della grazia e della gloria: non è un ritratto magico, resta fermo nella stasi del tempo, come le fiamme del camino alle sue spalle che si riflettono negli occhi grigi.

Cerco di indovinare dove si possa nascondere Malfoy e quale possa essere la sua stanza, facendo anche affidamento sui miei antichi ricordi della mia prigionia qui: in realtà, non trovo nulla di utile, considerando che nella mia spiacevole permanenza, ero stata gentilmente parcheggiata nelle segrete per quasi tutto il tempo.

Cammino cauta nel lungo corridoio, attenta agli scricchiolii sul parquet, accostandomi ad ogni porta per cercare di captarne qualche rumore all’interno, fino a quando l’ultima porta fa filtrare ai miei occhi una piccola lama di luce ondeggiante assieme a delle voci sussurrate ed attutite.

Resto con la mano tesa, quasi con l’intento di bussare e di annunciare la mia presenza, ma invece rimango immobile, congelata, ascoltando anche contro la mia volontà. Distinguo infatti nettamente due voci, la prima è indiscutibilmente quella di Malfoy, profonda, roca, strascicata, come se si annoiasse anche ad aprire bocca. Mio malgrado, riconoscere la sua voce mi fa sudare freddo e caldo assieme, aprendo di istinto la dimensione enorme di quello che vuol dire la mia presenza qui, in casa sua. La seconda voce, invece, è sottile, lieve, impercettibile, marchiata di dolcezza femminile frammista ad un tono amaro e sarcastico: è davvero difficile sentirla compiutamente, attraverso la porta chiusa. Pare solo un sospiro leggero, poco più forte di quello che serva per respirare, e ne intuisco le parole solo da quello che dice Malfoy in risposta.

“Avevo pensato che, di comune accordo, avessimo lasciato le paternali all’infanzia…” sta dicendo adesso Malfoy, il tono scocciato e slavato, come se non gli appartenesse davvero. Credo che ci stia mettendo dentro tutte le tracce della noia al rimprovero subito, ma qualcosa filtra comunque, qualificandosi indubbiamente come una nota fonda di malinconia e tristezza, così insopprimibili da scappare fuori.

La donna sussurra di nuovo qualcosa, ma ancora fatico ad intendere che cosa stia dicendo. Le parole stavolta vengono smorzate da un colpo roco di tosse, così forte da sembrare che la pieghino in due. Avverto dei rumori nella stanza, come se Malfoy si fosse alzato e fosse andato a prendere qualcosa, probabilmente un bicchiere d’acqua.

Quando la crisi sembra passata, lo sento riprendere incolore: “Lo vedi che succede ad eccedere nelle tue cure materne non richieste? Lasciami campare sereno, madre”.

Madre… certo, naturalmente… Narcissa Malfoy. Vive ancora con loro, dalle parole di Teddy lo dovevo intuire. E da quello che ci ha detto lui… non sta bene di salute. Ecco perché Malfoy è qui… è rimasto con sua madre.

Un groppone di inaudita tenerezza mi si arena non richiesto in gola, alla maniera di un peso troppo grande che non riesco a deglutire. D’istinto, mi torna in mente la malattia di mio padre e la sua morte cinque anni fa, cosa che mi spinge a trattenere le lacrime, già germogliate sotto le palpebre chiuse. Mentre ricaccio indietro quel ricordo, mi colpisce lo slancio di empatia che avverto per Malfoy e, sebbene vorrei provare disagio ad immaginarlo figlio sconvolto dalla malattia della madre ma così devoto da trascorrere quanto più tempo possibile con lei, stranamente non sento nulla di inconsueto ad immaginarlo così. So del legame con sua madre, l’ho sempre saputo. In fondo, Cissy rinnegò Voldemort solo per il bene di suo figlio. E Malfoy trascorre il tempo alla Tana, anche se aborrisce solo l’idea, perché sua madre ha chiesto che lui seguisse il matrimonio di Teddy.

L’amore puro e sincero che si dimostrano, non potrebbe quindi stupirmi.

Mi stupisce solo che, al pensiero che lui trascorra qui la sua notte di Natale, lontano dal lusso e dallo sfarzo che sua moglie ha garantito per loro, mi paia tutto inevitabile, come se fossi certa che Malfoy di fronte all’agonia della madre, non l’avrebbe lasciata sola un istante. E non so questa certezza da dove arrivi se ho sempre pensato il peggio possibile di Draco Malfoy.

Sposto il peso del corpo da un piede all’altro, quasi vergognandomi di me stessa e dei miei pensieri, sebbene siano i migliori che abbia avuto da anni a questa parte su Malfoy. Un rossore incomprensibile mi raggiunge le guance al pensiero.

Dentro, intanto, sento un tramestio di passi e qualche raccomandazione solerte, prima che la porta si apra, accompagnandosi ad un “Buonanotte” soffocato di Narcissa. Faccio appena in tempo a scartare di lato appiattendomi contro il muro, che Malfoy esce dalla stanza con un ultimo sorriso acido all’indirizzo della madre ed un altro motteggio ironico. Entrambi scompaiono come fumo, non appena si richiude la porta alle spalle.

E’ vicino, molto vicino, così tanto che sento distintamente l’odore del costoso dopobarba che deve avere indosso. Sotto il mantello, non visibile, mi chiudo la bocca con le mani per impedire che qualche respiro di troppo caschi fuori, facendomi scoprire.

Perché ogni sacro fuoco che mi ha spinto a venire qui, improvvisamente, si è spento come una candela smorzata dal vento, solo guardando Malfoy.

Non è mai meno che inappuntabile: il completo grigio che indossa, fa risaltare i suoi occhi in modo quasi fastidioso, e la cravatta non allacciata che pende sulla camicia bianca, gli danno un’aria ancora più strafottente del solito. Tutto sicuramente calcolato, per sembrare al meglio possibile e suscitare le reazioni femminili. Non ne dubito.

E… insomma, ci riesce. Inutile negarlo. Può essere uno stronzo di prima categoria, ma resta uno degli uomini più affascinanti che conosca. Vorrei davvero trovargli un difetto, ma non è possibile, ho già chiarito mentalmente che è decisamente un bell’uomo.

Stasera, però, non è questa la prima cosa che noto di lui. 

Chiunque, con un pizzico di cuore, noterebbe di più.

Sebbene esteriormente paia assolutamente perfetto, ad un’ulteriore occhiata vedo molto di più di quanto vorrei, qualcosa che mi stringe le viscere come se fossero in una centrifuga.

I suoi occhi, prima di tutto. Non so perché, ma da quando l’ho rivisto, sono sempre la prima cosa che guardo di lui. Non saprei dire per quale motivo. Sono occhi di solito affilati, profondi, di quel colore così particolare che ancora non mi capacito che, a scuola, non guardassi continuamente. Possibile che a scuola non avessi mai notato che avesse gli occhi… così?

Oggi, però, sono occhi stanchi, morti, di vecchio consumato. Sono incolori, circondati da un alone rosso che fa spiccare il grigio, ma in modo fastidioso quasi, come se non gli appartenesse davvero.

E più guardo i suoi occhi, sotto il mantello che mi protegge, e più lo stomaco mi stringe una morsa d’acciaio. Non riesco a smettere di guardarli con il fiato sospeso, immobile, ipnotizzata come le vittime del serpente. Le guance paiono più scavate, più magre: l’osso dello zigomo spicca come un’escrescenza sbagliata. Le labbra sottili sono biancastre, come quelle di un ammalato.

La giacca ha delle pieghe evidenti, come se ci avesse dormito dentro, e curiosamente, quando lascia la stanza tutto sommato flemmatico e pacato, sembra avere persino il fiato corto, come se avesse corso per ore.

La prima cosa che fa, quando si chiude la porta alle spalle, è poggiarsi con la schiena contro di essa, massaggiandosi con l’indice e il pollice lo spazio tra gli occhi. Sembra stanchissimo, il torace compatto sotto la camicia bianca va su e giù più volte di quante possa contare. Non piange però, come mi aspetterei, come ricordavo che Malfoy era solito fare quando eravamo a scuola per ogni più piccola sciocchezza: metteva su quel broncio ridicolo da moccioso, piagnucolando molesto.

Stavolta, Malfoy non piange per nulla, sebbene sembri che il dolore lo stia saturando come in un’overdose. Resta solo lì, immobile, a sfregare le dita contro la fronte, aprendo e chiudendo ellissi, come a far scivolare l’ansia e la preoccupazione lontane in un punto dove facciano meno rumore.

Poi, come se non ci riuscisse, si lascia cadere per terra a peso morto, scomposto, senza minima cura ed attenzione. Resta a capo chino, la testa tra le mani, sempre con quel respiro corto, quasi rantolante, le gambe piegate e lievemente divaricate.

Qualcosa, dentro me stessa, non so dove, si spezza, producendo un rumore che le mie orecchie sembrano persino udire distintamente. Pare un fragore assordante di vetri, o alternativamente il soffio lieve di un petalo di fiore che casca al suolo. Ed un secondo dopo, solo un secondo dopo, sento che non sono più in grado di chiamarlo mentalmente Malfoy.

Come se questa immagine, questo dolore, fosse incompatibile con tutto quello che di lui ho sempre pensato e creduto. E che corrispondeva a quel nome, a quel cognome, a quella liquida seguita da una spirante che tanto mi irritavano le orecchie, mentre lo ripetevamo nelle aule gremite, nei corridoi vuoti, nelle sale calorose, dandoci sempre quel tono asprigno come se fosse l’origine di ogni male. Dentro quel “Malfoy” stava ogni germe di marcio, sordido, sporco, malevolo.

Nemmeno di malvagio, che per il male vero e proprio ci vuole uno scatto maggiore di purezza sorda, cieca. Solo di ipocrita, utilitarista, privo di qualsiasi slancio di volizione e sentimento che non fosse puro e semplice calcolo e vantaggio.

Qualcosa che ho sempre scelto di ignorare, perché non ne valeva la pena.

Ora… non riesco a smettere di guardarlo, come una bestia esotica in uno zoo.

Non posso ignorarlo. Mai. E non posso chiamarlo più Malfoy.

Lo ripeto nella mia testa il suo nome, come se lo conoscessi solo ora, come se quel dolore dipinto sul suo viso me lo presentasse adesso come una persona nuova.

Draco. Scivolano come biglie lucide e rapide le lettere del suo nome. Il loro sapore nelle mie labbra pare qualcosa a cui sono assuefatta, sebbene il suo nome non l’ho mai pronunciato compiutamente neanche a me stessa. Vibra la sillaba iniziale, facendo sussultare anche me sottopelle, come se qualcuno mi sussurrasse segreti e sospiri sulla pelle tenera dietro le orecchie. Draco. Draco. Draco. Lo ripeto ancora, senza controllo, senza intenzione, la bocca che lo mima persino, senza emettere un solo suono. La memoria si dimena sconfitta alla ricerca di un’intimità che non comprendo, che il mio cervello non capisce.  

“Hai deciso di farti vedere o devo iniziare a parlare con la credenza, fingendo che tu non mi ascolti?”.

La voce di Draco mi sorprende come un petardo nella notte, facendomi sobbalzare. D’istinto faccio un passo indietro e lo guardo da sotto il mantello, cercando di intuire se stia davvero parlando con me, o se invece qualcuno non sia spuntato nel corridoio senza che me ne sia accorta.

Ma Draco guarda proprio nella mia direzione: gli occhi grigi, ancora un po’ rossi sul fondo, saettano a destra e a sinistra nel punto dove sono io, cercandomi nella magia invisibile del mantello. Medito di fingere silenzio, di restare al sicuro dentro l’indumento incantato. Poi con un sospiro lungo e fermo, me lo faccio scivolare di dosso. Fruscia via come una pelle vecchia.

Mi incasso nelle spalle distogliendo lo sguardo da lui, piena di imbarazzo: “C-come… ti sei accorto… che… e-ero q-qui?”. Pigolo come una bambina, rossa in viso come se stessi andando a fuoco. Mi concentro completamente sul quadro appeso al muro accanto a me, personificandomi completamente nella donna bionda che, per sempre, sarà sospesa nel momento di distendere la gamba verso il cielo in un complicato passo di danza.

“Granger, respiri così rumorosamente da poterti esibire nell’imitazione di un mantice in piena attività…” borbotta Draco, la sua voce appare più stanca del solito e vibrata come se la tenesse con tutte le sue forze ferma, non riuscendoci appieno. Quando mi azzardo a tornare a guardarlo, sbuffa come disgustato e soggiunge caustico: “E quel tuo dannato profumo… lo riconoscerei pure ad occhi chiusi, odori come uno stramaledetto cupcake”.

In tutte quelle parole, Draco non ha accennato minimamente a sollevarsi in piedi. Resta seduto per terra, scomposto, i capelli spettinati e gli occhi sbiaditi. Mi sento come se lo stessi spiando dal buco della serratura, cosa che a conti fatti non è nemmeno così lontana dal reale. Il rossore del viso aumenta ancora di temperatura, diventando una specie di fiammata incandescente che si propaga dal mio viso, raggiungendo collo, spalle e schiena.

Ballando sui piedi che non so tenere fermi, mormoro rapida presagendo il resto: “Giusto per curiosità preventiva… hai intenzione di Schiantarmi per aver messo piede qui, stasera, nel bel mezzo dei festeggiamenti di Natale?”.

Draco in modo imprevisto ridacchia tra sé e sé in modo tenue e pallido, cosa che mi spinge in modo automatico a sentire le ginocchia scricchiolare, come se stessi per perdere l’equilibrio. E’ una sorta di riflesso condizionato, quasi incontrollabile. Lo guardo in viso, mentre distoglie gli occhi, puntandoli su una crepa del parquet ebano.

La segue con le pupille, apparentemente catturato da essa, come se fosse la cosa più interessante del mondo. Poi, quando oramai mi sono rassegnata a non avere risposta, biascica acido: “Granger, se avessi voluto Schiantarti, lo avrei fatto dieci minuti fa, quando ho riconosciuto l’odore di quella mistura alla vaniglia nel corridoio. Non ti avrei fatto cominciare anche a parlare. Non è che brami l’emicrania che mi procurano anche solo quattro sillabe pronunciate con la tua voce celestiale…”, sospira esausto, la voce cascata fuori solo per abitudine “Si chiama masochismo un comportamento simile… e necessita cure psichiatriche serie”.

“Penso che trarresti comunque giovamento da delle cure psichiatriche serie” brontolo in risposta, il mio tono gemello del suo. L’insulto è fiacco, sfibrato, confezionato solo per reggergli un gioco che, senza accorgermene, ho cominciato a tenergli. Fingere di non vedere i tuoi occhi, grigi e rossi. Fingere di non sentire la voce, che soffi fuori come se non ti appartenesse. Fingere di non indovinare il sapore amaro che ti lega i denti, come una medicina cattiva. Nonostante tutto, cercando conferme nei suoi occhi, lentamente mi chino e mi siedo nel corridoio accanto a lui. Il suo sguardo non dice né sì, né no. Sospira e basta quando prendo posto a poca distanza da lui, osserva le mie scarpe nere di vernice, di nuovo senza vederle davvero. La mano che tiene poggiata per terra, sulla mattonella scura, pare bianchissima, sotto la pelle le vene sembrano strade nere nella foresta.

Di un altro, di un amico, avrei preso quella mano tra le mie.

Di te invece che si fa, Draco?

Di questo dolore impossibile che noi figli sappiamo che arriverà, prima o poi?

Perché sei qui da solo? Al punto da lasciarci me vicino a te? Non ci dovrebbe essere una moglie, un figlio, un fratello, un amico?

Possibile… che tu sia così solo?

Da permettere persino a me di sederti accanto nella notte di Natale?

Quando parla di nuovo, ha la voce un po’ meno torbida e un po’ più chiara, cosa che lo fa somigliare di più a sé stesso. Mi guarda in tralice raddrizzando la schiena contro la porta della camera di sua madre, prima di bofonchiare: “Ed ora che hai sparato la tua battuta comica dell’anno, gradirei sapere che cosa ci fai qui. A casa mia. Con il Mantello dello Sfregiato addosso. Se sei venuta a rubare qualcosa per il cenone della tua famiglia, la mia deliziosa consorte sarà lieta di elargirti le cibarie avanzate… conoscendo la mia carissima Astoria, dovrebbe essere rimasto il necessario per la sopravvivenza dell’intero continente subsahariano per otto mesi”.

Terrorizzata, sgrano gli occhi e allontano di nuovo lo sguardo da lui, fissandolo sui miei polpacci semipiegati sotto le cosce. Meccanicamente, come mi è stato insegnato sin da bambina, controllo l’orlo della gonna e lo tiro in basso. La vista del vestito rosso di velluto, con l’orlo nero e lucido, mi riporta alla memoria il cenone di Natale che ho lasciato alla Tana: i miei figli, mio marito, i miei suoceri, i miei cognati.

Quella che, sempre, è stata casa mia.

Invece ora sono qui, seduta per terra in un corridoio silenzioso, in una casa dove sono stata torturata da ragazzina, con un uomo che non è mio amico, che non è nulla per me. Mi salgono agli occhi piccole lacrime di impotenza, che cancellano dalla mente persino il motivo che, fino a poco fa, mi animava e che mi aveva fatto correre qui nel cuore della notte.

Come se non avessi davvero posto dove andare. E mi adattassi a stare in un posto che, con me, non c’entra niente solo per convincermi di poter stare da qualche parte.

Quella consapevolezza mi graffia dentro come le unghie di un animale selvatico. Brucia di sale e fuoco come una ferita che sanguina, saturando di liquido i polmoni che faticano a respirare. Mi stringo nelle spalle, la bocca asciutta, incapace di parlare, di dire qualsiasi cosa. Il silenzio si espande come un veleno atmosferico, tossico e letale, grattando nella mia faringe.

Fissando il pavimento, riconosco lo stesso parquet della mia tortura.

Ed, ancora, il respiro mi si blocca, soffocandomi, costringendomi ad un colpo di tosse più forte per riprendere a raccattare ossigeno.

“Parla, Granger. Muoviti” Draco mi incalza, la sua voce ad ogni sillaba recupera il nitore consueto che io invece vado perdendo. Lo vedo con la coda dell’occhio persino muoversi un po’, volgersi al mio viso, serrare la mascella e sputare fuori velenoso: “Non sono nell’umore adatto perché mi affibbi un’altra gentile etichetta. Dopo assassino, vogliamo salire di livello a mostro, serial killer, traditore? Ecco qua, ho già fatto tutto il tuo nobile lavoro. Vattene a casa prima che mi torni lo spirito per commentare che sei qui, quando dovresti essere tra i tuoi straccioni a farvi i santissimi auguri di Natale”.

Gli auguri di Natale. Le tavole imbandite. Candele rosse e vischio un po’ secco.

Ron che mi urla di tutto, perché oso difendere la famiglia Malfoy e l’amore virginale di mia figlia Rose per uno di loro.

Il coraggio torna come una vampata prima calda e poi fredda, accendendomi il viso e gli occhi. Mi volto verso di lui che mi guarda sorpreso, gli occhi artigliati su una domanda che non osa pormi. Ne leggo ogni parola nelle sue iridi, seppure non sappia che cosa vogliano dire. Stringe d’improvviso le palpebre come vittima di una fitta di dolore, chiude la mano sulla camicia bianca all’altezza del cuore.

“Ho bisogno di farti una domanda. Una sola. E poi andrò via, te lo prometto” sussurro rapida, sporgendomi verso di lui, approfittando del suo silenzio. Le mani, con cui ho fatto leva sul parquet per issarmi in avanti, sono bollenti contro il pavimento ghiacciato, il cuore mi assorda con il suo battito.

“Una domanda? Sei qui per una domanda…” constata Draco asciutto guardandomi di sbieco, nelle sue parole vibra tutta l’idiozia che percepisce nella mia motivazione. Per un attimo, mi studia persino meglio, gli occhi socchiusi e sospettosi, come se cercasse altro oltre quella sterile giustificazione. Probabilmente, ciò che legge nei miei occhi lo convince che si tratta della verità.

Di nuovo, spasima stanchissimo, portandosi annoiato una mano tra i capelli: “E cosa ti fa pensare che, ammesso che voglia risponderti, sarò sincero? Mentirei. E’ il minimo…”, incassa di nuovo un lungo sospiro tremulo, prima di fissare il quadro di fronte a lui e ripetere ironico: “Ho una reputazione da difendere. Credo che sia rilevante per me sapere se sono ancora il più grande bugiardo della storia del mondo magico… ho appena liberato uno spazio per la targa sul camino… Potter me la deve da tempo…”.

Un deja .

La sensazione assolutamente incomprensibile di aver già vissuto questo momento.

Sebbene sia impossibile.

“Non credi di sopravvalutarti troppo?” In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini, la Parkinson e mezza casata Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza è notevole, non sono affatto certa che tu sia il migliore…” mi sento dire con una parte remota della mia mente.

Gli studiosi lo chiamano “inganno emotivo”: la situazione che si sta vivendo, con tutti i suoi correlati emotivi, richiamerebbe un’altra situazione simile vissuta precedentemente. In realtà, quindi, sarebbero le emozioni di quella determinata esperienza che sarebbero state già vissute, non propriamente l’esperienza in sé.

“Invece io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro colpo per la mia immagine… e comunque non c’è nessuno abbastanza abile come me… la targa la vincerei più e più volte… il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius Malfoy… nel multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.

Nonostante gli studi abbiano condotto ad una spiegazione più prettamente scientifica, qualcuno ritiene ancora che il Dejà sia una sensazione che viene provata quando ci si trova esattamente dove si dovrebbe essere. Come se fosse un punto di congiunzione fra il percorso tracciato dal destino, e quello che realmente si sta percorrendo.

 “Questo si chiama nepotismo, Malfoy…”.

“Questo veramente si chiama DNA, Granger…”.

Mi riprendo da quelle stupidaggini mentali con decisione, tornando alla ragione. Se è vero che io stasera debba essere qui per un supposto disegno divino, è perché Draco Malfoy sembra sul serio non avere nessuno. Ed io, in fondo, non sono così stronza da lasciarlo da solo. La familiarità che provo è un mero riflesso della giustificazione che mi sto dando per non essere così concreta e pratica da mollarlo al suo destino. 

Una parte del nervosismo che mi hanno messo quei pensieri soffia dentro le mie parole. Le pronuncio inacidita, stizzita, convinta sommamente di essere nel giusto. Schiocco la lingua arrogante prima di dire: “Sarai sincero, Malfoy. Lo so. Non ti avrei ferito tanto l’altra sera con le mie parole, se non fosse stato così”.

Lui mi guarda con un sorriso sarcastico, come se avessi appena detto che la terra è quadrata ed interamente composta da formaggio francese. Soggiunge profondamente scocciato: “Tu non mi ferisci, Granger. Al massimo mi annoi. Come stai facendo in questo momento. Avanti, datti una mossa. Che vuoi sapere?”.

I suoi occhi mi osservano profondi, non so come facessi a guardarlo a scuola senza la sensazione di una sciabola puntata alla gola, pronta a squartarti la giugulare. Con quello sguardo, sembra arrivare fin dentro la mia testa, dentro un punto morbido e delicato che non conosco nemmeno io.

Una parte di me ne è terrorizzata, un’altra… pure.

Perché non riesco a smettere di guardarlo, anche se mi fa sentire così.

Sono arrivata al punto che mi piace persino essere guardata da un altro uomo che non sia mio marito? Lo penso immediatamente con sgomento, negandolo cinque secondi dopo.

Draco Malfoy non mi guarda con alcun tono di desiderio, attrazione o possesso fisico.

Ci mancherebbe.

Ha piuttosto degli occhi… curiosi. Persino nel rossore di un pianto che ancora reprime, mi osserva come se inseguisse qualcosa. Sento distintamente anche adesso lo sguardo che scorre indagatore sulle mie palpebre, sulle ciglia, sul naso, sulle guance, sulle labbra.

Contrae lo spazio tra le sopracciglia come se quello che vede non gli dia ancora una risposta.

Vorrei vedermi attraverso i suoi occhi per capire che cosa sta cercando e cosa non trova.

Presagendo che il silenzio stia durando fin troppo lasciandomi immobile a fissarlo, torno a guardarmi le mani che torturo in grembo, l’intimità di quella situazione che mi abbaglia d’un tratto. Vogliosa di finirla quanto prima, mormoro senza preamboli: “Lo avresti ucciso sul serio, se avessi potuto?”. Non specifico di chi sto parlando. Lo sa. Lo deve sapere. Se non capisce che sto parlando di Silente, è già un’ammissione di colpa.

Vuol dire che stava per uccidere qualcun altro, forse stavolta riuscendoci.

“Neanche se avessi avuto tutto il tempo del mondo” la sua voce non tarda nemmeno mezzo secondo di riflessione, convincendomi più di tutto il resto. Suona stentorea, potente, come se quelle parole se ne fossero state nel suo petto in attesa di qualcuno che, davvero, gliela facesse questa domanda. E, chissà perché, sono certa di essere arrivata per prima.

Una specie di assurda felicità, come un formicolio sotto la pianta dei piedi, mi colpisce imprevista, portandomi automaticamente a sorridere. E’ un sorriso strano, antico, quasi dimenticato. Non ricordavo di averlo nella mia scorta di gesti ed espressioni.

Gli credo subito, senza sforzo. Senza nemmeno pensarci. Senza nemmeno chiedermi perché.

“Volevi… sapere solo questo, Granger?” mi chiede autenticamente meravigliato, sorpreso. Non lo guardo ancora in faccia, timorosa che veda ancora quel sorriso sul mio volto e lo usi a suo favore. Mi rendo conto che, però, lui lo vede lo stesso, non ha mai smesso di guardarmi un attimo. Quindi sollevo gli occhi, atteggiandomi ad un viso più quieto: “Sì…”.

Ancora, Draco mi guarda in attesa di qualcosa. Ha una sorta di delicatezza negli occhi che, addosso a lui, pare sbagliata. Dopo un po’ di estraniamento, però, mi sembra invece necessaria. Di nuovo, passa qualche secondo prima che riprenda a parlare, mi si socchiudono gli occhi nel guardarlo in viso, come se fossi sotto una luce troppo forte. Mi vedo dall’esterno, seduta per terra con lui accanto, e per la prima volta spero che non arrivi nessuno a pensare cose strane.

A me sembra tutto naturale e normale, ma so che non è così che potrebbe sembrare. Continuo a dimenticare che è la notte di Natale, che entrambi dovremmo essere altrove. Per la prima volta da ore, mi chiedo se la mia famiglia non mi stia cercando. E prima della preoccupazione per la loro ansia, giunge il sollievo di sapere che non mi cercheranno mai qui.

Basta questo cauto sollievo a farmi distogliere lo sguardo, mentre Draco, con un colpo di tosse, mormora con voce aspra, come se avesse indovinato i miei pensieri: “Volevi sapere solo… questo… la notte di Natale? Dire che hai un tempismo ottimo è un eufemismo, Granger… suppongo che le ricorrenze dalle tue parti siano così patetiche che ad ogni piè sospinto mediti la fuga”.

L’incantesimo soffuso che ci avvolgeva si rompe improvviso, come se uscissimo dal guscio imberbe di una pelle nuova. Sento distintamente il moto di bile che mi sale lo stomaco e la sua voce mi appare più stridula di quanto ricordassi.

Roteo gli occhi ovvia, incrociando le braccia nervosamente: “Non essere idiota. L’ho fatto… per Rose. Lei… sembra che si sia affezionata a tuo figlio, a Scorpius…”, esito un attimo prima di continuare, ma poi per difendermi proseguo senza esitazione: “Oggi, a tavola, Ron ha cominciato a…”.

“Ad insultare tutta mia progenie, con gli epiteti più variabili?” completa lui canzonatorio “Mi sento meno in colpa per aver cambiato tutte le parole di Weasley è il nostro Re!, per renderla una nenia che combattesse la stitichezza nel nostro gufo di casa”.

“Malfoy!” erompo scandalizzata, anche qui sono pienamente consapevole che non ha mentito. Sicuro che esiste sul serio questa canzone.

“Giusto… ho promesso di essere sincero. Non mi sentivo in colpa” pronuncia assertivo, prima di proseguire con tono dolciastro, simulando un sorriso falso mentre finge di chiudersi un bottone del polsino: “E quindi cosa, Granger? Volevi… difendermi?”.

Mi viene di nuovo da battere il piede a terra per il nervosismo che mi procura, ma mi impongo di rispondere calma e matura: “Voglio difendere i sentimenti di mia figlia. Non i tuoi. E potevo farlo solo… difendendo te e la tua famiglia. Ma non sono riuscita a farlo perché… in fondo, io stessa ti ho accusato delle stesse cose qualche giorno fa. E mi dispiace di averlo fatto. Sarebbe stato giusto parlarne anni fa di questo, invece abbiamo tutti lasciato che queste cose restassero a marcire sotto la cenere, finendo per far del male solo ai nostri figli, di riflesso…”, respiro a fondo prima di soggiungere: “Loro… devono essere liberi da tutto questo…”.

Lui, però, ignora volutamente tutto il senso del mio discorso, persino le scuse che mi sono costate parecchio in termini di orgoglio. Si allunga placido come un gatto sazio, incrociando le braccia con aria rilassata, canzonandomi con voce gongolante: “Ed ora quindi… ti ergerai come mia paladina verso il tuo marito straccione? Merlino e Morgana, ho avuto il mio regalo di Natale in anticipo… vorrei avere delle Orecchie Oblunghe per ascoltare il vostro prossimo delizioso scambio di opinioni”.

Prima dell’inevitabile fastidio di avergli servito un tale vantaggio su un piatto d’argento, una spina bollente di sollievo mi accende il basso ventre. Sta scherzando. La voce è la sua solita voce, strascicata e molesta. Gli occhi sembrano più chiari.

Per ora, almeno, non stai ripensando a tua madre.

Forse è questo il mio regalo di Natale.

“I Grifondoro sono degli idioti…” bofonchio, poggiando la testa sulle braccia piegate sulle ginocchia “Troppo altruismo senza corrispettivo”.

“Lo avrai il tuo maledetto corrispettivo, Granger…” mormora lui, offeso come se lo avessi accusato di non poter pagare un debito. Si spettina i capelli biondi ad arte, simulando nonchalance: “Chiedi e ti sarà dato”.

Ci penso su qualche istante, come se davvero stessi vagliando tra vari premi che mi sono stati offerti. Mi mordo l’unghia del pollice, non ho granché su cui riflettere in fondo. Mi viene scontato dire la sola cosa che ho in mente. Quella che, in fondo, è il vero motivo per cui sono venuta qui stasera.

Torno a guardarlo a conferma della serietà del mio proposito e delle mie parole. Draco, da qualche parte, lo capisce perché chiude le labbra già aperte per sibilare un altro colpo di ironia.

Non spezzate il loro cuore…” asserisco convinta, colorando le mie parole di un tono tra la preghiera e l’ammonimento. Lui sembra capirlo, arriccia le labbra con ferocia, mentre proseguo: “A Rose… e a Teddy. Ti sto affidando due delle persone più care che ho al mondo. Fa che io possa fidarmi di te. Ed io ti difenderò sempre”.

Di nuovo, non si lascia andare a nessuna rassicurazione. Anzi, questa volta pare persino offeso, volta il viso altrove e stringe un pugno sul parquet: “Solita Grifondoro con un tatto nullo per gli affari. Questo… lo avrei fatto comunque, checché ne pensi tu…”. Mi lancia un’occhiata traversa che mi fa sentire un’idiota, prima di riprendere casuale: “Però confesso di essere molto interessato a questa apertura di trattative, Granger. Potrebbe rivelarsi utile. Quindi, fingiamo che fossi intenzionato ad infliggere la peggiore sofferenza possibile ad Edward e alla tua mocciosetta…”, si porta le mani alla base del collo, emettendo dei versi strozzati di sofferenza: “Umpf, argh, che pena sarà non poter far loro del male. Impazzirò! Necessito di qualcosa di maggiore sul piatto per essere convinto”.

“Che diamine vuoi ancora?” scoppio frustrata, sbuffando.

Draco pare enormemente sicuro: “Aggiornamenti, Granger. Sul matrimonio del secolo, quello che tu tanto approvi ed appoggi…”, il tono melenso fa ovviamente riferimento alla nostra ultima conversazione, dove ha compreso che disapprovo tutto di queste nozze. Figuriamoci se non se lo ricordava. Lo incenerisco con lo sguardo, mentre prosegue con un’alzata di spalle: “Suppongo che la tua discussione matrimoniale nella notte più santa dell’anno, ti abbia mostrato abbondantemente quanto sono poco gradito. E quanto io poco brami ripetere l’esperienza di assideramento sulla terrazza fatiscente dei tuoi suoceri poveracci. Quindi, magari se mi aggiornassi sulle decisioni intraprese, potrei evitare di presentarmi ad ogni squallida riunione e chiedermi costantemente se non sto per essere avvelenato con la Burrobirra o con la semplice inalazione dell’aria fetida che respirano in quella stamberga, così piccola da far circolare anche l’aria”.

Quando sto già per aprire bocca ed urlargli di tutto, qualcosa mi colpisce con il lampo immediato dell’intuizione: quel qualcosa fa rima con un colpo di tosse che proviene dalla stanza di Cissy Malfoy.

Sta peggiorando. Non vuoi lasciarla sola. Neanche per una promessa fatta a lei.

L’intensità perdurante del suo sguardo mi fa capire che ci ho visto giusto.

Non lascio però filtrare nulla della mia consapevolezza, rispondendogli rassegnata e sfibrata, come una che decide di fare beneficienza ad un caso umano: “Sei di una simpatia contagiosa, Malfoy, santo cielo. Comunque… d’accordo, va bene. Ne beneficerà anche il mio sistema nervoso”.

“Quindi siamo pari”.

“Pari? E che vantaggi avrei da questa contrattazione, scusa?”.

“Mi vedi di meno, non spezzo i giovani cuori di Edward e Weasley-figlia, e mettiamoci , che ti devo anche un favore…” sciorina ovvio, contando sulle dita, prima di ripetere: “Chiedi e ti sarà dato”.

“Me lo terrò da parte, Malfoy. La sensazione di poterti chiedere qualcosa, in qualsiasi momento, è insolitamente piacevole”.

Mi guarda con un sorriso che non gli arriva agli occhi, sussurrando malevolo: “Mai fidarsi…”.

“…dei serpenti…” completo, stupendolo non poco “Lo so, lo so. Me lo hanno detto una volta”.

“Dunque… affare fatto?” conclude, alzandosi in piedi e porgendomi la mano destra.

Guardo incredula la sua mano, come se scottasse: “Vuoi anche la stretta di mano? Non ti appesto così?”.

“Mi sento particolarmente temerario…” mormora annoiato, guardandomi dall’alto in basso “Insolita combinazione di festività stucchevole, emicrania da moglie vanesia e madre moribonda: cogli l’occasione”.

Scuotendo il capo per l’assurdità del quadretto che è capace di dipingere con freddezza, mi sollevo da sola da terra, puntellandomi sulle mani. Poi, visto che resta ancora di fronte a me con la mano tesa, la prendo con la mia, la tentazione di fargli una linguaccia da bambina in risposta alla sua aria strafottente e fastidiosa.

Le sue dita, contro le mie, sono calde, bollenti, come mai avrei potuto immaginare.

O come ho sempre saputo?

Faccio in tempo a pensare solo questo, prima che, risorta come una peste medievale, la nausea scoppi di nuovo dal punto più profondo del mio petto, salendomi in bocca con un sapore marcio di segatura. Artiglio la mano di Draco, come se fosse la sola cosa che mi impedisse di cadere al suolo, distesa. Quando lo guardo, però, lo vedo come me: piegato in due, una mano contratta sul torace, boccheggiante come se stesse morendo sul colpo.

Vorrei aiutarlo, vorrei che aiutasse me, ma non riesco a muovere un passo. Ricadiamo entrambi al suolo in ginocchio, il tonfo mi raggiunge a malapena le orecchie, mentre mi pare che tutto si rovesci come se fossimo dentro una casa di bambole.

Ed è lì che, senza preavviso, mentre mi chiedo se non sto sul serio per morire, che accade.

 

Lampi. Lampi oro come occhi malati. Bianco. Bianco tutto attorno, non esiste quel colore, non può esistere. Non è mai esistito. “Il motivo che cerchi”. Un’altra mano nella mia, tutto tira dalla parte opposta. La mano no, la mano tiene, trattiene, sostiene. Svanisce, piango, non te ne andare, non mi lasciare. Sparisce. Scompare. Non è un’altra mano.

Si spezza tutto, mi spezzo io, si spezza il mondo. Alex. Alexander.

Salta nelle pozzanghere anche quando gli dico di non farlo.

Ancora oro, occhi con la pupilla stretta come quella dei gatti.

“…il giunger palma a palma è il bacio dei pii palmieri…”.

Non lo devo dimenticare.

Dimentico.

Occhi color dell’oro, lui ha superiori a cui far riferimento.

Tutto esce fuori dalla testa come se fosse, di nuovo, un sogno.

Resta qualcosa. Solo una cosa.

Lo chiamo ricordo.

 

Continua a tenermi per il polso, finché con un strattone mi solleva violentemente dalla posizione accovacciata in cui ero. Mi ritrovo in piedi davanti a lui, che mi trattiene ancora con il braccio sollevato, guardandomi negli occhi. Cerco di divincolarmi, adesso, mi sta facendo veramente male.

“Lasciami Malfoy! Ho capito, me ne sto andando!” urlo, graffiandogli con le unghie la mano che mi stringe ancora. Ancora, è come se non mi avesse sentito, mi guarda cieco e sordo di qualsiasi cosa, persino della repulsione che dovrebbe avere per il prolungato contatto fisico con me. I suoi occhi sembrano due pezzi di granito freddo, sembrano non guardarmi davvero, sono talmente pieni di odio che mi fanno rabbrividire. Mentirei, se dicessi che ci sono abituata. Non è vero, Malfoy mi guarda così per la prima volta. Sento qualsiasi cosa stia pensando sulla mia pelle, mescolarsi ghiacciata al mio respiro, opprimendo il mio petto. Liquidi e chiari come sono sempre stati, i suoi occhi sono gli specchi di qualsiasi cosa adesso affolli la sua mente. E non è una bella cosa, sicuramente. Mi sta facendo male, davvero, adesso, in tutti i sensi. Il polso pulsa, bianco, credo che me lo romperà alla fine. Sento persino una ventata di nausea colpirmi la bocca dello stomaco. Cerco di divincolarmi, di distogliere lo sguardo da lui, ma non ci riesco. È inutile, è come se mi tenesse incollata ai suoi occhi. Freud diceva che ci sono due istinti nell’uomo, quello alla vita, Eros, e quello alla morte, Thanatos. Come se fossi convinta che adesso mi ammazzerà e non facessi nulla per impedirlo, anzi ne fossi quasi attratta. Mi ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare assolutamente niente.

 

Torno in me, il corridoio esiste ancora. Tutto esiste ancora. Anche io. Io esisto ancora.

Ma… anche l’altra… esisteva.

Anche l’altra... che ero io. Giovane, poco più di vent’anni. Occhi rossi, spalle curve, una maglia da calcio addosso, una camera in bianco e nero che non ho mai visto in vita mia.

Esisteva lei. Che ero io. Con quel dolore dentro, con quel fardello dentro, con quella paura dentro.

Di lui, Draco Malfoy. Più giovane anche lui, bello sempre, arcigno sempre, duro, scolpito nel ghiaccio come un dio crudele, enorme e gigante nella mia testa.

Esisteva anche lui.

Non lo guardo, lo sento solo. Anche lui, piegato in due come me. Lo ignoro, non mi importa.

La pelle del mio viso è bianca, terrea, sudata di freddo.

Piango, singhiozzo, non ho controllo.

Dico solo, tremando come una foglia: “Che diamine mi hai fatto, Draco Malfoy?”.

 

Ovviamente, come tantissime altre volte, questo capitolo giunge tardissimo. Naturalmente ci sono sempre scuse, spiegazioni e giustificazioni, ma questa volta ve le risparmio. Piuttosto, a scanso di tragedie, d’ora in poi cercherò di impormi sempre una scadenza per il prossimo capitolo, così da rassicurare voi e da gestirmi meglio io. Perciò, posso già dirvi che il capitolo 49 arriverà il 23 aprile. Detto questo, se ancora ci siete, io vi devo come sempre solo che ringraziare. Non smetterò di farlo. Le prime sono sempre le mie meravigliose, oramai, amiche del gruppo PUT A SPELL ON HER EYES. Ci sarebbe tanto e troppo da dire, ma in fondo lo sapete. Avete tutte un posto nel mio cuore. Dalla prima all’ultima. E non sarò mai meno che grata di avervi conosciuto. Poi, naturalmente ringrazio chi ancora recensisce questa storia, cosa che mi inorgoglisce parecchio e che meriterebbe delle risposte più articolate da parte mia. Mi riprometto sempre di farlo, ma puntualmente, forse anche per vergogna, non lo faccio mai. Ci tengo quindi qui a ringraziare velocemente fantasy666classics (grazie mille per il bellissimo augurio che mi hai fatto, spero sul serio di diventare una scrittrice un giorno, anche se ci vuole ancora moltissima strada da fare), shady_xx (Ilaria, tesoro! Grazie mille per la tua bellissima recensione, il lieto fine esisterà, tranquilla, è una cosa che ho sempre promesso. Essere paragonata alla saga di Kysa, mamma mia! E’ una cosa che non mi merito!), _Emme (cara, mi hai fatto una tenerezza immensa, pensando soprattutto a cosa ancora ti aspetta dopo il capitolo 37 che allora stavi leggendo! Grazie sul serio dei tuoi complimenti, sono felice che tu ti sia sentita così coinvolta anche se in maniera un po’ dolorosa. Andrà tutto bene, alla fine, promesso), sono le ultime recensioni che ho visto e a cui non avevo risposto, ma vi ringrazio sul serio. Che altro dire? Naturalmente, come mia abitudine, rinvio il POST SCRIPTUM con ogni domanda e spiegazione al gruppo facebook, così da non ammorbare questa pagina. Grazie di tutto, grazie come sempre, e grazie sempre.

   
 
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