On
my own
Tsukishima
aggrottò la fronte, irritato. Era sdraiato a letto, ancora
con l’uniforme di
scuola e il borsone degli allenamenti posato a terra.
L’abat-jour era spenta e
lui fissava il soffitto alla luce della luna che entrava dalla
finestra. Per
una volta la sua mente eccezionale era in stand-by, senza pensare a
nulla,
cullata dalla musica che si propagava dalle cuffie attorno alle sue
orecchie.
All’improvviso
però una vibrazione aveva guastato la canzone, e lui aveva
alzato il cellulare
per scoprire chi diavolo fosse riuscito a rovinargli
quell’attimo di pace.
Fu
con sorpresa che spalancò gli occhi nel vedere il mittente
del messaggio: mai
avrebbe creduto che Kenma potesse scrivergli qualcosa, men che mai
mandargli
foto.
Scoprì
che si trattava di uno scatto rubato a un Kuroo che, per una volta,
dormiva a
pancia all’aria, senza la testa schiacciata tra due cuscini.
Indossava i
pantaloncini rossi e la giacca a maniche lunghe della tuta, sdraiato
sopra un
materassino da palestra.
Il
breve messaggio che accompagnava la foto diceva semplicemente:
Immaginavo
che ti
sarebbe potuto piacere vederlo così.
Tsukishima
si trovò a zoomare la foto per vedere meglio i particolari;
ad esempio le
occhiaie scure di Kuroo, provato dal duro studio e gli allenamenti,
come se non
fosse già significativo il modo in cui era crollato dopo
l’allenamento
pomeridiano, o così Tsukishima immaginò dalla
luce dello scatto.
Con
ancora la musica che andava, continuò a fissare la foto,
come se quell’ammasso
di pixel potesse rivelargli qualche segreto, invece di essere solo la
buffa testimonianza
che persino Kuroo poteva dormire in una posizione normale.
Tsukishima
si portò una mano al viso, scostando gli occhiali per posare
il palmo sugli
occhi brucianti, bloccando qualsiasi cosa potesse traboccare dai loro
confini.
Gli
mancava Kuroo.
Gli
mancava e una semplice e stupida foto come quella lo aveva steso.
Ritraeva un
momento banale di una giornata qualsiasi, ma lo rendeva ancora
più consapevole
della loro lontananza, dell’impossibilità di
vivere la loro relazione nella
quotidianità.
Che
strada faceva Kuroo per tornare a casa? Si fermava a prendere qualcosa
da
mangiare coi compagni come lui spesso faceva coi suoi? Che mondo
vedevano ogni
giorno i suoi occhi?
Uno
diverso da quello di Tsukishima, uno troppo lontano. Erano solo degli
studenti
che mettevano da parte ogni centesimo per i biglietti del treno, troppo
presi
dallo studio e gli allenamenti; troppo presi dai loro sentimenti per
mollare,
nonostante tutto.
Tsukishima
sentì il palmo della mano umido, ma non lo
scostò, anzi lo premette più forte
contro gli occhi.
Rimase
sul proprio letto, al buio, con la musica che lo cullava e quella foto
di Kuroo
stampata nella mente.
Un
giorno – si ripromise – un giorno sarebbe stato lui
a scattargli foto simili,
senza farglielo sapere, ovviamente.
Per
il momento era solo un quindicenne che si concedeva un attimo di
debolezza, in
segreto.
L’angolino
oscuro: Eccoci
qui a un nuovo appuntamento sul documentario approvato dalla national
geographic su gatti e corvi. Scherzi a parte, penso che la malinconia
di una
storia a distanza, il senso di frustrazione per il non vissuto
quotidiano siano
una delle cose più difficili da sopportare e persino
Tsukishima si lascia
andare e cede alla tristezza, senza nessun testimone di questo momento
di
debolezza, di ammissione con se stesso che sì Kuroo gli
manca.
Spero
che come sempre vi sia piaciuta e grazie a tutti coloro che spenderanno
un
attimo del loro tempo per farmi sapere che ne pensano, alla prossima!