● La shot partecipa al contest “Raggio di Luna”, indetto da mystery_koopa sul forum di EFP ●
II ● Anima Scarlatta
Occhi
gelidi, lunghi capelli
corvini e quel sorriso sibilante, la peggiore ingiuria, con cui aveva
osservato le proprie vittime piangere sul marmo costellato di sangue
e brandelli d’abiti; il suo
solo fantasma aveva continuato a portare sudiciume e disonore sulla
loro pelle, nascondendosi nei bagliori di ogni fiamma e popolando gli
incubi di alcune — di tutte, probabilmente; ma quelle
più forti
tra loro non l’avevano mai ammesso, anche se le cicatrici
tenute
rigorosamente coperte avevano sempre raccontato un’altra
verità.
Fingere non ucciderà il
dolore.
Sarebbe bastato passare un
polpastrello sopra la stoffa delle vesti, premendo un poco per
giungere alla pelle del ventre; e le tracce rossastre sarebbero
fiorite come una maledizione, correndo fin sulla schiena e la nuca.
Quanto al dolore che aveva dilaniato la carne, quello invece non
avrebbe necessitato di uno stimolo perché sempre presente,
una
ferita infetta capace di sporcare anche gli angoli più
solari della
realtà e annientare un esitante futuro.
La dea del focolare[1]
richiede la vostra verginità, dovrete essere pure come lei.
Sotto la
sua protezione nulla vi accadrà, se assolverete ai vostri
doveri con
serietà e dedizione; grande onore verrà dalle
vostre azioni, voi
che siete state scelte come le spose più preziose.
Sia festa, le vergini del
fuoco vegliano su di noi!
Haesta[2],
grande Haesta, canta e danza insieme alle tue genti, benedici questi
giorni e la Città[3]!
«… Dimmi, mia suprema
signora: in cosa ti abbiamo disobbedito? Qual era la nostra colpa,
l’errore che ti ha portata a mandarci lui come punizione e flagello? Ha distrutto la tua dimora, oltre a noi;
lo hai visto, lo sapevi?
Perché,
perché? Dimmelo!»
Deliri soffiati tra i sogni
gelidi e la prigione dei denti, nelle notti in cui il letto si era
fatto nero, soffocante come il vino ingoiato per riuscire a
dimenticare; parole urlate tra le braccia di inverni che
l’avevano
portata a risentire sulla pelle quelle dita sacrileghe, chiuse sulla
bocca a impedirle di mozzarsi la lingua nel grido, roventi come lame
infuocate e l’ignominia.
Riaddormentarsi era sempre
stata la peggiore fra le torture.
Continua a rincorrermi, a
inseguirmi; oppure mi osserva dal tetto del tempio, come quel
mattino, in attesa che sia abbastanza vicina per ghermirmi. Neppure
questa volta gli alberi mi proteggeranno.
Vuole macchiare di nuovo il
marmo di scarlatto, urlarmi parole che non comprendo; papa, papa[4]…
dove sei?
Io muoio qui!
«Che
cosa ti avevamo mai fatto di male? Ridammi la mia vita!»
… A
volte riusciva ancora a piangere davanti a quei pensieri.
Chiunque tu sia, ascoltami.
Perdonami.
Guariscimi.
●
«Papa,
diventerò una vergine del fuoco! È bello, vero?»
Ci aveva creduto davvero;
aveva speso tutte le sue energie e ogni pensiero per quel sacro
compito, e ne era stata felice.
Suo padre l’aveva
abbracciata strettamente e pianto quando le sacerdotesse più
anziane
erano giunte alla loro dimora per portare la notizia: gli occhi di
bosco dell’ultimogenita, il fiore più puro di
quell’antichissima
stirpe, avrebbero contemplato le fiamme di Haesta e le sue mani lo
avrebbero protetto ⸺ così come avrebbero fatto con la
Città, che
di quell’immortale fuoco si era nutrita fin dalla propria
fondazione.
Le grandi guide del suo popolo
erano nate per mezzo di quelle lingue d’energia[5],
simboli della presenza delle divinità e testimoni di pace; e
proprio
quelle lei avrebbe nutrito insieme ad altre cinque giovani, serve di
un nume ma molto più di semplici sacerdotesse, spose di
sovrani
celesti.
Anche dopo anni, fermando i
propri passi davanti alla luminosa radura della dea[6],
lei avrebbe potuto risentire i propri singhiozzi d’emozione
quando
la Città le si era chiusa intorno per guardarla salire tra
le
braccia del tempio, quando invece che bambole d’ebano e
animaletti
d’avorio le sue mani avevano iniziato a stringere i tessuti
sacri;
e la consapevolezza di poter diventare una brava custode, una garante
dell’ordine e della felicità degli altri,
l’aveva ben presto
consolata dall’iniziale malinconia del suo vecchio mondo.
«Tu sei importante per la
nostra gente, sei la sua sentinella; sei coraggiosa come il papa»,
le aveva detto l’uomo durante una delle frequenti visite; e
lei
aveva battuto le mani nell’entusiasmo, rendendo il sole
più
lucente.
«Quindi anche io sono spada
e scudo
dell’umanità,
come la mama
dice sempre quando parti per andare in guerra?»
«Sei
molto di più,
plúirín[7];
molto di più, perché tu potrai tenere lontano il
sangue da tutti
noi. Allora, chi è la principessa di papa?»
«Io, sono io!»
… Sono
sempre
stata la tua
spada e il tuo scudo, padre.
E
gli anni erano volati come i pensieri, come la più dolce
innocenza;
il suo animo già deciso aveva assunto fermezza e le doti di
una
guida.
Sono stata
la tua principessa… una regina.
Per tante notti senza luna la
Città era scivolata ai suoi piedi, tra i sussurri del bosco
e le
volute di fumo che avevano lasciato la casa di Haesta per nutrire il
mondo; sotto cieli senza nubi né confini
si era spogliata dei pensieri e aveva sorriso, così fiera di
sé da
non sentire stanchezza.
L’ombelico della vita era
situato in lei: aveva legato origini e identità, retto il
regno
insieme al suo legittimo sovrano, illuminato famiglie e
credi… non
avrebbe potuto essere più onorata.
Così, non aveva nemmeno
passato i vent’anni quando il suo fato era stato certo:
sarebbe
divenuta una delle migliori vergini del fuoco e, una volta ultimato
il servizio, una grande compagna di governanti.
Sacerdotessa potente, futura
signora di genti: avrebbe ampliato e sostenuto il lustro della sua
famiglia, reso ancora più forte il suo popolo… se
tutto
questo le fosse stato veramente concesso, a lei e alle sue compagne;
se
quella mano desiderosa di morte e dolore non le avesse mai trovate.
Le tenebre si erano addensate
tutte lì, in quel primo mattino di primavera simile a tutti
gli
altri; forse, alla luce del dopo, anche troppo perfetto.
Il canto tonante della fontana
su cui si era chinata sarebbe rimasto vivo in lei per sempre, come le
quotidiane incombenze che avevano occupato la sua mente fin
dall’alba; ma nemmeno il gorgoglio dell’acqua era
riuscito ad
allontanare le grida che improvvisamente si erano levate
dall’intera
Città, così raccapriccianti e alte da
pietrificarla sui mosaici
informi[8]
e spingerla a muovere le gambe solo dopo infiniti istanti.
Rumore di palazzi spezzati,
polvere e urla ovunque: vie cadute sotto la mano furente di un nemico
invisibile che era avanzato dissestando e distruggendo,
un’onda
d’aria e fumo che aveva lasciato solo desolazione.
«Chiudete il tempio, subito!
Chiunque o qualunque cosa sia, è ormai qui!»
Anche da lontano, lei aveva
potuto sentire lo spavento delle compagne e gli ordini delle loro
superiori; e a stento era riuscita a infilarsi nel bosco di Haesta,
appena prima che l’intero complesso venisse serrato.
Se fossi stata dimenticata
fuori… che cosa ne sarebbe stato di me?
Mi sarei salvata, sarei
uscita intatta e ignara dagli eventi successivi?
La piccola selva l’aveva
protetta per tutta la sua corsa frenetica, quando sibili sinistri e
voci confuse si erano attorcigliate intorno alle verdi chiome; strane
luci avevano interrotto il percorso come per farla desistere, ma
dentro di lei niente le aveva sussurrato di indugiare
all’ombra
degli alberi e respirare piano, per non essere scoperta.
Perché non sono nata
codarda, padre mio; e lui lo sapeva.
Conosceva bene la nostra
tempra.
«Ed ecco l’ultima… ora la
caccia può considerarsi conclusa.»
Era riuscita a vederlo bene
solo per qualche istante, quel giovane uomo — no; lo aveva
compreso
fin da subito, quanto fosse distante dall’umanità:
la sua aura un
unico grumo di buio e angoscia, un monito minaccioso per tutti
—
seduto sul tetto del tempio e intento a guardare al suo interno
attraverso l’apertura per il fumo sacro; a quella visione si
era
fermata senza far rumore, stupita e confusa, ma lui l’aveva
sentita
comunque e si era voltato con la rapidità di un serpente,
bruciandola con uno sguardo.
«Oh, e invece ne mancava
una.»
Un lampo, e la figura era
atterrata a pochi passi da lei; una presa si era stretta intorno ai
suoi capelli e li aveva tirati con tale violenza da scioglierle
l’acconciatura rituale e strappare alcune ciocche, ma ogni
reazione
si era arrestata quando, nel battito di un istante, dal limitare del
bosco si era ritrovata a boccheggiare sul pavimento templare, la
testa in fiamme e il boato delle porte distrutte nelle orecchie.
Da quel punto, per lunghe ore,
il suo mondo era crollato pezzo dopo pezzo: il dolore delle torture
inflitte con un pugnale arroventato si era unito all’eco di
domande
incomprensibili, il disprezzo si era fuso con l’irrisione, la
visione del fuoco sacro gettato tra loro — «Haesta,
fa’ che muoiano subito, che non soffrano così tanto!»
— aveva danzato con la morte.
Non salverete nessuno,
nessuno!
E la Città vi venera quasi
più della vostra dea… la mente sa essere
così sciocca, così
ipocrita. Le mura di questo luogo cadranno a causa vostra e di questi
impotenti riti, così come tutte le illusioni che avete
contribuito a
creare: saprete sopportare gli sguardi del vostro stesso popolo, poi?
Lo guarderete morire, dal
primo all’ultimo bastardo!
Aveva
cercato di resistere fino allo sfinimento, di sopravvivere al proprio
desiderio di morte e alla violenza; ma di molte cose nemmeno lei
avrebbe saputo raccontare, poiché prima della fine il sapore
del
terrore l’aveva fatta precipitare in un abisso
d’incoscienza, la
mente incapace di sopportare più dell’indicibile.
Quando aveva
riaperto gli occhi, poi, aveva incontrato non la casa di Haesta, ma
le pareti della sua amata dimora; e solo qui aveva pianto tutte le
lacrime caparbiamente trattenute e celate, strappando le coperte tra
delirio e grida e lasciandosi toccare solo dalle mani del papa.
«Non c’è più nessuno
là,
vero? Grande dea… grande dea, perché? Eravamo le
tue figlie! Le
tue figlie!»
Per interi giorni aveva
pronunciato, cantilenato e ringhiato quelle parole, senza pausa
né
vitalità, come una preghiera per guarire o
un’insensata ninnananna
per tenere impegnata la mente: perché tutto il buio era
lì, sotto
la residua lucidità, pronto a coglierla nel momento del
silenzio e a
crollare sulle proprie fondamenta, per trascinarla ancora
più giù,
da lui.
Quell’anima ferina non se
n’era andata davvero dopo aver guardato tutte loro
agonizzare, era
rimasta con lei per darle la caccia: assunto l’aspetto del
padre
per confonderla e trascinarla nella quiete, l’aveva attesa
nei
sogni e si era svelata solo dopo che le sue difese si erano
abbassate, quando non ci sarebbe stato nessuno da cui rifugiarsi.
Non era stata la sola a
condividere veglia e riposo con il terrore: tutta la Città
aveva
riconosciuto che le proprie forze, militari e religiose, non
avrebbero potuto fronteggiare quelle di un dio che, come si era
immediatamente raccontato, era nato per reclamare sangue e aveva
distrutto più di mille luoghi, agognando la conquista di
ogni cosa.
L’energia tenebrosa che
questi aveva scatenato si era dimostrata troppo violenta, impulso di
distruzione e crudeltà, per essere contrastata con un culto
della
ragione e della virtù, quindi chi avrebbe potuto incolparsi
o
incolpare i propri compagni di una vicenda così orrenda? La
colpa
era tutta insita in quell’animo nero che aveva osato portare
dolore
e tormenti a fanciulle innocenti e marchiare la loro pelle di
vergogna; la colpa sarebbe cresciuta insieme agli amorali riti di
Baccus[9],
insani e arroganti, che avevano immediatamente sostituito quelli di
Haesta al punto da impossessarsi delle stesse rovine del tempio e
recare maggior spregio ai tetti infranti, affronto alle istituzioni e
mancanza di cura verso i tanti che in quel terribile giorno avevano
perso molto.
«Il vento del mare è giunto
su di noi per punirci, per distruggere la nostra grandezza e
insegnarci l’umiltà: impariamo da questo
errore», aveva poi
iniziato a gridare qualcuno, additando la fine dell’alterigia
dei
potenti — anche la sua presunzione e aria di
regalità: regina
spezzata, fiamma debole — come unico farmaco contro i mali;
«Una
giusta dottrina non tortura a morte giovani figlie, non si diverte a
denudarle e a batterle: quella tempesta non avrebbe dovuto
toccarle!», aveva replicato qualcun altro, proteggendo e
sostenendo
le umiliate vergini.
Lei aveva sentito tante voci
intrecciarsi e attaccarsi al velo della lucidità, volti
agitarsi
davanti a lei in continue, inopportune visite e dichiararla sia
vittima sia, in un mormorio, la prima carnefice di sé
stessa; ma non
aveva davvero udito né trattenuto quelle parole, il suo
sguardo
vacuo aveva emanato luce solo sotto le carezze affettuose della sua
famiglia.
Lei, Pirra(♦),
nata e cresciuta con il fuoco nell’anima e nel nome, che era
stata
guidata da esso nelle ambizioni, da allora lo aveva sentito quietarsi
senza riuscire a fermarlo; ancora nel suo profondo ma troppo debole
per riscaldarla, assopita quella parte del suo essere si era sentita
disperatamente fragile, privata di un punto fermo come una bandiera
dimenticata nel vento, sola con i suoi demoni. Quasi impossibile da
credere come un unico gesto di prepotenza avesse potuto ridurla al
guscio immobile che lo specchio aveva riflesso ogni mattino e per
molto tempo; ma era stato proprio ciò che aveva percepito in
quei
momenti — la mia
prepotenza non ti priverà della vita, non temere; ma
attenta,
potrebbe ritornare a opera di altre mani, e tu non potrai fidarti mai
più di nessuno! —
a ghermire il suo coraggio e dilaniarlo.
A ben vedere, la ragione si
era posta dalla parte di coloro che l’avevano tacciata di
superbia:
perché aveva sempre vissuto come una bambina sicura di
sé ma ignara
del mondo, onorata come grande ma senza alcuna conoscenza di
privazione e caduta, pronta a incrinarsi davanti alle crisi.
Dedizione, fedeltà e
caparbietà non se n’erano andate, erano rimaste
con lei; ma la
paura della loro risposta — o meglio, della loro assenza
— a
vicende di tale specie le aveva tutte spinte in secondo piano.
In un possibile ripetersi di
quegli eventi, niente le avrebbe dato la conferma che avrebbe
conservato la sua resistenza; la sua mente aveva già
sofferto,
sarebbe stato facile spezzarla del tutto.
… Forse
era stato proprio questo a spingere il portatore di caos a ritornare
davvero, a lasciare il regno del suo inconscio per raggiungerla e
terminare quello che aveva iniziato.
Quanti minuti, ore o mesi
sono realmente passati?,
aveva pensato quando il suo sguardo aveva scorto il sibilante sorriso
tra le ombre della propria camera e un sospiro gelido era penetrato
tra le cortine del letto; forse nessuno, perché le era parso
di non
essere mai uscita dal tempio.
Ma
il glaciale sguardo dell’altro si era posato solo per qualche
istante su di lei, unicamente per accertarsi di aver riportato la
paura: una forza ben più grande lo aveva attirato, il fuoco
pulsante
di un’altra anima.
La
Città non era ancora precipitata nella follia solamente
grazie alla
potenza militare, alle azioni degli uomini come suo padre e alla
sicurezza che la loro presenza aveva continuato a ispirare: che cosa
sarebbe accaduto se perfino quell’estremo baluardo fosse
crollato,
se tutti i guerrieri fossero stati uccisi? La comparsa di
quell’entità aveva trovato spiegazione solo in
quella motivazione:
per piegare totalmente la gente, si sarebbe dovuto prima pensare a
privarla di ogni arma.
Le
porte della camera si erano chiuse appena il dio se n’era
andato,
imprigionandola per renderla il finale diletto di un’altra
giornata
di spietatezza; e lei inutilmente si era trascinata giù dal
letto e
sul pavimento, ritrovando la voce in pietosi singhiozzi.
«Non
toccarlo! Non fargli del male, torna qui e uccidi me!», aveva
poi
gridato nella rinnovata disperazione, e questa le aveva dato
l’impeto
di affondare le unghie nel legno intarsiato e fermarsi solo quando le
dita erano state trafitte dalle schegge. La voce ferma del
capofamiglia, levatasi improvvisamente, aveva vinto sullo strazio e
portato un teso silenzio nelle stanze, l’orgoglio pronto a
misurarsi con la prepotenza.
Non
era riuscita a capire nessuna delle parole che erano state scambiate,
ma il suono di passi in corsa, già lontani dalla casa, le
aveva
suggerito che suo padre avesse allontanato tutti e che la
divinità
non si fosse mossa: suo obbiettivo solamente il guerriero, e lei.
Il
suono di lame giunte a danzare, subito seguito dal ruggito del fuoco
che aveva iniziato a divorare la casa, non aveva tardato a colpire le
sue orecchie; e nuovamente le sue mani avevano cercato di aprire le
porte e implorato la fine di quello scontro — come se
qualcuno
avesse davvero potuto ascoltarla o aiutarla.
E
si era nuovamente
sbagliata quando aveva creduto di aver conosciuto la caduta,
poiché
la vera rovina si era palesata solo in quei momenti; e si era
sbagliata, perché aveva creduto che almeno un sostegno le
fosse
rimasto e che nulla avrebbe potuto portarglielo via. Invece eccola,
la bambina spaurita, l’anima sconfitta e divorata da potenze
più
grandi e con mille nomi, la timorosa che non aveva osato fare nemmeno
un passo e staccarsi dalla porta illuminata dall’incendio.
Era
arrivata la giusta fine per un’egoista: smarrire la ragione,
gli
affetti e la vita sapendo che quella morte non avrebbe cessato nulla
e protetto nessuno.
Ma io avevo promesso…
Il
clangore delle armi divenuto improvvisamente più violento e
forte,
tonfi di corpi in caduta; il buio addensato intorno a lei, per
ghermirla.
… Avevo
promesso che
sarei stata la sua spada, e il suo scudo.
Un
guizzo nel chiuso dell’anima: chiamato disperazione, in ogni
altro
modo, ma lì al suo fianco.
Mi avevi fatto promettere
che avrei resistito a tutto.
Voci
nel cuore, respiro spezzato dall’energia; il sorgere lento di
qualcosa che non le era mai appartenuto, ma che aveva iniziato a
respirare come un vento nuovo. Un battito ritmico, per non fare
più
male del necessario, ma destinato a salire.
Non sarei mai caduta, no.
Forza
della rabbia, della disperazione, della perdita; nessun guerriero era
mai nato dalla pace, e per questo l’avrebbe sempre cercata.
Quante
volte aveva visto la malinconia negli occhi di papa,
l’incertezza del ritorno? Eppure aveva obbedito ai suoi
doveri per
assicurarle vita e felicità; in cambio, lei lo aveva
lasciato a
combattere al posto suo, da solo.
Come
aveva potuto?
Ricordati, Pirra; ricordati
di te e di questo sacrificio.
La
tempesta aveva riniziato a ululare sopra il tetto; eppure, il corpo
scosso dalla tensione si era rifiutato di cadere immobile.
Ogni
rumore esterno l’aveva fatta tremare, tuttavia la paura aveva
iniziato ad allontanarsi: no, non era stata quella sensazione a
muovere la sua mente, mai il terrore aveva avuto quel sapore.
Chi sei, ragazza? Urlagli
il tuo nome.
Le
porte erano divenute fauci infuocate che presto si sarebbero espanse
intorno a lei: in attesa di un suo gesto, avevano ghignato
anch’esse.
Urlalo.
«Basta…
basta.»
Urlalo!
«Io
sono…»
Plúirín…
Un
altro passo e sarebbe stata ingoiata; invece, il battito che si era
sparso nella mente aveva raccontato un’altra storia: un
momento in
cui la lotta non avrebbe portato silenzio ma salvezza, in cui
l’incubo avrebbe aperto le ali per smettere di straziarla e
iniziare a sostenerla. «Se è con
un’ombra che mi devo scontrare…
allora che io divenga la notte stessa», aveva mormorato
mentre le
immagini di un mattino d’orrore avevano iniziato a colpirla; e
il
fuoco le aveva riso in viso, spirando tra i suoi capelli, mentre
la fiamma nel nome aveva sorriso.
Fidati di te, sai già cosa
fare.
Le
porte erano crollate su di lei, l’incendio si era preso il
suo
corpo… così aveva creduto la vecchia
sé stessa; ma solo la sua
ombra era stata divorata e subito si era ricongiunta alla figura
fulminea che aveva calciato lontano da sé il legno contorto,
apparendo nella sua veste più nera. In pochi avrebbero
potuto
riconoscere nella donna dal volto sporco di cenere e dalla voce
ringhiante la luminosa ragazza che un tempo era stata;
perché anche
se tutto il corpo era rimasto uguale, quegli occhi sanguigni e privi
di pietà non erano mai appartenuti a Pirra.
Con
gambe percorse da nere volute, essenza ed espressione del calore che
le aveva preso tutto lo spirito, si era gettata tra il papa
e il suo aguzzino, con braccia rese forti dall’energia di
mille
uomini aveva afferrato la gola di quest’ultimo e sfruttato la
sorpresa per abbatterlo al suolo e intrappolarlo sotto di
sé; la
mente umana aveva lasciato il posto all’istinto di una belva,
pura
forza aveva ingoiato tutte le sensazioni e obliato qualsiasi cosa non
fosse stata la sete di sangue. «Ti devo una lunga
tortura», aveva
sibilato con voce roca, monstrum[10]
creato da odio, rimorso e tenacia; e quando l’avversario
aveva
posto un braccio tra il suo impeto e il proprio collo, in risposta
lei lo aveva morso e quasi giunta a tranciarlo.
Fumo
denso e soffocante le aveva attaccato il volto, uncinandole la pelle
con l’intento di strapparla; ma anche sotto quel dolore
micidiale
le sue mani erano riuscite a lacerare e colpire fino a quando la
sopportazione aveva potuto sostenerla. Ritorcendole contro
l’instabilità del corpo diviso simultaneamente tra
difesa e
attacco, il nemico l’aveva afferrata per le braccia e spinta
lontana da sé, salvo poi incalzarla per colpirla e farla
sbattere
contro il muro a loro opposto.
«Mai
conosciuto nessuno con tanta voglia di morire», le aveva
sibilato il
dio dopo averle schiacciato la testa contro la parete e stretto il
collo; ma l’agire non era stato lesto come le parole quando
il
fuoco si era frapposto tra loro e le mani di lei erano riuscite ad
afferrare le fiamme, per poi dirigerle contro di lui al pari di
temibili spade. «Neppure io», aveva replicato,
evitando di
riconoscere come le differenze con quell’essere avessero
iniziato a
sfaldarsi.
Dopo
quel gesto, l’aura maligna dell’avversario era
divenuta palpabile
e, prudentemente, lei si era preparata al principio della fine;
tuttavia, alla minaccia di lotta non era seguita quella effettiva, in
quanto l’entità era svanita come nebbia davanti al
sole, con un
duro sguardo come promessa di ritorno e tanto sangue lasciato al suo
posto: sangue appartenuto totalmente a lui.
Solamente
allora le gambe le avevano permesso di retrocedere fino a farle
sentire il freddo della pietra contro la schiena, solamente allora si
era voltata verso la figura del padre; e davanti a quest’ultimo,
agli occhi terrorizzati dalle
sue sembianze,
lei
aveva
compreso di aver vinto una battaglia inconclusa e perso la sua
più
grande certezza.
«Pirra…»,
aveva singhiozzato l’uomo, fissandole le mani che non avevano
smesso di impugnare il fuoco; e il simulacro di sua figlia aveva
scosso appena il capo. «Io non sono più
lei; la giovane che adoravi è morta.»
A
passi lenti si era allontanata dal padre, ogni istante di distanza
aveva sconnesso il sentiero che le avrebbe permesso di ritornare tra
quelle braccia; perché la sete di vendetta non si era ancora
acquietata, la caccia era appena iniziata e ogni innocente avrebbe
dovuto ignorarne l’esistenza.
«Non
avrei voluto perderti così, ma era l’unico modo
per salvarti. Non
cercarmi più, papa,
non chiedere della vergine che hai chiamato figlia: semplicemente,
non dimenticarmi e amami ancora.
Anche
con questo spirito io non ti dimenticherò né
smetterò di amarti;
e, forse, in qualche modo potrò ancora sentirti.»
«Non
andartene! Pirra, ti prego, rimani qui e calmati!»
Quando
l’eco di quella preghiera era svanito, lei era già
stata
circondata dai sentieri boschivi che l’avrebbero portata alla
Città; le lacrime erano diventate cristalli sulle guance
graffiate,
le erano entrate nella pelle e avevano ghiacciato tutte le parole che
avrebbero potuto ricondurla a casa.
Perfino
sotto la copertura delle cime arboree era riuscita a scorgere le
rovine della casa di Haesta e le luci blasfeme di Baccus, i culti che
avevano osato deridere le istituzioni e Haesta intenti a tormentare
l’aria; non aveva spostato lo sguardo da là,
sentendo tutte le
sensazioni dello scontro precedente ritornare e nutrire cupi
desideri; le aveva accolte tutte. Era penetrata tra le vie urbane
ancora umana…
… Ma
quando ne era uscita la sua anima era divenuta totalmente scarlatta;
tra le mura del vecchio tempio, invece, non era rimasto altro fuoco,
se non quello che lei aveva portato.
Aveva
creduto di poter dominare tutta quella forza, di riuscire a
incendiarla nella necessità e acquietarla negli istanti di
pace; ma
una volta assaggiata la vendetta e macchiatosi di sangue, bruciato un
corpo e risucchiatone l’anima, il suo spirito non aveva fatto
altro
che aumentare il desiderio di distruzione: e lei si era rivelata
troppo debole per non ubbidirgli.
Quando
la Città si era completamente ripulita dalla parola
aberrante di
Baccus, la luna aveva appena mutato il suo volto da pieno a mezzo;
era scomparsa del tutto quando l’intera regione era stata
percorsa
da passi ferini e liberata dalla feccia, e pochi altri giorni erano
passati quando oblio e annientamento avevano divorato quello e altri
culti indegni. Non era bastato: completamente annerita e piegata
dalle sue stesse energie, il corpo così rigonfio di
volontà e
pulsioni da non riuscire a contenerle, la fiera qual era diventata
aveva vagato fino quasi a perdere connotati umani e diventare
realmente un’ombra maledetta e lamia[11],
come l’avevano definita le parole di coloro che erano stati
testimoni delle sue azioni.
Per
lunghi giorni aveva riposato e atteso in selve inaccessibili e
intoccate sia da uomini che da dèi, pulsando tra i rovi come
un
cuore malato; nei crepuscoli informi, invece, aveva fatto la sua
comparsa e iniziato la caccia che avrebbe sottratto al mondo almeno
un’anima corrosa e ambigua, una preda che le avrebbe dato
l’illusione della giustizia e soddisfatto temporaneamente la
sua
fame incessante.
Spesso
si dice che chi per troppo tempo languisce nel silenzio, una volta
rinato nel suono non riesce più a farne a meno e finisce per
perdere
il dono dell’ascolto: ciò era accaduto a lei, che
aveva pianto
sulle ceneri del suo spirito e, ritrovatolo, non era riuscita a
controllarlo e si era smarrita nuovamente… forse
perché ancora non
aveva raggiunto il suo reale scopo; perché tutte quelle
morti non
erano state altro che un preludio e l’armatura necessaria
all’ultimo combattimento.
L’oscurità
non l’aveva solamente accompagnata nei suoi spietati lavori:
questa
le aveva spesso parlato del dio che per una seconda volta era stato
causa di una caduta, l’aveva condotta sulle sue tracce e
portata
ogni volta più vicina a lui —
seppur non abbastanza da poterlo ghermire.
A
volte era stata proprio quella figura ad accostarsi alla sua persona:
l’aveva raggiunta nei sogni, come nei lontani tempi del
prima, per
ghignarle di nuovo contro; e tuttavia, in quegli istanti lei aveva
replicato e combattuto, rischiando di perdere la vita a ogni assalto
o di prendere quella del nemico, urlando a stelle atterrite e
fuggevoli.
Ematomi
più neri della propria pelle, segni di tagli e morsi e senso
di
vuoto, come se qualcosa le fosse stato strappato da dentro,
liberazione e soddisfazione si erano prese corpo e mente alla fine di
quelle visioni, lasciandola stordita ma capace di respirare
nuovamente; tutte
quelle sensazioni erano sempre cessate durante la successiva caccia,
ma i marchi sulla pelle non erano mai svaniti né sbiaditi,
come se
avesse combattuto nella realtà e con tutte le sue
conseguenze.
Il
periodo di stasi e attesa non aveva avuto lunga vita, in
quanto in
una di quelle notti immobili, messaggere di una tempesta in
avvicinamento, si era svegliata in un bagno di sudore e tra tremiti
di tensione: lui
era giunto, finalmente deciso ad attaccarla e a porre fine alla sua
storia.
La
foresta in cui si era rifugiata aveva rifulso di luci e sussurri mano
a mano che il dio era avanzato, così non era stato difficile
trovarlo; anzi, lui stesso aveva tentato ogni cosa pur di farsi
raggiungere in fretta.
Per
la terza volta lei aveva fissato quegli occhi azzurri e il volto
affilato, leggendovi un odio di cui non era mai stata capace prima
dell’attacco alla propria famiglia; per la terza volta aveva
sentito la repulsione per quell’ombra umana ⸺
è così che
sono diventata anch’io.
E nonostante ciò, quella era stata la volta in cui
l’apparenza
aveva parzialmente
celato la
realtà: era bastato solo un istante per comprendere che ben
poca forza
era rimasta nel corpo dell’avversario, che questi si era come
prosciugato e, rispetto a lei, divenuto debole come un essere umano.
Ogni traccia di divinità era stata allontanata da lui,
ciò che era
rimasto solamente il fantasma della belva che aveva distrutto la
vecchia Pirra; le sarebbe bastato un solo gesto per annientarlo del
tutto, e proprio a questo aveva pensato immediatamente ⸺
appena prima di essere fermata dalle parole dell’altro.
«Conosco
quello sguardo», aveva mormorato la divinità,
sorridendo un’estrema
volta e come a schernire l’ostilità sorta tra
loro, «alla fine,
ti sei trasformata in qualcosa di molto simile a me.»
«Lo
so», era stata la replica, l’asprezza che non si
era lasciata
sfuggire la sensazione di sofferenza e pena del nemico e ne aveva
goduto, «lo so. Per combatterti ho dovuto abbassarmi al tuo
livello.»
Ho smarrito davvero tante
cose di me.
Un
ghigno famelico, il temporaneo ritorno del mostro. «Allora,
almeno
in questo, ho vinto io.»
«Non
sento più nulla in te», aveva risposto lei,
chiudendo la via del
pensiero ⸺
a cosa ho
ceduto realmente? ⸺
e ogni possibile apertura,
«e voglio sapere perché. Per quale motivo hai
deciso di attaccarmi
in questo stato? Non sei più il dio che ha ridotto in
ginocchio
Haesta, qui è rimasto un solo mostro.» Io,
proprio io.
«Che cosa vuoi da me?»
L’altro
era rimasto in silenzio per parecchi istanti, quindi era scivolato
sulle proprie ginocchia. «Volevo guardarti
un’ultima volta,
sacerdotessa… fissare il volto di chi mi porterà
alla morte.
Quelle
battaglie nella tua mente… erano vere, come era vero ogni
sogno
dove sono apparso. Ho giocato a lungo con te e con le tue paure,
ragazza: non c’è stato nemmeno bisogno di
pungolarti, la mia sola
apparizione ti immobilizzava e mi rendeva facile portare il caos in
te.
Poi,
ho fatto l’errore di attaccare il tuo amato padre e,
così, di
risvegliare tutta la forza del tuo animo; e ora eccoti qui a dominare
su di me, senza paura, pietà, freni, capace di strapparmi le
energie
in soli tre combattimenti e ridurmi così… che
splendida donna che
sei, una vera regina.»
Più
di un sussurro, molto meno di un grido: la vittoria le si era
avvicinata silenziosamente, e il suo sapore non le era parso
così
dolce come si era aspettata. Ma sarebbe stato davvero così?
«Alzati,
non mi ingannare. Non ho ucciso a lungo per non lottare nemmeno,
svelati», aveva replicato lei mentre gli si era avvicinata
cauta,
non ancora certa delle sensazioni provenienti dall’esterno:
come
aveva potuto rendere così un tale dio? Le sue energie erano
cresciute così tanto da permetterle di valicare i confini
della
coscienza e agire comunque sotto il suo controllo?
«Non
mi credi; e non mi stupisco, quando sono il primo a non
crederci»,
aveva concordato l’avversario, prima di socchiudere gli occhi
e
privarla della loro visione. «La senti questa eco?
È l’unica
traccia rimasta dei miei poteri. Sono tutti ritornati al cielo, alla
terra e a ogni essere che originariamente li possedeva; solo quello
che sono sempre stato, una creatura rapace e ingannatrice, rapitrice
e assassina, è
rimasto con me. Vuoi forse strapparmi anche quello? Ora non posso
opporre
resistenza.»
«Mi
hai reso uguale a te», era stata la risposta, «una
reietta,
un’esule. Se non puoi combattere in modo onorevole e
ripagarmi di
quello che tu hai sottratto a me, allora non ti toccherò: ti
prenderò prigioniero e ti guarderò mentre ti
spegni, mentre
continui a soffrire. Non ti spetta né pietà
né una dolce morte.»
«La
prima non l’ho mai chiesta… quanto alla seconda,
oh, sono certo
che sarà veloce, anche se piuttosto dolorosa.»
«Com’è
giusto.» La sua bocca aveva taciuto; quindi, dopo un lungo
istante
di silenzio, aveva coperta
l’intera
distanza posta
tra loro e aveva troneggiato sull’uomo. «Qualcosa,
però, puoi
ancora donarmelo», gli aveva sussurrato prima di
inginocchiarsi
davanti a lui.
Questi
non aveva opposto resistenza quando gli aveva sfilato il lungo
pugnale dalla manica della veste ⸺
la mia pelle
non ti è sconosciuta, vero?
⸺ e aveva afferrato una ciocca dei suoi capelli d’inchiostro.
«La
mia gente crede che nella chioma risieda tutta la potenza di un uomo,
e che chiunque riesca a tagliare quella di un nemico possieda anche
la sua vita[12];
e questa è morbida e lunga come quella di mio padre, la
voglio.
Questa
sarà la tua massima sconfitta.»
L’altro
non aveva replicato neppure allora, con
gli
occhi volti lontano dal
suo viso
l’aveva
lasciata prendersi il proprio trofeo. La sua fine non avrebbe tardato
molto, la
sua vicinanza era
stata percepita da entrambi; e anche se a lei non avrebbe portato la
soddisfazione richiesta, sapere che il mondo si sarebbe liberato di
un animo nero come
quello avrebbe
potuto lenire la sua
sete.
«Dopo
la tua morte questo mondo diverrà meno oscuro; forse
l’unica cosa
buona che verrà da te», aveva infatti sussurrato
con cattiveria,
fissando il corpo dell’avversario piegarsi su sé
stesso fino a
ricadere al suolo.
Il gorgoglio di una risata
aveva avuto il potere di ottenebrarle le sguardo; e lui, sapendolo,
non aveva esitato a continuare. «Anche
se ormai sei divenuta una dea, una
parte di te è ancora la
ragazzina innocente e ignara della realtà», aveva
replicato questi,
voltandosi a fissarla. «Un giorno capirai che gli
dèi non possono
morire; no… la loro sorte è diversa.»
Il braccio che questi le aveva
teso si era sfaldato nell’aria; lei si era ritratta per la
sorpresa, ma il sospiro dell’altro l’aveva comunque
raggiunta.
«Mi
dispiace non averti potuto dare la vendetta che agognavi, vergine del
fuoco; ma non disperare… non farlo mai»
erano state le sue
ultime parole; quindi cenere e tenebra le avevano riempito le mani e
fatto pizzicare gli occhi, il sistema
peggiore per renderla conscia della libertà.
È tutto… è tutto
finito; se n’è andato per sempre.
Tutto il corpo aveva tremato
sotto il peso di quella verità: anche se nel modo
più insperato,
lei aveva portato a termine il suo obiettivo e ucciso
il suo
incubo; lei, proprio lei, era stata causa e testimone della sua
caduta.
Che cosa le si sarebbe aperto
davanti, da quel momento in poi? In qualche modo sarebbe riuscita a
ritornare la fanciulla di prima, a purificarsi dalle azioni commesse,
a riprendere a respirare e vivere?
In fondo, se era riuscita a
portare a felice esito quella che aveva considerato l’ultima
azione
della propria esistenza, probabilmente avrebbe potuto anche ritornare
a essere completamente sé stessa:
fisicamente e mentalmente
quieta, e nella propria terra. «Ho
parlato per disperazione, quella notte d’addio;
per proteggere chi amavo. Ma ora… ora forse potrò
tentare la
strada del perdono; la mia
presenza non ha più alcun senso, qui.»
Le nere volute che le
avevano marchiato la pelle si erano lentamente sfaldate
nell’aria
poco prima di quelle parole, le gambe l’avevano sostenuta a
malapena quando si era
rialzata: il peso che il corpo aveva sostenuto fino a pochi istanti
prima aveva iniziato a sciogliersi… forse in un lento
processo di
riumanizzazione?
«Allora
devo resistere», aveva
sussurrato nel cercare il sentiero più rapido per uscire dal
cuore
delle selve e fuggire lontano dalla residua presenza del caos,
«resistere
ancora un poco.»
… Di
quante cose avrebbe
avuto ragione, che cosa avrebbe recuperato o accettato di aver
perduto, se la luce non l’avesse raggiunta?
La
luce, proprio lei: quella che aveva accompagnata il portatore di
rovina e non era svanita con il suo corpo.
Luce
che, come un’onda dorata, si era aperta una strada tra alberi
e
fiori selvatici, per rincorrerla
e
riuscire a circondarla; luce che con il suo calore l’aveva
costretta a indietreggiare verso il cuore della foresta e
l’aveva
colpita come
un’arma,
fatta cadere e stretta in un muro fremente e vivo.
Luce
erompente dal terreno, in caduta dal cielo, emanazione
dell’aria
stessa ed entità con una propria mente; luce
inafferrabile, che però era riuscita a ghermire
lei
e a farla precipitare in una spirale di guizzi e sensazioni, in un
buio improvviso,
denso come la
propria
paura.
Che
cosa sei? E che mi sta
succedendo, perché mi fai questo?
Aveva
sentito malinconia, cadendo
in
quel grembo sconosciuto: aveva
sentito le dita sfregare contro sensazione di
solitudine
e mancanza, impulso di preghiera e memoria, smarrimento. Provandole
una a una, si era trovata a desiderare di perdere coscienza e
lasciarsi portare ovunque senza più emozioni; nemmeno quello
le era
stato concesso.
La
luce era presto ritornata per svanire nuovamente, l’aveva
quasi
portata alla follia e strappato pure la voce; tutto il mondo era
divenuto confusione.
È questa l’esistenza
degli inizi di cui i libri parlano, l’alba della creazione?
Come ha
potuto il mondo abitare in questo vuoto, come siamo riusciti a
sopravvivere qui?
E
questo calore… che non
porta altro che gelo.
Aveva
sbattuto le palpebre una, due volte; la terza, la realtà
intorno era
nuovamente mutata e l’aveva costretta a coprirsi gli occhi
per i
troppi colori
con cui era apparsa.
Il
corpo si era trovato sbilanciato quando il vento l’aveva
aggredito;
una volta caduto
al suolo,
i polpastrelli avevano sfiorato morbida erba e
l’olfatto
si era accorto di un lieve profumo di pioggia e pino.
Lentamente,
le mani avevano lasciato lo sguardo libero di vagare, e questo aveva
incontrato una verde e ampia valle, fiori di mille specie a popolarla
e il cielo viola di una quieta sera a custodirla. Sorpresa, dopo
poco lei
si era alzata per meglio ammirare lo sconosciuto paesaggio e avanzare
verso il corpo sinuoso del fiume situato alla sua destra, sulle cui
acque aveva danzato l’ultima stilla di tramonto.
Lo
specchio delle onde aveva riflesso il suo volto ansioso e chiaro:
nessuna traccia nera a intridere la pelle, non una sfumatura cremisi
negli occhi ritornati smeraldini, i capelli nuovamente
dorati e in riccioli spettinati… il volto di Pirra, una
semplice e
giovane donna. «Perché?»,
aveva
chiesto ai guizzi affacciatesi oltre il pelo dell’acqua, come
in un saluto,
«solamente
perché.»
«Perché
è questo ciò
che ci accade quando, come dicono gli umani,
“moriamo”.»
Quella
voce ormai nota l’aveva fatta voltare
di scatto e
sobbalzare fin sulla riva estrema del fiume; ma nel volto del dio non
aveva letto alcuna traccia di malizia né desiderio del male,
la mano
che aveva afferrato la sua e impedito alle gambe di cedere non aveva
imposto alcuna maledizione.
«Che
cosa vuol dire tutto questo? Non riesco a capire!»
La
tensione si era espansa come una nuvola di tempesta e aveva incrinato
la serenità del luogo; ma l’altro non aveva mutato
espressione, né
mostrato il suo ghigno. «Non
avresti potuto capirlo, eri una dea appena nata… sei nuova a
tutto
questo.»
«“Nuova
a tutto questo”? Non comprendo nessuna delle tue parole, come
faccio a trovarmi qui e perché, il motivo per cui mi hai
seguito, e…
che cosa sta succedendo, per il glorioso nome dei numi?»
Un’esitazione,
le parole che si fanno più pesanti e concrete. «Morire.
Io…
io sono morta?»
«Cose
simili succedono solo quando uno di noi lascia il mondo: precipita in
un buio assoluto, primordiale, e quando si risveglia è in un
luogo a
lui sconosciuto, pronto per ricominciare a vivere. Non conosco chi
decida tale sorte, se siano le forze naturali che andremo a governare
a chiamarci oppure avvenga ogni cosa in modo casuale, ma credimi, non
ti sto mentendo.»
Una
pausa, seguita da un sorriso lievemente stanco. «Su
questo non riuscirei mai a mentire.»
Lei
non aveva replicato subito, concentrandosi maggiormente sul sentore
di tristezza proveniente dall’altro; la crudeltà
che l’aveva
contrassegnato era sembrata così lontana da quella figura
assorta
che non aveva dubitato delle sue parole, e a sua volta la propria
mente si era riempita di pensieri. «Quando
sei morto tu, me ne sono andata anche io: terminato il mio compito,
il corpo non ha più resistito… è
possibile.»
Per
qualche oscuro motivo non ne era stata sorpresa, come se una parte di
lei lo avesse sempre saputo; ma ciò le avrebbe permesso
comunque di
tornare dalla propria gente, dalla
famiglia? «Non
posso rimanere qui»,
aveva
infatti
esordito, «devo
trovare un modo per ritornare alla Città, dal mio popolo. Ho
bisogno
di loro!»
«Tu
sì, per
ora;
loro non
più.»
Davanti
alla sua fronte aggrottata, il portatore di caos aveva scosso la
testa. «Nessuno
di noi è mai ritornato al luogo in cui è nato o
dove ha vissuto
prima di una caduta: si muore sempre quando qualcuno di più
forte
prende il nostro posto e ci strappa i poteri, il ruolo. Tu
hai fatto questo con il culto di Baccus, quando hai ucciso i suoi
fedeli, con me; un’entità maggiore deve
averlo
fatto con te. Quando
questo accade, lasciamo una realtà
per accedere in un’altra: scompariamo
dalla memoria di un primo popolo per entrare nella storia di un
secondo, di un terzo, un quarto… e così
accadrà per sempre, fino
a quando non morirà anche il mondo che serviamo.»
«Tutti
ci dimenticano… è
questo che stai dicendo?»
«Sì;
ma neppure
noi stessi conserviamo la
cognizione di chi abbandoniamo:
la gente che incontreremo ci darà un posto e un ruolo, e in
virtù
di quello formeremo nuovi
ricordi.»
Un
singulto, la paura improvvisa della perdita; nella mente immagini
ancora intatte, ma già minacciate da una lieve nebbia in
avvicinamento.
Perdere
tutto… anche la
sensazione di una famiglia.
Perdere
anche più del
necessario.
«Quanti
altri popoli piegherai con la tua sete di sangue?»,
era
esplosa infine, «…
quante
altre volte ti dovrò dare la caccia?»
Lo
sguardo celeste dell’altro aveva ripreso in un istante una
parte
delle ombre abituali. «I
popoli da distruggere e dominare sono infiniti»,
aveva
replicato, «e
quanto a noi due… vedremo il corso degli eventi e le sorti
degli
uomini che cosa ci porteranno. Ricordati che sei una portatrice di
morte e notte come me; e
d’altra parte, non sei poi così diversa da ogni
altra divinità o
forza della natura… tutti, prima o poi, diveniamo il
cambiamento e
la fine di qualcuno.»
A
quelle parole si era voltata, divenuta incapace di sorreggere quegli
occhi; il cenno di saluto ⸺
«Non
lasciar morire quel fuoco: se sarò fortunato
potrò combatterlo di
nuovo»
⸺
e i passi che si erano allontanati erano stati l’ultimo
rumore
prima del silenzio assoluto della notte incipiente, e
nell’oscurità
lei si era adagiata come una fiera.
Non
aveva avuto
alcun
luogo dove andare, quindi sarebbe potuta giungere ovunque; senza
la conoscenza di
nessuno, il primo volto, di
qualunque uomo fosse stato,
avrebbe potuto accoglierla.
Sarebbe
stata sola, di tutti e nessuno; di sé stessa, mai.
Era
questo che aveva voluto con tanto ardore? Le lacrime che le avevano
segnato anche l’anima, quelle le aveva previste, le aveva
richieste?
Chiunque tu sia, ascoltami.
Perdonami.
Guariscimi.
Forse al di là delle montagne
innanzi a lei, corona di quella valle, ci sarebbe stato un villaggio,
una città o anche solo una casa; una mano a cui chiedere, a
cui
parlare, da
lasciare o
trattenere.
Chiunque tu sia, ascoltami.
Perdonami.
Guariscimi.
Non sarebbe potuta sfuggire a
nulla: non era mai scappata… non si era mai salvata.
Chiunque tu sia, ascoltami.
Perdonami.
Guariscimi.
… Ancora
oggi, dopo tutto
questo tempo e questi ricordi, lo
chiedo ancora:
ascoltami, perdonami, guariscimi.
Ascoltami,
perdonami, guariscimi; e
non dimenticarmi.
NOTE
[1]
Si riprende qui la figura di Vesta. Nell’antica Roma, questo
era il
nome della dea del focolare.
Le
sacerdotesse che si occupavano di tenere sempre acceso il suo fuoco
sacro, protezione della città, erano le ragazze scelte dalle
migliori famiglie della nobiltà patrizia, e tra gli obblighi
a cui
dovevano sottostare c’era quello di assolutà
castità, pena la
morte.
Le
giovani erano sei e vivevano nel complesso templare della dea, e il
servizio durava trent’anni: dai dieci (l’eta in cui
venivano
scelte) fino ai venti erano novizie, dai venti ai trenta prestavano
servizio nel tempio, dai trenta ai quaranta istruivano le nuove
arrivate; dai quaranta in poi, erano libere di gestire la propria
vita secondo i desideri di ognuna.
[2] Ho fuso i nomi di Hestia (dea greca del focolare domestico) e Vesta in uno, riprendendo però anche dalla parola latina che designa il calore: aestus (pensiamo al termine estate).
[3] Il termine “Città” con la maiuscola richiama l’Urbe per eccellenza, Roma.
[4] In molte culture antiche e moderne, papa e mama sono i termini affettivi per il padre e la madre.
[5] Su alcuni dei sette re di Roma circolano molte leggende con protagonista il fuoco: un esempio è quello di Servio Tullio, che in un’antica versione della sua nascita si dice generato da una schiava e da una fiamma sfuggita al focolare regio.
[6] Nella civiltà latina ⸺ e non solo ⸺, la radura boschiva (lucus, termine legato a lux, “luce”) era sempre dedicata a una divinità.
[7] Termine affettivo irlandese, che si traduce con “piccolo fiore / fiorellino”.
[8] Di solito erano i ninfei, le enormi vasche dove appunto venivano tenuti i fiori di ninfea (elemento tipico delle domus patrizie), a essere impreziositi con fini mosaici. Nel testo vengono definiti informi perché visti attraverso l’acqua smossa dal getto della fontana.
[9] Baccus è il corrispettivo latino del greco Dioniso, antichissimo dio dell’ebrezza. I suoi culti orgiastici, dove perdita di controllo, possessione o follia divina e spregio dei limiti — anche morali e della lucidità — erano la prassi, non furono mai visti positivamente dalle istituzioni romane, che cercarono sempre di regolarli e controllarli.
[10] Il termine monstrum ha più di un’accezione in latino: sia quella negativa a noi comune, sia di “meraviglia”, “portento”, di fatto nuovo e inusuale. Qui vengono riprese entrambe.
[11] A Roma e in Grecia, “lamia” era chiamato un mostro femminile dalle fattezze umane e dalla capacità di privare uomini e bambini delle forze vitali e del sangue. Ha molti tratti in comune con i vampiri.
[12] Concezione presente in tante culture (un riferimento può essere la storia di Sansone e Dalila).
♦ Riguardo a particolari nomi:
Pirra: Riprende il termine greco che designa il fuoco, πῦρ. Secondo il mito, in virtù della propria chioma fulva, Pirra fu il nome che Achille assunse quando Teti lo fece confondere con le figlie di re Licomede.