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Autore: Itzi    02/09/2018    16 recensioni
[STORIA INTERATTIVA -ISCRIZIONI CHIUSE]
Il ragazzo si appoggiò alla vetrina, studiandosi le unghie corte con finta noncuranza. «Perché, abbiamo cose di cui preoccuparci?»
            «I nostri cari vecinos avranno di nuovo fatto casino…Ottanta anni fa se ne sono usciti con quella cosa degli imperatori; abbiamo avuto le comunicazioni bloccate per mesi, un incubo!» Gesticolò con una mano, ritirando i soldi che gli aveva poggiato vicino alla cassa «Convivenza civile un cazzo. Entro la fine di questo secolo finirò per prendere qualcuno a calci in culo, me lo sento!»
           «Uuh, quindi… Siamo di fronte a uno scontro tra Pantheon ? Ma davvero?»
*****
«Non è stata colpa mia.» Da come Olivia lo guardò, dedusse che non era per nulla credibile.
            «Allora perché sei scappato?»
         «Perché tutti saltano alle conclusioni! Senti, ieri sera, è successo qualcosa.» Si avvicinò leggermente allo schermo, con fare furtivo, quasi avesse paura di essere ascoltato. «Qualcosa che la Casa non può più ignorare.»
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Yuri | Personaggi: Ecate, Gli Dèi, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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II
THE HIGH PRIESTESS

 
 
Per andare a scuola, Vittoria era costretta a prendere l’autobus ogni mattina, e giocare d’azzardo con Madre Natura. La fattoria della sua famiglia si trovava in uno dei tanti piccoli villaggi sperduti in mezzo al verde, dove l’odore della foresta Pluviale impregnava l’aria, e la folta vegetazione si mischiava con le stradine di fango e terra battuta.
            Ci voleva circa un’ora di viaggio per arrivare a Campeche, e Vittoria aveva imparato, nel corso degli anni, a usare quel tempo per rilassarsi, recuperare un po’ di sonno, finire i compiti di matematica. Non c’erano molti altri ragazzi a condividere il viaggio con lei, perciò si limitava a sedersi al suo solito posto, rannicchiandosi sul sedile, e starsene per i fatti suoi.
            Quella mattina non fu diversa dalle altre. Pioveva – cosa abbastanza normale, considerando che ormai erano quasi in pieno inverno – e l’autobus continuava ad arrancare lungo la strada, facendole venire la nausea. Si strinse nel suo gaban mentre puntava i piedi sullo schienale del sedile davanti:  tìa Ines aveva insistito fino allo sfinimento affinché lo indossasse; e lei non se l’era sentita di farle notare che, con addosso due canotte e la maglia termica a maniche lunghe, le sarebbe stato comunque impossibile morire di freddo.
            Non era esattamente il genere di indumento che era solita portare, ma l’intreccio le piaceva. Sottili strisce di lana colorata correvano orizzontali su uno sfondo nero, sfumando dal bordeaux scuro al giallo, dal bianco al blu. Sul colletto, tre righe un po’ più spesse richiamavano i colori della sua amata bandiera.
            In effetti, la lana sembrava un rimedio più efficace per restare al caldo, rispetto al polipropilene dei suoi pantaloni da corsa. O, forse, in realtà era solo una sua suggestione; come se il ricordo dei suoi tre piccoli cuginetti intenti a scegliere e separare tra loro i fili da tessere potesse rendere in qualche modo il tessuto ancora più caldo e confortevole.
            Guardò fuori dal finestrino, lasciando scorrere i pensieri allo stesso ritmo della pioggia. Era rilassante non soffermarsi troppo a lungo su quello che la memoria le suggeriva, lo trovava quasi liberatorio.  Ben presto la sua attenzione fu tutta per i campi di mais ai lati della strada, e il cielo plumbeo che si chiudeva sopra di loro.
            L’autobus cigolò in maniera poco rassicurante, le ruote si infossarono in una grande buca piena di acqua e fango, e Vittoria si trovò sbalzata in avanti bruscamente. Aveva fatto scivolare i piedi in basso, ma il colpo le aveva reso comunque le caviglie doloranti.
            «¿Qué demonios está pasando
            Si alzò dal suo posto, dirigendosi verso l’autista che sembrava sull’orlo di una crisi di nervi.
            «Siamo bloccati dall’acqua, non possiamo proseguire. La strada è tutta allagata.»
            «Cosa? Sul serio?»
            Prese un bel respiro per non iniziare a urlare dalla frustrazione. Era la terza volta che succedeva quella settimana, e in realtà non era nulla di così sconvolgente. La stagione delle piogge portava sempre qualche disagio in realtà piccole come la loro, tra strade chiuse o corrente assente.
            «Devo assolutamente andare a scuola, davvero non si può proseguire? Neanche a piedi?»
             L’autista la guardò perplesso, non capendo l’urgenza nella sua voce.
            «Si, ci puoi andare a piedi… Ma sotto questa pioggia? Non so quanto tempo ti ci vorrà, non ne vale la pena.»
            La ragazza alzò gli occhi al cielo, tirando fuori dalla sua sacca di tela una fascia per capelli : ringraziò gli dei di non avere l’ingombro dello zaino almeno per quel giorno, altrimenti sarebbe stato impossibile correre con quello addosso.
            «Ci sono le finali per le gare scolastiche di atletica, non posso mancare!» Spiegò all’uomo, mentre si tirava indietro i lunghi capelli marroni e si preparava a buttarsi in mezzo al diluvio.
            Poteva farcela benissimo. Mancava meno di un chilometro, e se stringeva gli occhi poteva vedere il profilo della città in mezzo a tutta quell’acqua. Più avanti, sarebbe cominciato anche l’asfalto, e il palazzetto dello sport era solo a un centinaio di metri dalla stazione.
            Prese un bel respirò, assaporando gli ultimi istanti di calore, e poi si precipitò giù dall’autobus.
            Fu investita, completamente, dall’acqua. I piedi affondarono nel fango e dopo due passi, Vittoria li sentì totalmente fradici. Corse fiancheggiando la strada quando poteva, facendo attenzione a non scivolare sull’erba. La sacca con le scarpette chiodate le rimbalzava sulla schiena, al ritmo della sua andatura.
            Doveva assolutamente scambiare due parole con Miguel. Fargli capire che il mondo era andato avanti negli ultimi duemila e passa anni; che gli uomini non avevano più bisogno di così tanta acqua. Specialmente la mattina. Specialmente nei giorni in cui c’era la gara che avrebbe segnato la sua carriera sportiva da liceale.
            Svoltò e, una volta finita la curva, si ritrovò sull’ultimo tratto che l’avrebbe portata in città, completamente asfaltato. Erano almeno dieci minuti che continuava a macinare metri su metri, l’acqua adesso gli arrivava ad una spanna sopra le caviglie, rendendo la sua corsa faticosa e potenzialmente pericolosa.
            In alternativa, avrebbe potuto affogare il ragazzo, pensò. Sarebbe andata nella piscina in cui lavorava, e l’avrebbe spinto sul fondo, con tutta la rabbia che stava provando in quel momento. E poco importava che lui fosse il divino Tlaloc, il dio della pioggia: con la bocca tappata, pure lui avrebbe fatto fatica a respirare acqua clorata.
            Arrivò a Campeche un quarto d’ora più tardi, infreddolita, completamente fradicia e senza più un briciolo di energia in corpo. Arrancò sotto le pensiline di autobus e tram, chiedendosi se effettivamente avesse ancora senso presentarsi: anche ammesso che non avrebbero fatto storie sul suo ritardo, non c’erano possibilità che riuscisse a classificarsi tra i primi dieci dello Stato e accedere alla finale.
            Aveva una gran voglia di piangere, tanto era arrabbiata, ma si ricompose in fretta. Ne aveva abbastanza di acqua e liquidi in generale, perciò si fece forza e marciò verso il palazzetto, una costruzione curva dai muri color pastello, come la maggioranza degli edifici in quella città. I colori sembravano un po’ spenti per via del tempo, ma erano ugualmente belli, insieme ai balconi ricchi di vasi e fiori sgargianti.
            Le strade erano deserte, con poche macchine temerarie ad affrontare il maltempo. Il temporale inghiottiva qualsiasi suono, e la città sembrava quasi soffocare sotto i suoi tuoni.
            Imboccò una stradina dai marciapiedi lastricati in marmo, anche se non era la più veloce. Il palazzetto si intravedeva tra i tetti piatti delle case, e Vittoria sperava di ripararsi almeno un po’ passando sotto gli ampi balconi, finendo di strizzare così tanto gli occhi per cercare di mettere a fuoco.
            Riuscì ad arrivare fino a metà, poi si fermò, girando perplessa la testa alla ricerca di un rumore che non era sicura di aver sentito. Sbatté le palpebre.
            Dall’altra parte della strada, in piedi davanti a un condominio azzurro, c’era una mummia.
            Le bende le si erano attaccate al corpo e minacciavano di sciogliersi da un momento all’altro, la pelle che si intravedeva era scura, rugosa e sottilissima. Le orbite erano due incavi scuri, la mascella penzolava molle dal cranio, senza più tendini e muscoli a tenerla in posizione.
            Rimase a guardarla allibita. Pensò di essere impazzita.
            La mummia iniziò a fare qualche passo sbilenco verso di lei, avendo serie difficoltà a rimanere in piedi. Vittoria la guardò, studiandola con gli occhi, completamente impreparata alla situazione. Non sapeva come comportarsi al riguardo; stava ancora metabolizzando il fatto che ci fosse una mummia che vagava sotto la pioggia, neanche si trovasse in uno di quei film americani da quattro soldi.
            La creatura allungò un braccio e le strinse una mano ustionata, facendo scricchiolare le ossa fragili delle sue articolazioni.
            Vittoria urlò e con uno strattone si ritrasse, strappandole via il braccio con una facilità disarmante. La mano scheletrica rimase ancorata al suo polso pochi istanti, prima di sfumare in un sottile strato di sabbia.
            Indietreggiò veloce, cercando di mettere più distanza possibile tra loro due, ma la mummia la seguì con lo sguardo, avanzando più rapidamente verso di lei, la bocca muta spalancata in un grido. Vittoria si sfilò la sacca dalle spalle, frugandoci all’interno ed estraendone il suo coltello militare, preparandosi ad attaccare.
            La pioggia si era fatta più fitta e lei non vedeva davvero niente, i tuoni peggioravano solo il suo mal di testa rendendola incapace di concentrarsi più del dovuto.
            Sferrò un paio di colpi alla cieca, colpendo le bende del torso e dello stomaco; la mummia l’afferrò per il colletto del gaban facendola sbilanciare in avanti, e lei la decapitò goffamente, con un colpo leggermente inclinato della lama. Le ossa si sbriciolarono come cenere, e al loro posto rimase solo un mucchietto di sabbia bagnata.
            Vittoria abbassò lo sguardo su quella macchia ai suoi piedi.
            Le mani le tremavano così violentemente, che il coltello le cadde, rimbalzando sulle pietre del marciapiede. Sentiva ancora la stretta di quelle dita sulla sua pelle, incredibilmente forte nonostante le apparenze suggerissero il contrario. Faceva fatica a respirare ed era abbastanza sicura le stesse per venire un attacco di panico.
            «…Vete de aquí…» Mormorò, chinandosi a raccogliere le sue cose. Parlare a voce alta l’aiutava a distarsi, anche se non si sentiva più il fiato in gola. «¡Vete! ¡Vete!»
            Non osò guardarsi indietro mentre abbandonava di corsa la via.
 
 
 
Emanuel fece scorrere lo sguardo sui suoi libri di scienze, ammucchiati disordinatamente sul pavimento. Quello di citologia non era sopravvissuto alla caduta, spiaccicandosi sul terreno aperto a metà.
            «Se volevi spazio potevi semplicemente spostarli di fianco, sai?»
            «Non li ho buttati io. Sono caduti.»
            Il biondo alzò un sopracciglio per niente convinto.
            Ivory Harper, caschetto platino e vestiti da punk, corso di studi non ben identificato, sedeva come se niente fosse al suo posto, controllando svogliatamente la home di Instagram.
            «Che cosa vuoi? Non dovresti avere lezione, ora?» Bevve un sorso di caffè dal bicchierino che teneva tra le mani. Era nel bel mezzo della mattinata peggiore di tutto il suo orario scolastico, che prevedeva ben quattro ore filate di chimica inorganica. Aveva smesso di prendere appunti dopo la prima, confidando nelle grandi capacità organizzative di Lucio, e adesso aspettava solamente il pranzo.
            «Ho buca.» biascicò la bionda, aggrottando le sopracciglia scure. Si stiracchiò e poi allungò le gambe, incrociando i piedi sulla sedia davanti a lei. «Sto cercando il tuo dio.»
            «Lucio non è il “mio” dio.»
            «Si, vabbè… Protector, amigo, amante… Quello che è, insomma.» Disse, facendo un cenno annoiato con la mano. Emanuel tossì, cercando di evitare di soffocare col caffè.
            «¡No somos amantes!» Dal momento che stava arrossendo, capì lui stesso di non essere molto credibile. La ragazza si limitò a sghignazzare, mettendo via il telefono.
            «Sai dov’è? Gli devo parlare.»
            «Se ne è andato all’inizio della pausa.» Lucio aveva la divina abilità di scomparire quando arrivava il momento delle spiegazioni, e la cosa era così irritante che a volte avrebbe voluto dargli un pugno. Meditò se buttargli i libri per terra come Ivory aveva fatto con i suoi, per ripicca. Magari avrebbe attirato la sua attenzione.
            «Non c’è problema, posso aspettare.»
            «Aspettare cosa?»
            Lucio superò la soglia dell’aula, iniziando a salire gli scalini per arrivare alla loro bancata. Perforò con lo sguardo Ivory, che era ancora stravaccata sulle sedie, avvicinandosi con passo felino.  Aveva la giacca a vento bagnata, segno che aveva avuto il coraggio di correre i cinque metri che separavano il loro edificio dalla segreteria per consegnare le loro iscrizioni agli esami. Eroe.
            «Togli i piedi dalla mia sedia, ragazzina, prima che decida di mandarti nel Mictlan.»
            «Che paura!» Commentò la bionda, ma si premurò all’istante di obbedire. Nonostante apparisse come un normale ragazzo con i capelli un po’ umidi e le Converse consumate, persino lei riusciva a percepire la minaccia nella sua voce. E morire, quella mattina, non era assolutamente nei suoi piani.
            «Che cosa ci fai qui?»
            «Nulla di che… Stanno succedendo delle cose un po’ strane, quindi ho pensato che magari avresti potuto darmi qualche spiegazione.»
            Lucio la guardò, soppesando le sue parole, pensieroso. Poi, come se nulla fosse, si voltò verso Emanuel.
            «Perché i tuoi libri sono a terra?»
            «Ah, quello? Sono caduti.»
            «E poi ti lamenti che sono tutti rovinati!» Lucio rise rubandogli il bicchiere di plastica e finendo il caffè per lui.
            «Io non mi lamento.» Sottolineò l’altro, spingendosi gli occhiali sul naso «Però hai visto come cade a pezzi il mio libro di veterinaria? Ed era solo di seconda mano!»
            Ivory tossì seccata. «Quando l’avrete finita di comportarvi come una vecchia coppietta sposata, magari potreste anche prestarmi attenzione.»
Si morse le labbra, evitando di aggiungere altro: era stata lei, in fondo, a cercarsela, e se voleva ottenere anche uno straccio di risposta avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco.
            Anche se la tentazione di dare un calcio al moro era fortissima.
            «Non ho nulla da dirti, ragazzina.» Lucio le rise in faccia, sprezzante, spostandosi i capelli dal viso. Erano così lunghi che gli sfioravano i fianchi.
            «Invece sì.» Insistette. «Avevo un seminario sulla cultura egizia stamattina, programmato da due settimane, con conferenza al Museo Nazionale. E oggi, senza preavviso, ci dicono che l’hanno annullato perché alcuni reperti sono stati rubati.»
            «Quando si dice il karma…»
            «Non scherzare, non sono stupida.» Ivory assottigliò gli occhi grigi, facendo indurire lo sguardo con freddezza. Le occhiaie sembravano quasi più scure sul suo incarnato cadaverico. «Un furto che ha colpito esclusivamente la mostra egizia. Certo. E tutte le centinaia di reperti sulla nostra cultura, sul nostro pantheon, nemmeno sfiorati. Davvero credibile.»
            «A volte anche le cose più incredibili possono succedere.» La liquidò il ragazzo, alzando un sopracciglio e intimandole velatamente di andarsene. Ivory schioccò la lingua, decisa più che mai a capirci almeno qualcosa.
            «Quindi sta succedendo davvero qualcosa! Quanto è grave la situazione? Chi è coinvolto?»
            Emanuel si intromise nella discussione, diventando all’istante un alleato perfetto. Ad Ivory non sfuggì lo scatto della mascella di Lucio, che si serrò appena quando l’altro lo scosse leggermente per una spalla, invadendo il suo spazio personale. Anche così, comunque, il dio sembrava più scettico che a disagio.
            «Nessuno di noi sa ancora niente di preciso. Siamo divinità, è vero, ma mica sempre onniscienti.» Fu l’unico momento in cui piegò la testa verso di lei. «Sembra esserci stato qualche problema con la magia. I maghi egiziani hanno avuto difficoltà con i portali per qualche ora, ma non abbiamo idea se questo sia un problema esclusivamente loro, o se possa in qualche modo riguardare anche noi. Mordecai ci ha chiesto di non farvene parola fino a che non fossimo stati sicuri di qualcosa.»
            «Come fa a esserci un problema con la magia? Cioè, è assurdo…»
            «Ah, chica, eppure è così. Spera che sia una cosa passeggera, perché un mondo senza magia – nessuna forma di magia – sarebbe il delirio. Collasserebbe su se stesso. Addio umanità e addio divinità.»
            Probabilmente, Lucio riusciva a parlare così tranquillamente di un’ipotetica apocalisse perché era stato testimone e partecipe di altre quattro prima di allora. Una in più o una in meno non faceva differenza.
            «Mi stai facendo salire il panico. Così, giusto per avvertirti.» Gli fece presente Emanuel, e il moro rise, dandogli una pacca sul braccio.
            «Non ci pensare adesso, è troppo presto. E poi, figurati se Mordecai ci permette di far finire il mondo un’altra volta. Si è rotto le palle di dover sempre raccogliere i cocci e ricreare l’umanità da zero.»
            «Oh, certo, questo si che è confortante!» Replicò il biondo, imbronciandosi.
            «Spero sarai soddisfatta ora.» Ivory batté gli occhi rendendosi conto di essere stata presa in causa. Lucio la stava fissando.
            «Non erano esattamente le cose che volevo sentirmi dire, ma si. Grazie mille! Ora credo proprio che me ne andrò… Che cosa avete adesso?»
            «Biochimica.»
            «Che schifo! Adiós!»
            Si alzò in fretta sistemandosi il giacchetto bianco, non intenzionata a passare un altro minuto in quell’aula.
            Quello che aveva scoperto non la entusiasmava per niente, eppure era sicura ci fosse ancora qualcosa. Di solito non si sarebbe mai incaponita, avrebbe lasciato correre e sarebbe tornata alla sua routine quotidiana. Il punto era che adesso, forse, una routine quotidiana da rispettare non ce l’avrebbe più avuta.  Ed era intenzionata a scoprire chi, o che cosa, aveva intenzione di rovinargliela.
 
 
 
Il primo sintomo che qualcosa non andava fu il Museo Nazionale di Antropologia chiuso.
            Eve aveva guardato sconcertata il giornale, quella mattina, leggendo il titolo che occupava metà della copertina.
 
FURTO AL MUSEO NAZIONALE DI ANTROPOLOGIA
SCOMPARSI REPERTI PER OLTRE MEZZO MILIONE DI DOLLARI
 
            I vari articoli non facevano che ripetere la stessa storia, tessendo congetture e ricostruzioni che le avevano fatto storcere il naso. Era molto scettica, e non pensava che i giornalisti fossero stati completamente sinceri sulle dinamiche. La cosa che l’aveva lasciata perplessa, comunque, era il fatto che solo la mostra egizia fosse stata depredata e devastata: in confronto ai quattro piani e un cortile sterminato, pieno di reperti delle antiche civiltà Mesoamericane, quelle quattro mummie rattrappite circondate da statue di terracotta, vasi e papiri non erano poi molto. Mezzo milione non era nulla.
            Scorrendo tra le righe, poi, si era imbattuta in una dichiarazione del direttore del museo.
 
“Siamo sinceramente scioccati dall’accaduto, nessuno pensava sarebbe mai potuto succedere. Avevamo preso ogni precauzione possibile, ogni sicurezza di cui potevamo disporre è stata impiegata. Purtroppo si è rivelato tutto inutile, ma stiamo collaborando appieno con la polizia, in modo che si riesca a risolvere la questione al più presto.  L’unico rammarico, è quello di dover chiudere al pubblico una così bella mostra. Dubito avremmo di nuovo questo privilegio, ma ringraziamo il Cairo per averci dato questa possibilità.”
 
            A quel punto aveva deciso di boicottare la sua mattinata di lezione, era uscita dal bar e si era diretta verso il museo, determinata a parlare con Felipe.
            La struttura si trovava proprio al centro della città, nel bosco di Chapultepec. Per arrivarci fu costretta a prendere l’autobus, per poi camminare all’interno del parco, fino all’ingresso.
            Sembrava di essere tornati indietro nel tempo di duemila anni: la vegetazione cresceva spontanea, e un sentiero ben curato si snodava attraverso il bosco, aggirando parco giochi, teatri e addirittura uno zoo. Ruderi di quelli che un tempo erano stati edifici aztechi spuntavano ai bordi della strada, e il castello di Chapultepec si intravedeva sulla cima dell’omonimo monte.
            Quel posto era l’orgoglio del Messico, e il museo il suo più importante trofeo: Eve sapeva quanto impegno e dedizione Felipe avesse messo nella sua gestione, e dopo quanto aveva letto, un po’ si era preoccupata. Aveva passato la grande statua di Tlaloc e si era diretta verso il portico e le porte a vetri della struttura.
            Non sembrava per nulla il luogo di un furto milionario. Non c’erano volanti, né poliziotti, né giornalisti. Una calma pacifica regnava indisturbata, e gli unici rumori che aveva sentito erano quelli delle rane.
            Si era avvicina, ma solo quando si era ritrovata davanti alle porte, si era resa conto che il posto non sembrava poi così deserto: un paio di ragazzi l’avevano vista ed erano corsi dentro, sgambettando agitati. Portavano tuniche grezze e bianche, che cozzavano con le Nike colorate che avevano ai piedi. Gli occhi erano contornati da trucco scuro.
            Aveva deciso di lasciar perdere quella bizzarria almeno per il momento, ed era entrata. L’atrio era enorme, si snodava in tutte le direzioni riprendendo la pavimentazione esterna. Alte colonne di cemento reggevano il soffitto, le pareti erano costellate di enormi vetrate che davano sul giardino, e la biglietteria seguiva il profilo curvo della sala.  Quella non era certo la prima volta che ci andava, eppure Eve non aveva potuto fare a meno di restarne affascinata. L’eleganza degli interni rifletteva quella del proprietario, in  fin dei conti.
            La mostra egizia si trovava al piano terra, in una saletta appartata che sarebbe stato impossibile notare senza le giuste indicazioni. Era riuscita a fare solo un paio di passi però, prima di trovarsi placcata dai ragazzi di prima. Il gruppetto, che contava un elemento in più che apriva la fila, le era venuto incontro con una violenza malcelata nei passi e nelle espressioni.
            «Il museo è chiuso al pubblico al momento.»
            Il ragazzo l’aveva guardava assottigliando i piccoli occhi scuri, che quasi sembravano sparire dietro le lenti degli occhiali sottili. Era alto, almeno due spanne più di lei, con una zazzera di capelli scuri e la pelle abbronzata.
            «Lo so. Cercavo il direttore.»
            Il ragazzo aveva stretto leggermente le labbra, e i due dietro di lui si erano agitati sul posto, non sapendo cosa fare.
            «Il signor Berna è occupato al momento, sta aiutando con i rilievi.»
            «Posso aspettare.» Aveva alzato lo sguardo e si erano fissati con astio per secondi interminabili. Quel tipo non l’aveva per nulla convinta, a partire dalla tunica che anche lui indossava, abbinata a un paio di orrende infradito marroni, che lei avrebbe bruciato senza pensarci due volte.
            «Temo che ci vorrà molto tempo, forse ore.»
            «Non ho fretta.»
            Il moro si era trattenuto dall’urlarle in faccia, ma il loro battibecco aveva richiamato l’attenzione di un nutrito gruppetto di persone, che si erano sporte dall’ingresso della sala curiose. Avevano tutte lo stesso abbigliamento, e la cosa l’aveva turbata.
            «Non può restare qui. Se ne vada.»
             Ed Eve se ne era andata, furiosa, ma non prima di averlo spinto con una certa cattiveria. Aveva sprecato un’intera mattinata solo per essere cacciata da un luogo che conosceva come le sue tasche.
            Arrivata a casa, la prima cosa che aveva fatto era stata maledire quel damerino con un pessimo abbigliamento, poi aveva messo a bollire il caffè e si era accasciata stremata sul tavolo della cucina. Alla fine non era neanche riuscita a vederlo, Felipe.
            «Che schifo. E devo anche studiare.»
            La moka fischiò richiamandola, e la ragazza si trascinò ai fornelli, spense il fuoco e cominciò a versare il liquido in una sequenza di gesti meccanici.
            «Ah, mi hai preparato il caffè, che dolce! Ne avevo proprio bisogno.»
            L’uomo che aveva parlato trascinò una delle sedie, sistemandosi e puntando un gomito sulla tovaglia di plastica colorata. Eve si voltò, e per poco non si scottò dalla sorpresa.
            «Felipe!» Esclamò. Era comparso dal nulla, e nonostante non fosse una cosa così stupefacente per un dio, lo aveva visto farlo davvero poche volte per abituarcisi. «È tutta la mattina che ti cerco!»
            «Lo so.» Le sorrise divertito, incrociando le gambe. «Hai fatto un bel trambusto in atrio, ma sei scappata prima che potessi anche solo affacciarmi alla porta.»
            «Lascia perdere, piuttosto si può sapere che cosa ci facevano quei tizi lì?»
            Gli porse la tazzina e si sedette accanto a lui, cercando di nascondere la sua impazienza. Il dio sorseggiò con calma la bevanda, tastando sulla lingua il gusto amaro del caffè. Non aveva toccato lo zucchero, come se lo considerasse qualcosa di sacrilego e totalmente inutile.
            «Sono venuti in rappresentanza dal Cairo. Hanno dato un’occhiata ai danni, fatto l’inventario dei reperti…»
            Eve socchiuse gli occhi. «Sembri esausto.»
            «Odio le pratiche burocratiche: ho dovuto ripetere le stesse cose cinque volte, in tre lingue diverse.» Si massaggiò una tempia con le dita, fissando assorto la sua tazzina. Aveva i capelli stretti in treccine sottilissime, ormate da perline, piccole pietre e piume rosse all’estremità. I pantaloncini color cachi gli sfioravano le ginocchia, lasciando scoperta una protesi in carbonio blu elettrico.
            «C’è stato davvero un furto?»
            «Mia cara, metà mostra è davvero sparita…» Le rivolse un sorrisetto, confermando la piega che le sue intuizioni stavano prendendo. «In che modo, non lo so. Ma è inutile preoccuparsi tanto al momento.»
            Ci fu un attimo di silenzio, in cui entrambi si concentrarono a finire di bere. Felipe sospirò e poggiò con cura la tazzina sul tavolo, passando le dita sul bordo.
            «Ho incontrato un mio vecchio amico, sai? Erano secoli che non ci vedevamo.»
            «Letteralmente o in senso figurato?»
            L’uomo rise «Ti sembro uno che parla per metafore?»
            «No, quello è Mordecai.» Risero e il moro sembrò apprezzare la battuta.
            «Ah, non sta bene parlare alle spalle degli assenti. Già il mio caro fratellino è uno sfigato cronico, non serve che glielo ricordiamo. La cosa è già palese da sé.»
            Eve sghignazzò e si augurò che il povero Quetzalccoatl non fosse nei paraggi.
            «Quindi hai saltato lezione questa mattina? Come sei messa con gli esami?»
            «Devo darne due ma non sono troppo impegnativi.» Da un certo punto di vista era toccante l’interesse che le stava dimostrando, ma l’occhiata che le dedicò faceva presuppore altro.
            «Continua a studiare, mi raccomando.» Un sorriso furbo. «El hombre hace la cultura y la cultura hace el hombre
 
 
 
Diana si sporse curiosa oltre l’uscio della sala, per vedere che cosa stava succedendo.  Jacob stava discutendo con una ragazzetta dai folti capelli scuri e felpa oversize bordata di pizzo. Era troppo distante per capire che cosa si stessero dicendo, ma il silenzio della sala era un ottimo conduttore, perciò riuscì a carpire gran parte della conversazione.
            «Il signor Bernal è occupato al momento, sta aiutando con i rilievi.»
            «Posso aspettare.»
            La ragazza mora era molto determinata a restare, e Diana riusciva a percepire la stizza di Jacob anche da lì. Sembrava una semplice mortale – non aveva certo l’aria da maga – e assomigliava vagamente al direttore del museo, con quell’aria sofisticata e gli zigomi alti. Forse era sua figlia.
            Il battibecco richiamò l’attenzione degli altri maghi del Nomo messicano, che si affacciarono per seguire, formando una piccola folla di curiosi.
            «Che succede, nana?»
            Diana non alzò nemmeno lo sguardo, sentendo un braccio poggiarsi sulla sua testa, dando al suo proprietario un valido appoggio. In realtà non era neanche così bassa, ma Richard era una pertica in confronto a lei.
            «Non lo so. C’è una ragazza che vuole parlare con il direttore.»
            «Ah, ma perché, questo posto è pure diretto da qualcuno?»
            «Il signor Bernal è andato nel suo ufficio giusto due minuti prima che arrivassi tu.»
            Il ragazzo schioccò la lingua in assenso, decidendo che era un ottimo pomello e che avrebbe potuto benissimo schiacciarla col suo peso. Diana sbuffò e scivolò in avanti.
            Richard era il ragazzo più spocchioso e tatuato che avesse mai conosciuto in tutta la sua breve vita. Era arrivato in ritardo utilizzando un portale, infischiandosene bellamente delle restrizioni che la Casa della Vita aveva emanato nelle ultime ore; non si era cambiato, rimanendo in canotta e jeans vertiginosamente strappati, e aveva distrutto almeno una decina di shabti perché non aveva voglia di finire la sua parte di inventario.
            Dovunque andasse seminava caos, panico, e un sacco di altre situazioni davvero imbarazzanti; cosa più che comprensibile visto chi ospitava: probabilmente Seth era rimasto affascinato dalla bravura di Richard nel bruciare le formiche con la lente d’ingrandimento, quando era solo un bambino.
            Il dialogo in mezzo all’atrio stava degenerando. La ragazza dedicò un’occhiata assassina a Jacob, lo spinse facendolo barcollare all’indietro e girò i tacchi, rivelando lo scollo vertiginoso della sua felpa, coperto da un sottile strato di pizzo.
            Jacob tornò indietro, serrando la mascella in un vago tentativo di sbollire la rabbia: gli bastò uno sguardo e tutti i maghi si dispersero nella sala, riprendendo l’inventario e l’analisi delle dinamiche.
            Tutti tranne Richard.
            «Ah, avrei davvero pagato per una rissa! Scommetto che la tipa ti avrebbe steso all’istante.»
            Il moro lo ignorò, lasciando che le sue provocazioni cascassero a vuoto. Era lì in veste ufficiale, Olivia gli aveva affidato la missione e lui non aveva nessuna intenzione di farsi mettere i piedi in testa da un egocentrico teppista di strada.
            «Pensavo che le regole sull’uso di oggetti magici fossero chiare, Chasseur.»
            «Sei arrabbiato con me, visto che mi chiami per cognome?»
            «Farò il rapporto delle tue azioni alla signorina Moreau.»
            «Oh, corri da Olivia a raccontarle che ho fatto il bambino cattivo?»
            Richard si piazzò davanti a Jacob, infossando le mani nelle tasche posteriori dei suoi jeans. Era parecchio divertito, e gli occhi verdi luccicavano di malizia e cattiveria.
            «Smettila.» Sillabò l’altro. «Abbiamo già abbastanza problemi, e se non ti rendi utile, allora puoi anche andartene.»
            Sentiva un gran mal di testa montargli da dietro le orecchie, perforandogli le meningi. Di solito non si comportava così, anzi. Si considerava un ragazzo abbastanza insicuro su molti fronti, ma Richard non riusciva proprio a sopportarlo, gli faceva venire il sangue alla testa.
            «Oh, ma io sono utile!» Il biondo si portò una mano al petto, fintamente sorpreso per le sue parole. «Ma visto l’alta considerazione che hai di me… Non so… Probabilmente non ti interessa sapere nulla di quello che ho scoperto…»
            Schifosamente drammatico. Jacob storse le labbra; non aveva nessuna intenzione di cedere.
            «Se sai qualcosa, parla!»
            Il mago si esibì in un perfetto sorriso derisorio, prima di rispondere con tutta la calma del mondo: «No.»
            «Ha trovato l’ultima mummia, è stata avvistata nei pressi di… Campeche? O qualcosa del genere. I maghi della zona hanno trovato un mucchio di sabbia e diversi segni di colluttazione, e adesso stanno indagando per vedere che cosa è successo.»
            Diana risolse la faccenda rivelando quello che aveva ascoltato all’inizio, quando Richard era riemerso dal vortice di sabbia. Stava esaminando con cura una raffigurazione su papiro di Anubi, ma anche di spalle sentì lo sguardo gelido del biondo perforargli schiena e spina dorsale.
            «Non sei per nulla divertente, nana.»
            «Dove cavolo si trova Campeche?» Chiese invece Jacob, riportando l’attenzione sulla questione della mummia. A causa di qualche scompenso magico, i reperti della mostra avevano preso vita da soli la notte precedente, e si erano volatilizzati senza lasciare traccia.
            «Solo a quindici ore di macchina da qui. Se guidi senza rispettare i limiti, puoi scendere a dieci.»
            Il direttore del museo gli sorrise, mentre incedeva nella stanza, tra le mani un grosso raccoglitore in plastica. Jacob sbiancò, e biascicò qualche parola per rimediare alla sua avventatezza: non aveva idea di quanto quell’uomo avesse sentito, e ricevere altre attenzioni dai mortali non era assolutamente necessario.
            Incredibilmente, fu Richard a salvare la situazione, diventando un ottimo diversivo.
            «Oh, un volto nuovo. Non ci siamo visti prima, mi pare.»
            «Sono arrivato solo da qualche minuto, per fare il punto della situazione con i miei colleghi.»
            «Capisco perfettamente. Beh, penso le abbiano parlato di me, ma mi presento lo stesso: Felipe Bernal, direttore del museo. Purtroppo non ho molto tempo da dedicarle, ma faccia come se fosse a casa sua.»
            L’uomo lo guardò, scivolando con gli occhi verdi sopra i suoi tatuaggi. Indugiò qualche istante sulla sua gola, e i due grandi geroglifici che si era impresso con l’inchiostro. Ebbe la sgradevole sensazione che sapesse leggerli benissimo.
            Prima che potesse rispondergli una risata gli esplose in testa. Assordante, roca, ed estremamente divertita.
            “Non ci credo! Ma guardalo!” Seth prese un bel respiro. “Direttore di un museo! La carogna!”
            “Di che cazzo stai parlando?” Richard si ritrovò a urlare nei suoi stessi pensieri – cosa che non avrebbe mai pensato di fare – ma Seth non lo calcolò minimamente. Rise ancora, biascicando altro e poi la sua voce svanì così come era arrivata. Il direttore del museo allungò le labbra in un sorriso, come se avesse sentito la voce del dio. Cosa impossibile.
            «Sì… certamente.» Risposte, ancora frastornato. Le orecchie gli fischiavano.
            «Signor Bernal, è il catalogo delle esposizioni quello?»
            Diana si fece avanti ancora una volta, salvando la situazione, indicando il raccoglitore.
            «Certo mia cara. Non so a cosa possa servirvi, ma l’ho portato come mi avete chiesto.»
            «Perfetto! Ci è stato davvero di grande aiuto.» Recuperò l’oggetto e lo maneggiò con estrema cura. «A proposito, prima è venuta una ragazza che la stava cercando. Un pochino più alta di me, capelli color cioccolato lunghi più o meno fino a qui.» Si sfiorò la schiena con una mano. «Ha presente?»
            L’uomo si illuminò, alzando entrambe le sopracciglia. «Eve? È passata di qua?»
            «Sì. È sua figlia per caso? Vi somigliate un po’.»
            Felipe batté gli occhi confuso, ma poi le sorrise. «Sì, è mia figlia.» La cosa sembrava divertirlo. «Allora meglio che vada. Se avete bisogno di altro, il mio ufficio è alla fine del corridoio al terzo piano.» E detto questo sparì, lasciandoli soli.
            «Beh, è simpatico alla fine.»
            «È fottutamente inquietante, invece.»
            «Basta. L’importante è che non sospetti nulla.» Jacob sospirò. Si sentiva vecchissimo. «Diamoci una mossa, e rimettiamo a posto questo casino.»
 
 




 


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- SPAGNOLO -
 
            Adiós: addio
            Amante: amante
            Amigo: amico, compagno
            El hombre hace la cultura y la cultura hace el hombre: L’uomo fa la cultura e la cultura fa l’uomo
            Gaban: il nome comune in cui viene chiamato il poncho
            No somos amantes!: non siamo amanti!
            Protector: protettore    
            Qué demonios está pasando?: che diavolo sta succedendo?
            Tìa: zia
            Vete/ Vete de aquí!: via/ via da qui!
           
 
           



- THE HIGH PRIESTESS - 

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DIRITTO

           La Papessa è custode delle porte del mistero, offre segreti arcani ai suoi iniziati.
            Ascolta i tuoi sogni; lascia che l’intuizione ti guidi. Tutto sarà rivelato nel tempo.

ROVESCIO 
            La Papessa si frappone tra te e il tuo io interiore, bloccando la via da seguire.
            Stai attento a perdere il contatto con la tua intuizione. Non chiudere la tua mente ai misteri del mondo.
              








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21 recensioni.  Credo sia doveroso partire da questo.
            Grazie, grazie mille a tutti voi che mi avete mostrato il vostro sostegno, che avete speso tempo a leggere quello che ho scritto, che mi avete fatto sentire apprezzata!
            Ho scelto con molta cura gli Ocs partecipanti, ho preso tempo per valutare ogni singola scheda che mi avete mandato, ho selezionato in modo tale da avere un equilibrio tra tutti i pantheon e tra maschi e femmine.  Non è stato facile. Più di una volta sono stata combattuta, e alla fine sono arrivata alla conclusione che, non per forza, sono costretta a scartare tutti quelli che non vengono scelti.
            Vedete, i protagonisti ricoprono un ruolo centrale, e a ognuno di loro è stata assegnata una carta degli Arcani maggiori. Ogni carta rappresenta un archetipo, perciò i personaggi devono avere determinate qualità. Molti Ocs erano sviluppati magnificamente, ma mancavano di quegli elementi, per questo non sono stati scelti. Altri non si sposavano bene, a livello di carattere e bilanciamento, a quelli già scelti, e muoverli mi sarebbe risultato ostico.
            Perciò ho deciso di utilizzare tutti gli Ocs non selezionati come figure secondarie. Pratica abbastanza comune, lo so, ma voglio farvi capire qual è il mio concetto di “personaggio secondario”: prendiamo Nico, per esempio. Lui non fa parte dei sette della profezia, eppure ha un ruolo determinante nella storia, inoltre non credo proprio che sia un personaggio piatto, vero? Ecco, io voglio sviluppare i personaggi così, in modo che ci sia una differenza tra i protagonisti, ma non per questo vengano soltanto menzionati e fatti apparire di sfuggita per far contento qualcuno.
            In realtà, vi ho messo la prova di questo, proprio nel capitolo! Jacob, che appare nella parte finale, NON È STATO SCELTO COME PROTAGONISTA. Non è legato a nessuna carta, non partirà in giro per il mondo, nulla. Però è un personaggio di supporto. Sia per Olivia che per il primo Nomo. Quello che può fare rispetto a Richard o Diana è limitato, certo, ma non per questo meno importante.
            Fatta questa lunga precisazione, vi pregherei di inviarmi le schede che ancora, per un motivo o per un altro, non siete riusciti a mandare. Ne mancano 9, ma su ben 53 direi che è un ottimo risultato!
            Passando al capitolo, è da ieri che ci lavoro su, perciò se notate qualche errore o incongruenza avvisatemi, probabilmente domani revisionerò con calma. Ci tenevo a farvelo leggere insomma!
            Spero vi piaccia, che vi piacciano i vari personaggi e le varie scene. Ho pensato sarebbe stato carino fare una progressione dagli aztechi agli egizi, in modo da riuscire a presentare tutti. A grande richiesta sono tornati Lucio e Manu, che credo diano più omogeneità riprendendo lo scorso capitolo, con qualche altro dio! Nel prossimo capitolo presenterò greci e romani, e nell’ultimo i norreni e i restanti ragazzi di vari pantheon dislocati un po’ in giro.
            L’introduzione di questa storia durerà fino al capitolo V. Dall’ I al IV ci saranno appunto le presentazioni, il V invece sarà dedicato esclusivamente agli dei, così potrò spendere qualche parolina in più su di loro! Dal VI in poi, i capitoli saranno un pochino più corti e divisi in più parti distinte in modo da avere ben presenti le azioni dei personaggi. In tutto ci saranno 22 capitoli!
            Perciò eccoci qui, le schede dei personaggi le sistemerò domani mattina, per adesso godetevi il capitolo e fatemi sapere se vi è piaciuto!
 
Un bacio, e grazie davvero!
Itzi
   
 
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