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Autore: The Custodian ofthe Doors    05/10/2018    6 recensioni
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In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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 II. Enrollment.


 

 

Il muro alto e chiaro che costeggiava tutti i Campi Elisi era senza tempo. Le pietre che lo componevano erano monolitiche e su quelle più basse si potevano scorgere disegni più o meno accurati, fatti da quelle anime artistiche che non avevano rinunciato neanche da morte alla loro passione. C'erano piante rampicanti che si alzavano sui loro rami per raggiungere i punti più alti, un'edera coraggiosa, piantata anni addietro da un'anima destinata alle Isole dei Beati come ultimo addio a quei campi sterminati che l'avevano accolta per ben tre volte, era riuscita ad arrivare sino al margine superiore ed ora le sue foglie si potevano ammirare anche dalle Praterie degli Asfodeli.
Tra l'erba chiara serpeggiava un vialetto di terra battuta su cui spesso molte anime passeggiavano.
Non c'era alba e tramonto, non c'era giorno e notte ed il sonno era superfluo e spesso inutile, eppure c'erano ancora delle anime che ricordavano fin troppo bene i rigidi regimi che avevano dovuto tenere da vivi e non riuscivano a rinunciare a qualche piccola abitudine.
Correre lungo il perimetro delle mura, arrivare sino alla vecchia edera e poi tornare indietro verso la propria casa, questo era il programma che l'anima di un giovane uomo replicava sin da quando era arrivato nei Campi Elisi.
Un tempo correva assieme a sua madre che, atletica come lui, lo spingeva sempre a dare il massimo, ad impegnarsi, non batter la fiacca solo perché era morto.
Lo aveva sempre fatto nella vita e poterla sentire ancora mentre lo incoraggiava a fare di più per lui era stato come rinascere. Sciocco vero? Rinascere quando si era morti da così tanti anni.
Era pur vero che nell'Ade il tempo non passava, non era quantificabile, non si riusciva a capire se i moti planetari valessero anche per loro oppure no. Erano i nuovi arrivati a fare da metro di misura, ma anche lì alle volte c'era da stare attenti: non più in là di una settimana prima, circa, era arrivato un giovanotto vestito di tutto punto che alla solita domanda “in che anno sei morto?” Aveva risposto con un sincero e sicuro “ Ma nel 1900, che domande!”.
E niente, l'anima aveva sospirato infastidita e lo aveva guardato malamente, quel tipo non gli sarebbe servito a nulla.
Il problema dei morti era che spesso non raggiungevano la loro destinazione con i giusti tempi. Lui, per esempio, aveva spettato un'eternità prima di decidersi a salire su quel dannato traghetto, tanto che alcuni spiriti che si divertivano a far avanti ed indietro - con grande disappunto dei traghettatori che andavano a lamentarsi di continuo dal capo senza successo- gli chiedevano se non volesse che gli prestassero qualche moneta per il viaggio.
Ma no, aveva di che pagare il passaggio, voleva solo aspettare che arrivasse qualcuno per lui importante. Per di più in sala d'attesa c'erano parecchi schermi che trasmettevano le news del mondo dei vivi e lui era un appassionato de “L'ultima profezia dell'Oracolo”, in cui venivano elencate tutte le varie profezie fatte da tutti gli oracoli del mondo.
Aveva atteso davanti a quegli schermi per anni, letteralmente. Poi aveva deciso di andare finalmente per la sua strada quando aveva creduto che il pericolo fosse ormai scampato.
Se non fosse stato così testardo a quell'ora si sarebbe potuto godere un po' di più la presenza di sua madre, ma era stata solo una manciata di tempo -quanto?- quello in cui aveva potuto godere della sua presenza. Poi un giorno la donna era rinata e lui era tornato ad essere solo nella sua morte.

Grugnì infastidito da quei suoi stessi pensieri e si concentrò sulla corsa, lanciando uno sguardo critico a delle piante che erano state potate con forme di dubbio gusto. Era un lama quello? O una giraffa obesa? La stupidità umana alle volte era disgustosa come poche cose al mondo.
Aumentò il ritmo di marcia e si concentrò sulla sua corsa fino a quando qualcosa non si mosse alle sue spalle.
Anni di addestramento da semidio e poi da militare lo avevano reso estremamente recettivo ad ogni variazione dell'ambiente circostante. Era il sangue divino che lo teneva sveglio, quell'iperattività che aveva sempre sfogato con lo sforzo fisico, con la lotta costante per diventare più forte, per essere degno figlio di suo padre ed essere così apprezzato dal Dio.
Si voltò di scatto afferrando qualunque cosa gli si stesse avvicinando, ma con sua somma sorpresa si rese conto che era semplicemente un foglio, un volantino rosa scritto in greco antico.

<< Ma che cazzo- >> si bloccò di colpo mentre il significato di quelle parole gli diveniva sempre più chiaro. Con un gesto sprezzante strinse il foglio nel pugno e sorrise con fare arrogante, quasi incredulo della fortuna che aveva avuto, dell'opportunità che gli si stava presentando. Se qualche stupida animuncola pensava di poter vincere contro di lui si sbagliava di grosso: Nathan Wright era un vincente, non perdeva mai, neanche da morto.
Gettò via il volantino accartocciato e tornò sui suoi passi, diretto verso il suo bell appartamento, doveva prepararsi al meglio per qualunque prova l'avrebbe atteso oltre le mura bianche dei Campi Elisi.

 

 

*

 

 

L'erba, lì nei Campi Elisi, era morbida e pungente al contempo. Se non fosse stata morta avrebbe detto che le faceva il solletico ma erano anni ormai che si interrogava su questa cosa: un morto poteva soffrire il solletico?
Non c'era qualcuno che potesse risponderle, magari giusto qualche semidio figlio di Ade o di Thanatos, ma in genere quei ragazzi non stavano mai fermi, giravano per gli Inferi all'eterno servizio dei loro genitori, vivendo – ironia della sorte- quelle classiche avventure da semidio che lei si era persa.
Qualche eroe, fin troppo spesso giovane aveva constatato l'anima con tristezza, le aveva raccontato cosa facevano gli aspiranti eroi al Campo Mezzosangue, spiegandole come venissero pronunciate le profezie e come venissero scelti i ragazzi che avrebbero intrapreso le missioni.
Le pareva assurdo sotto un certo punto di vista, essere costantemente in guerra, allenarsi giorno e notte per poter imbracciare un'arma ed andare ad uccidere e rischiare la propria vita in nome di un genitore che spesso li aveva solo messi al mondo e poi abbandonati a sé stessi.
Sfregò i piedi sull'erba e la sentì vagamente umida. Doveva essere rugiada quella, quindi su, nel mondo dei vivi, aveva piovuto abbondantemente e la terra doveva aver assorbito tanta di quell'acqua che il calore degli Inferi aveva fatto evaporare. C'era umidità nell'aria e per un attimo le riportò alla mente una giornata passata a camminare vicino al bordo petroso di un fiume che si divideva in mille canali per una città festosa, come una rete sanguigna che portava linfa ad un essere vivo. Era un'immagine figurata molto bella, si disse saltellando un poco sul posto, spinta da quell'animo giocoso ed un po' infantile che spesso tornava a galla.
Chissà com'era diventata quella città, era così tanto tempo che non aveva notizie da fuori…
Si rimise in marcia, godendosi l'erba candida e le sensazioni di una vita passata, socchiudendo gli occhi chiari ed assaporando quella consistenza discontinua. Sarebbe arrivata sino ai cancelli, come ogni volta che usciva di casa “la mattina”.
La routine era una delle poche cose che le rimanevano, non poteva neanche più rendersi utile visto che i suoi servigi erano l'unica cosa che le anime non necessitavano.
Avvistò da lontano l'imponente entrata rinforzata, le cui sbarre non erano altro che eleganti volute fiorite e floride. Era ciò che c'era di più vicino al Paradiso che tanto predicavano nelle chiese ma non vi erano sconfinate distese di nuvole e angeli troppo belli da guardare che volavano placidi nei cieli accecanti. Nessun santo le avrebbe sorriso nella pace dei sensi ma anime che avevano combattuto e meritato di passare quella soglia. Proprio una di quelle anime gli sorrise dal gabbiotto color crema davanti al cancello di destra.
Vi erano tre entrate ai Campi Elisi: due piccole porte di legno lavorato, sulla cui superficie erano incise piante e vallate, ed una centrale, così alta da superare le mura, la cui sommità forse sfiorava persino la volta rocciosa dell'Ade. Quel cancello non si apriva mai, lo faceva solo per quelle anime che tre volte avevano meritato i Campi Elisei e che all'ennesima, gloriosa morte venivano accolti nelle Isole dei Beati.
La ragazza continuò a camminare tranquilla sul prato, facendo attenzione ad evitare la pista ciclabile e la strada in mattonato, tenendo il naso rivolto verso l'alto per cercare, come sempre, di scorger la punta decorata che sormontava l'entrata.
Una vecchia anima del 700 le aveva detto che vi era un occhio meccanico, uno dei primi costruiti da Efesto, che fungeva da sentinella e che proteggeva il perimetro del muro bianco da possibili invasioni di altre anime o di mostri impazziti. Era una bella storia, peccato che nessuno l'avesse mai vista e che quindi fosse impossibile da constatare.

<< Anche oggi a fare una passeggiata, signorina?>>
Al gabbiotto l'anima del venerabile Shilon Yu, un tempo guardia reale nel Palazzo di Giada, le sorrise cortese come faceva da quanto aveva varcato quel confine la prima volta.
La giovane annuì, sorridendogli di rimando e sistemandosi qualche ciocca corta dietro le orecchie.
<< Come sempre. Che giorno è oggi?>> domandò lei di rimando.
Da dietro l'ampia finestra vetrata il custode dei cancelli girò sulla sua poltroncina e cercò tra gli scaffali che gli erano vicini un rotolo di papiro come tanti altri.
Ne prese uno piccolo e dall'impugnatura di legno, srotolandolo con attenzione e controllando data per data finché non arrivò a quella odierna.
<< Siamo a Maggio da sei giorni, signorina.>>
<< E ci sono anime nuove?>> chiese speranzosa di ricevere finalmente una risposta affermativa.
La guardia reale sapeva chi stava aspettando la piccola anima davanti a lui, ormai aveva imparato il suo nome e anche le sue caratteristiche generali, per quanto un racconto concitato potesse esser preciso, certo. Eppure ancora una volta fu costretto a scuotere la testa.
<< Molte anime nuove, persone che si sono mostrate giuste nella vita, ma non colui che aspettate.>> alla faccia triste della giovane provò come suo solito a consolarla. << Avete preso finalmente in considerazione l'idea che sia rinato? Magari è passato di qui, ma con un altro nome.>> << Forse avete ragione voi, Shilon Yu. Ma so che lo avrei riconosciuto comunque, gli devo molto, vederlo arrivare finalmente nei Campi Elisi è l'unica speranza che mi è rimasta.>>
L'anima annuì e poi parve riscuotersi.
<< Magari non solo quella.>> le voltò le spalle cercando qualcosa a terra, tra le tante carte che vi erano accumulate. << Non avete altri desideri?>> le chiese con voce ovattata.
Lei si strinse nelle spalle. << Nulla che un'anima come me possa realizzare.>>
<< E da viva? Potrebbe realizzarli?>>
Finalmente l'uomo emerse da dietro il parapetto e si sporse oltre la finestra del gabbiotto, le lunghe maniche pendenti, decorate con disegni d'oro di draghi senza ali, sfiorarono quasi terra e la ragazza fece un salto indietro per non calpestarle.
Tra le mani pallide e callose della guardia reale vi era un volantino azzurro sbiadito, su cui delle parole in greco antico si muovevano con lentezza cercando di stabilizzarsi in una lotta continua tra il mandarino arcaico e l'italiano.
L'altro la incitò a prendere il foglio e ben presto il testo divenne chiaro.
La ragazza sgranò gli occhi chiari, incredula di ciò che le era appena stato porto. Non poteva crederci, non era possibile.
<< Cosa mi dice, signorina Lea, potrebbe abbandonare l'attesa per una nuova speranza?>>


 

*

 

 

La porta di legno della sua abitazione era un po' scrostata, come se il tempo - essere astratto per quel luogo- l'avesse logorata lentamente.
Erano passati decenni da quando era giunto in quelle terre, sperando disperatamente di non vedervi entrare la sua famiglia poco dopo. Aveva scrutato la fila infinita di anime che attendevano il loro turno, ormai calme e placide nell'eterno aspettare, ma mai vi aveva scorto visi così tanto famigliari.
Era pur vero, se lo ripeteva spesso, che lui il volto di suo fratello non lo conosceva neanche, chissà com'era diventato, com'era cresciuto, a che età era morto.
Si passò una mano tra i capelli e ve la lasciò sfregando alcune ciocche tra le dita: chissà se aveva i capelli rossi come i suoi.
Scosse la testa per togliersi quei pensieri di mente e si assicurò di aver ben chiuso il battente prima di incamminarsi per il viale pavimentato, quella lunga lingua di mattonelle grandi e chiare come ogni cosa entro quelle alte mura.
Il brutto di essere morti era che si rimuginava sempre sulle stesse cose, che non si poteva scappare, tenersi occupati con altro. Se fosse stato così lui lo avrebbe fatto, rimanendo per sempre nel bosco candido di alti fusti dai colori quasi accecanti verso cui si stava dirigendo.
I boschi lo avevano sempre calmato, dandogli quella sensazione a metà tra la pace di un luogo conosciuto e l'ignoto di una situazione imprevedibile. Era un vero peccato che lì non si aggirassero gli stessi animali che aveva imparato a conoscere nella sua vecchia vita, quagli stessi che tanto lo affascinavano ma a cui non era mai riuscito ad avvicinarsi davvero, non come avrebbe voluto almeno.
Quell'agglomerato di alberi biancastri, quei pioppi che popolavano la selva come tanti soldati che presiedevano un forte, era probabilmente il suo luogo preferito. Non che disprezzasse la casetta che gli era stata assegnata alla sua morte ma la cosa lo aveva un po' lasciato di sasso: l'idea che quando muori guadagni qualcosa invece di perdere tutto gli pareva una nota stonata rispetto a quello che aveva sempre pensato della morte stessa e c'era anche da dire che ritrovarsi in un edificio della sua epoca, quando entrando dal pesante portone di legno dei Campi aveva visto una piccola struttura in uno stile di cui ignorava persino l'esistenza – Mr Shilon Yu era stato estremamente gentile con lui- lo aveva messo a suo agio e gli aveva dato l'impressione che non fosse cambiato poi molto. Eppure era cambiato tutto.
Oltre la morte non c'era che una vita fittizia, fatta di vecchi ricordi e storie passate, di palazzi provenienti da ogni era, da ogni luogo, che si mischiavano tra loro con l'assurda armonia che solo un artista potrebbe riuscire a creare. Si era anche domandato chi decidesse come e quando costruire qualcosa, pensava che vi fosse una divinità deputata a farlo, poi invece aveva scoperto che era tutto ad opera del “Servizio strutture, pavimentazioni e ambiente” dell'Ade.
Sì, a quanto pare ne avevano uno, capeggiato da un certo Bernini di cui lui ignorava l'esistenza, che litigava costantemente con un tale Borromini e che spesso, entrambi, venivano presi a scappellotti da un vecchietto di nome Bramante. Aveva chiesto in giro se prendessero solo artisti con la lettera B, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stata un'occhiataccia e un silenzio indignato.
Non aveva più chiesto nulla.
Attorno a lui decine, forse centinaia e migliaia, di anime, camminavano tranquille, aggirandosi per quegli spazi sterminati che erano i Campi Elisi.
Quando era stato giudicato, in piedi al centro di quella sala circolare contornata di alti scarni su cui sedevano mascherate figure, non si era davvero aspettato tanto: era morto in modo, per così dire, banale, senza riuscire a lottare davvero, senza aver fatto nulla di buono se non dare pochi minuti a coloro che amava. Credeva che questo non sarebbe bastato, che non era gran ché, che non valesse nulla e invece era valso eccome. Il figuro seduto sul trono più altro aveva annuito e gli aveva chiesto beffardo quanto altro avrebbe voluto fare nella sua situazione. Poi un altro aveva borbottato che le sue idee fossero un tantino tragiche ed in fine, l'ultimo, aveva decretato che cercare di fare il meglio e morire nel farlo era tutto ciò che gli sarebbe servito per avere un eterno, sereno, riposo.
Eterno lo sarebbe stato senza dubbio alcuno.
Sereno stentava ancora ad esserlo.
Non li aveva più rivisti, per quante fossero state le case simili alla sua a cui era andato a bussare, nella speranza che uno dei due gli aprisse, per quanto sarebbero state ancora le altre a cui avrebbe atteso, aveva la sgradevole sensazione che non avrebbe mai più incrociato gli occhi di sua madre e che non sarebbe riuscito a riconoscere nel giovane, nell'uomo o nell'anziano che avrebbe aperto quell'uscio suo fratello.
Essere finito nei Capi Elisi era una mera consolazione, malgrado si ripetesse che doveva gioirne, che non avrebbe potuto chiedere di meglio.

La vita, forse solo questo avrei potuto chiedere.

Tenendo la testa bassa cercò di evitare d'avvicinarsi troppo alle altre anime, i suoi poteri, quando era in quello stato, sfuggivano spesso al suo controllo e non aveva intenzione di infastidire o spaventare nessun essere meritevole che calcava quelle stesse pietre chiare su cui lui ora marciava più cupo dei suoi stessi pensieri.
Guardava ancora ostinatamente il terreno quando un ritaglio aranciato gli apparve davanti ai piedi.
Si era dovuto abituare a parecchie cose nel corso dei secoli: alle armi da fuoco sempre più potenti, alle navi più veloci, magari alimentate da altro che non fossero il vento e la forza delle braccia umane. Aveva accettato il progresso medico e quello scientifico, l'era dei Lumi e quella delle Industrie. Si era persino abituato all'idea della psicologia e dell'elettronica, della luce elettrica prima ancora. Certo la comprensione del touch screen gli era ancora oscura, ma c'era un'anima arrivata da poco nel suo quartiere che diceva di essere stato un programmatore e che poteva spiegargli tutto ciò che voleva, malgrado ignorasse ancora il significato di quella parola.
Ma se c'era una cosa che ancora lo disturbava, più delle macchine che agivano senza che nessuno le manovrasse, erano i colori sgargianti e assurdi che il progresso riusciva a dare pressoché a tutto.
Quello che aveva davanti era un foglio di carta, di cartaccia da volantini, avrebbe detto quel pittore che incontrava spesso nel boschetto, intento a dipingere vicino al laghetto delle ninfee, e per uno come lui che era cresciuto in un mondo in cui gli unici supporti scrittori erano ad appannaggio dei più ricchi, dove la pergamena era ritenuta troppo preziosa per esser usata per tutto e la carta dei suoi tempi non era altro che uno spesso foglio ruvido e di un bianco sporco e slavato, vedere qualcosa di arancione, finissimo, pensato per essere utilizzato una sola volta, su cui era scritto qualcosa era ancora sconcertante.
Su quel rettangolo fine e già leggermente rovinato, forse qualcuno vi aveva camminato sopra, delle lettere nere si contorcevano per trovare la giusta dimensione della sua lingua. Quando i caratteri divennero così simili a quelli che i dotti usavano per appuntare nozioni ed eventi, Úranus si accinse a raccoglierlo da terra e si accigliò ritrovandosi a comprenderne il significato.
Gli occhi chiari lessero avidi quelle righe scure, il celeste dell'iride parve esser ingoiato dalla pupilla dilatata dalla stupore.
La sua permanenza in quella gabbia bianca e oro non era serena come gli era stata augurato, ma forse non sarebbe stata neanche eterna.

 

 

*


 

Respirare, espirare. Ripetere.
Fletté la schiena all'indietro e poi si piegò in avanti sino a toccare con le mani le punte delle sue scarpe. Gli alti stivali marroni che indossava erano un po' logori sulle punte, il vecchio calzolaio che abitava di fronte a casa sua, e che per altro a suo tempo aveva lavorato proprio nel suo vecchio quartiere, le ripeteva in continuazione che per allenarsi magari poteva provare un paio di quelle nuove scarpe che andavano tanto di moda adesso tra i vivi.
Scarpe da ginnastica, così le chiamavano, ma lei preferiva di gran lunga i suoi vecchi e logori stivali della divisa. Aveva però ceduto alla proposta dell'uomo di far rivestire la suola con della gomma.
Si sorprendeva ancora di come l'artigiano continuasse ad aggiornarsi malgrado fosse morto. E soprattutto malgrado nessuno pagasse i suoi servigi.
C'erano delle anime che ancora ne offrivano: cuochi che continuavano a cucinare, rendendo per altro difficile per i vivi convocare i loro cari perché neanche lontanamente attratti dal cibo mortale che veniva offerto loro nelle evocazioni. C'era chi faceva scarpe, come il vecchio Ted, chi cuciva vestiti e persino chi apriva empori. Ma se tanto non li si poteva pagare, cosa lo si faceva a fare?
Comprendeva molto di più l'idea di rimanere in forma, di non lasciarsi andare alla morte.
Qualcuno le aveva detto che le sue idee erano assurde: il loro aspetto fisico non cambiava una volta passati all'aldilà a meno che non fosse volontà del defunto farlo. Nei Campi Elisi era situazione comune veder anime vestire abiti nuovi e diversi da quelli con cui erano arrivati, persino lei aveva lavato i suoi sporchi di fango e sangue, ma se anche il loro corpo non cambiava l'attitudine ad una data azione, ad un movimento, il ricordo di un gesto, di come si impugna un'arma e come si va all'affondo erano cose che andavano preservate.
Non erano nelle Praterie, ma questo non significava che prima o poi, abbandonando le loro vecchie abitudini, non potessero anche loro dimenticarle.
Lei, per esempio, anche da viva era sempre stata più che convinta che continuando ad allenarsi sarebbe diventata più forse di moltissimi altri che la circondavano, che un giorno sarebbe stata abbastanza in gamba da poter rendere orgoglioso suo padre di aver avuto una figlia femmina, un giorno sarebbe potuta essere al suo fianco in tutte le missione che l'uomo avrebbe intrapreso.
Purtroppo non era stato così, ma la scomparsa di suo padre l'aveva solo spronata a far di più, a lasciare quella casa che tanto gli ricordava ciò che aveva perso quanto ciò che sarebbe potuta diventare, ed intraprendere la sua strada.
Una strada purtroppo chiusa, ma se anche l'avesse saputo prima, se avesse scorso il lontananza quel cartello che segnalava una via senza uscita, avrebbe comunque tenuto la testa alta e combattuto per ciò in cui credeva, per la giustizia, per la libertà, per la vittoria.
Poggiò i palmi a terra e vi spinse sopra, continuando a respirare anche se ormai non ne aveva più bisogno, se l'ossigeno che entrava nei suoi polmoni poi ne riusciva senza esser stato convertito in fiato caldo e pesante. Era una sua vecchia abitudine, ossigenare i muscoli era la prima regola per non perire in un qualunque sforzo fisico.
Non doveva perdere la concentrazione però, non in quel momento quando tutte le sue convinzioni e attitudini erano risultate giuste e concrete.
Quando quella mattina era uscita dall'appartamentino che somigliava così tanto alla sua vecchia casa d'infanzia non si era certo immaginata di vedersi piovere dal cielo petroso un volantino gemello a tanti altri che si erano posati a terra come se qualcuno li avesse liberati dal punto più alto dell'Ade. L'aveva afferrato al volo con sicurezza, la sua mira ed i suoi riflessi pronti come sempre e forse persino acuiti grazie ai suoi costanti allenamenti; aveva atteso pochi secondi che le scritte in greco antico divenissero un inglese contaminato da mille lingue e pronunce come quello che lei era stata solita parlare in vita e poi vi aveva letto l'arcano, il segno del destino.
Un gara.
Era tutta la vita – forse la morte?- che combatteva per qualcosa, per vincere e riuscire in quello che gli altri asserivano fosse per lei impossibile. Quella era l'occasione per riscattarsi, ancora, per dimostrare per l'ennesima volta a coloro che ancora non fossero convinti, specie le anime dei suoi tempi e di quelli precedenti, che anche una donna poteva ciò che il pensiero comune attribuiva possibile solo ad un uomo.
Aveva dimostrato di essere abbastanza forte da affrontare la solitudine, di poter combattere contro gli imprevisti, di poter sopravvivere ai lutti e alle perdite e di poter imbracciare un arma combattendo per la sua patria, per il suo vero popolo. Nulla le avrebbe impedito di dimostrare di poter riottenere anche la sua vita contro tutto e tutti.
Dopotutto, nelle vene di Eliza non scorreva più sangue da molto tempo, ma da sempre vi era scorsa la vittoria.

 

 

*

 

 

 

Seduto sulla vecchia sedia di quella che poteva definire “casa sua” si ostinava a concentrarsi su ciò che stava facendo senza distogliere lo sguardo.
La lama scivolava lenta ed inesorabile sulla lingua di pelle ormai consunta che aveva teso tra il tavolo e le sue ginocchia. La fissava fare su e giù, lucidando il metallo e lisciandone il filo. L'impugnatura di legno scuro era scheggiata e poi riparata in più punti, forse avrebbe dovuto cercarsi un coltello nuovo, ma quello se lo era portato appresso nell'oltretomba e non lo avrebbe lasciato per nessun motivo. Sapeva che non poteva essergli molto utile lì sotto, il caro vecchi ferro temperato, per quanto potesse far male alle persone comuni, e a quelle semicomuni, non poteva in alcun modo scalfire né le anime né le bestie che si aggiravano fuori da quelle mura candide come la più grande delle bugie.
Lui lo sapeva che oltre quella monolitica barriera non era tutto rose e fiori, Dei, aveva rischiato di finirci lui stesso lì fuori e non voleva riprovare l'ebrezza di sentire i suoi ricordi defluire lenti dalla sua mente, come risucchiati da una corrente fantasma senza pietà.

Ed io di correnti me ne intendo, mica no.

La lama deviò il suo percorso scivolando nel vuoto, il suono della pelle riempì la stanza ingombra di oggetti di ogni tipo, cose che aveva trovato in giro o che aveva “adottato” da altri proprietari. Aveva la vaga sensazione che se si fosse malauguratamente trovato nella versione Cristiana del mondo dei morti a quell'ora sarebbe già stato retrocesso all'Inferno.
Fermò lo sguardo su una catasta di ciocchi di legno, indeciso se prenderne uno e provare il filo del coltello togliendogli la corteccia ma l'idea di affondare la lama nella polpa asciutta ma ancora morbida di quei legni non lo attirava quanto la pila di volantini di tutti i colori raccolti per le strade del suo quartiere.
Li aveva trovati ore prima, ormai neanche provava più a far distinzione tra giorno e notte e doveva dire di andarne molto fiero: c'era gente che stava lì dai tempi delle antiche civiltà eppure si ostinava a crede di star vivendo una vita come quella dei vivi, scandita dal rincorrersi del Sole e della Luna.
Un verso sarcastico gli scivolò fuori dalle labbra al pensiero, lui era andato avanti, non era certo tipo da fossilizzarsi su idee ed eventi.
Fece un gesto vago con la mano ed una bottiglia volò dritta verso di lui, che la stappò con i denti per poi ingollarne il contenuto senza neanche controllare cosa fosse.
Forse questa cosa degli alcolici gli stava sfuggendo un po' di mano, ma tanto era morto, mica poteva ammalarcisi, quindi tanto valeva goderseli.
Voltò di poco la testa, la mano che stringeva ancora il coltello passò tra i capelli corti grattandone la cute mentre la lama scintillava alla luce di una stella fittizia e lui pensava e ripensava.
Era passato un secolo da quando era morto, cosa poteva aspettarsi dall'altra parte? Cosa poteva servirgli tornare tra i vivi? Certo, c'era un mondo da scoprire, una vita da vivere che si era bloccata troppo presto, la possibilità di vedere ciò che restava della sua famiglia…
Abbassò la mano sino a poggiarsela in grembo, scrutando il coltello e trovando a dir poco ironico che qualcosa a lui così congeniale, così famigliare, fosse la causa di tutti i suoi attuali problemi.
Ma non era da lui piangersi addosso, lui era uno che agiva, che faceva, che non restava con le mani i mano e lo aveva dimostrato ampiamente nel corso della sua vita. In quel momento si domandò persino perché avesse scelto di non rinascere e si diede dello stupido per quella decisione.
Ripromise a sé stesso che se non fosse riuscito in quell'impresa, una volta finita la gara, avrebbe preso di petto la situazione e sarebbe tornato ugualmente sul mondo terreno, con o senza i suoi ricordi.
Finì in un sorso ciò che rimaneva nella bottiglia e si alzò in piedi scattante come lo era sempre e sempre lo sarebbe stato.
Aveva poltrito per troppo tempo, aspettando neanche lui sapeva cosa, quando era perfettamente consapevole che la stasi, la tranquillità dei Campi Elisi non faceva per lui, che gli mancava il brivido dell'ignoto e dell'avventura, chiuso per troppo tempo tra quelle mura che sapevano tanto di pace quanto di prigione. Sarebbe tornato alla sua vecchia vita o ad una nuova, di certo non sarebbe mai rimasto ancora sotto quella cupola di roccia che sosteneva il vero mondo.
Perché Cade era come l'aria, ciò di cui necessitava per vivere, indipendentemente da ciò che aveva deciso il fato, era solo la libertà.
E se la sarebbe ripresa ad ogni costo.

 

 

*

 

 

L'erba era nera e l'aria opaca come un vetro appannato di una finestra, quando fuori imperversava il vento freddo e dentro scoppiettava un vivace fuocherello che riscaldava tutto l'ambiente.
C'era stato un tempo in cui sedere sul tappeto davanti al camino di casa sua, parlando con i suoi genitori di una marachella fatta o di una nuova del villaggio, era stato tutto ciò di cui aveva avuto bisogno per esser felice. Un tempo lontano a cui ora sfuggiva persino la data precise.
Le Praterie degli Asfodeli non erano il luogo giusto per ricordare, non erano neanche il luogo giusto per essere se si voleva dir la cruda realtà.
Attorno a lei vagavano senza meta anime di ogni tipo, i volti perennemente sovrappensiero si ricorrevano gli uni con gli altri senza la velocità che quel pensiero le ricordava.
Rincorrere… un tempo lo aveva fatto anche lei, aveva rincorso i suoi amici per le vie della cittadina sino alla piazza in cui più tardi avrebbe visto tanti perire.

Giustiziati.

Quello se lo ricordava bene. Non sapeva la data precisa ma poteva ricollegarlo ad un periodo della sua vita, quanto tutto aveva cominciato ad andare a rotoli, quando ogni cosa aveva perso vivacità e gioia e lei si era spenta come un fuoco morente.
Un brivido le passò sulle morte membra, ormai non pensava di poter provare ancora una sensazione del genere ma a quanto pareva si era sbagliata.
Si era sbagliata in così tante cose…
Non c'era momento, in quel suo vagare assieme a migliaia di altri sconosciuti apatici e dimentichi di loro stessi, che la sua mente non venisse bombardata dai ricordi dei suoi errori.
Quanta ironia vi era in questo? Nel luogo in cui si dimenticava tutto, in cui gli Dei avevano deciso che persino il proprio nome diveniva superfluo, lì lei ricordava.
Alcune cose erano incise nella sua mente in modo indelebile, altre si alternavano ballerine sulla sottile linea che divideva la parte lucida da quella che annaspava per rimanere a galla in quel mare che era diventata la sua follia.
Ribolliva di rabbia al sol pensiero, al ricordo, del perché si trovasse lì, per quale motivo e per colpa di chi. Era l'unica cosa che la manteneva sana, ancorata a quel mondo che non era più suo e che tutti, in quelle steppe scure, dovevano dimenticare.
La causa della sua pazzia era, paradossalmente, ciò che le impediva di impazzire definitivamente.
Quante contraddizioni si agitavano in lei, ma ormai c'era abituata, sapeva che non poteva farne a meno, che facevano parte di lei come tutti i suoi sbagli.
Aveva peccato in superbia, questo è ciò che gli avrebbe detto il prete della sua chiesa, aveva creduto di aver potere su altri esseri e lo aveva fatto per il motivo peggiore. La vendetta era qualcosa che Dio non perdonava, ma lei sapeva che quel Dio misericordioso che rigettava la violenza e non aveva protetto suo padre che era un buono, un giusto, un innocente, non era il suo di Dio. A presiedere il suo culto erano molteplici esseri pregni di pochi pregi ed infiniti difetti, dediti alla menzogna e alla guerra, alla brutalità e ai vizzi.
Erano frivoli e supponenti, credevano anche loro di poter disporre della vita degli altri ma a differenza sua non per la loro discendenza ma solo ed unicamente in condizione di ciò che loro stessi erano. Meschini e iracondi, cattivi e vendicativi, lei ne aveva preso i tratti peggiori, se poi ve ne erano anche di buoni, sia ben chiaro.
Ora che era seduta su quell'erba nera, secca e pungente, con quello stupido volantino blu in mano, si domandò se la fortuna sfacciata fosse un altro dei caratteri degli Dei greci, se rodersi l'anima per secoli comportasse poi l'arrivo di un'opportunità di riscatto.
Forse era davvero un ruota, quella della Fortuna, che girava e rigirava senza posa sino a tornare al punto di partenza. Forse c'erano anche lati positivi nel discendere da quegli esseri infami e disinteressati a tutto ciò che non fosse il proprio sé.
La verità era che non le importava minimamente, così come non le importava davvero cosa pensassero gli Dei, o come sarebbe stata quella stupida gara. Era la sua sola ed unica possibilità per tornare a calpestare quella stessa terra che ora le faceva da cielo.
Sul volto pallido di morte le labbra sottili e screpolate si tesero in un sorriso senza gioia.
Forse era finalmente giunto il momento di mettere in pratica ciò che aveva imparato in quelle landa desolata, Jane non chiedeva nulla di meglio.

 

 

*

 

 

Quando era sceso lungo l'oscuro burrone di roccia grezza che era l'entrata degli Inferi aveva avuto l'opportunità, seppur fugace, di far un'occhiata a tutto l'Ade.
Erano state le Praterie degli Asfodeli ad attirare inizialmente la sua attenzione, una lunga e apparentemente infinita distesa di terreno nerastro su cui si muovevano con lentezza e casualità centinaia di anime sbiadite come i ricordi dei tempi passati.
A distanza di tutti quei secoli si domandava quanto fossero aumentate quelle fumose figure che calpestavano la parte più vasta del Regno di Ade. Non che la cosa gli importasse davvero, ma era un buon modo per distrarsi, per non pensare a ciò che stava vivendo ormai da troppo.
Non era colpa sua, non lo era assolutamente, ci sarebbe dovuto esser qualcun altro al suo posto, qualcuno che avrebbe dovuto pagare non solo per ciò che aveva fatto a lui e alla sua famiglia ma anche a molti, troppi, altri.
Il vero colpevole invece se ne stava tranquillo e beato nel suo mondo dorato. Un mondo che probabilmente solo chi viveva nelle isole che aveva intravisto sul lago argenteo e scintillante poteva comprendere.
Scorgendo quella moneta brillante tra i tetti spioventi delle ville e quelli tozzi di un mondo che non conosceva, si era quasi illuso che sarebbe potuto finire lì, se lo meritava a dirla tutta, ma conosceva la regola delle tre morti con onore. Lui era morto una volta sola, non gli avevano concesso di varcare i portoni di legno dei Campi Elisi – che si sarebbe più che meritato visto la sua vita- e la cosa peggiore era stata che gli avevano vietato persino di tornare in vita.
I muri bianchi dei Campi non lo avrebbero mai accolto ed in un primo momento la cosa gli era andata più che bene, convintissimo com'era che lì dentro prima o poi avrebbe rivisto anche l'altro artefice del suo triste ed infame destino.
Quanti anni erano passati prima che quell'idea indegna gli sfiorasse la mente? Non poteva dirlo, non c'erano dotti che tenevano il conto dei giorni in quel luogo maledetto dalle Parche. Eppure l'aveva fatto, aveva pensato che fosse stato un bene non potersi stabilire tra quei giardini pensili e camminare sino alle sponde del lago, scorgere da lontano le Isole dei Beati, magari malauguratamente avvistarlo far lo stesso ma sulla riva di una di quelle zolle che emergevano dalle acque.
Era stata la follia del dolore, dirsi che fossero meglio le pene dell'Inferno ad una morte eterna di pace e tranquillità, di bellezza, solo per evitare di vederlo. Di vedere entrambi.
Adesso comprendeva quello stupido modo di dire “passare le pente dell'Inferno”, perché era vero, dannatamente vero, agli Inferi si soffriva e basta, quella parte luminosa non era dominio del Signore dei Morti. Non poteva esserlo, era solo uno stupido miraggio, un miraggio che lui non avrebbe mai e poi mai potuto vedere. O almeno così credeva fino a quel momento.
Con mani tremanti per lo sforzo di stringere le catene legate ai suoi polsi e sopportare un po' di più quell'atroce dolore, l'anima raccolse da terra il volantino giallo pur ignorando cosa fosse davvero. Gli era stato detto, da altre anime lì condannate, che il mondo era andato avanti, che c'era stato progresso in ogni ambito della vita, ma a lui di quella vita non interessava più nulla se non il fatto che gli fosse stata ingiustamente strappata.
Per un instante rimase ad interrogarsi su come fosse possibile che una stuoia di papiro fosse così fine, così delicata e gialla come la curcuma, ma subito dopo tutta la sua attenzione fu attirata da quei caratteri scuri che ormai da troppo non vedeva se non sulle arcate delle stanze dei Campi di Pena e su quegli strani oggetti metallici e colorati che gli aguzzini infernali chiamavano “cartelli”.
Sgranò gli occhi pesti di fatica e drizzò la schiena dolorante, aveva letto bene? Lo rifece, ancora e ancora finché quelle parole non gli rimasero impresse a fuoco come marchiati da un ferro rovente simile a quelli che tante volte aveva sentito sulla sua pelle in quei secoli di torture.
Si massaggiò una spalla senza però distogliere lo sguardo da quel foglio che gli prometteva la possibilità di abbandonare quelle terre fin troppo ricordate dagli Dei e di tornare alla vita, a quella vera e non alla fittizia replica eterna a cui era costretto da troppo.
Le iscrizioni erano aperte anche per le anime dei Campi di Pena, c'era scritto chiaro e tondo e probabilmente sarebbe stata la sua unica chance, contrapposta all'infinito pagamento del suo debito.
Una sfida, una gara, una corsa.
Non era mai stato troppo atletico nella vita ma aveva ugualmente sempre ottenuto ciò che voleva.

Sempre.

Era insignificante il numero di morti che avrebbe partecipato, sarebbe stato lui a vincere di sicuro, nessuno poteva sconfiggerlo perché nessuno poteva rifiutargli una richiesta.
La sua carnagione parve riprendere colore e tono, animata a una vita che ormai non aveva più da tempo immemore.
Quelle stupide anime sue rivali potevano solo che tremare e spostarsi dal suo cammino, Cicno il Crudele stava tornando.

 

 

*

 

 

Aveva imparato che le storie raccontategli in vita di come fosse l'Inferno erano giuste ma incomplete.
Nelle profondità della terra si aprivano valli scure come la fuliggine, braci spente e polverizzate di corpi bruciati nei roghi, anime bianche ed inconsistenti come spire di fumo disperse dal vento.
Se si guardava con attenzione, tra tutto il carbone e le sue esalazioni, si poteva scorgere un alto cancello di ferro che come una fibbia lucida teneva chiuse le bianche braccia delle monolitiche mura dei Campi Elisi. A lui avevano insegnato che il paradiso fosse alla luce del sole e a quella delle stelle, la rivelazione che fosse anch'esso sotto terra lo aveva un po' deluso, lasciandolo con un senso di nostalgia in corpo che ormai era abituato a sentire.
Che poi: poteva dire di avere ancora un corpo? Forse sarebbe stato più giusto dire “nell'anima”, ma aveva ancora anche questa? E l'anima che era diventato da morto era la stessa che aveva creduto di possedere da vivo?
Non lo sapeva, come non sapeva se quei Campi fossero belli come le riproduzioni del Paradiso Cristiano dei quadri che aveva scorto su libri di testo e nei musei.
Ma se c'era una similitudine con l'Inferno di Dante, quella stava tutta nelle sofferenze e nelle pene che venivano inflitte ad ogni sporca anima come lo era lui.
Dietro le mura nere, forse delle stesse ceneri che nutrivano l'erba delle Praterie, oltre il filo spinato arrugginito e sporco di sangue – come potessero dei morti aver ancora sangue in corpo gli era ignoto-, dopo la terra battuta ed il fango secco, enormi gradoni di pietra scendevano fino al Tartaro come cupe coltivazioni su una ripa scoscesa.
Erano veri e propri campi rocciosi e di terra fresca e smossa, dove i piedi fantasmi affondavano come nelle sabbie mobili. Ognuno ospitava un crimine diverso, ognuno ne ospitava uno sempre più nefasto, sempre più terribile ed imperdonabile.
Quando aveva sentito il nome di quei luoghi, quando aveva udito la parola “Campi di Pena” aveva creduto il peggio, nella sua mente si erano ripetuti, come in un eco, i racconti dei campi del suo paese e aveva pregato di morire di nuovo, questa volta scomparendo per sempre dalla faccia della terra.
Così non era stato.
Il suo gradone, il suo campo, non era tanto in profondità, forse perché alla fine non aveva fatto poi così male a nessuno sebbene si ripetesse che il suo crimine fosse stato comunque deplorevole. Non aveva neanche qualcuno che lo torturasse per farlo pentire, magari credevano che lo avesse già fatto, o più semplicemente sapevano che la sua tortura era lui stesso ad infliggersela.
Una lunga inferriata lo divideva dal bordo oltre il cui sarebbe precipitato nel girone successivo, le sbarre di ferro nero costeggiavano tutto il perimetro sino alla porta blindata dietro cui si celavano le scale per il basso. A lui era concesso vagare senza una meta, sfiorando altre anime dannate come lui ma condannate ad altri supplizi. Aveva in fine maturato la consapevolezza che lasciarlo a piede libero comportasse altro dolore per tutti coloro con cui divideva l'infame destino, un dolore aggiuntivo che loro gli restituivano guardandolo con odio, con rabbia e disgusto.
Quella era la sua pena, farsi odiare e ricordare per sempre perché quell'odio gli giungeva così forte mentre spandeva le sue spire su ogni anima, senza eccezione alcuna. E se gli altri avevano catene e legacci alle braccia e alle caviglie, lui aveva solo un giogo lucido e scintillante, che feriva lo sguardo di quegli esseri che ormai non ricordavano più cosa fosse la luce se non quella dei fuochi infernali. Il suo collo portava i segni di quel collare ma passavano in secondo piano a confronto con ciò che gli si agitava nel petto.
Il suo supplizio era tutto dentro di lui, non erano ferite fisiche, era solo cupo e sordo dolore. La sua scelta che gli si ripresentava davanti agli occhi ancora e ancora. Un solo gesto che lo aveva condannato all'Ade.
Non c'era neanche una pozza torbida in cui cercare di specchiarsi, non sapeva neanche che aspetto avesse ormai il suo volto, forse non ricordava neanche più com'era, di che colore fossero i suoi capelli e i suoi occhi, non poteva vedere come quel male lo avesse trasfigurato.
Non ricordava e non voleva farlo, quello era il suo destino, la giusta conseguenza di ciò che aveva osato fare.
Allora perché continuava a fissare quel volantino verde che gli era caduto in testa dal cielo?
Quella inaspettata pioggia gli aveva ricordato i fogli che venivano gettati dalle balconate dei palazzi durante le manifestazioni, dopo o prima della guerra. Un macabro memorandum di ciò che era e non sarebbe più stato. Perché lui si meritava quello che stava vivendo. Non doveva sperare in null'altro… non doveva ma lo stava facendo.
Tornare ad avere un vero corpo, calpestare l'erba e respirare a pieni polmoni l'aria aperta sopra cui non vi era una volta rocciosa ma solo il cielo infinito che diveniva sempre più blu.
Sarebbe potuto tornare a casa sua, vedere come stavano le persone che aveva lasciato, cos'era loro successo. Si sarebbe accontentato anche di andar a visitare le loro tombe se il tempo passato fosse stato ormai troppo. Avrebbe accettato tutto, tutto pur di poter tornare a vivere e non pensare più a ciò che aveva fatto, che aveva perso. Forse quei ricordi non lo avrebbero mai abbandonato davvero, forse vi avrebbe dovuto convivere per sempre, ma sarebbe comunque stato vivo.
In passato non era stato all'altezza della situazione, ma questa volta, si disse Jonas sicuro come non lo era da tempo, avrebbe lottato con tutto sé stesso. A qualunque costo.

 

 

*

 

 

Il silenzio lo aveva accompagnato in tanti anni di vita, in tante avventure diverse. Era stato la soffocante colonna sonora dell'attesa, l'assordante voce della guerra e del dolore. Era stato la dolce sinfonia della notte e quella calda del giorno. Eppure, malgrado tutto il tempo, il loro rapporto rimaneva ballerino e incostante.
C'era silenzio nella sua cameretta la notte, quando i suoi genitori non erano in casa, quando solo uno dei due vi era ma non dormiva, il suo respiro lento e costante non riempiva la camera da letto.
Anche casa sua ora era silenziosa mentre un tempo era stata animata da voci alte, allegre e giocose.
Voci fantasma appartenenti ad altrettanti fantasmi, persi per sempre o forse per il lasso di tempo necessario affinché lui non li trovasse più.
Aveva chiesto spesso ad Ade di dargli quanto meno un indizio, ma il dio continuava a ripetere di non poterlo fare, per il suo bene, per il loro.
Tutte cazzate, questa era la sua convinzione, ma ormai Gio sapeva che se l'amico si impuntava su qualcosa difficilmente gli si poteva far cambiare idea. Non che questo avrebbe cambiato la situazione, sarebbe comunque stato seduto nel salotto privato di casa sua ad attendere che qualche essere di una qualunque entità gli portasse notizie.
Gli altri Dei erano stati divisi sulla sua proposta, Atena era andata su tutte le furie quando l'aveva visto entrare nella Sala dei Troni, ma come sempre Gio se ne era sbattuto, divertendosi a ricordarle con sadica calma che non era una sua scelta quella di ammetterlo o meno al loro cospetto. Spettava a Zeus e Gio sapeva che il dio non gli avrebbe mai rifiutato l'ingresso, dopotutto non rifiutava neanche le sue idee.
Era comunque andato via dopo aver sganciato la bomba e aveva lasciato Ade a destreggiarsi tra i suoi amati parenti mentre lui se ne andava a cercare un angolo tranquillo per parlare con un vecchio amico e chiedergli di mettere una buona parola con suo fratello.
Con la benedizione unanime o meno dei grandi capi, il progetto era partito, Gio sapeva che nessuno di loro avrebbe potuto rifiutare un'idea così allettante, di assistere ad uno scontro di anime, nessuno di loro avrebbe rifiutato l'opportunità di tormentare ancora quegli esseri così effimeri che erano gli umani.
Forse non lo avrebbe fatto neanche lui in effetti.
Adesso doveva solo attendere e vedere in quanti si sarebbero presentati a quella gara, perché non vi erano criteri o limiti, l'intero Ade avrebbe potuto partecipare e la cosa sarebbe solo stata più spettacolare e lunga. Questo gioco avrebbe tenuto gli Dei impegnati per molto tempo, forse persino più del dovuto.
Tanto meglio per lui in ogni caso.
Alzò lo sguardo dal pavimento e lo puntò su grande mobile a muro che occupava buona parte della parete di nord. Tra tutti i libri ed i gingilli provenienti dai mille luoghi di quel mondo così grande eppure così piccolo, vi erano lucide cornici d'argento e legno levigato. Dalla fotografia in alto a destra una ragazza di forse diciotto anni ed un ragazzino di una quindicina circa fissavano l'obbiettivo sorridenti, i colori di una vita nascosti dietro al bianco e nero della pellicola.
Gio piegò le labbra di quello che forse sarebbe dovuto essere un sorriso ma che, come gli ripeteva da sempre Ade, pareva più il ghigno di un delinquente.
Che gli Dei giocassero con le anime dei loro defunti, lui sarebbe andato a ricercarne quelle di pochi. Finalmente avrebbe messo un punto a quella storia una volta per tutte.

 

 

 












 

 

   
 
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