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Autore: kanagawa    16/12/2018    1 recensioni
Lentamente, tutto si sbriciola, pezzo dopo pezzo ....
Ci sono delle mattine in cui mi piacerebbe svegliarmi e ritrovarti accanto, mentre il sole solleva i monti dietro alla livida alba nordica.. La mattina che mi svegliai e non c’eri, compresi che cosa fosse la solitudine. Non ti cercai. Tutto ciò che feci, fu di ritrovare la strada di casa. Perché di quella libertà pura e corrosiva che tu ami tanto, io, non sapevo che farmene.
I giorni di gioia e perdizione, bruciati lungo quel tratto di strada selvaggia, dove non c’era nulla... tempo, linguaggio, umanità; nulla. Il respiro di una natura sferzante e incontaminata che sulla pelle sapeva infliggere carezze terribili, e ad avvolgere ogni cosa, la nebbia.
“Incontriamoci tra dieci anni, Maki. Io ti aspetterò al solito posto.”
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[Edit capitolo 3 e 6]
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kenji Fujima, Shinichi Maki
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Light from a dead star'
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«Kenji, io mi sto congelando, andiamo a cenare ora?»
Batteva i denti dal freddo, strofinandosi le mani avvolte nei rigidi guanti di pelle che tentava di scaldare, tra una parola e l’altra, nel suo vacuo alitare. Il cielo era di una bellezza mozzafiato, quella sera, in cima allo Sky Station di Abisko, dove il vento immobilizzava le ossa e scarnificava le guance. E immobile lui era, lo sguardo ipnotizzato a cogliere le variazioni musicali nei colori di quel cielo stregato che nessun’altro sembrava udire. Somigliava vagamente a una bestiola primordiale che fissa sbigottito il firmamento in queste medesime terre innevate, un tempo addietro…
Come una fascia di scacciapensieri appesa in alto, che, a un certo punto, qualche mano aveva smosso, facendo ondeggiare. Ma lassù, incendiati di un verde fuoco fluorescente, erano particelle di elettroni e atomi d’ossigeno in collisione, a dar vita a quella muta danza-scontro attraverso i cieli notturni dei secoli, delle ere, incessantemente.
«Vai pure dentro se vuoi…» Non sembrò accorgersi delle estreme condizioni climatiche, Fujima, la punta del naso tutta rossa che puntava in alto e che avrebbe colato pericolosamente di lì a poco, le labbra del medesimo colore socchiuse.
Allora Maki non disse più nulla. Ritornò a guardare il cielo e gli rimase in silenzio accanto per il resto del tempo.
 

 
 
Vägen hem - 0 mile 
 
"Il fatto è che non posso più tornare indietro,
che non riesco a vivere con te né senza di te."
F. Battiato
 


Dire “casa è dove sei tu” è piuttosto facile, ma nella realtà, le cose saranno forse più complicate.
Anche se ci dovessimo incontrare ancora una volta, anche se il cuore dovesse morire ancora una volta, sono certo che ora non sarebbe più un dolore prioritario.
Non si muore per così poco, in fondo. A forza di venire spezzato, il cuore finisce per assumere le qualità di un diamante. Finché si è vivi, come essere costantemente affamati, ci sarà sempre qualcosa che vorremo proteggere. Ora le mie giornate trascorrono serene e posso dire senza dubbio di essere molto appagato. I doni che ho ricevuto dalla vita, tanto immeritati e preziosi, e l’amore che provo per loro, a volte ho impressione che siano in fondo una tua eredità … Mi viene quasi da sorridere a questo pensiero.
Oh, Kenji… Dove sei ora? Mi chiedo se tu riesca a vedere tutto questo; vorrei tanto poterteli mostrare, la luce di questa stagione, la bellezza scintillante nel vigore di ogni foglia, ogni colore, a ogni mutar di marea, tutte le gioie di questo mondo che tu mi hai lasciato, quando te ne sei andato.
… Anche adesso, loro ti appartengono, sai?
Il 7 giugno, quando il sole sorgerà, io, sarò ad aspettarti in quel posto. Non mancare.
 
 
Aveva pensato spesso a quale potesse essere quel “solito posto”.
In questi dieci anni non era mai tornato in Svezia, per mancanza di tempo o di volontà. Ogni giorno c’erano impegni e confusione in abbondanza con cui distrarsi. La città era cambiata nel frattempo; come quel locale all’incrocio dove si recavano nei pomeriggi liberi, a reggere gli sguardi sbigottiti di mezza città tra una chiacchiera e l’altra: ora al suo posto c’era un calzolaio. O magari, il lungo muro frangionde su cui avevano passeggiato spesso in adolescenza; quella scalinata di pietra all’entrata della spiaggia, con il distributore di bibite rimosso da tempo, dove, verso sera, erano soliti a darsi appuntamento…
Tempo fa era passato ancora davanti a Villa Fujima, ma l’aveva trovata in totale stato di decadenza, con l’erba che cresceva fino alla vita e i cancelli sbarrati. A quanto pare, Ryuji Fujima, che all’epoca si era buttato in politica, era stato sorpreso in atti fraudolenti e accusato di bancarotta, per ricoprire i debiti aveva perso tutto il suo patrimonio. Ora quella bellissima residenza era stata messa in vendita dallo Stato, ma dati la fama infausta e il disonorato trascorso, nessuno la voleva acquistare. Questo, era solo uno dei tanti eventi di cronaca succeduti nel corso degli anni, presto dimenticato dalla gente… Come l’esistenza stessa di Kenji, passato sopra la città come un soffio di vento per scuoterne appena il pigro fogliame. Erano lontani i giorni in cui i suoi passi avevano vagato per questi stessi prati abbandonati, il suo giovane animo irrequieto, quegli occhi rabbiosi e i pugni stretti, senza una meta… A questo pensiero, gli si stringeva il cuore.
 


 
 
«Lei giocava a pallacanestro, vero?»
Un giorno gli era capitato di sgranare gli occhi davanti a una frase del genere. Beh, non se la aspettava. Era seduto ad aspettare la figlioletta che finiva la lezione di galleggiamento in piscina, il solito venerdì nero, con le narici pregne di una nuvola di nicotina che il vicino genitore molestatore stava fumando sfacciatamente; l’aveva intravvisto e ivi ignorato qualche volta all’ingresso mentre accompagnava il pargolo, un viso del tutto trascurabile, quanto la sua voce. Gli disse di essere della sua stessa generazione e di averlo visto gareggiare un'estate di 20'anni fa o giù di lì... Non gli smentì, ma disse solo di non ricordarsi bene i dettagli di quel periodo che in fondo faceva parte ormai di una lontana adolescenza. Maki fece vibrare una gamba con latente nervosismo, non sapendo se era per il fumo o le chiacchiere non gradite dell'uomo; non gli era mai piaciuto parlare del proprio passato cestistico, per qualche ragione, tantomeno in questo caso davanti a un perfetto sconosciuto. Perciò tentò di liquidare con un blando «Ci giocavo solo a tempo perso, in realtà…» In realtà era stata più o meno la sua unica ragione di vita per 24 sudatissimi stagioni dell’adolescenza, i tanti trofei, la troppa pressione e le aspettative crescenti e spropositate del mondo intero su di sé, e poi…. Oh, bé, Fujima. «Lei è così modesto! I suoi figli hanno già iniziato?» Fece per offrirgli il pacchetto aperto di sigarette, che lui rifiutò. Invece levò una mano per salutare Nagisa che gli stava sbracciando in quel momento tra gli spruzzi, con un non so che di disperato negli occhi, tutta infagottata tra ciambella e braccioli. Sorrise intenerito. «Veramente non ho figli maschi, anche volendo non potrei insegnarli a giocare.»  
Lo aveva sperato con un sottile timore nel cuore. Naturalmente, nemmeno una volta era stato nominato. E come potrebbe? Se non si scavavano in fondo agli articoli sportivi dell’epoca, difficilmente si potrebbe avere nozione di certi dettagli tecnici, e lui era solo uno dei tanti, numerosissimi, e non era stato di certo il più eclatante… Come se la loro celeberrima rivalità non fosse mai esistita che nella sua mente, puro frutto della sua immaginazione. Sarà un caso patologico?
Per quanti sforzi si facciano, molte cose non possono essere cambiate; di certo, la redenzione non spetta a tutti. Lui ne era convinto… Specialmente, quando osservava le sue figlie. Nagisa e soprattutto Sora, l’incarnazione dei suoi rimorsi, che forse non lo avrebbe mai amato e tantomeno avrebbe potuto ereditare la sua passione: era il peso del disprezzo in quegli occhi scuri dal taglio orientale identici ai suoi, nei quali si sarebbe dovuto rispecchiare per il resto dei suoi giorni…
 

Indugiava davanti alla fila di riviste e giornali, Maki, lo sguardo un po’ perso nel vuoto. La figlia aspettava in macchina, parcheggiata in doppia fila fuori dal minimarket. Prese velocemente una copia di “Asahi Shinbun” dagli scaffali dei quotidiani esposti e di fronte alla cassa, fermandosi un secondo, indicò i pacchetti blu all’angolo del ripiano dietro al commesso. «Mi dia anche quello, per favore.»

“….. Chi è questo Miguel?”

.... Fujima sbuffò al suo ennesimo scocciante terzo grado, facendo sollevare la frangia. Strappò un ciuffo d’erba e strofinandolo tra le dita, lo annusò delicatamente; lo sguardo indifferente. “È meu amante brasileiro.” Con immediata rimostranza, Maki gli fu addosso, schiacciandolo contro il petto sul prato ispido e soleggiato. “Così io sarei il tuo amante giapponese, mh? Scommetto che ne hai qualcuno anche in Svizzera o in Messico, dai, confessa!” Prese a percuoterlo di solletico lungo i fianchi mentre lui si agitava come un’anguilla, le braccia ritratte a proteggersi vanamente. “No, smettila! Ti prego!” e ridendo senza ritegno a ogni sillaba contratta. Il compagno lo torturò ancora mordicchiandogli teneramente la mandibola inerte e ricoprendogli tutte le guance di una profusione di brevi baci a schiocco, che si intervallavano alle vibrazioni delle sue risate......
Quel flash di loro due insieme avvolto in una cornice di felicità quasi stucchevole gli sovvenne molesto e irrazionalmente.
Ogni tanto gli era venuto il dubbio che non avesse continuato a vederlo, quel tale, magari le volte in cui si era allontanato per curare i suoi affari in Sudamerica, stando via anche per diversi giorni; ovviamente, non l’avrebbe mai saputo.
 

Di tutti gli errori, tutte le menzogne, avrei chiesto perdono a lui, poiché è il solo che ne abbia diritto, il solo che possa mai perdonarmi. Ma verso di lui, non sono mai stato colpevole… Probabilmente, è l’unica verità della mia esistenza.
 


Se doveva ripensare a quei giorni, non erano i luminosi riflettori del palazzetto o le vedute sconfinate sull’oceano; non erano quelle strade, quei negozi o le loro lunghe chiacchierate davanti alle tazze vuote… Spogliato il cuore di ogni ricordo e ogni parola, c’era infine un solo luogo.
Sicuramente, anche Fujima avrebbe pensato lo stesso.
Quelle cinque fermate tra le abitazioni e le collinette intravviste a pelo, poi due costeggianti il litorale scintillante e tre ancora nell’entroterra umida. Ogni mattina, da una vita.
Quel posto che non esiste, che pure era sempre stato lì, davanti ai suoi occhi, nella sua memoria, con certezza incontrovertibile; anche se tutto il resto dovesse essere solo una menzogna. Questo era, in fondo, tutto ciò che sapeva; tutto ciò che loro erano.
 
Sarebbero state le 7:23, l’ora in cui il suo viso era solito ad apparire sul binario della stazione al ridosso del suo vecchio quartiere.
Più volte, il consiglio comunale aveva tentato di abolire l’antica linea Enoshima, per rimettere un tratto ferroviario moderno, ma quattro anni fa una petizione cittadina lo aveva fatto desistere. Certo, le stazioni maggiori erano state ristrutturate, ma sulle coordinate geografiche ancora erano le medesime, come ventidue anni fa; anche se ormai, si potevano più che altro considerare un cimelio antico, oggetto di crescente interesse turistico. Nella sua essenzialità, di certo, non sarebbe mai mutato.
Sceso dal taxi, si vide tagliare la strada da un gruppo di adolescenti che correva schiamazzando verso le entrate automatiche. Portavano la divisa dello Shoyo.
Fece biglietto, anche se non doveva andare da nessuna parte, e rimase su una panchina ad aspettare. Seduto immobile ad aspettare. Un uomo parlava al cellulare accanto a lui e discuteva con ardore di piani finanziari. Arrivò un treno e la stazione si svuotava di colpo, per poi riempirsi ancora nello scarto d’attesa. Teenager trafelati di corsa si precipitavano dentro alle porte in chiusura, ansimando a perdifiato, senza tuttavia risparmiarsi di risate. Ancora risa, una donna di mezza età. Respirava il ritmo semplice di una stazione ferroviaria alle prime ore del mattino, dove, lui era l’unico che non avesse una meta a cui dirigersi. Arrivi e partenze, partenze e arrivi. Diventa un presagio palpabile, quando ci si mescola a questa cadenza immutabile, e si impara a cogliere le lievi vibrazioni che precedono il puntuale fischio della locomotiva in dirittura d’arrivo, come se fosse il cuore stesso a invocarla. Le porte si spalancavano, qualcuno scendeva, altri continuavano il viaggio; e tutte le volte si sarebbe aspettato, con il battito accelerato, di morire alla vista del volto che cercava. Ma… A metà mattinata, quando il sole, scavalcato il filo della pensilina, era arrivato a toccare le punte incerate delle sue scarpe, e ancora non era accaduto niente, Maki decise che era ora di andare a prendersi un caffè.
Dalla vetrina del locale, continuò a fissare i movimenti del binario. L’aroma del caffè lo svegliò un po’ di più e si chiese, in effetti, come mai fosse stato convinto che sarebbe arrivato col treno; era pur sempre nei pressi di casa sua, poteva benissimo prendere anche lui un taxi… Così pensando, si diresse verso il ponte che cavalcava la strada ferrata, all’estremità della stazione. Da lassù, avrebbe avuto una visuale migliore, e poi, aveva impressione che in fondo fosse proprio quello il “luogo” in questione.
“E un giorno ti batterò, ricordatelo!”
Si era sentito così stupidamente felice in quell’istante, chissà come mai… Il sole aveva cominciato a battere forte sulla pelle, appoggiato lungo il parapetto scrostato, si guardò l’orologio, erano quasi le 11. Sotto di sé, i treni continuava a sfrecciare a intervalli regolari, ora il flusso dei passeggeri si era attenuato un po’. Aveva avuto tutto agio di osservare degli operai ferroviari al lavoro su un tratto in disuso. Si tolse la giacca, accaldato, che pose sul corrimano, le braccia allargate a sostenere l’ampia schiena flessa. Cedette un attimo il peso della fronte, accasciandosi in avanti con un sospiro; levò di nuovo la testa, e si cominciò allora a scorgere una scintilla di esasperazione nei suoi occhi.
E se avesse sbagliato il luogo dell’appuntamento? Se lo chiese per la prima volta. E se Fujima lo stesse aspettando da qualche altra parte, convinto a questo punto che lui non sarebbe venuto? Ma non era lo stesso dubbio che gli stava sorgendo in questo momento? Ancora un attimo, ancora qualche minuto… Non poteva che trattarsi di questo posto, di questa cavalcavia. Questa convinzione cresceva dentro di sé, con trepidazione, minuto dopo minuto. Tornò giù a bere dell’altro caffè ed era l’ora di pranzo, comprò una rivista, cambiò panchina e prospettiva, passeggiò un po’, infine salì di nuovo sulla sopraelevata quando si rese conto che, nell’aria rinfrescata, il sole stava ormai tramontando. Sirene a largo.
«電車がきます… - Densha ga kimasu…» “Treno in arrivo alla piattaforma numero uno, si prega ai signori passeggeri di attendere dietro alla linea gialla.”

Fujima, non venne.
 
 
 








A volte mi ritrovo ancora a sperare… Ti ho visto in città una volta, mi chiedo se non sia stato frutto della mia immaginazione; camminavi tra la folla, in un giorno feriale. A Roppongi.
Non avevo compreso finora di essere io stesso, quello che si era smarrito.
Le poche certezze strette gelosamente nel pugno, si sbriciolano. E mi domando, se tutto quanto, tutta la strada fatta fino a qui, abbia avuto realmente un senso… Sto vacillando.
 
 
La sera prima, sua moglie gli chiese di portare le bambine al parco, mentre lavava i piatti in cucina.
Le spalle energiche da ex infermiera davanti al lavello e un fisico slanciato che non aveva mai perso la freschezza dei suoi ventitré anni, quando la conobbe quasi per caso a un semaforo, tra colpi di clacson e il frastuono delle sirene. Lui viaggiava su un taxi e lei aveva fretta. Si era ritrovato questa pazza accanto al sedile, dopo che aveva aperto la portiera fregandosene del fatto che il mezzo fosse già occupato, e bellamente disse all’autista di dirigersi verso l’Ospedale Universitario di Yokohama, mentre lui la fissava stralunato quanto il conducente stesso. Si chiamava Naoko Shitamura.
Era stato più o meno 7 mesi dopo il suo ritorno in Giappone.
Accidentalmente bella e preparatissima tirocinante di infermieristica, sarà stato per il suo modo tutto particolare di chiamarlo, come faceva solo sua madre -alla quale fra l’altro somigliava un po’-, o per quel caratterino schietto ma in fondo semplice e privo di complicazioni, e non si può dire esattamente che avesse sposato la prima che passava, ma era quasi vero… All’epoca, suo padre era appena scomparso e la presenza di Naoko fu provvidenziale a casa. Ancora adesso, gliene era molto grato. Non lo si poteva accusare di cinismo, tutto sommato.
Già, ma perché proprio lei?
Maki sollevò il capo dagli avanzi di pratiche che si era portato a casa, quel sabato sera, annuendo distrattamente.
… Ormai non stava più tanto a scervellarsi, a volte, le ragioni delle nostre scelte sono molto più elementari di quanto si creda. Era come se avesse aperto all’improvviso gli occhi, aveva chiaro in mente il meccanismo imperfetto di questo mondo, il cuore stesso non aveva più misteri per lui, e una volta compreso che non c’era niente da perdere, non restava che rilassarsi; questione di abitudine, forse. Ed era strano perché, questo, in fondo, non era il suo modo di vedere le cose.... Era sempre stato il suo.
Del resto, aveva continuato a condurre la medesima vita a scadenze regolari, facendo le stesse scelte di prima, vizi ed errori, senza cambiare mai di una virgola; ma non c’era nulla di male in questo. L’intesa quotidiana con Naoko si spartiva in modo equilibrato, per taciti consensi e stima reciproca; ognuno aveva ruolo nella vita dell’altro in quanto necessario e vincolante, ed era piuttosto difficile per loro riuscire a trovare punti su cui intessere divergenze. La verità è che c’erano tante cose che lei non sapeva e che non le aveva mai raccontato… Quello che aveva fatto, tutto il male che aveva causato, prima di ricevere questa seconda possibilità e ricominciare daccapo, come se non si fosse mai macchiato di alcun peccato. Perché aveva la sensazione che lei, sempre così aperta e perspicace, in fondo, non lo avrebbe capito…
 
«Sono felice che tu sia tornato, Shin. Grazie.» Maki stringeva la mano di sua madre, quel giorno, al ritorno dal funerale. Aveva il pizzo nero della visiera abbassato e la città scorreva tetra accanto ai vetri oscurati dell’auto.
“… Grazie.” Una madre non dovrebbe mai rivolgere un’espressione simile al proprio figlio.
Qualcosa di umido e sgradevole sul petto, qualcosa come il sapore di ruggine, la coscienza che in tutto ciò il mondo andava ancora avanti, lieto e indifferente, senza clamori, senza condanne.
Chissà che anche lui non avesse provato lo stesso, quella volta….
 


«Papà, sete.» Maki si sentì scrollare per una manica, la piccola Nagisa gli arrivava appena alle ginocchia. C'era una festa di compleanno allestita in un parco alla quale era stata invitata Sora e la piccola le fu di scorta, ma come al solito era rimasta rannicchiata in un angolino, senza neanche assaggiare la torta, a fissare tutti quei bambini più grandi che correvano nel parco giochi, con quell’espressione smarrita così tipica di lei. Così che non poté fare altro che portarla a fare una passeggiata nei dintorni, in attesa che finisse lo schiamazzo.
Lo fissava con i suoi occhi da cucciola, aggrappata a una sua gamba. Maki sospirò. «Va bene, ma aspettami qui, non ti allontanare.» E andò dall’altra parte della strada, dove aveva intravvisto il tendone a strisce di un chiosco, senza intanto perderla di vista. «Sono 150 yen, signore.» Le prese una bottiglietta di succo ACE che poi sarebbe toccato a lui finire, e mentre frugava nel portamonete per scovare gli spiccioli sul fondo, si voltò d’istinto a controllare se era ancora nella posizione raccomandata.
Lo era, ma scorse stavolta qualcuno accanto a sua figlia e la cosa lo allarmò. «Mi scusi un attimo…» Maki lasciò la bibita sul bancone e si accostò alla striscia bianca della carreggiata, tentando di farsi sentire. «Nagisa!» La piccola non sembrò accorgersene, teneva per mano lo sconosciuto che si era chinato ad accarezzarle dolcemente il taglio a caschetto… Nell’ondata di apprensione, c’era tuttavia qualcos’altro che lo turbava. Squadrava ora con insistenza quella figura di schiena e ne ebbe una fitta al cuore. Non può essere… Maki attraversò di corsa quella trafficata via a pochi metri dal parco, scansando le automobili in partenza al semaforo, ma quando le giunse accanto, trafelato e incerto, l’uomo era già sparito.
«Nagisa, quante volte ti ho detto che non devi parlare agli sconosciuti!» Si inginocchiò a stringerle le mani gracili. La piccola non disse nulla, fissandolo atona. La prese in braccio e si risollevò in piedi per gettare lungamente uno sguardo irrequieto attorno a sé, ma non vide altro che famiglie al passeggio tra i mulinelli di foglie scricchiolanti e dorate.

Nell’eco delle risa infantili, l’autunno si infittiva.
 

“Se fosse tuo, io lo amerei moltissimo …”




 
 



 
Accadde sei mesi dopo.
 
Tornando a casa un martedì sera, aveva controllato come al solito la posta e nella caterva di pubblicità e bollette aveva trovato un pacco piuttosto ambiguo. Bianco, sigillato con riguardo e leggermente rigonfio. Gli era stato spedito due giorni fa.
Entrò in soggiorno e lasciò cadere il resto del malloppo sul tavolino insieme alle chiavi della macchina, vagamente incuriosito. Trovò uno stiletto. Lo aperse con attenzione e per prima cosa lesse il contenuto cartaceo:
 
 
Mitsui Bank – SMFG “Sumimoto Mitsui Financial Group”
Alla cortese attenzione dell’intestatario delegato Egr. Sig. Maki Shin’ichi
 
Gentile Cliente,
In disposizione delle norme contrattuali inerenti al rapporto di locazione stipulato in data 200X/10/15  per il canone della cassetta di sicurezza n° 4127  presso la filiale bancaria in sede244-0801, Kanagawa-ken, Totsuka-ku, Yokohama-shi, Shinano-machi 516-8 , con la presente Vi invitiamo al rinnovo del contratto di locazione entro 90 giorni previo pagamento del canone annuo pattuito (vedere allegato 1). In caso di mancato adempimento, Vi ricordiamo che la cessazione del medesimo avverrà entro i termini stabiliti con lo svuotamento forzato del deposito tramite il personale incaricato. 
 
Cordiali saluti, 
Responsabile amministrativo filiale Mitsui Bank, T. Kobayashi 
 
 
 
La busta riportava l’indirizzo di uno studio legale, sul fondo, una chiave elettronica e la sua tessera gemella. Nessuna riga in più.
Uno scherzo? Si corrugò in un primo istante, rigirandosela scettico, mentre slegava la cravatta con l’altra mano. “Sumimoto-Mitsui FG”, l’autenticità del timbro era incontestabile tuttavia... L’indomani si recò all’indirizzo riportato nella lettera, pronto a dichiarare la propria effettiva estraneità sul fatto e disdire la presunta proprietà su un cassetto di valore di cui non sapeva nemmeno l’esistenza. Lo ricevettero in una saletta privata e gli chiesero calorosamente le generalità, come se ci fosse stato già altre volte.
«Senta, credo che ci sia stato un errore…» Tentò di chiarire già alle prime battute, ma non fece calare l’inquietante sorriso istituzionale che il dipendente bancario esponeva al di là della scrivania. «Non si preoccupi, l’Avvocato Sakai ci ha dato tutte le disposizioni al riguardo.» Maki rimase restio sulle proprie posizioni e dopo una breve valutazione chiese di poter vedere il contratto.
«Ci risulta che il contenuto non sia mai stato spostato in questi anni, lei è il primo dei cointestatari che si presenta dopo la deposizione. Ne vuole una copia?» disse indicando il fascicolo tre le sue mani, dal quale Maki non distolse lo sguardo che, a ogni riga letta, diveniva sempre più impervio. L'impiegato lo osservò paziente finché non finì di leggere, posò sul tavolo quelle quattro pagine spillate e con un piccolo cenno, lo vide annuire.
«L’Avvocato Sakai ha provveduto finora a tutti i dettagli burocratici in delega dell’intestatario principale, il signor Fujima Kenji non si è mai presentato di persona,» esponeva con tono serafico il giovane impiegato, mentre la battitura intermittente della stampante sovrastava la sua voce, «ma ci è stato dato l’istruzione che qualora cessasse il versamento del canone, ci saremmo dovuti rivolgere a lei, Maki Shin’ichi-san, che è legalmente autorizzato ad aprirlo. Naturalmente, dal punto di vista formale non può ancora entrare in possesso dei beni contenuti: per questo deve contattare l’Avvocato stesso; le nostre facoltà non vanno oltre, mi dispiace tanto.» Allineò con premura tutti i fogli in verticale e li fece appuntare, prima di porgerglieli gentilmente con ancora un sorriso.
Maki, non li prese.
«…Vuole andare a vedere la cassetta?» con tono indulgente, domandò l'uomo.

“Torna a casa, Maki.”

Fin dall’inizio … Tu, fin dall’inizio …

Scesero insieme nella stanza del caveau.
Un lungo, angusto corridoio dalle pareti argentate ripartite in infiniti piccoli moduli, tutti ugualmente numerati; la scarsa illuminazione iniziale non suggeriva appieno le sue dimensioni reali e a ogni battuta di tacco sul pavimento, i sensibilissimi rilevatori a LED si accendevano di una soffusa luce bianca che descritto l’ultimo riquadro di marmo divenne quasi abbagliante. Gli scompartimenti arrivavano fino al soffitto, da cui lampeggiavano spie rosse. Il pensiero di aver firmato anticipatamente una denuncia in cui si dichiara l’incolumità relativa a tutti gli altri cointestatari, in quanto prassi ordinaria, non faceva che renderlo ancora più scettico e inquieto in quel momento...
«Siamo arrivati, è qui.» Gli indicò il personale, presentandogli un palmo aperto che non era un accessorio di cortesia. «Oh, certo…» Maki frugò in tasca per estrarre la chiave che aveva ricevuto insieme alla lettera il giorno prima.
Era un armadietto alto appena 14 cm, oblungo e stretto come il corridoio, il n° 4127, incastrato a metà busto in una pila di gemelle anonime, le cui storie si disperdevano nella notte come un sibilo di vento.
Cosa aveva nascosto, Fujima, in questa piccola e modesta banca del Giappone?
C’era, dal principio, un’infinità di cose che avrebbe voluto chiedergli. Un’infinità di direzioni, di possibilità, di aspettative… di conclusioni, dove conduceva questa strada.
I segreti taciuti da una vita, quel nodo stretto alla gola da togliergli il fiato; il codice sperduto del suo cuore e le chiavi dell’anima ora in suo possesso, dinanzi a questo minuscolo vano che stentava a contenere un singolo mattone della memoria: avrebbe saputo dargliele, le risposte che tanto cercava? Se gli fosse dato di porre una sola domanda…
La chiave venne inserita accanto a quella universale che l’impiegato bancario adoperò simultaneamente. I meccanismi ruotarono in un breve fragore, spaccando il silenzio stantio del sotterraneo. Terminato le proprie mansioni, lo lasciò in solitudine dopo un ossequioso inchino.
… Se gli fosse dato di porre una sola domanda, ora, quale sarebbe stata?
La cassetta era aperta.


 
Da piccolo, sognava di portare un radiotelescopio sulla luna, gli sarebbe piaciuto poter ascoltare i suoni dello spazio in una piccola stazione lunare che, chissà per quale ragione, se la immaginava sempre come un enorme granaio...

La sua voce viaggiava nel mormorio delle rotaie, le dita intrecciate davanti al ginocchio, il volto dai contorni sfocati e radiosi e il suo riso che, così prossimo, echeggiò breve come un disperdersi di ali in controvento... Che cosa stava stringendo tra le mani?
Non sapeva se era un ricordo reale o solo il riflesso di un sogno. Il vecchio vagone treno tutto vuoto pervaso di una luce abbagliante, dove loro due erano i soli passeggeri.

 
... E da lì, da quella stanza buia, avrebbe captato all’infinito i rumori di vita quaggiù sulla Terra… suoni di casa. Sapeva che sulla luna non ci sarebbe mai potuto andare, e allora, suo padre gli regalò una cosa…

 
A 50 metri di distanza ora dalla sua testa, il traffico cittadino scorreva sordo e lento e fumoso, trascinandosi dietro un cielo gravido di neve.
Nella nudità delle quattro placche blindate d’acciaio, altrettanto essenzialmente era stato riposto, dimentico di ogni altra protezione fuorché l’oscurità in cui era avvolto, un unico, immacolato dossier di documenti timbrati. Era redatto in un fitto svedese, allegato a una copia più recente di traduzione in lingua giapponese che avrebbe trovato qualche facciata più in là: l’Atto di proprietà sulla “Fattoria Marklund” a Nora. Mentre lo sfogliava, un immobile abitativo su due piani, il valore ammontato dopo la ristrutturazione, 1000 acri di terreno e foreste sfruttabili allo stato brado e i confini contrassegnati, in un sussurro di pagine sgusciò fuori un ritaglio di carta che, volteggiando, andò a cadere tra i lacci delle sue scarpe. Maki lo raccolse.
 
Non possiedo nulla, ma questo è l’oggetto più prezioso che ho.
 
Tra le mani strinse un foglio appassito che comprese essere un biglietto aereo in turistica, ormai inutilizzabile poiché risalente a più di 30’anni fa. Nel chiarore soffuso della filigrana poté ancora distinguere le brevi righe che rimarcavano il volo SK0984 Tokyo-Narita con scalo a Copenhagen, tastando uno a uno quei minuscoli caratteri quasi estinti…
 
…. Torna a casa, Maki.
 
… La destinazione, Maki non riuscì a leggerla, poiché tutto si fece chiaro e tremulo. Ma in quell’istante, per logica o per istinto, dentro di sé sentì di conoscerla e sentì di averlo in fondo sempre saputo....
"Stockholm".
A mani giunte lo impresse contro le labbra, saggiandovi sopra il calore del proprio respiro e sentendoselo spezzarsi tra le dita, fragile, quanto il ricordo cui vi era sbiaditamente aggrappato. L'addome gli si contrasse forzando l'arco della schiena a flettere verso il suolo, ma Maki non si permise di sprofondare. Il dolore affluiva vivido dalle sue unghie a scatti leggeri e impercettibili, come se il cuore vi pulsasse dentro incessantemente. Non seppe dire da quando la carta aveva cominciato a bagnarsi, per quanto tempo…
eppure aveva la sensazione di non averlo mai afferrato tra le mani, per quanto forte stringesse e male facesse.
E forse tuttora lo rivedeva tornare, conducendo per mano la minore delle sue figlie che lo riportava da lui, quella domenica offuscata, in un parco pieno di bambini ai margini della città, sorridergli…
meraviglioso, come se gli anni non fossero affatto trascorsi.
Sorridergli, perché lui avrebbe fatto lo stesso.
5164.837 miglia, anche se nessuno avrebbe mai saputo cosa fosse stato questo viaggio. 5164.837 miglia, dove forse tutto era rimasto come allora, come lo avevano lasciato. Quella casa, quella veranda, il giardino ancora incolto, la tazza di caffè lasciato a intiepidire sul tavolo, i barattoli di vernice vuoti che stipavano l'atrio spoglio... Tutto quanto cristallizzato nel tempo, come il giorno in cui se ne erano andati.
Non immensità da solcare né mondi da inventare al di là della cara soglia, infine…
Era tutto lì, nelle sue mani, a un solo palmo ora dai battiti infranti del suo cuore. Dove era sempre stato. Sempre, in attesa.
 






 

"Ma io vorrei essere un'aquila

vedere il piano del mondo che inclina verso di noi

e le leggi che si inchinano

lanciarmi a inseguire il tuo deserto

e i poteri solenni
e le porte dorate


cominciare di nuovo il viaggio."



 

 

Note:
1. Il testo citato "Stage Door" di Battiato, benché non sia una fan dalla musica italiana, ma questa canzone appartiene a un'altra parsona.

2.  "5164.837 miglia" sono idealmente la distana aerea che separa Kamakura da Stockholm. Questo era il senso...
3. Treno: Enoshima Dentetsu aka "Enoden". Oltre a essere un'icona di Slam Dunk, era questo il punto di connessione di tutta la seria secondo me, scelto come luogo di incontro, senza ovviamente tenere conto di un'incognita arbitraria: Fujima poteva prensentarsi così come no. Ebbene non aveva mai avuto intenzione di tornare, la promessa di incontrarsi dopo 10 anni era un modo affiché Maki potesse sopravvivere alla sua assenza e nel frattempo andare avanti e rifarsi una vita. Maki non sa nemmeno se è ancora vivo oppure no. Ma la facoltà di scegliere di volerlo scoprire, a questo punto, non è più mia. 


  
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