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Autore: Enchalott    19/12/2018    5 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a chi si appassionerà! :)
"Percepì il Crescente tatuato intorno all'ombelico: la sua salvezza, la sua condanna, il suo destino. Adara sollevò lo sguardo sull'uomo che la affiancava, il suo nemico più implacabile e crudele. Anthos sorrise di rimando e con quell'atto feroce privò il cielo del suo colore".
Genere: Avventura, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il ponte
 
Haffgan risalì lungo la scala a chiocciola, recando una lampada ad olio nella mano sinistra e rientrò nel suo alloggio privato, collocato all’ingresso delle carceri ma non per quello meno umido e gelido.
Fece scattare il chiavistello e il chiarore tenue della fiamma si irradiò per la piccola stanza: pochi mobili di legno sgangherato e tarlato e alcuni poveri utensili in ferro costituivano tutto il suo regno sotterraneo di demone in forma mortale.
Il suo sguardo si posò sul letto, addolcendosi: l’uomo tornò ad essere in tutto e per tutto lo sfortunato maniscalco Kesthar.
Màrsali riposava tra le coltri che lui le aveva adagiato addosso, nella speranza che si potesse riprendere grazie al calore della spessa lana di cui erano intessute. L’aveva trasportata in casa, caricandosela in spalla con finta noncuranza e attraversando il sotterraneo sotto gli sguardi torbidi e curiosi dei suoi assistenti. Aveva voluto che tutti lo notassero, per non destare sospetti. Nascondere qualcosa sotto gli occhi dei più era sempre stata una tattica vincente. Così aveva mostrato ai secondini la sua “preda”, tronfio come un tacchino, affermando che il principe Anthos era stato con lui molto generoso e che, finalmente, i suoi fedeli servigi erano stati ricompensati. La ragazzina era sua. Dunque, perché privarsi del suo diletto quella notte? Gli altri avevano sghignazzato con complicità, augurandosi un premio altrettanto succulento e le loro incitazioni volgari e ammirate l’avevano accompagnato fin sulla soglia.
Invece, una volta chiusa la spessa porta di legno, si era subito accertato che lei stesse bene e aveva fatto il possibile per farla risvegliare, ma con scarsi risultati. Dopo molte ore, la giovane veggente era ancora priva di sensi.
Il robusto guardiano riattizzò il fuoco del camino, interrogandosi sull’opportunità di procurarsi altre coperte. Così facendo, avrebbe sottratto a qualcuno dei prigionieri la possibilità di superare la notte indenne… ma per la ragazza avrebbe fatto ben altro. Anche ritornare ad essere Haffgan fuori dall’orario stabilito.
Non era riuscito a spiegarsi lo strano svenimento che l’aveva colta, ma era certo che ci fosse lo zampino perverso del reggente o quello altrettanto cinico di Urien. Anzi, forse il secondo riusciva a fargli ancora più ribrezzo del primo, con quel suo fare sinuoso e mellifluo e la sua magia malvagia e oscura.
Màrsali respirava regolarmente, ma il suo viso era pallido e le rade lentiggini spiccavano sulla pelle trasparente. Le lunghe ciglia le ombreggiavano le guance delicate, ma non riuscivano a celare le occhiaie violacee dovute al pianto e alla sofferenza che aveva patito. I lunghi capelli color miele erano sparsi sul cuscino di tela grezza in uno chignon scompigliato, che le ricadeva sul collo in piccole ciocche. Nel sonno appariva ancora come la bimba che lui ricordava con affetto.
Kesthar iniziò a trafficare con le pentole, per poterle offrire una cena decente e il fumo si levò, sottile e intenso, dal paiolo ammaccato di rame.
 
Màrsali aprì gli occhi e non riconobbe l’ambiente che la circondava. Si levò a sedere, terrorizzata, ma si acquietò quando comprese di non essere più prigioniera e quando identificò la schiena possente del suo antico vicino di casa, che si dava da fare accanto al focolare.
Nonostante la spossatezza, riuscì per un attimo a sorridere e la scena le regalò un forte senso di familiarità e di calore umano. Si sentì trasportare indietro nel tempo, quando Kesthar le preparava le frittelle con le mele selvatiche raccolte durante la caccia e Siavon la rimproverava affettuosamente, dicendole di non essere troppo golosa e di non privare l’amico del poco cibo che stava condividendo con loro.
Lacrime di commozione le salirono agli occhi e si unirono a quelle memori della sofferenza che aveva sperimentato quando aveva tentato di spiegare il motivo della presenza di Anthos in quel luogo sotterraneo. Il principe non aveva mentito. La sua magia aveva funzionato perfettamente e le aveva inflitto un dolore atroce, esattamente come le aveva garantito. Solo mille volte più intenso e indescrivibile.
Aveva conservato le sue facoltà di veggente, ma non sarebbe stata in grado di avvisare nessuno del pericolo che stavano correndo, della drastica scelta del loro sovrano, del suo cruento sogno premonitore e di tutto ciò che la sua visione successiva aveva messo in gioco. Fu percorsa da un brivido ghiacciato. La Profezia non poteva più aiutare Iomhar perché il portatore delle Tre Gemme non credeva in essa e stava percorrendo un sentiero lastricato di interessi personali e di egoismo.
La Profezia era l’unico, fragile ponte teso sul baratro che nei millenni si era approfondito per inghiottirli con il suo nulla. Ma quel ponte era crollato. Se Anthos non avesse scelto il sacrificio di sé, se si fosse rifiutato di seguire le preziose righe sacre, tutto sarebbe stato vano.
Lo aveva scorto chiaramente, quando i dehalbh che portava sulla pelle nivea erano stati percorsi dall’energia potente che derivava dallo strappo formatosi sul velo posto a custodia del futuro. Quello che lei riusciva a decifrare grazie alle sue facoltà.
Non aveva alcuna possibilità di chiedere aiuto. Di parlare. Condannata ad essere inutilmente viva, dotata di un dono portentoso che non sarebbe stato utile a nessuno.
Si strinse nelle coperte, più desolata che mai.
“Màrsali!”
La voce profonda e gentile di Haffgan la riscosse. Sollevò il viso e gli porse la mano.
“Ti devo la vita, Kesthar…” gli disse “Ancora una volta…”
L’uomo scosse la testa, avvicinandosi e racchiudendo le dita delicate della ragazza nel palmo enorme e caldo.
“Per un attimo ho pensato di averti perduta…” mormorò “Per un maledetto attimo ho pensato che per colpa mia tu…”
“No” sussurrò la ragazza “Non sei tu la ragione…”
Avvertì la fitta dolorosa ripartire dal suo profondo e si bloccò, prima che la magia arcana ripetesse il suo odioso compito su di lei.
Lui la vide impallidire ulteriormente e strinse più forte, restituendole la forza di reagire. Gli occhi azzurri di Màrsali lo fissarono con gratitudine. Sospirò in risposta.
“Non capisco che cosa ti stia accadendo, ma sento puzza di incanto oscuro. Non mi sbaglio, vero?”
“No” rispose lei con cautela.
Il fuoco verde che avvertiva ancora latente nelle viscere e nella gola stava scemando.
Kesthar annuì gravemente, facendo cenno di avere compreso che le era impossibile parlarne, pena mettere a repentaglio la sua stessa esistenza mortale. Poi grugnì.
“Certo, gli dei ci troveranno molto divertenti come abbinamento. Tu puoi parlare a tratti e io non sento quasi nulla… forse, ci permetteranno di fare una persona in due!”.
Màrsali sorrise a quel commento ironico e amaro e, per la prima volta da quando Odhran era stata distrutta, sentì un briciolo di serenità.
“Lo penso anch’io” rispose allegra, scrutando in quegli occhi blu scuro, protettivi e timidi, ma anche duri e sofferenti.
La visione fu brevissima. Partì, percorrendo le volute azzurre che le segnavano i polsi e deflagrò nella sua mente: un pericolo, lontano e terribilmente vicino, un ponte dall’aspetto sinistro, perso tra i monti. Un altro… reale o simbolico? E poi il suo amico, Haffgan… o Kesthar… non ne era certa, in piedi, stagliato contro un cielo color cobalto come un baluardo. La sua mano era forte e salda… no, la sua mano portava un pesante anello che lei non aveva notato… le sorrideva…
“Màrsali!”
Il richiamo angosciato dell’amico la fece rientrare in sé.
“Sto bene, Kesthar. Non sta succedendo nulla di grave. Ho solo intravisto che in futuro saremo ancora uniti e che affronteremo la minaccia che incombe sui Regni insieme. Per questo ti ringrazio e ti sono debitrice”.
“Bah, io non ho fatto proprio nulla…” borbottò lui imbarazzato “Almeno per il momento” continuò, staccandosi da lei e tornando accanto al focolare.
Rimestò alacremente nel paiolo in un impacciato silenzio e riempì due terrine sbreccate di zuppa fumante.
“Specialità della casa!” esclamò porgendole il piatto “Ieri ho preso una lepre dei ghiacci, potrei azzardare che siamo fortunati. Era magra come lo spirito della morte, ma non possiamo fare troppo gli schizzinosi, no?”
“Affatto” rispose la ragazza, mettendosi a sedere e immergendo il cucchiaio nel brodo bollente. Poi si fece pensierosa.
“Fa così schifo?” domandò il carceriere.
“E’ delizioso” rispose lei sorridendo “Non è per il cibo che ho cambiato espressione. Il motivo è che tu stai rischiando troppo per aiutarmi. Non solo mi hai liberata dalle catene, ma mi stai anche ospitando qui e se qualcuno dovesse accorgersene…”
Kesthar proruppe in una fragorosa risata.
“Ho preso le mie precauzioni. Mi sono premurato di far sapere a tutti gli assidui ospiti della prigione che sei un regalo del principe. Io sono Haffgan, nessuno osa contraddirmi, tantomeno fare domande indiscrete. Nessuno si permetterà di dubitare né della mia parola né della mia fama di demone guardiano. La mia frusta non perdona, è risaputo”.
La ragazza lo fissò stupita e si rasserenò per un istante.
“Forse quaggiù nessuno si insospettirà. Ma queste mura hanno occhi e orecchie e se Anthos, che non è uno sprovveduto, dovesse venirlo a sapere…”
Lui alzò le spalle, sicuro di sé, trasmettendole il suo coraggio.
“Non penso che al reggente interessi la vita privata del suo guardiano. L’importante è che lui creda che il suo ordine sia stato eseguito e che io ti abbia privata della visione. Perciò stai attenta con i vaticini”.
Màrsali arrossì.
“Inoltre” proseguì l’uomo, tuffando una crosta di pane nel piatto “Lui non è qui”.
“Come?” fece lei sorpresa.
“Anthos ha lasciato Jarlath ieri notte” rispose Kesthar.
 

 
Eudiya contemplava il cielo violetto dell’alba, con le mani appoggiate al parapetto della torre sud: Azhulio non era che un punto lontano, scuro e vibrante al chiarore del nuovo giorno.
La regina si lasciò avvolgere dalla prima luce, in modo che essa allontanasse le preoccupazioni che le attanagliavano l’anima. La sua espressione restò tesa e grave. I suoi pensieri non smisero di vorticare tumultuosi.
Lo strik sparì dalla sua vista, strappandole un sospiro che non aveva nulla a che vedere con il sollievo. Speranza. Il maestoso rapace stava trasportando solo ciò che di essa rimaneva.
Gli aveva parlato, fissandolo negli occhi acuti, e gli aveva affidato il compito di volare oltre il deserto, ai confini del loro mondo, per raggiungere il re con un messaggio che solo lui avrebbe compreso. Le ali di Azhulio reggevano il destino di un Regno che era rimasto privo della sua guida legittima. Eudiya la reclamava per l’amata Elestorya e per il Sud pretendeva indietro il suo sovrano. Ma desiderava riabbracciare soprattutto suo marito. Le mancava terribilmente, avrebbe voluto condividere con lui l’angoscia e il reciproco conforto per la sorte dei loro tre figli, come sarebbe stato giusto fare. Uniti nella gioia e nel dolore.
Quello strik dalle piume blu li aveva fatti incontrare e lei credeva fortemente nel destino. Una scommessa vinta le aveva donato l’uomo della sua vita. Nonostante tutto, sorrise a quel ricordo.
 
Quel lontano giorno, Stelio l’aveva condotta nell’accampamento dei Thaisa come aveva promesso. Per tutto il viaggio lei aveva avvertito sulla schiena il contatto con il suo torace prestante e aveva ammirato le sue braccia vigorose, tese a sostenere le redini. Aveva anche intuito il suo imbarazzo, deducendo che la vicinanza tanto stretta con una ragazza doveva risultargli piuttosto nuova.
Il reggente aveva fermato il cavallo e gli uomini della tribù erano usciti dalle tende, incuriositi da una scena così insolita; le donne avevano sbirciato oltre le spalle dei compagni, ridacchiando divertite e commentando estasiate la presenza del nuovo venuto.
Poi era giunto suo padre, Zheule, ed era bastata l’occhiataccia infuocata che le aveva scoccato per farla scendere velocemente dal destriero.
“Eudiya!” aveva esclamato costernato “Il tuo comportamento è intollerabile! Ti allontani nottetempo senza avvisarci e rientri al campo come se nulla fosse, cavalcando spudoratamente con uno straniero! E’ oltraggioso!”
“Non ti arrabbiare, papà” aveva sorriso lei “Metti in imbarazzo il nostro ospite!”
“Ma senti questa!” aveva sbraitato il capotribù, con i pugni sui fianchi, ancora più seccato per la sua sfacciataggine.
Intanto, Stelio era smontato e aveva seguito in silenzio il concitato battibecco, con un guizzo allegro nelle iridi verdi. Forse perché lei non si era lasciata certo intimorire dai rimbrotti di suo padre, forse perché l’etichetta della corte di Erinna era certo differente dalla tradizione nomade. Poi Azhulio era sceso dal cielo vorticando e si era appollaiato sulla spalla del principe, attirando l’ammirato stupore dei presenti.
“Non siate severo, bailye” aveva detto lui, interrompendo la lavata di capo genitoriale “Ho perso una scommessa con vostra figlia e ho dovuto pagare pegno, riaccompagnandola a casa”.
Zheule si era interrotto, sentendosi chiamare “signore” nel suo dialetto e si era affrettato a scusarsi con il forestiero per averlo ignorato fino a quel momento a causa delle sventate prodezze della sua disobbediente figliola.
“Almeno mantieni il minimo del rispetto, Eudiya, e presentaci questo giovane così paziente e garbato” aveva ordinato severo.
Era stato quello il momento giusto, per lei, per far scoppiare la notizia e per assistere divertita alle reazioni degli astanti.
“Ma certo, papà, perdona l’incuria. Hai davanti a te il principe Stelio di Elestorya”.
A quel punto, l’espressione dell’uomo era cambiata, virando dalla collera allo stupore al panico più totale e lei si era trattenuta a stento dal ridere di gusto.
“P-principe…?” aveva bofonchiato Zheule con gli occhi fuori dalle orbite, mentre tutti i Thaisa si inginocchiavano nella sabbia in un fruscio di vesti colorate e campanelli.
“Vi prego, non è necessario…” aveva detto il reggente, lanciandole uno sguardo di disapprovazione e tentando inutilmente di far rialzare almeno l’interlocutore.
Ma il Thaisa aveva già ordinato ai suoi di provvedere immediatamente al cavallo reale e, soprattutto, all’ospite con il quale, a suo dire, erano già stati abbastanza irriguardosi, fatto inammissibile per una tribù ospitale come la sua.
Eudiya lo aveva visto scuotere la testa con rammarico e sentito brontolare ripetutamente:
“… chiamare me bailye pur essendo il portatore del Diadema…”.
In quell’istante aveva pensato di avere un po’ esagerato. Così si era congedata e si era ritirata nella propria tenda per cambiarsi e assumere l’aspetto di una fanciulla di rango, per non far vergognare ulteriormente il padre.
Poi si era recata nell’angolo tranquillo di deserto dove era stato allestito un riparo fatto di teli colorati, splendidi tappeti intrecciati e morbidi cuscini, nel quale Stelio era stato, finalmente, accolto con onore.
Non era semplicemente ricomparsa vestita di preziose sete svolazzanti e trasparenti, ma aveva recato con sé un vassoio carico di frutti succulenti, di formaggio leggero e di croccanti ciambelle cotte sulla pietra, di tiepida acqua aromatizzata. L’aveva offerto al giovane con un raro inchino, mentre Zheule l’aveva osservata, severo.
“Anche se avete vinto la scommessa, mi servite ugualmente la colazione” aveva commentato il reggente con un sorriso “Mi sento in difetto…”
“Mi pare il minimo, per scusarsi!” era intervenuto il capotribù, ancora imbronciato.
Eudiya non era riuscita a replicare immediatamente, poiché aveva colto su di sé lo sguardo ammirato di Stelio; ma anche i suoi occhi non erano più riusciti a staccarsi da quelli di lui, in un gioco che aveva dato fuoco alla scintilla già scoccata.
“Si tratta infatti del pranzo, data l’ora tarda” aveva poi replicato furbescamente, quando era riuscita a ritrovare la parola.
“Eudiya!!” aveva sbottato suo padre, quasi strozzandosi con il cibo.
Ma il giovane sovrano si era messo a ridere e l’aveva invitata a sedersi accanto a lui. Azhulio aveva approvato la scelta con un verso acuto, che solo lei aveva compreso. Lo strik dagli occhi d’argento le aveva detto che il suo compagno di caccia umano non avrebbe potuto trovare per sé una femmina più adatta.
 
La regina raddrizzò le spalle e gettò un’ultima occhiata al sole sorgente, augurandosi di avere presto notizie dall’uomo che amava.
 
 
Come annunciato da Narsas, l’antidoto tardivo non aveva avuto effetto sul soldato ormai moribondo: Chara Lyne si era spento all’alba tra atroci sofferenze, ormai irriconoscibile a causa del veleno letale che gli aveva divorato le membra.
Gli uomini l’avevano seppellito mestamente, rivolgendo alla salma qualche parola di commiato e avevano inciso il suo nome su una roccia. Non c’era stato tempo per altro, né per un rogo funebre né per un rituale completo.
Il tempo era andato peggiorando e i lampi lugubri e lontani tra le montagne si erano fatti più frequenti e minacciosi. Aska Rei aveva ordinato di smontare il campo, abbaiando ordini a destra e a manca per spronare i compagni di viaggio.
Adara era certa che fosse ancora parecchio adirato con lei, ma gli si era comunque affiancata alla testa della spedizione.
“So che hai qualcosa da dire, Rei” aveva affermato “Perciò parla”.
Il comandante aveva corrugato la fronte, traendo un respiro nervoso, e aveva scosso la chioma corvina, come se stesse trattando con una bambina disobbediente.
“Se lo sai, capisci anche perché non sto parlando”.
“Era l’unico modo” aveva risposto lei.
“Per fare cosa?” aveva ribattuto lui secco, fissandola con rimprovero.
“Per evitare che gli uomini continuassero a questionare sulla lealtà di un membro della nostra spedizione”.
“Ma davvero?” aveva domandato lui con rabbiosa ironia nella voce “Allora sentiamo. Quale ragione ti spinge ad avere così tanta fiducia in quell’Aethalas che, come ben sai, non è propriamente uno di noi?”
“Ce n’è più di una di ragione” aveva sospirato la principessa.
“Ah! E una di esse ha forse a che vedere con il fatto che si tratta di un guerriero di un certo fascino misterioso e virile?”
“Mi credi una ragazzina in preda agli ormoni?” aveva borbottato Adara, offesa.
“I frutti si riconoscono dalla buccia”.
“Smettila, Rei! Puoi citare tutti i proverbi che vuoi, ma sai che non sono una stupida!”
“Non lo sei, ma hai agito come tale!”
“Se anche il motivo fosse quello che presumi - e non è così - non ci sarebbe nulla di male! Tu e Dionissa avete fatto la stessa cosa!”
“Non dire sciocchezze!” aveva gridato lui, con un tono più alto di quanto avesse desiderato. Poi aveva cercato di rientrare nei canoni della riservatezza e aveva proseguito: “Tua sorella ed io ci conosciamo da anni. Tra di non c’è mai stato nessun segreto. Invece, il guerriero del deserto ha una missione che non ci è nota. Cela se stesso e le sue intenzioni”.
“Però la vostra relazione non è di pubblico dominio. Anche voi non vi rivelate”.
“Fosse per me” ringhiò Rei furioso “Sarebbe scritta sul drappo più alto del palazzo! Ma Dionissa mi ha chiesto riserbo e io l’ho accontentata. Comunque, qui non si parla di noi. Non cercare di sviare l’argomento!”.
Adara era rimasta in silenzio, sorpresa dalla dichiarazione del capitano. Lo conosceva molto bene e sapeva quanto la decisione presa da sua sorella dovesse pesargli sul cuore.
“Il suo sguardo è sincero” aveva poi dichiarato “Deciso, è vero, ma parimenti onesto”.
“Ma non prendiamoci in giro!” aveva sbuffato il comandante.
“Chiamalo intuito femminile. E poi ci ha salvato la vita, se vogliamo puntualizzare”
Rei aveva alzato le spalle, ben poco convinto.
“Infine” aveva concluso la principessa “Il Crescente che porto non mi ha segnalato nessun rischio. Siete sempre tutti attenti a ricordarmi che il tatuaggio con la falce di luna ha il compito di proteggermi. Perciò, ora che è inerte come dal giorno in cui sono nata, o si deve ammettere che è solo un grazioso scarabocchio oppure che attualmente non sto correndo alcun pericolo!”
L’attenzione del giovane diede un balzo. La fissò, spalancando gli occhi e non poté fare a meno di sogghignare, difronte ad una logica così ferrea.
“Concediamolo” replicò, rasserenandosi quasi del tutto “Mettiamo che sia così come tu hai dedotto, che il Crescente sia la prova regina che Narsas è pulito e non ha intenzioni ostili, va bene. Ma, dannazione, Adara! E’ pur sempre un uomo, te l’ho già spiegato!”
“E io ti ho risposto che non sono infatuata di lui”.
“Tsk! Non mi ascolti!” aveva ribadito Rei “Tu no. Ma lui? Ai suoi sentimenti non ci pensi? Se fosse Narsas ad avere un debole per te, come dovrebbe interpretare il tuo bacio di ieri?”
La ragazza si era irrigidita e non era riuscita a rispondere, si limitandosi ad abbassare il capo, pensierosa. L’amico d’infanzia aveva ragione e lei solennemente torto, poiché non aveva considerato affatto quella possibilità.
“Noto che adesso il quadro ti è chiaro” aveva concluso Rei, pazientemente.
Lei aveva annuito, rammaricata.
 
Le montagne erano una massa possente dalla linea spezzata, vibrante di foschia. Una pioggia sottile e fredda aveva iniziato a cadere da qualche ora, costringendo i dodici cavalieri a ricorrere all’equipaggiamento più pesante.
Davanti al gruppo si apriva un baratro, profondo centinaia di metri, da cui soffiava una sferzante corrente ascensionale.
Adara guardò ancora una volta il ponte di roccia che li separava dal sentiero ripido che si inoltrava tra i rilievi bruni. Quel passaggio, che sembrava ricamato nella pietra secolare, e la montagna più alta del mondo li separavano dalla meta.
“Ci siamo” disse Rei “Dobbiamo attraversare Tasautia”.
   
 
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