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Autore: Lila May    25/12/2018    1 recensioni
/ Sequel di Disaster Movie / romantico, slice of life, comico (si spera) /
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10 anni dopo la terribile, anzi, mostruosa convivenza con i ragazzi della Unicorno, Esther Greenland passeggia per le strade di New York a tacchi alti e mento fiero. Il suo sogno più grande si è finalmente realizzato, e tutto sembra procedere normale nella Grande Mela americana.
Eppure, chi l'avrebbe mai detto che proprio nel suo luogo di lavoro, il gelido bar affacciato sulla tredicesima, dove non va mai nessuno causa riscaldamento devastato, avrebbe riunito le strade con una delle persone più significative della sua vita?
Il solo incontro basterà per ribaltare il destino della giovane, che si vedrà nuovamente protagonista del secondo disastro più brutto e meraviglioso della sua esistenza.
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❥ storia terminata(!)
Genere: Comico, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Bobby/Domon, Dylan Keith, Eric/Kazuya, Mark Kruger
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Chapter thirtythree.
 
Take me Home, Mark.
 

Arrivarono a New York per le diciannove e venti, spossati a causa di due traumatici vuoti d'aria e delle troppe ore passate a culo piatto contro lo scomodo sedile blu. Atterrati selvaggiamente sulla pista di arrivo, la città li aveva subito avvolti in un cielo senza stelle e in qualche grado giusto sotto lo zero, tanto per ricordar loro che lì l'inverno coincideva col clima gelido. Meno otto, nove? O forse meno dieci? Esther non lo sapeva con precisione.
Sapeva solo che Mark le aveva dormito sul capo per tutto il volo, e che quello era bastato a crearle una piccola fiammella di calore nel cuore perché potesse riscaldarsi l'animo. Non appena era scesa dall'aereo si era avvolta nel suo giacchetto beige, lo aveva abbottonato fino alla gola, e tutti gli altri l'avevano imitata rabbrividendo e ridendo per l'eccitazione di essere di nuovo a casa.
La grammatica inglese insegna che “casa” si può dire in due modi differenti. House, l'edificio, le pareti, quello che tutti gli altri possono vedere da fuori e giudicare con superficialità.
E poi Home. Quello che succede tra le pareti, la casa composta dalle persone che ti amano, ti circondano, che danno un senso alla tua vita tutti i giorni, secondo dopo secondo.
New York era la loro home, e nessuno avrebbe mai potuto cambiare quel sentimento comune. Nemmeno un viaggio di due settimane a Los Angeles.
Dentro l'aeroporto il caldo non aveva dato loro tregua nemmeno ai bagni, o al piccolo bar dinanzi all'uscita, quando Silvia aveva proposto di riattivare le papille gustative con un po' di donuts e caffé lunghi.
Ma ora che erano fuori, all'aria aperta, non ci fu bisogno di scambiarsi colorite imprecazioni per capire che avrebbero dato l'anima pur di tornare al clima mite dell'Ovest, alle palme e al mare salato che bagnava tutta la costa californiana.
Il freddo era allucinante, penetrò nelle ossa dei giovani senza dar loro nemmeno il tempo di adattarsi al fatto che fosse - effettivamente – pieno inverno. Esther si guardò intorno, le lunghe ciglia nere a proteggerle le iridi dall'incessante vento dicembrino. Possibile che in un solo paese potesse esserci tutta quella variegata infinità di climi? Se in uno stato faceva freddo, nell'altro faceva caldo. Se nell'altro faceva freddo, in uno faceva caldo. Senza parlare del concetto di “tempo”, del tutto sballato; realizzare che New York era tre ore più avanti di quelle di Los Angeles la lasciò un attimo perplessa, a chiedersi se per caso non avesse cambiato continente.
Silvia si abbracciò le spalle e starnutì mentre Erik issava le loro valigie nell' auto, attento a non rompere nulla. Aveva fretta di tornare a casa, farsi una doccia e riposarsi. Mark lo capiva benissimo. Anche lui non vedeva l'ora di stendersi sul letto.
E mangiare una pizza con la tv accesa, godendosi appieno il suo ultimo giorno di ferie.
E magari invitare Esther a casa sua, perché no. La cercò con gli occhi, come a voler trovare in lei una sicurezza al suo desiderio.  Aveva pensato bene a quello che voleva fare, ed era saltato alla conclusione che ancora non si sentiva pronto a lasciar andare l'amica con un abbraccio e un bacio sulla guancia.
Rimaneva come chiederglielo.
 << Mark, noi andiamo. >>
Annuì, il mento completamente sprofondato tra le pieghe della sciarpa mentre le labbra liberavano nuvolette di vapore ad ogni lento respiro cadenzato. << Va bene Erik. >> portò le iridi turchine su quelle scure dell'amico, che lo stava fissando con un sorriso imbarazzato. << Ci vediamo al lavoro. >>
<< Ci vediamo al lavoro, Marky. >>
<< Fa il bravo. >>
Silvia rise. << Lo controllo io! >> e a quelle parole Mary le regalò il vanto di un occhiolino. Salutò Erik con educata freddezza, prima di prendere la sua valigia e trascinarsela verso l'auto a passo svelto. Quando si rese conto di non essere seguita si fermò a metà tragitto, sotto la luce di un lampione arancio. << Esther? Andiamo piccola. >>
Esther si strinse nelle spalle, facendo dondolare gli orecchini argentei. Prima di tornare a casa doveva salutare Mark.
 Salutarlo o dirgli addio? Si voltò verso di lui, e quando lo guardò negli occhi cercò di aggrapparsi alle parole fiduciose che le aveva sussurrato negli ultimi giorni. Avrebbero continuato a vedersi, a frequentarsi. Nessuno avrebbe perso nessuno.
Vero, Mark?
C'erano ancora così tanti punti da discutere, così tante cose che voleva chiedergli, che Esther sentì il tempo sfilacciarsi e scucirsi sotto la sua mano impotente, come se l'ago avesse deciso di sua iniziativa di smantellare tutto il minuzioso lavoro di anni.
Mark le sorrise, e il buio gli adombrò i lati più nascosti del volto. Era bellissimo, un nodo in gola la soffocò all'idea di doverlo veder partire lasciando dietro di se una scia eterna di punti di domanda e fumo.
Si chiese se avrebbe rivisto ancora quel viso. Quegli occhi, quella frangia ribelle che necessitava di un taglio d'urgenza, ma che era stupenda, libera come tutto lui.
<< Beh, M-Mark... >> strinse le labbra quando si accorse di avere la voce tremante, e fece una breve pausa.
Per un po' parlò il vento tra loro, il suo freddo prosaico mischiato all'odore della neve fresca che giorni di abbondante nevicata avevano accumulato lungo i marciapiedi che attraversavano l'enorme parcheggio.
Non le piaceva sentirsi così insicura per un ragazzo, così incapace di poterlo tenere stretto a se, senza farlo fuggire. Ma aveva paura.
Paura di perderlo, ed era una cosa che non smetteva di tormentarla. Ora che era giunta a New York, quel timore si era fatto vivido e definito dentro di lei.
<< Mark... >>
Mark aggrottò i sopraccigli, un movimento talmente conciso da farla sussultare appena. << Est. >>
A quell'invito sussurrato e nascosto, Esther allungò le braccia e affondò il viso nel suo petto, perché non voleva ne dire ne sentire altro. Non ne aveva la forza, e si lasciò cullare dal suo odore di maschio mentre dava di spalle a Mary, al freddo, al buio che calava sui tetti delle auto corrodendole nel suo nero coagulante.
Mark la abbracciò e si chinò tenero su di lei, affondando le dita tra i suoi capelli. Rimasero così per un po', a scambiarsi calore, pelle contro pelle, cuore contro cuore, mente contro mente, e il biondo riuscì a sentire lo stato d'animo dell'amica come se fosse suo, ancora.
Schiuse le labbra.
Chiediglielo, Mark. Chiediglielo.
Now or never.
<< Esther. >> si sciolse dalla stretta di arrivederci e la guardò, reggendo la potenza di quei meravigliosi occhi neri fissi sui suoi. << Vieni a casa mia. >>
L'unica risposta della ragazza fu uno sbuffo di vapore, che si perse in mezzo allo sferzare del vento. E basta.
Allora Mark, impacciato, tentò di riformulare la proposta, per renderla un po' meno ambigua. La verità era che aveva voglia di stare con lei, ancora un po'. Baciarla di nuovo, sentirla vicino prima di tornare a lavorare. C'erano alcune cose di cui voleva parlarle e solo Esther poteva dargli una risposta. C'era una vita da sistemare. C'era che la amava, adesso. Anzi, da sempre. E nulla sarebbe stato più lo stesso, dopo il bacio che si erano scambiati. << Se ti va, sei la benvenuta. Ordiniamo una pizza, parliamo di qualche cazzata, non so... ci facciamo una doccia. C-cioè >> arrossì al pensiero di Esther nuda, e si prese il naso tra l'indice e il pollice  per recuperare la concentrazione già di per se precaria, mentre lei tratteneva una risata nelle guance morbide e paffute. << non insieme. Prima io, poi te. Oppure il contrario. Come preferisci. E... >> frenò la lingua quando si accorse di aver accelerato sia con la voce che col cuore, che il cervello aveva smesso di capire, che si era smarrito per strada lasciandolo solo ad affrontare una situazione abbastanza nuova per lui. Il fatto era che Dylan non c'era per aiutarlo. C'era solo Esther, e i suoi ricci smossi dal vento. << cose così. N-non sei obbligata. >>
E dopo essersi leccato il labbro superiore rimase in attesa di una sua risposta, lo sguardo implorante celato con cura sotto il muro dorato della frangia.
Esther batté le ciglia più volte, poi lanciò un gridolino interno e scoppiò a ridere come una bambina.
La risata più bella che Mark avesse mai udito in tutta la sua vita.
<< Solo se entro prima io nella doccia, intesi Kruger? >>
<< Lo considero un sì, allora! >>
La mora si limitò a porgere le mani in avanti, prima di raggiungere Mary con una corsa e lasciare Mark accanto alla macchina, divertito e un po' confuso da tutte le cazzate che aveva appena vomitato.
La mora si attaccò al braccio dell'amica, rossa in volto, e Mary non seppe dire se per l'impennata che l'aveva vista protagonista proprio ora o per il biondo qualche metro più indietro.
<< Maryyyyyy! >> si abbracciarono, ed entrambe trovarono conforto nella stretta dell'altra.
<< Eeeeeeeh! >>
<< Mark mi ha invitato a casa suaaaaaaa! >>
<< COSA?! >>
<< Sììììì! >> strillò Esther, ma all'improvviso il suo volto felice si spense come una candela accesa per errore, sfumando nel dubbio. Mary la guardò stordita. << Tesoro? >>
<< Non ci vado. >>
Panico.
<< Ma sei stupida?! >>
<< No, infatti ci vado. >>
Niente panico.
<< Sarà me--
<< No, non ci vado. >>
Panico, di nuovo.
<< Esther tu devi andare! >>
<< Ho paura di perderlo. >>
<< Cos...! Ma che discorsi fai?! Insomma guardalo! >> Mary, che aveva compreso la situazione, afferrò la spalla dell'amica e la costrinse a voltarsi per guardare Mark, che si era messo a messaggiare con qualcuno al cellulare, le gambe incrociate e le spalle appoggiate al tetto dell'auto. Della sua auto. In attesa di lei. E sembrava sicuro, fiducioso, pronto a tutto. << Non ha tempo da perdere dietro alle tue stronzate Esther. Quello che pensi tu non coincide affatto con quello che pensa lui. Ti basta fare più caso a come si atteggia per capire che non ha nessuna intenzione di gettare tutto all'aria. >>
<< Lo so. >>
<< No, non lo sai. Dovete parlarne. >>
<< Già fatto. >>
<< E? >>
<< Mi ha baciata. >>
<< COSA?! >> Mary la scosse violentemente gridando come una bambina a cui le è stato appena strappato il lembo del suo vestitino preferito. << ESTHER! Ti ha...! >> abbassò la voce, ricordandosi che Kruger era lì e non era affatto sordo. << baciataaaaa...! >>
Esther si coprì le labbra per mascherare un sorrisetto vittorioso nel ripensare a quella sera, davanti al Mcdonalds, sotto l'oppressione del caldo afoso e delle emozioni troppo forti.
<< Muoviti, va da lui. Ci penso io alla tua valigia. >>
<< Uhm... lasciamela in camera. >>
<< Certo, volevi pure che te la svuotassi? Ora va. Sei Esther Greenland, la “camionista tettona”! >> Mary la spinse per scherzo e afferrò la valigia dell'amica, pronta a farsi un bel viaggetto in autostrada in compagnia di un po' di musica trash e il pensiero di Dylan stampato in mente. << Fatti valere. E buona fortuna. >>
Buona fortuna.
Esther la guardò allontanarsi con aria coraggiosa, e prima di tornare da Mark cercò di calmarsi interiormente, tirare fiato.
Si sistemò la coda, si rassettò il giaccone e solo dopo che fu sicura di essere meravigliosamente Esther Greenland si diresse verso di lui a passo sicuro, molleggiando sulle nike rosa.
All'improvviso aveva smesso di fare freddo.
L'americano sollevò il capo, bloccò lo schermo e le sorrise di rimando. << E' un sì? >>
<< E' un sì. >>
All'improvviso tutto aveva cominciato a sapere di Mark.


 
Dal vetro oscurato dell'auto di Mark le sembrava di poter vedere il mondo. Scrutò con occhio intriso di curiosità i grattacieli affastellati l'uno contro l'altro, così alti, così immensi da farla sentire insignificante contro la morbidezza del sedile, come se li vedesse per la prima volta in tutta la sua vita. Le luci alternate della strada si riflettevano sui cumuli di neve che costeggiavano l'asfalto, colorandone i fiocchi bianchi ora di rosso, ora di verde, o di giallo, in tinta con i numerosi taxi che intasavano le corsie.
L'acqua colava lungo i lati della strada, alla ricerca di un tombino in cui dileguarsi, le persone camminavano frettolose verso chissà quale magico posto di New York, imbacuccati fino al midollo.
La città era in fermento, tutto aveva vita intorno a lei. Si rilassò contro lo schienale e Mark alzò di un po' il riscaldamento, concentrato sulla fila infinita di macchine dinanzi a lui.
Esther socchiuse gli occhi quando il semaforo divenne verde. L'odore del biondo era ovunque, lì dentro.
Lo adorava, quell'aroma, e gli permise di avvolgerla come una coperta protettiva mentre tutto intorno a lei prendeva e deliberava gocce di splendore.
Non sapeva ne di Armani, né di Hugo Boss.
Sapeva di Mark.
E Mark era la sua casa. La sua home, e anche la sua house.
<< Con questo traffico arriveremo a casa tra qualche ora, temo. >>
La voce rauca e stanca di Kruger le solleticò le orecchie, e si voltò verso di lui gonfia di orgoglio. Guidava con mano ferma, sicura, composto, le dita agganciate al volante con piacevole noncuranza.
<< Non importa. >> gli rispose piano, e il ragazzo la guardò divertito.
<< Sono felice che tu sia qui con me nella East Coast, Est Coast. >>
<< Comincio ad odiarti. >>
Mark rallentò ad un altro semaforo ed Esther chiuse gli occhi, adagiando i muscoli. Sentì il rumore di un clacson, le gomme dell'auto macinare lentamente chilometri. Il passaggio di un treno proprio sulla loro testa, la statuaria presenza dei grattacieli, il respiro di Mark che andava al ritmo del suo battito cardiaco, e ciò la costrinse a sospirare felice.
Ce l'aveva fatta. Alla fine era riuscita ad averlo. Due settimane prima non avrebbe mai pensato di poter montare in macchina con lui, di potersi appropriare delle sue labbra timide e sottili.
Le piaceva la fiducia che provava nei suoi confronti, era sicura che non sarebbe accaduto nulla di male finché il biondo avesse continuato a guidare, a stare attento.
Fu proprio quella fiducia ad accarezzarla e dirle di riposare.
Di rilassarsi.
Che tutto sarebbe andato bene.
Così fece, e si addormentò mentre le luci della città scorrevano su di lei come onde.
Mentre Mark la portava a Casa.


 
<< Est. >> Mark estrasse le chiavi dall'insenatura accanto al volante e le lasciò scivolare sul grembo, sfinito. Finalmente era arrivato a casa. Non ci vedeva più dalla fame, ancora si chiedeva come avesse fatto a sopravvivere a tutta quella coda di auto senza mettersi a gridare o sbattere la fronte contro il manubrio; istintivamente portò uno sguardo all'ora segnata sul cruscotto, e si rassicurò nel sapere che erano “solo” le venti e trenta.
Aveva ancora tutta la serata, non avrebbe sprecato un minuto di più.
Allungò un braccio in direzione dell'amica e la scosse con delicatezza, stringendole la spalla morbida protetta dal tessuto del giacchetto. << Esther, wake up, c'mon. >>
La mora non si fece pregare troppo. Al quarto, anzi, al quinto richiamo reagì con un grugnito e schiuse lentamente gli occhi cisposi, per farli riabituare alle luci forti della città che le tracciavano chiazze indefinite sui lineamenti del viso. Mark le diede il tempo di riconnettere il cervello e di scrutarsi intorno, fiutare l'aria e ascoltare il rombo del traffico alle sue spalle.
A giudicare dall'espressione interdetta che fece, a quanto pareva in quel quartiere non vi aveva mai messo piede.
<< Dove siamo? >>
Mark distese le ginocchia. << Brooklyn. >>
<< Oh! Il ponte di Brooklyn! >>
<< Se vuoi intenderla così, beh, non è molto distante. >>
Esther sorrise a trentadue denti, sotto la testa appena piegata e confusa di Mark. << Perché siamo qui? Ristorante? Dobbiamo incontrare qualche tuo amico? O mi hai portata a fare un giro? >>
<< Uh? N-no! Abito qui, Esther. >>
<< Oh. >> la mora si portò una mano davanti alle labbra. Per un momento si era quasi dimenticata del fatto che New York fosse divisa in otto quartieri, e che tra questi non esisteva solo Manhattan moltiplicata per, appunto, otto, ma anche Brooklyn. << So we're home! >>
Quel sospiro contento lasciò l'americano spiazzato, che si irrigidì appena sul sedile. << Yeah >> le sorrise, mentre le gote vibravano di eccitazione nell'averle sentito pronunciare “casa” come se fosse la loro. Come se ci vivessero insieme da anni, e avessero già condiviso ogni singolo metro cubo al suo interno. << we're home. >>
<< Allora andiamo! >>
Esther si accanì contro la portiera e la aprì con uno scatto, prima di precipitarsi fuori ridendo. Non poteva crederci, era a casa di Mark, Mark Kruger, presto avrebbe scoperto uno dei suoi lati più intimi. Ma quale tra gli immensi condomini che si allungavano per tutto lo stradone portava il nome del suo amico?
Ispezionò la fila di appartamenti altissimi dinanzi a lei, e sbiancò un poco quando si ritrovò faccia a faccia con ben quindici piani di mattoni e scale anti-incendio che scendevano fino al retro, tinte recentemente di nero. Una rete lo separava da un altro edificio più alto, bucata in più punti.
Sembrava il genere di condominio che in un'altra vita avrebbe evitato, scappando verso una zona un po' più ospitale. Uno di quelli che nei film diceva chiaramente “evitami o qui finisci male.”
<< Dov'è il nero con la bottiglia rotta in mano? >> chiese scherzando, eppure si fece istintivamente più vicina a Mark, quasi temesse di vederlo comparire da uno dei buchi della rete, con tanta voglia di uccidere qualche povero innocente.
Un cane abbaiò in lontananza, ed Esther lo colse come un simpatico avvertimento a non farsi notare troppo.
<< Lo so, è pessimo >> soggiunse Mark, dando una conferma al suo flusso di pensieri. << Ma la gente che ci vive è simpatica. >>
<< Newyorkesi simpatici? >>
<< I swear you! >> Mark scoppiò a ridere come un bambino, tenendo in piedi il gioco dei cliché, e quella reazione tanto naturale e genuina la fece sentire un po' meno tesa.
Se lui era spensierato, che motivo aveva lei di agitarsi?
<< Quindi il tuo è questo, giusto? >>
<< Sì. >>
<< Non c'è nemmeno un fiorellino! Dimmi che abiti al primo piano. >>
<< Ritenta. >>
<< Quinto? >>
<< Più su. >>
<< Uhm... settimo? >>
Mark la prese per un polso e le sorrise, cominciando a trascinarla verso il portone di legno che fungeva da ingresso. << Quindicesimo. >>
<< MARK, che diavolo...! Se ti aspetti che io mi faccia quindici rampe di scale per te, beh, scordatelo. >>
<< C'è l'ascensore. >>
<< Questo condominio è una follia... chi lo ha progettato merita di essere denunciato. >>
Mark ridacchiò e con una buona dose di potenza riuscì a spalancare l'ingresso. Entrarono e si lasciarono il freddo alle spalle, il caos, il traffico, immergendosi nella quiete di una luce vibrante appesa al soffitto e di passi tranquilli che li sovrastavano di qualche metro, indaffarati a girare per le stanze.
Esther sgranò le iridi, permettendosi di ascoltare il chiacchiericcio di alcune persone al primo piano poco distante. Era tutto bianco intorno a lei, e inchiodò gli occhi sul tappeto blu scuro che si estendeva sotto i suoi piedi provati dal gelo.
Era tutto così strano.
Più osservava quel colore, più si sentiva euforica. Essere lì con Mark la faceva sentire nervosa, e fu costretta a massaggiarsi le cosce per asciugarsi il sudore alle mani; cosa avrebbe provato nel varcare la soglia di casa sua?
Come si sarebbe dovuta comportare?
All'improvviso un'atroce angoscia la trapassò da parte a parte.
E se avesse trovato qualcosa appartenente a Melanie?
Un paio di mutande, un rossetto. O magari un reggiseno di pizzo.
Arrossì e il blu sfuocò fino a diventare di un colore impercettibile mentre si chiedeva che cosa avrebbe fatto in caso di spiacevoli sorprese. Non si accorse dell'ascensore aperto in sua attesa fino a quando Mark non la tirò letteralmente dentro.
Quando lo guardò notò la sua confusione, e si sentì stupida. Era lecito domandarsi quelle cose, ora che erano arrivati fin lì? Scelse di non rivelargli nulla, per non rovinare l'atmosfera che si era andata creando.
Per non guastare il suo sorriso carico d'aspettativa.
<< Ehi, che succede? >>
<< Nulla Kruger, riflettevo. >>
<< Su? >>
<< Su domani, il lavoro, cose così. >>
Mark si aggrappò alla valigia, dubbioso. << Okay. >>
Esther si massaggiò il collo fischiettando. Sapeva di non averlo convinto per nulla, ma il biondo seppe farsi andare bene quella piccola bugia, e non fece storie. Quando arrivarono, la ragazza lo osservò aprire la porta e distendere il braccio per farla passare per prima.
<< So. Welcome home, honey. >>
<< Grazie, Mark! >> s'intrufolò dentro e la prima cosa che fece fu sospirare meravigliata, le dita attorcigliate ai bottoni del giacchetto.
“Mai giudicare un libro dalla copertina”, frase storica che non sempre riusciva a fare centro. Eppure, in quel caso ci aveva preso alla grande.
La casa di Mark era bellissima, quasi insolita se si pensava al fatto che ad abitarla vi era proprio un essere umano di sesso maschile, e normalmente i maschi, in fatto d'arredamento, se ne intendevano quanto si intendevano di trucchi.
Cioè zero.
Perlustrò con occhio rapito il divano beige in un angolo, la cucina in quello opposto, intrappolata da quattro pareti color giallo sbiadito che le impedivano di poterla vedere per intero; curiosa, si fece avanti di qualche passo al fine di cogliere qualche altro dettaglio in più. Un tappeto persiano si diramava sotto la mobilia del piccolo salotto, la tv appesa al muro donava un tocco di modernità talmente avanzato da cozzare dolcemente con l'arredamento quasi vintage di tutto lo spazio.
Sempre che Mark sapesse che diavolo volesse dire “vintage”, ovvio. Non sembrava aver seguito uno stile preciso - dimentichiamo che è uomo -, ma la maggior parte dei cassettoni e degli scaffali emanava la tipica aria vetusta che non apparteneva affatto all'anno in cui vivevano. Si soffermò ad accarezzare le copertine di alcuni dei libri ordinatamente impilati in quella che pareva essere stata ribattezzata come “libreria provvisoria”, messa accanto al divano per facilitarne la comodità. Ne afferrò uno.
Dylan aveva ragione.
Mark amava leggere.
<< Chimica. Oh >> sfogliò alcune pagine, senza capirci niente né delle cose scritte né degli appunti tracciati di fretta dalla scrittura di Mark, che ormai aveva imparato a riconoscere. << Interessante. >> curvò il manuale e ridacchiò, ricordandosi di tutti i suoi insuccessi in campo scolastico.
<< Libri di università. >>
<< Cos...? >>
<< Sì, io... >> Mark arrossì come un bambino. << s-sono... laureato in chimica. >>
<< O-oh! MARK! >>
<< Era per stare sul sicuro, sai. Non... non si sa mai cosa può succederti nella vita. E poi, sono sicuro che... mi servirà. Quando salirò di grado. >>
<< Mark, n-non avevo idea! Sono sconvolta! Complimenti, sei bravissimo! >>
Lo ripose, felicissima per i piccoli traguardi del biondo, e poi toccò i muri giallo panna con una mano, sorridente. Erano caldi, tutto lì dentro sapeva di calore umano e affettivo. Le piaceva lo stile sobrio dell'abitazione.
Le piaceva da morire, ma la paura di trovare qualcosa di troppo personale la teneva molto lontana dalla voglia di andare a curiosare persino sotto il letto.
Mark, ripresosi dall'imbarazzo, sollevò la finestra a ghigliottina e fece entrare un po' di aria serale. << Allora? Conclusioni? >>
<< I muri li hai dipinti tu? >>
<< No, erano già così quando sono venuto a vivere qui. >>
<< E' adorabile! >>
Il biondo avrebbe voluto dirle che se lo desiderava poteva mostrarle le vetrate in camera da letto, ma sembrava quasi un invito a rimanerci, in quella camera, e scelse di rimandare ad un momento in cui l'emozione avrebbe lasciato il posto alla sicurezza. << Io ho bisogno di una doccia. >>
Esther annuì. << Puoi andare prima tu. >>
Sotto lo sguardo incredulo di Mark rise, ma in realtà non se la sentiva affatto di andare in bagno; se c'era qualche elemento compromettente, il biondo meritava il rispetto e il tempo di nasconderlo o quanto meno dargli fuoco, prima che lei lo venisse a scoprire.
Insomma, sarebbe stata una situazione di disagio per entrambi. No?
<< D'accordo. >> Mark la indicò con un dito, il labbro inferiore nascosto per metà dentro la bocca. << Hai bisogno di vestiti puliti? >>
<< Metto sempre ques--
<< Posso prestarti una mia felpa, se vuoi. E' un po' grande ma dovresti condurci comunque una vita abbastanza normale. Dimmi tu. >>
Esther si illuminò come una bambina davanti a un mare di canditi, a quelle parole. Una felpa di Mark? Ciò voleva dire che il ragazzo non aveva con se indumenti femminili da prestarle, altrimenti le avrebbe donato una cosa di Melanie.
Anche se la taglia di seno era differente, a statura erano più o meno simili.
Come si era spenta si riaccese, liberando un sospiro di vittoria. Lei, in una maglia di Mark. Oddio. << Sì, grazie Mark! >>
L'americano le porse un telefono e le recitò il nome della via e il numero del condominio. << Faccio in fretta. Chiama al primo ristorante che ti viene in mente e ordina due pizze. >>
<< Che gusto vuoi? >>
<< Quello che ti va! >> le urlò l'americano dal corridoio, ed Esther digitò il primo numero che le passò per l'anticamera del cervello, così emozionata da sentire già male alle gote, alla pancia, al cuore.
Sarebbe stata una serata indimenticabile, e a quella consapevolezza tanto franca quasi non le venne da gridare di gioia quando il cameriere si diede la decenza di rispondere agli interminabili squilli, scocciato.
Non vedeva l'ora di finire in quella felpa.


 
<< Quanto? >>
<< Diciassette dollari, dude. >>
Mark estrasse un po' di banconote dalla tasca del pantalone nero e nel momento in cui pagò il fattorino, si issò le pizze fumanti sul braccio, facendo attenzione a non bruciarsi la pelle che le maniche corte avevano lasciato esposta. Dopodiché si tirò indietro la frangia umida di doccia e sorrise affabile. << Grazie, e buona serata! >>
<< Anche a te fratello. >>
Scottavano e avevano un odore davvero allettante, la curiosità di sapere i gusti lo spinse a sbirciare dai buchi della scatola con occhio languido. Aggrottò i sopraccigli e lasciò andare un sospiro soddisfatto quando riconobbe il colore dorato delle patatine.
Lo stomaco parlò per lui.
E' ora della pappa, Marky.
L'ascensore ci mise troppo ad arrivare, e la sua fame non aveva affatto voglia di aspettare le grazie di un marchingegno elettronico vecchio quanto suo padre; così si fece la rampa delle scale a due a due, arrivando trafelato alla porta che aveva lasciato socchiusa.
Entrò e lo scroscio della doccia gli fece capire che Esther era ancora sotto.
Posò le pizze sul tavolo, arrotolò lo scontrino e fece canestro nel cestino poco distante. Si chiese perché avesse scelto il calcio, quando l'azione appena compiuta gli aveva appena dimostrato di essere anche un grande cestista. << Esther! >>
La sentì arrestare il flusso d'acqua.
<< Sono arrivate le pizze! >>
<< A-aspetta! >>
Sorrise diabolico. << No, se non ti muovi mi mangio anche la tua. >>
<< Mark! >>
La sentì armeggiare frettolosa con l'asciugamano e trattenne una risata. Gli sarebbe piaciuto farsi una doccia con lei. E mostrarle quella vetrata, stenderla sul letto e colpirla a suon di baci, farle capire che le era mancata cristo, e farci l'amore fino a ritrovarsi senza respiro.
Sentirsi libero, grazie e soprattutto insieme a lei.
Oddio, Mark ti prego non pensare queste cose.
La stanchezza e la fame gli stavano giocando brutti scherzi, ecco tutto. Restava da capire se era di pizza che era affamato, oppure se dell'amica. Delle sue labbra carnose, della sua risata che di femminile non aveva proprio nulla, ma che a lui piaceva. Preferì gettarsi disperato sulla parte razionale, e apparecchiò nervosamente la tavola, gettando due bicchieri e due forchette tanto per.
Quando la vide uscire dal bagno infilata nella sua enorme felpa blu sollevò le sopracciglia e si fece sfuggire un sorriso. << Oh! Non ti sta poi così male, sai? >>
Esther arrivò ansante a tavola, si sedette e afferrò la sua pizza, ignorandolo di proposito.
Mark si sistemò di fronte a lei e si soffermò un istante a guardarle il piercing sotto il labbro inferiore.
Era carina struccata, con quel finto broncio dipinto sul volto, e tutta l'aria di volergli raccontare cosa era successo davvero nei lunghi dieci anni passati lontano da lui.
Riprendere la loro situazione, giugere ad un accordo.
Beh, avevano tutto il tempo del mondo.
Si grattò il naso e si preparò ad iniziare una conversazione sana, ma Esther lo anticipò di un secondo netto.
<< Allora domani lavori? >>
Mark afferrò un trancio di pizza. << Yeah. >>
<< A che ora cominci? Otto? Nove? >>
<< Ehi, magari! Comincio alle quattro. >>
<< Uhh! >> la mora fece una faccia esasperata, incurvando le finissime sopracciglia. << Brutto orario! E' faticoso salvare il mondo, eh Mark? Richiede troppo sacrificio. >>
<< E' quello che ho sempre sognato di fare. Ogni sacrificio coincide con una vittoria. Mi sento abbastanza ripagato. >>
Esther annuì. Sapeva del sogno di Mark di diventare poliziotto, e il fatto che fosse riuscito a realizzarlo con tutte le difficoltà che lo avevano tormentato faceva di lui un uomo davvero forte.
Un ragazzo onesto, sincero e che aveva imparato a porsi degli obbiettivi e perseguirli. Che aveva fatto delle sue sconfitte un incoraggiamento a rialzarsi e rimettersi in gioco; era determinato, e ora che era cresciuto, trasudava orgoglio da ogni poro.
Lo guardò con una punta di ammirazione mentre il sapore forte della Cola la aiutava a mandare giù l'impasto pesante della prima fetta di pizza. << Quindi mi stai dicendo che sai usare una pistola, non è così? >>
<< Beh... >> Mark batté le ciglia, confuso dalla domanda. << Sì. Certo. Devo saperla usare. >>
<< E' difficile? >>
<< No, ma ancora non mi è successo di dover ferire una persona. Dietro uno sparo c'è sempre un fattore psicologico da analizzare. Ne io ne Erik abbiamo avuto modo di sperimentarlo. >>
<< Mi insegnerai un giorno, Mark? >>
<< Why not. >>
Esther sollevò il capo a quel “why not”, ricordandosi della telefonata che si erano scambiati quando lei gli aveva proposto di andare a Los Angeles tutti insieme. Quando lui la guardò, comprese che non lo aveva detto di sproposito.
In due settimane era successo il finimondo, lo sapevano.
Poteva, una realtà, stravolgersi tanto in soli quattordici giorni? Sembrava un concetto assurdo, eppure loro erano l'esempio vivente di due ragazzi sopravvissuti a tanti cambiamenti, a tanti tipi di sofferenze.
Esther sentì l'impulso di voler sparire tra quelle braccia forti, in mezzo al color tiffany di quelle iridi puntate su di lei come due riflettori color del mare.
<< Mark... mi chiedevo... >>
Mark terminò la pizza e si scolò l'ultimo goccio di coca. Oddio, in che momento se l'era aspirata?
Esther arricciò il naso; woah, lo stomaco americano non smetteva mai di lasciarla allibita.
<< Uhm... non so da dove iniziare. >>
<< Da quello che vuoi. >>
C'erano tante cose di cui voleva discutere con lui. Del loro bacio, di quella vacanza che più che una vacanza era stato quasi un percorso di crescita. Di Melanie, e l'ansia di trovare qualcosa di lei per un attimo le serrò lo stomaco.
<< Mi chiedevo... abbiamo avuto poco tempo per parlarne, tra tutto, ma... hai più sentito Melanie? >>
Mark fece spallucce, assumendo la solita piatta superficialità nel momento in cui gli veniva presentato un argomento di cui gli interessava poco. << No. Meglio così. >>
<< Sei arrabbiato con lei? Perché ti ha... >> Esther abbassò improvvisamente la voce, riducendola ad un rauco sussurro. Temeva di risultare indelicata, di ferirlo, e l'ultima cosa che voleva fare era danneggiarlo in qualche modo. << Ti ha... >> si fermò.
Sinonimo di “tradito” cercasi.
<< Dillo. >>
<< Uhm... >>
Mark rise divertito. << Dillo, avanti. Non avere paura. >>
<< Ti ha tradito...? >> Greenland arrossì e si fece piccola nelle spalle mentre il biondo pensava a fornirle una risposta. Forse era stata imprudente, ma più si sforzava di immaginarsi la scena meno le veniva naturale credere che a Mark fosse potuta accadere una cosa tanto grave. Si era sempre detta di farsi gli affari suoi, per quanto pettegolare rimanesse uno dei suoi hobby preferiti in assoluta dopo lo shopping; tuttavia, ora che Melanie alias Mel alias maledetta stronza era uscita - finalmente - dalla vita dell'amico, in un certo senso si era vista la strada libera anche per entrare di più nella questione.
Con lui, ovvio. Gli altri potevano dire tutto quello che volevano, ma solo Kruger sapeva darle le risposte sicure che cercava, in quanto era successo a lui il brutto incidente.
<< No. >>
La risposta la fece tentennare. << No? Non sei arrabbiato con lei? >>
<< No. >> Mark bucò la scatola con la forchetta, un colpo netto e preciso. << Perché dovrei. >>
<< Insomma, lei ha... >>
<< Lei ha? >>
<< Uhm... >>
Le sorrise paziente, apprezzando il suo sforzo di essere delicata, ma non occorreva. Davvero.
Melanie era un capitolo chiuso.
Anzi, non si era mai aperto. << Dillo. >>
<< Lei ha scopato con un altro mentre stava con te, e... >>
Il verbo “scopare” gli fece scappare una risatina. << Sì è vero. Ma quando la cosa mi ha lasciato piuttosto insofferente ho capito che non l'amavo come ero convinto di amarla. >>
<< Cioé? >>
<< Cioé che se l'avessi amata come un uomo ama la sua donna probabilmente mi sarei infuriato e probabilmente l'avrei anche perdonata. Invece la mia reazione è stata differente. Non mi sono arrabbiato, okay, ma non ho mai mandato giù il fatto, semplicemente perché sono sempre venuto prima di lei. In tutto. Era una ferita all'orgoglio, niente più. Quel tradimento aveva, ha e avrà per sempre lo stesso peso di un insulto, per me. >>
Esther si sporse in avanti, interessata. << Perché te la sei portata a Los Angeles, allora? Insomma, se a me fosse successa una cosa del genere, gli avrei spezzato il collo e lo avrei bruciato vivo danzando intorno al suo corpo. >>
<< Per salvare la relazione, sì, per... >> Mark scosse il capo, rimangiandosi la conclusione della frase. La verità era scontata e forse anche l'amica ci sarebbe potuta arrivare. Lo aveva fatto per lei. Aveva capito di essere ancora innamorato perso di lei come un tempo, di desiderarla, e più la confusione si era andata trasformando in sicurezza più i problemi avevano preso a scivolargli via come acqua sulle spalle. Non era stato facile, ma aver trovato la forza di staccarsi da quell'ordinaria situazione di insofferenza gli aveva fatto comprendere che il suo posto non era destinato a stare accanto a Melanie, ma accanto alla ragazza che proprio ora aveva appena terminato di ingozzarsi di pizza davanti a lui. << per capire cosa provavo davvero per Melanie. >>
<< E cosa provi per lei? >>
<< Nulla se non affetto. >>
<< Quindi non ti rode di aver rischiato le >> Esther si portò gli indici accanto alle tempie. << corna? >>
<< La vita mi ha dato una bella lezione. Ora che ho imparato, non accadrà più. >>
Mark prese un respiro e lasciò che le sue ultime parole venissero assorbite dalla mente concentrata dell'amica, come una spugna a contatto con l'acqua.
Poi si sforzò di guardarla negli occhi, rosso in viso. E capì che rimandare quello che realmente voleva dirle non gli conveniva più.
In un gesto di amore incontrollabile le afferrò le mani, gliele strinse, quasi a voler cercare la forza necessaria da lei.
Erano così morbide, così piccole in confronto alle sue, e quando la mora ricambiò con vigore nascose un sorriso.
Era tutto così perfetto, adesso. Sentì il cuore tremare, il sangue sfrecciare veloce lungo tutte le arterie. Il ticchettio dell'orologio scomparve.
Scomparve tutto intorno a loro.
<< Se provo qualcosa per una ragazza, quella sei tu, Esther. >>
Merda.
Glielo aveva detto.
Le lasciò le dita e si tirò lievemente i capelli biondi. Non sapeva cosa provare. Dilatò le narici, ma non uscì nemmeno uno spiro d'aria. Da quanto non respirava? Si consolò col fatto che probabilmente quello scemo di Dylan sarebbe stato fiero di lui, del suo coraggio e della sua determinazione.
Gli sarebbe piaciuto ricevere una pacca convincente sulla spalla, un segno che gli facesse quantomeno comprendere che era andato alla grande.
Gli occhi di lei si fecero d'improvviso più scuri. Più gravi, più lucidi.
O forse era lui che aveva appena smesso di vederci con le palpebre, cedendo il posto al cuore. << Esther... >>
La mora a fatica riuscì a prendere aria nel sentire il suo nome, agitata.
Il fatto che Mark le avesse spiattellato i suoi sentimenti per lei con siffatta franchezza la lasciò un momento sconvolta. Mark, Mark Kruger, timido, riservato, vago.
Che ammetteva di essere innamorato di lei.
Non sapeva cosa dire, avrebbe tanto voluto baciarlo.
Lasciare che fossero le loro labbra unite a decidere cosa farne di loro due, almeno per quella sera. Per quella notte.
Per quella vita.
Si strinse il bordo della felpa troppo grande, che portava il suo odore in ogni cucitura, in ogni sfumatura blu.
Aveva i brividi ovunque.
Gli occhi di Mark brillavano come un oceano di stelle.
<< Vorrei... vorrei mostrarti una cosa. Dopodiché potremmo parlare di noi, e decidere che cosa essere, come continuare. >>
La sua voce calda e bassa la fece sussultare di piacere.
C'era qualcosa tra di loro, una greve consapevolezza, che Esther poteva percepire nell'aria satura d'affetto quasi quanto l'odore di Mark.
La consapevolezza di amarsi, di non essersi mai dimenticati, nonostante i chilometri che di lui ne avevano fatto uno studente complicato e di lei una spendacciona che aveva sacrificato buona parte del suo tempo per aiutare la madre a gestire il ristorante. Sognando di rivedere il suo americano, di poterlo di nuovo accarezzare.
La consapevolezza di essere stati forti abbastanza da trovare il coraggio di scegliersi ancora, di ammetterlo, e permettere al passato di scomparire in una nuvola di polvere.
Andato, finito.
Un percorso parallelo che alla fine era deragliato fino a congiungersi in un'unico tragitto.
Tutto smise di fare male, e la tredicenne impaurita che era in lei sparì insieme alla sedicenne che aveva creduto di essere stata abbandonata.
Afferrò la mano tesa di Mark e si lasciò sollevare da lui.
Non lo aveva mai visto tanto serio.
Tanto rigido, e lo trovò bellissimo nel suo modo di non ammettere di essere emozionato.
Aveva un controllo eccezionale, e gli permise di guidarla fino in quella che poi scoprì essere la sua camera da letto.
Cercò tracce di Melanie, ma di femminile non vi era assolutamente nulla lì dentro. Solo una moquette blu scura, le pareti bianche, un letto ordinato di fronte ad un armadio dalle porte scorrevoli e un comodino che ospitava una piccola montagnola di libri.
Solo le sue cose.
Le cose di Mark.
<< No. >>
Quella negazione improvvisa bastò a farla riprendere, potente come una secchiata di ghiaccio dopo otto ore di sonno rigeneratore. << Uh? >>
Mark allargò le braccia, come a voler donare enfasi ed importanza alla sincerità delle sue parole. << Non è mai stata qui, se te lo stai chiedendo. Non troverai niente di lei. >>
<< Ma tu e Melanie non avete... >>
Ehi, frena! Esther si addentò la lingua e strinse i pugni, sconquassata dal battito cardiaco. La solita imprudente.
Kruger arrossì ma seppe nascondere bene l'imbarazzo, schiarendosi ripetutamente la voce. << Andavo io da lei. Insomma, okay, questa è la mia stanza. >>
Silenzio.
<< I-in ogni caso >> basta, perché perdeva ancora tempo a parlare del passato? Esther era lì, nella sua camera, che scrutava le vetrate con aria rapita e un po' accigliata. << Ricordo che volevi vederle. Ti avevo promesso che te le avrei mostrate. >>
<< Posso avvicinarmi? >>
<< Certo. Ma se soffri di vertigini ti accompagno, eh. >>
Esther fece una smorfia - lei, vertigini? Ma quando mai -, poi cominciò ad avanzare verso le vetrate, affondando le punte dei piedi nella morbidezza della moquette. Erano grandi, e ricoprivano il muro quasi per metà, estendendosi in tutta la loro vellutata trasparenza. La vista era qualcosa di indescrivibile.
Qualcosa di glorioso, che la fece sentire impotente e piccola nel suo metro e settantacinque di gambe.
Poggiò entrambe le mani al vetro e si perse a guardare i grattacieli oltre il vialone, neri, enormi, accatastati alla rinfusa in quello che doveva essere stato il folle progetto di ordine voluto dai suoi abitanti.
Rimase ammaliata e affascinata da tutta la grandezza che erano in grado di emanare, tutto lo sfarzo, la potenza. Sembrava che niente avesse potuto scalfirli.
Devastarli, buttarli giù.
Con la loro massa di cemento e i loro mille piani di lavoro, proteggevano New York come angeli custodi dalle ali polverose.
Erano distanti, forse troppo, eppure le parve quasi di poterli sfiorare con la punta del dito.
Da quella posizione riusciva a vedere davvero ogni cosa, ogni dettaglio, e deliberò un gemito emozionato mentre Mark, dietro di lei, ridacchiava soddisfatto. Le luci accese delle finestre brillavano come ambra al sole, i cartelloni pubblicitari, le insegne cangianti che sponsorizzavano la Dior, le lampade ad intermittenza per guidare gli elicotteri, gli aerei, lo sguardo di Dio. Esther ebbe la sensazione di star osservando le mille scanalature di un diamante. Uno stendardo a stelle e striscie sventolava patriottico verso est, venato da mille pieghe ingrigite a causa della neve e della pioggia che avevano sferzato la città durante il loro soggiorno in California. Schiantò il naso sul vetro freddo, appannandolo col fiato tremolante d'emozione.
America. La patria dei sogni, della bella vita.
Ed era stato così anche per lei, partita da Osaka per rendersi utile all'estero, con zero aspettative e tanta voglia di prendere in mano le redini della sua esistenza. Finalmente poteva dirsi di avercela fatta. Aveva realizzato il suo sogno.
Rivedere Mark.
E proprio nella città che li aveva voluti dividere prima del tempo, proprio nella metropoli più grande e affollata degli Stati Uniti, con i suoi otto milioni di abitanti e le sue oltre ottocento lingue, con le sue strade frenetiche e i suoi americani che di americano avevano solo la carta d'identità. Proprio dove l'unica possibilità di incontrarlo era equivalente a quella di diventare miliardaria. Eppure, era successo. Proprio quando mai se lo sarebbe aspettata.
Sorrise e fece scivolare gli occhi neri verso il basso. La strada si estendeva infinita sotto di lei, silenziosa, tranquilla, una striscia color pece a senso unico. Una macchina passò, e il rombo del motore le deliziò le orecchie.
Mark le venne accanto e diede un'occhiata disinteressato.
Doveva essere abituato a quella vista.
<< Ti piace? >>
Esther ritornò a perdere il senso del tempo in mezzo agli scheletri massicci dei grattacieli. << Da morire. Mi ricorda te. >>
Si sedette sulla moquette, e Mark la imitò. << Spiegati. >>
<< Tutta questa forza... sa di te. O forse... forse sei tu che mi fai sentire bene. >>
<< Ti faccio sentire bene? >>
<< Mi fai sentire viva, Mark. Non hai mai smesso di farlo. >>
Avrebbero voluto guardarsi, accarezzarsi, ma entrambi scelsero la via del silenzio impacciato, come due ragazzini di quattordici anni al primo appuntamento. Si fecero cullare dal ritmo incessante della strada, dal vento lontano.
Un clacson risuonò in lontananza, ed Esther immaginò di rispondergli gridando di vittoria, urlando contro quel freddo liberatorio e ordinato tipico della East Coast. Uno strano torpore iniziò ad incanalarsi dentro di lei, mescolandosi al sangue, all'eccitazione a fior di pelle che minacciava di farla piangere di gioia. Si strinse nelle spalle, i capelli le cascarono sul petto mentre abbassava il capo.
Mark respirava calmo accanto a lei.
Nulla avrebbe potuto turbare la tranquillità di quell'attimo eterno.
Il fatto di essere lì, solo loro due, davanti ad una città che era stata severa ma giusta, le sembrava un maledetto sogno. Un rivolo di lacrime le scivolò fino al mento.
Le cadde sulle cosce. Si era promessa di non piangere, eppure non ci era riuscita.
Proprio i grattacieli che li avevano separati. E ora ricongiunti.
Ricongiunti. Di nuovo insieme.
Si spinse verso di lui e gli affondò le dita tra i morbidi capelli color miele, in un impeto improvviso che prese a tamburellarle energico sul cuore.
Non era sicura di riuscire a resistere ancora a lungo all'andare del tempo.
Non avrebbe buttato via altre occasioni.
Lo baciò con tutta la forza che possedeva in corpo, guardandolo negli occhi acquamarina, cercando di sopperire grosse stille di lacrime che continuavano imperterrite a sfuggirle dalle ciglia. Lo ammirò confusa fino a sentire dolore ovunque, fino a quando il respiro affannoso non cominciò a chiedere aria anche dalle labbra. Era un momento tutto loro, il momento in cui si sarebbero dovuti sentire liberi, con le ali alle spalle.
Per lei fu meraviglioso scoprire che era così. Fu stupendo leggerlo nelle sfumature turchesi delle sue iridi, e sorridere emozionata nel rendersi conto che anche lui stava provando le stesse identiche sensazioni.
Serrò le palpebre tremanti e si lasciò avvolgere dal tepore delle sue labbra, delle sue palme contro la guancia, premute fino allo stremo per non farla scappare. Naso contro naso, bocche unite, così vicini da poter fondersi in un solo cuore.
La mora lasciò andare un mormorio vacuo e gli salì esitante sulle ginocchia forti, sui muscoli tesi, incrodati per sorreggere lei e nessun'altra donna. Non smise di baciarlo per nulla al mondo. Sarebbe stata capace di divorarlo.
Lo voleva, per sempre, ora, in quella notte grigia e fredda che pareva essersi stretta intorno a loro come un fuoco accogliente. Ebbe il coraggio di sfilargli la maglietta, di toccargli i muscoli tesi, così caldi da sentire la pelle incendiarsi al solo contatto.
Erano così vicini che quando anche Mark chiuse gli occhi, Esther sentì le sue ciglia bionde solleticarle delicatamente le gote.
Erano umide.
Tremavano.
Si aggrappò ai suoi capelli color miele e lo morse, lo tenne a se fino a quando l'ossigeno nei polmoni si esaurì, affogandole nella gola riarsa.
Si staccarono con un bacio inciso per metà, e l'americano lasciò andare un sospiro febbrile, tutti i nervi puntati sull'amica. Esther gli scostò la frangia dagli occhi e lo guardò orgogliosa, osservò le luci della città disegnargli intricati capolavori sulla pelle sudata, sul petto ampio che si muoveva su, giù, piano.
Sorrise ansante.
E quando lui ricambiò, si sentì la ragazza più felice dell'universo. << Voglio baciarti ancora >> lo afferrò per i ciuffi che gli ricadevano sulle orecchie e lo attirò a se piangendo.
Era legale sentirsi tanto fragile e scossa?
Mark le asciugò una lacrima con la punta del naso, e prima di riappropriarsi ancora di lei si lasciò cadere sulla moquette. Poi la abbracciò, la tenne forte tra le sue braccia senza smettere di scrutarla orgoglioso, fiero.
Era quella l'essenza della libertà. Lo sapeva, lo aveva sempre saputo, e il solo pensiero di essere riuscito ad intrappolarla addosso a lui lo fece gridare dentro.
<< Voglio che New York ci guardi. >> Esther gli spinse i ciuffi della frangia all'indietro e gli percorse la piccola cicatrice che gli aveva slabbrato un piccolo segmento di fronte quando durante il FFI era caduto di testa, bagnando il campetto sterrato di sangue.
Il suo Mark.
Il suo bellissimo Mark.
<< Voglio che New York ci guardi, questa notte. >>
Lasciò che le mani di lui le afferrassero il volto, che i suoi occhi chiari la scrutassero attenti.
La studiassero sotto le luci della città.
<< Voglio che ci guardi e dica “cazzo, sono stati più forti loro”. >>
<< Allora dimostriamoglielo. >>
La voce rauca di Mark la fece sciogliere sul suo addome nudo, la costrinse a incurvarsi su di lui con gli occhi gonfi di lacrime. La sensazione del seno premuto contro il suo petto forte la scosse come il fuscello di una pianta spezzata, una scarica elettrica le rizzò i peli delle braccia. Era la prima volta che l'americano le rivolgeva la parola da quando si erano baciati. Quel tono intriso di passione e controllo vacillante di follia la fece impazzire.
<< Facciamole vedere che non ci fotterà ancora. >>
<< Facciamoglielo vedere, Mark.. >>
Con un colpo deciso del bacino Mark riuscì a capovolgere la situazione a suo vantaggio, sorridendo emozionato.
In un attimo fu lei quella sbracciata contro la moquette, la felpa sollevata a scoprirle la pancia bianchissima.
L'americano la cinse tra le ginocchia e le strinse le mani, tastando ogni fibra delle sue palme sudate, captando ogni suo battito cardiaco, ogni suo respiro mozzato ancora prima di giungere al termine.
Chinò il capo e le carezzò il naso alla francese con la lunga frangia.
<< Permettimi di essere libero con te, Esther. >>
<< Ti amo, Mark. >>
<< E io pure, Esther, tanto >>
La baciò con grinta, lasciando che i loro corpi trovassero il loro perfetto punto di aggancio tra i ciuffi blu del tappeto di una stanza che all'improvviso sembrava essersi rimpicciolita un po' troppo. Non si era mai sentito tanto libero e vivo in tutta la sua esistenza. Le afferrò i fianchi con mani tremanti, per poi cacciarle le dita sotto la felpa. Le accarezzò il profilo del seno, percorse la spallina stretta.
La guardò, e quando la vide arrossire la liberò dalla soffocante presa del reggipetto, sganciando i ferretti di metallo con tocco agile.
Cercò di rammentarsi come si faceva l'amore, quando si rese conto che non gli interessava.
Non si era mai sentito così preso da una ragazza, così pieno di lei, gravido del suo profumo e dei suoi modi. L'amava e la consapevolezza di aver resistito a tutto, pur di finire così vicino ai suoi ricci color malva, bastò a convincerlo che gli sarebbe davvero bastato poco per essere più felice della felicità stessa. Che ci era già anzi, e che non avrebbe potuto chiedere niente di meglio dalla sua vita. Le tolse la felpa, la tirò contro la vetrata appannata dei loro fiati e la coprì col suo corpo prima che l'esposizione potesse darle qualche disagio.
Al contatto rabbrividirono di piacere.
Esther si aggrappò ai suoi capelli ribelli, lo chiuse tra le cosce e gli strinse il labbro inferiore tra i denti.
Fu un bacio violento, rude, pieno di amore.
Fu in grado di cancellare ogni traccia di angoscia, ogni dolore sofferto, ogni lotta contro un invalicabile muro di vento.
Ogni serata passata a pensarlo, con i capelli odoranti di fritto e le mani spossate, stesa su un letto enorme a guardare le gocce d'acqua schiantarsi sulla finestra.
A chiedersi dove fosse, cosa stesse facendo.
A chiedersi se sarebbero finiti a fare l'amore così, davanti alle luci di una città che per quella notte, ebbe occhi solo per loro.


 
Una vibrazione poco distante costrinse gli occhi di Esther a schiudersi piano, come le ali di un piccolo uccellino appena uscito dall'uovo. I grattacieli di New York le inondarono le iridi di luce, e istintivamente si portò una mano al viso, per schernirsi da tutta quella inusuale potenza.
Che ore potevano essere? E soprattutto, come diavolo ci era finita sul letto di Mark? Ricordava di essersi addormentata sulla moquette.
Forse doveva avercela messa lui. A quel pensiero si fece piccola sotto le grandi coperte bianche che profumavano di rosa, deliziata dalla mano dell'amico premuta docile contro la sua testa.
Emise un mormorio e sollevò un po' il capo, alché Mark rispose lasciando cadere dolcemente la mano lungo la sua schiena coperta di capelli. Quando incrociò lo sguardo con quello di lui, rivedere i suoi occhi, così chiari e limpidi, dopo la notte che avevano passato, bastò a farla arrossire.
<< Oh. >> l'americano la grattò affettuoso tra i capelli. << Hi, Est Coast. >>
Esther sorrise a quel nomignolo. << Sta suonando qualcos--
<< Sì. La sveglia. >> Mark la bloccò con uno scatto del dito, e nel compere l'azione, il cellulare gli fece notare di aver perso ben tre chiamate da parte di Dylan. Il solito rompicazzo, non c'era modo di tenerlo fuori dalla propria esistenza.
Sorrise e lo fece scivolare tra le lenzuola stazzonate.
Lo avrebbe richiamato più tardi.
<< Non volevo svegliarti. >>
<< Non è stata colpa tua, tranquillo. >> Esther si massaggiò gli occhi increspati di sonno. Non ricordava di essersi mai fatta una dormita tanto bella e rigenerante. Il letto di Mark era comodo come una soffice nuvola di zucchero, i cuscini foderati di azzurro portavano ancora il calore dei loro corpi vicini. << Devi... andare a lavorare? >>
<< Dovrei cominciare a prepararmi, sì. >>
<< Ma... >> Esther si sforzò di controllare le lancette dell'orologio posato sul comodino alla sinistra di Mark. << Mark, non sono nemmeno le tre! >>
<< Sono le due e trentuno, non voglio e non posso permettermi di arrivare tardi al lavoro. >>
La morsa scosse il capo, stordita. A casa del biondo era tutto così piacevole e calmo che per un istante si era persino dimenticata del traffico. Non trovò la forza di dire altro, vuoi per il sonno, vuoi per il tepore delle braccia di Mark, strette dolcemente intorno a lei.
Avrebbe dato per rivivere una notte del genere.
Per rifarlo ancora, e piangere di nuovo abbracciata a lui. Le sarebbe mancato. << E io? >>
<< Tu puoi restare qui, se vuoi. A patto che prima di andare a lavorare mi chiudi la porta di casa. >>
<< Potrei lasciartela aperta, solo per farti incavolare. >> lo disse e lo baciò rapidamente, prima di cominciare a giocare con i suoi capelli biondi. Li suddivise sulla federa del cuscino, li intrecciò e li pettino con delicatezza, soddisfatta della loro lunghezza. Provava un timido imbarazzo per tutto quello che era successo, ma lui sembrava sereno. Sicuro di se, delle sue convizioni, del suo coraggio. Le strinse i ricci in una coda improvvisata e li lasciò cadere tutti di un lato.
Una cascata di boccoli le coprì la vista, facendola ridere. Non le conveniva diventare la personificazione dell'imbarazzo in persona, non era quello il caso.
Mark stava facendo di tutto pur di farla sentire a casa.
E in effetti, era davvero così.
<< A che ora smetti, tu? >>
<< Di sera. >>
<< Pure io. Aspettami lì, allora. Quando finisco il turno vengo a reclamare le mie chiavi, non ti preoccupare. >>
<< D'accordo, te le farò trovare pronte. A patto che torniamo qui, poi. >> Esther si sollevò sugli avambracci e lo guardò con la coda dell'occhio mentre lui sospirava dolce d'amore caldo, gli occhi chiari velati di consapevolezza. Poi corrucciò le labbra sottile ed improntate del suo stesso rossetto, un po' confuso. << Ohoh. Qualcuno qui non ha voglia di andare a salvare il mondo, temo. >>
<< Tu avresti voglia di rivedere Erik dopo due settimane passate insieme a lui sotto lo stesso tetto? >>
Scoppiarono a ridere insieme, così forte che per un attimo il traffico senza fine della città sparì coperto dalle loro voci potenti. Lo abbracciò di slancio, facendolo sprofondare tra le coperte con una risata.
Cosa avrebbe pensato la piccola Esther di quel momento? Probabilmente sarebbe saltata di gioia, avrebbe sventolato in aria un cartellone con incisi i loro nomi e lo avrebbe alzato talmente in alto da permettere a tutto il mondo di notarlo.
Si tirò su quel tanto che bastava per poterlo guardare negli occhi. << Le notti di settembre finivo per pensarti sempre. >>
Mark la guardò come si guarda un cannato.
Okay, meglio se si spiegava.
<< Sì, dai, settembre! La scuola, le foglie autunnali. Comprendi, no? >>
<< Mi... mi pensavi. >>
<< Sì. Quando fuori pioveva, e i compiti mi guardavano minacciosi dalla scrivania in attesa di essere finiti. Mi sembrava che la vita sarebbe potuta essere un po' più... >> nel cercare il termine adatto a descrivere la situazione, Kruger le rubò un timido bacio di incoraggiamento. La stava ascoltando. Era adorabile. << un po' meno schifosa, accanto a te. >>
Ed era così.
Tutte le volte che rientrava sfinita dal ristorante della madre, con sulle spalle il peso enorme di una giornata di scuola passata a spaccarsi il cervello davanti alle interminabili ore di biologia.
Quando si scioglieva i capelli maleodoranti e si buttava a testa bassa sotto la doccia, immergendosi nell'odore forte della vaniglia pregando Dio di levarle almeno un po' del lezzo del lavoro dalla pelle.
E quando poi, in asciugamano, apriva i libri e moriva dinanzi alla mole di roba da studiare.
Era in quei tragici momenti che il suo biondo colpiva, spietato come una freccia piantata nel cuore.
Non che il resto delle ore non lo pensasse, chiaro.
Ma quando si ritrovava sulla sedia della scrivania, a colorare il libro con gli evidenziatori, la mente partiva per New York.
E subito si immaginava a dormire tra le sue braccia, dove tutto sembrava riprendere colore.
Anzi, dove tutto riprendeva colore. Era una conferma, non più un pensiero.
<< Ti amo, Mark. >>
<< Anche io ti amo, Est. >>
Quella franca verità la fece sospirare contenta. Era così emozionata che avrebbe potuto farsi tutti i quindici piani in salita e discesa, e salita, di nuovo.
<< E cosa immaginavi? Tanto per curiosità. >>
<< Di farti. >>
Mark scoppiò a ridere, poi le saltò addosso con un balzo e la bloccò tra le lenzuola, facendola gridare.
<< Mark Kruger, devi andare a lavorare! >> esclamò Esther, divertita, e gli posò le mani sul petto nudo. Ascoltò il battito del suo cuore come la musica più emozionante che avesse mai potuto ascoltare in tutta la sua vita. << Sei un poliziotto adesso! >> gli carezzò le clavicole con un sorriso. << Torna serio! >>
<< Ma adesso non sono al lavoro. Non sono un poliziotto. >> la voce dell'americano si ridusse ad un flebile sussurro. << Sono Mark, sono Mark in compagnia di Esther. >>
<< Ho paura di sapere cosa accadrà. >>
<< Non resta che scoprirlo. >>
Esther avrebbe voluto baciarlo ancora, lasciarsi inebriare dalla forza di quel ragazzo che più i minuti passavano e più sentiva e sapeva di amare.
Ma Mark le impedì di portare a termine le sue piccole voglie, togliendosi da sopra di lei e scattando in piedi come un soldato.
La mora emise un mugolio deluso, si coprì i seni con le coperte e lo osservò aprire l'armadio con uno scatto energico del braccio. << Ti si vede tutto il culo. >>
Mark si tirò su i boxer facendoli schioccare sulla pelle.
<< Sei carino in mutande. Te l'ho mai detto che hai un culo pazzesco? Me ne sono accorta al matrimonio di Bobby. Sono eoni che volevo dirtelo. >>
In tutta risposta, il biondo la ignorò di proposito ed estrasse la sua amata divisa blu. Poi se la issò sulle spalle, si diresse verso la porta e prima di sparire in bagno la guardò.
Aggrottò i sopraccigli e le concesse il lusso di un sorrisetto divertito.
Esther rise.
Suonava tanto come un invito a seguirlo, e naturalmente lo fece, portandosi con se tutta la coperta.
L'euforia di sapere che cosa sarebbe successo da quel giorno in poi le gravava vivida nel petto; si sentiva energica, piena di una grinta in parte dovuta alla splendida notte passata in compagnia del biondo.
Sorrise e lo guardò cambiarsi con rapidità, armarsi di tutto punto per andare a sistemare le cose in un mondo forse troppo ingiusto, ma pur sempre bellissimo.
Che fosse il mondo criminale o il suo, beh.

Non restava che scoprirlo.
 
- end


 
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mark ed esther che fanno l'amore per me è un sogno che si avvera. 
eh già. con mio rammarico annuncio che anche questa long, purtroppo per me, è finita. davvero, ho il magone nel metterci un punto di fine, perché per quanto io cerchi di negarmelo, per quanto cerchi di non ammetterlo, inutile nascondere l'evidenza.
Mark ha sempre fatto parte della mia vita. è sempre stato un personaggio fondamentale, l'ho sempre amato, al di là dei suoi tratti fisici, che possono piacere come no - per la piccola me di dodici anni era stato un colpo al cuore, quel giorno d'estate, vederlo alla TV fare una clamorosa figuraccia contro Tiago Torres (?), e tutt'ora lo è, tutt'ora detiene un piccolo posticino nel mio cuore, se penso a tutto il mondo che gli ho creato intorno, a quanto mi senta legata al suo personaggio. la vecchia disaster era stato un primo tentativo di far conoscere il mio punto di vista su di lui. ho fallito su tanti aspetti, per alcuni era troppo dolce, per altri troppo irreale, per questo ho sentito la necessità di riportare un sequel in cui Mark fosse, sostanzialmente, l'abbreviazione tra: quello dell'anime, evasivo, allegro, energico, maturo, e quello del gioco, che forse pare quasi il suo contrario: permaloso, pieno di problemi, serio, ligio al dovere, sospettoso, razionale. insomma, molto policeman, per intenderci
mi rendo conto di, molto probabilmente, aver fallito anche in questa storia, ma d'altro canto, non credo che qualcuno sia mai riuscito a scrivere una long su un personaggio tanto bello e complesso come lui. io lo amo tanto, davvero. per me è stupendo
quindi, nel mio piccolo, questo è un omaggio in primis dedicato a Krugerozzo ; spero di poter, un giorno, tornare a scrivere altro su di lui! e spero vivamente che comparirà anche nella nuova serie di Inazuma Eleven, la suddetta "Orion". ma staremo a vedere.
come secondo, volevo ringraziare tutti voi per aver seguito una storia che davvero, non mi aspettavo potesse essere calcolata tanto. mi rendo conto che la sezione abbia perso un po' di smalto, in questi anni, e che moltissime autrici brave abbiano deciso o di mollare o di cambiare fandom, però non bisogna certo arrendersi; chi ha talento e passione deve mettercela tutta. la MarkxEsther è una crackpairing. non esiste - potrebbe funzionare, ma di per sé non esiste. un po' come la MarkxSuzette. se sono riuscita, io, con una coppia campata per aria, ETEROSESSUALE perlopiù (?????), ad attirare tanti lettori, non vedo perché voi non possiate riuscirci, per cui vi dico solo questo. se avete idee in campo, liberatele. davvero. il fandom ne ha bisogno. ringrazio di cuore tutti quelli che hanno seguito dal primo capitolo la long, chi ha smesso di farlo, chi si è aggiunto, chi ha recensito, chi ha smesso e chi, sperò, vorrà farlo.
i commenti sono sempre accettati, adorati e venerati, critiche incluse <3
vi voglio tanto bene.
a presto!
xoxoxo


Lila
   
 
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