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Autore: Lady1990    17/02/2019    3 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Lunedì mattina, seduto in cucina a fare colazione, con lo sguardo fisso sulla schiena del fantasma di un signore anziano munito di bastone immobile accanto al frigo, Regan rimuginava sulla notte passata. Alla fine, non era riuscito a chiudere occhio a causa del nervosismo e della sete, divenuta più acuta dopo che si era nutrito del suo stesso sangue.

Aveva trascritto tutto su un foglio del blocco da disegno per non dimenticarsi nemmeno un dettaglio, nella speranza che, così facendo, avrebbe ricevuto una qualche epifania. Invece, semmai, la confusione e le domande erano aumentate a dismisura.

Poe miagolò triste da sotto il tavolo, perché nessuno lo stava considerando. O forse perché il fantasma si frapponeva tra lui e la sua ciotola.

Deirdre scrutò di sottecchi il nipote dal suo posto in piedi davanti ai fornelli, la solita tazza di tè fumante in mano e la vestaglia lilla a fasciarle il corpo. Regan non aveva toccato cibo, se non per il succo d’arancia corretto. Le sue occhiaie erano più marcate, chiaro indizio che avesse passato la notte in bianco. Quando era rincasato lei stava già dormendo, perciò non sapeva se era stato per colpa di un altro incubo e se era accaduto qualcosa mentre era fuori con Roman. Dopo averlo visto scendere a colazione ridotto in quello stato, la ramanzina che era stata in procinto di fargli per aver sforato il coprifuoco le era morta in gola. Adesso, osservandolo fissare il vuoto, avvertiva soltanto ansia e paura.

“Che hai, leprotto?” gli chiese, sedendosi di fronte a lui.

Regan sussultò e sbatté le palpebre, quasi avesse scordato di non essere solo.

“Niente.”

Deirdre levò gli occhi al cielo e sbuffò: “Parla.”

Il ragazzo si mordicchiò l’interno di una guancia e riabbassò lo sguardo, puntandolo sul bordo del piatto. Aprì e richiuse la bocca varie volte, indeciso su cosa dire e come dirlo.

Sua nonna si sporse, poggiò una mano sulla sua in un gesto di conforto e gli sorrise.

“Puoi dirmi tutto, lo sai.”

“Lo so, è che… non riesco…”

“Con calma. Fa’ un bel respiro.”

Regan inspirò, trattenne l’aria per cinque secondi ed esalò, avvertendo un po’ della tensione abbandonarlo. Sopirò e deglutì. Poi cominciò a raccontare.

“Stavo tornando a casa ieri notte, dopo l’uscita con Roman. Era tardi, così ho preso la scorciatoia. A un certo punto, mi sono fermato.”

Deirdre attese che Regan continuasse, ma lui sembrava essersi ammutolito. Quando il silenzio si protrasse ininterrotto per più di un minuto, si spazientì.

“Perché ti sei fermato?”

“Non lo so. Io ho… credo di aver percepito… qualcosa.”

“Che cosa?”

“Una… presenza.”

“Una presenza.” ripeté calma.

“Era malvagia. Era…”

Non riusciva a descriverlo, così, in preda alla frustrazione, affondò le zanne nel labbro inferiore. Il sangue gli stillò sul mento e macchiò il colletto della felpa nera.

Deirdre boccheggiò sconcertata. Rinsaldò la presa sulla mano di Regan e si impose la calma.

“Nonna, c’è un intruso.” scandì serio, gli occhi fissi in quelli di lei.

“Che genere di intruso?”

“Sta cacciando nel mio territorio.”

“Chi?”

Regan ringhiò e sferrò un pugno sul tavolo. Il piatto, il bicchiere e la tazza tintinnarono sotto la forza del colpo.

Deirdre si ritrasse come scottata. Guardò allibita la faccia di Regan contorcersi in una maschera di pura rabbia, talmente intensa da farla rabbrividire. Per un istante, ebbe addirittura l’impressione di vedere le sue iridi accendersi come torce.

“Prima Teresa, ora… qualcun altro. Di certo lo sapremo presto, la voce si spargerà.” digrignò i denti e ringhiò di nuovo, “Come osa, nonna? Come osa?!”

“R-Regan, per favore, calmati. Non capisco…”

Il grugnito frustrato di Regan spinse Poe a rifugiarsi sotto il divano col pelo ritto.

“Hai fatto qualche progresso con la filastrocca del fantasma?”

“Non proprio…”

“Fa niente. Me ne occuperò da solo.”

“Cosa? Regan!”

Ignorando deliberatamente la nonna, Regan si pulì il mento dal sangue con il tovagliolo di carta, si alzò da tavola e si caricò lo zaino in spalla. Dopo aver afferrato il sacchetto del pranzo, uscì di casa a passo di marcia.

 
*

Roman stava aspettando Regan accanto all’entrata del liceo, lo zaino appeso a una spalla e le mani nelle tasche dei jeans. Le lezioni sarebbero cominciate tra cinque minuti e dell’amico non c’era ancora traccia. Scandagliò per l’ennesima volta il parcheggio e un minuto dopo, finalmente, scorse Regan pedalare verso la transenna.

Regan mise il lucchetto alla bici e improvvisò una corsetta verso la porta, incurante dei ritardatari come lui che sostavano nei pressi. Quando fu a un paio di passi da Roman, fece per superarlo spedito.

“Regan?”

Il moro si fermò e si girò. Aveva un aspetto orribile, più inquietante del solito. Roman rabbrividì.

“Non ho voglia di parlare.” gli disse Regan a mo’ di saluto, per poi proseguire in direzione dell’armadietto.

“Sprigioni cattivo umore da tutti i pori…” commentò cauto l’altro, accodandosi, “Posso chiederti cosa è successo?”

“No.”

“Dimmi solo se è colpa mia.”

“No.”

“Okay.”

Roman non dubitò neanche per un istante che gli avesse detto la verità, Regan non era il tipo da indorare la pillola. Se lo facevi arrabbiare, te lo diceva senza tanti preamboli. E poi la rabbia era una delle pochissime emozioni che gli potevi sempre leggere in faccia.

“Che vuoi?” sputò seccato Regan, non appena si accorse di essere seguito.

“Ehm… abbiamo Francese alla prima ora.”

Regan grugnì un assenso e gli diede le spalle, fiondandosi in classe con la grazia di un toro inferocito. Si sedette al suo banco, estrasse i libri dallo zaino e iniziò a tamburellare le dita sulla coscia per sfogare lo stress, in attesa che Miss Rochelle varcasse la soglia.

Roman si sedette al banco alla sua destra con più eleganza e finse di non notare le occhiate stranite degli altri studenti. Un paio presero a bisbigliare tra loro, scambiandosi teorie sul motivo della palese collera dello “zombie”. Storse le labbra in una smorfia all’udire quel soprannome. Nonostante il nuovo status sociale di Regan, c’erano ancora studenti che lo sussurravano.

“Secondo te, ha di nuovo litigato con Gregory?”

“Può darsi. Non sarebbe una novità.”

“Oggi fa più paura del solito. Ha la tipica faccia di uno che vuole commettere un omicidio.”

“Penseresti che, ora che gravita intorno alla gonna di Lorie, si sia calmato. Invece non è cambiato niente.”

“Abbassa la voce o ti sentirà.”

Roman scoccò un’occhiata in tralice a Regan. Avvertiva lo strano impulso di sbranare quei due pettegoli e, allo stesso tempo, scusarsi con lui da parte loro, sebbene non fosse colpa sua. Regan, però, era assorto nei suoi dilemmi esistenziali.

Roman era sul punto di insistere, voleva conoscere la ragione dello stato emotivo dell’amico, ma le domande avrebbero dovuto aspettare, perché Miss Rochelle fece il suo ingresso in classe con un solare “Bonjour!” e la lezione cominciò.

Al suono della campanella, Regan sfrecciò via senza salutare, zaino in spalla e aria funerea. Se non seminò una scia di cadaveri al suo passaggio fu solo grazie all’istinto di sopravvivenza degli altri, che si schiacciarono lungo gli armadietti come le acque del Mar Rosso.

A pranzo, Regan non si fece vivo a mensa, così Roman dovette sorbirsi l’interrogatorio delle cheerleader, che volevano sapere dove fosse finito. Menomale che c’era Zack a fungere da filtro e reindirizzare il flusso di chiacchiere verso argomenti neutri, come la festa di Halloween.

“Tu da cosa ti vestirai?” gli chiese Jennifer.

“Non so neanche se verrò.” rispose Roman mentre addentava il panino.

“Certo che verrai!” si intromise Charlotte, “E hai tempo due giorni per decidere quale costume indosserai. Sarebbe veramente carino se tu e Jen li aveste abbinati!”

Roman si sforzò di sorridere. Dentro di sé pregò che la pausa pranzo finisse in fretta.

A fine lezioni, scorse Regan correre in bagno. Non era sua intenzione pedinarlo, ma finché non avesse soddisfatto la forte necessità di assicurarsi che stesse bene non avrebbe desistito. Non gli piaceva un Regan di pessimo umore, per niente. Perché se qualcosa era riuscito a provocare in lui una tale rabbia da renderlo simile a un vulcano in eruzione, doveva essere grave.

Entrò in bagno a passo felpato e si chiuse piano la porta alle spalle. Appoggiandosi al muro, incrociò le braccia sul torace e lo osservò sciacquarsi la faccia in silenzio. Sapeva essere paziente, se voleva.

“Che vuoi, Roman?” sputò seccato Regan, senza disturbarsi a girarsi.

“Come stai?”

“Che te ne frega?”

“Sei il mio migliore amico, quindi me ne frega.”

Regan sbuffò e si terse il viso con dei fazzoletti, poi strinse il bordo del lavandino fra le mani. Constatando quanto fosse teso, disperato per una valvola di sfogo, a Roman venne un’idea.

“Seguimi.” gli disse, agguantandolo per un polso.

“Dove?”

“Lo vedrai.”

Roman lo condusse in palestra. A quell’ora era deserta, come sempre di lunedì. Mollò la presa solo per andare a recuperare un pallone da basket dalla cesta in fondo. Cominciò a palleggiare e guardò Regan con un ghigno di sfida.

“Giochiamo. Uno contro uno. Vince chi arriva per primo a cinquanta punti.”

“Ho giocato solo un paio di volte.” confessò Regan, ma fu svelto a liberarsi dello zaino e del giubbotto, abbandonandoli su una delle panche.

“Conosci le regole, giusto? Coraggio, mostrami quello che sai fare.”

Gli lanciò la palla e Regan l’afferrò prontamente.

“È stata una tua idea. Non dimenticarlo quando ti farò il culo a strisce.”

Roman represse a stento un brivido di eccitazione. Una potente scarica di adrenalina gli attraversò tutte le terminazioni nervose. Il lupo si affacciò in superficie per giocare.

“Fatti sotto.” proferì con voce bassa e vibrante.

Un’ora più tardi, il conto era ancora a 22 per Roman e 23 per Regan. Il primo era in un lago di sudore, più per lo sforzo che aveva impiegato per non usare la sua vera forza e velocità che reale affaticamento. Regan, invece, pur avendo il respiro affannato come lui, era asciutto. In compenso, il suo incarnato aveva assunto un pallore spettrale, facendo risaltare le borse violacee che gli cerchiavano gli occhi.

Roman prese possesso della palla, scartò agilmente Regan e, correndo sotto il canestro, compì un balzo per fare una schiacciata. La palla bucò il canestro, portandolo a 24 punti. Passò il turno a Regan, che palleggiò per cinque secondi, per poi scattare fulmineo e fare una finta a sinistra. Roman non la registrò finché non fu troppo tardi, dando modo all’altro di superarlo e schiacciare a sua volta.

“Sei bravo.” si complimentò Roman, “Saresti una buona aggiunta alla squadra.”

“Ti sei dimenticato che odio gli sport?”

Il bidello scelse quel momento per entrare in palestra con i suoi attrezzi. Appena li vide, brandì lo scopettone e ordinò loro di levarsi dai piedi. Così furono costretti a raccogliere la propria roba e filarsela veloci.

Percorsero il corridoio a ritroso, in direzione del parcheggio, adesso mezzo vuoto. Roman si fermò prima di raggiungere la propria macchina e Regan lo imitò.

“Va meglio?”

“Sì. Grazie.”

“Perché d’ora in avanti non vieni agli allenamenti? Puoi studiare sugli spalti e, quando finisco, carichiamo la tua bici nella mia macchina e ti riaccompagno a casa.”

“Come una tenera neo-coppietta, dove lei va a vederlo allenarsi e sbava alla vista del suo corpo sudato mentre fa finta di studiare? Il tutto, magari, con una musica sensuale in sottofondo e un fermo immagine sui bicipiti di lui.” lo provocò Regan.

“Non intendevo in quel senso! E il sudore non è sexy.”

“Forse ho guardato troppe sit-com.”

Roman grugnì seccato: “Puoi semplicemente rispondere alla mia domanda?”

“Rilassati. Okay, verrò.”

Roman gli elargì un sorriso raggiante. Represse l’impulso di gonfiare il petto e fare la ruota come un pavone solo perché non voleva rendersi ridicolo. Si protese per un abbraccio, ma all’ultimo ci ripensò. I vestiti gli si erano appiccicati alla pelle alla stregua di una membrana umidiccia e puzzolente, e il ciuffo gli si era spalmato sulla fronte con tutta l’intenzione di fossilizzarsi lì. Aveva bisogno di una doccia, possibilmente cinque minuti fa.

“A domani, Roman.”

“A domani.”

Regan trotterellò verso la bici, tolse il lucchetto e salì, il cuore più leggero rispetto a quella mattina. Chi l’avrebbe detto che bastava una partita amichevole a basket con il tuo migliore amico per ritrovare una parvenza di serenità?

Regan iniziò a presenziare agli allenamenti di Roman già dal giorno successivo. Al vederlo seduto sugli spalti, le cheerleader lo salutarono scoccandogli baci da lontano e la squadra di basket gli rivolse cenni amichevoli. Al coach Roden venne un principio di infarto.

“McLoan! Cristo santo, stai cercando di uccidermi?!” gli berciò da bordo campo, una mano premuta sul cuore e l’altra stretta attorno al fischietto.

“È McLaughlin, coach.” lo corresse con voce priva di inflessione.

“E io che ho detto? Ora smettila di fissarmi come se fossi uno spiedino succulento e fa’, beh, altre cose. Dio, sembri uscito da L’alba dei morti viventi. Indossa un po’ più di colore, ragazzo, e vedrai che la tua vita si colorerà!”

“Ricevuto, coach.”

Roman dovette nascondersi dietro alcuni compagni per non scoppiare a ridere in faccia al coach Roden. Dalle gradinate, Regan lo intercettò e si concesse di curvare un angolo della bocca verso l’alto.

Come da programma, aspettò la conclusione degli allenamenti facendo i compiti. Il rumore ritmico della palla, lo scricchiolio delle scarpe e i fischi del coach divennero un sottofondo ipnotico, tanto che a un certo punto quasi dimenticò di trovarsi in palestra.

Quasi. Ogni volta che Roman segnava o compiva una mossa da atleta professionista, si voltava verso gli spalti, dove sedeva Regan, e gli sorrideva come un cucciolo in cerca di approvazione.

Al coach non sfuggirono quegli scambi e spesso si ritrovò a fischiare contro Roman dicendogli di smetterla di fare gli occhi dolci a Regan. I compagni risero a sue spese, ma notificarono il coach del ruolo di Roman “mamma orsa” nella vita di Regan.

Roman avvolse le mani a coppa intorno alla bocca ed esclamò: “Regan, hai mangiato? Mi sembri deperito. Ce l’hai la sciarpa per dopo? Se non ti copri, ti becchi un malanno.”

Regan rispose inarcando un sopracciglio e alzando il dito medio.

“Sinclair, dacci un taglio.” lo sgridò il coach, anche se non risultò convincente a causa del sorriso divertito che gli stirava le labbra.

Dopo gli allenamenti, Regan e Roman attraversarono insieme il parcheggio, ciascuno diretto al proprio mezzo. Al momento di separarsi, però, Regan fermò l’altro poggiando una mano sulla sua spalla.

“Grazie per essere stato al gioco prima, in palestra.”

“Di nulla. Sarà divertente recitare la parte della mamma orsa.”

“Nessuno ti obbliga.”

“Lo so. C’è altro che posso fare per rendere la tua nuova persona più credibile?”

“In effetti, ci sarebbero alcune cose…”

“Spara.”

“Giura di non menzionare mai ad anima viva ciò che ci siamo detti al cimitero, per esempio. Non mettere in dubbio le mie azioni, in nessun caso. Se devi dirmi o chiedermi qualcosa in merito, lo fai in privato. Non prendere iniziative senza averne prima discusso con me. La mia posizione è ancora precaria, non posso permettermi di fare errori, capisci?”

“Ricevuto.”

“Okay. Grazie.” Regan lo salutò e si voltò, ma venne a sua volta fermato.

“Non così in fretta. Ho delle condizioni.”

“Sentiamole.” sbuffò e piegò le labbra in un sorriso sghembo.

“Te le ho già espresse al cimitero, ma lo farò di nuovo. Innanzitutto, desidero che tu sia te stesso quando siamo soli. Intendo che non voglio che fai il carino, detesto le persone false. Seconda di poi, mi metterai sempre a parte dei tuoi piani, non importa quali siano. Se lo farai, avrai la mia piena collaborazione.”

“Mi sembra ragionevole. Andata.”

Mentre si stringevano la mano, si fissarono intensamente. Entrambi videro determinazione e complicità negli occhi dell’altro, e questo bastò a siglare il patto.

“Già che ci siamo, volevo dirti una cosa.” disse Roman, allentando con riluttanza la presa sulla mano dell’amico, “Ieri sera ho origliato una telefonata tra mio padre e un poliziotto di qui con cui ha stretto amicizia. Pare che due giorni fa sia sparito un bambino.”

Regan assottigliò le palpebre, confuso: “Perché me lo stai dicendo?”

“Il caso è simile a quello di Teresa Meyers. Jennifer me lo ha descritto nel dettaglio tempo fa, il sabato che siamo andati a Salem.”

“Cosa sai?”

“Il bambino, di cui non ho colto il nome, è sparito nel cuore della notte da camera sua. Finestre chiuse dall’interno, genitori addormentati nella stanza in fondo al corridoio, allarme inserito. La polizia crede che si tratti di rapimento, anche se non hanno idea di come il rapitore si sia intrufolato in casa o perché abbia mirato proprio al bambino. Finora non hanno chiesto alcun riscatto e il bambino è sparito nel nulla.”

“L’indirizzo?”

“Non lo so.”

“D’accordo. Tienimi informato.”

“Hai già qualche teoria? Indizi?”

“Perché dovrei avere degli indizi?”

Roman roteò gli occhi e sospirò: “Volevo dire: hai per caso visto il fantasma di un bambino, di recente?”

“No.”

“Bene, vuol dire che è ancora vivo.” disse Roman, visibilmente sollevato.

“Non è detto. I fantasmi non si allontanano mai troppo dalle loro spoglie mortali, come ti ho spiegato. Il fatto che io non lo abbia visto indica solo che il corpo del bambino non è nei paraggi, non che è vivo da qualche parte.” replicò Regan.

“Oh. Però se lo vedi, me lo farai sapere?”

“Come vuoi.”

Roman lo salutò con una pacca sulla spalla e si ritirò verso la macchina, mentre Regan inforcò la bici e pedalò alla volta di casa.

Quando entrò, raggiunse Deirdre in cucina, trovandola impegnata a svuotare quattro grosse zucche. Il ripieno succoso, ammassato in una zuppiera, sarebbe poi stato usato per farci una torta, come ogni anno.

“Ciao, leprotto. Vuoi intagliarle tu?” domandò, indicando le zucche vuote con il coltello.

Regan la squadrò per qualche secondo, stranito dalla sua voce priva di inflessione.

“Prima dimmi cos’è successo.”

“Attento, ragazzo. Non sei nella posizione di darmi ordini.” sibilò secca, lasciando Regan alquanto basito.

“Scusa. Non volevo…”

Deirdre gli diede la schiena e camminò verso il frigo per riporvi la zuppiera. Trascorsero alcuni minuti prima che iniziasse a parlare, senza mai arrestare i movimenti nervosi delle mani, adesso occupate a ripulire il tavolo. Esalò un sospiro e afflosciò le spalle, come se tutto il peso del mondo le fosse stato scaricato addosso in un attimo.

“Perdonami, non ce l’ho con te. È stata solo una giornata… terribile.” disse e, chiudendo gli occhi, nascose la bocca dietro una mano.

“Ne vuoi parlare?”

Lei scosse il capo per rifiutare, poi lo inclinò con espressione incerta. Infine, si appoggiò al piano cottura e rilasciò un respiro tremolante.

“Oggi…” Deirdre deglutì, strinse i denti per trovare la forza e ricacciò indietro le lacrime, “Oggi mi hanno portato due cadaveri, una donna e un neonato. Madre e figlio. La madre ha fatto a pezzi il figlio con un paio di cesoie mentre il marito era in ufficio, poi si è tagliata la gola. Il piccolo era ridotto talmente male che ricucirlo non era una cosa concepibile. Così ho detto al padre che l’unica cosa da fare era cremarlo. Ho gettato i suoi resti, pezzettino per pezzettino, nell’inceneritore.” un paio di singhiozzi sfuggirono dalle sue labbra, “Il padre è in centrale, lo stanno interrogando. È traumatizzato. Ho imbalsamato sua moglie, ma non so se ci sarà un funerale.”

“La donna era depressa? Aveva precedenti di attacchi psicotici?” chiese cauto Regan.

“No, era pulita, a quanto so. Ma il neonato… quel povero bambino… non oso immaginare le sue grida, il suo dolore. Sua madre, la persona che doveva amarlo e proteggerlo, lo ha… io non capisco… come ha potuto?”

Regan rimase il silenzio a riflettere, ascoltando i singhiozzi della nonna. Un simile delitto non era mai avvenuto in una cittadina tranquilla come Ashwood Port, dove il tasso di criminalità era ben al di sotto della media. Le cose, però, avevano iniziato a degenerare dalla scomparsa di Teresa.

“Leggimi ancora le carte.” la esortò pacato.

“C-Cosa?”

“Leggimi ancora le carte, per favore.”

“Perché?”

“Per favore.”

Deirdre lo scrutò con espressione indecifrabile, poi annuì e andò a recuperare i tarocchi. Ripeterono il procedimento dell’ultima volta. Quando Regan girò le carte, non si sorprese nel notare che erano le stesse, esattamente nella medesima posizione.

“Questo è… strano.” commentò Deirdre.

Regan mugugnò un assenso e le domandò: “Hai già saputo del bambino scomparso due giorni fa?”

“Quale bambino?”

“Con la filastrocca come sta andando?”

“Ancora nulla.” rispose sbrigativa e lo scrutò intensamente, “Regan, a cosa stai pensando?”

“Per ora è solo una teoria.”

“Ti ascolto.”

“No. Finché non avrò delle prove, non dirò niente.”

“Ma-”

“Ti prego, non insistere.” Regan ripose i tarocchi nella scatola e afferrò una zucca, “Passami il coltello.”

Con quelle parole mise fine alla conversazione.

 
*

La scomparsa di Timothy Bruce fece il giro dei notiziari il giorno seguente. Tutti i canali dedicarono almeno un servizio per presentare l’intera faccenda. I coniugi Bruce rifiutarono qualsiasi tentativo di intervista da parte dei giornalisti. In compenso, la polizia diramò un’allerta AMBER con la foto di Timothy, chiedendo la collaborazione di tutti i cittadini e le forze dell’ordine delle contee limitrofe.

Grazie alle informazioni diffuse dai media, Regan appurò che il bambino era scomparso dalla casa davanti alla quale si era fermato domenica notte, di ritorno dal cimitero. Ciò significava che il demone, o qualunque cosa fosse, lo aveva preso. Che avesse fatto lo stesso con Teresa? E perché scegliere proprio Teresa e Timothy? Che cosa li accomunava? Perché aspettare più di un mese tra una caccia e l’altra?

A scuola, gli studenti non parlavano d’altro che di Timothy. Regan si accorse di non essere l’unico a pensare che il suo caso e quello di Teresa fossero collegati, in qualche modo. Il nome della ragazza rimbalzò di bocca in bocca, rinnovando il dolore per la sua perdita.

A pranzo, James si trincerò dietro un muro di mutismo. Circondato dai suoi amici, che cercavano di alleggerire l’atmosfera chiacchierando di partite e compiti, sbocconcellò a malapena una mela. All’udire per l’ennesima volta il nome della sua fidanzata scomparsa, pronunciato sottovoce da un ragazzo seduto al tavolo accanto, scostò bruscamente la sedia, scattò in piedi e si allontanò dalla mensa con aria funerea. Nessuno lo biasimò, né tentò di fermarlo.

Volantini con la faccia di Timothy apparvero sugli armadietti giovedì mattina. Le cheerleader, assiepate intorno a un tavolo nel corridoio, raccolsero volontari per mettere su una squadra di ricerca. Sarebbero usciti nel weekend per perlustrare non solo la città, ma anche il bosco, affiancandosi alla polizia. Regan firmò per la partecipazione perché questo si aspettavano da lui. Non disse a nessuno quanto reputava inutili i loro sforzi.

Venerdì, dopo le lezioni, Lorie ricordò a Regan di passare da lei nel tardo pomeriggio per la prova generale del costume di Halloween. Poi sarebbero andati insieme in macchina alla festa, caricando la bici di Regan nel bagagliaio.

Ciò dava a Regan giusto il tempo necessario per accompagnare Roman alla fiera, allestita al limitare dei campi appena fuori città. Osservarono le bancarelle, assistettero a una rievocazione del processo alle streghe e si infilarono nel labirinto di fieno, divertendosi come matti a spaventare le coppiette. All’imbrunire, Roman caricò la bici di Regan nel bagagliaio della macchina e scaricò l’amico di fronte al vialetto di casa.

Regan sfrecciò su per le scale e si recò in bagno, dove si spogliò per farsi una doccia veloce. Memore del consiglio di Lorie, indossò un paio di pantaloni neri aderenti e una camicia bianca. Poco dopo, acciuffò giacca, chiavi, portafoglio e cellulare e scapicollò di nuovo fuori dalla porta. Ebbe almeno l’accortezza di salutare la nonna con un bacio sulla guancia mentre lei stava accendendo i lumini dentro le zucche situate sui gradini del portico.

“Divertiti, leprotto!” gli gridò dietro, sbuffando divertita nel vederlo montare sulla bici e pedalare a razzo verso nord.

Giunse alla dimora di Lorie con due minuti di ritardo rispetto all’ora pattuita. La ragazza lo accolse con un sorriso eccitato. Indossava una canottiera bianca senza reggiseno e mutandine gialle. Nient’altro. I suoi capelli erano legati in una crocchia disordinata in cima alla testa e il suo viso era privo di trucco.

“Ehm…” balbettò confuso.

“Ciao, Regan! Entra.” gli ordinò Lorie, poi lo spinse senza tante cerimonie su per le scale, verso la sua camera.

Regan non ebbe nemmeno l’occasione di ammirare l’arredamento prima di essere spintonato in una stanza dominata da tutte le sfumature del rosa. Era la tipica camera di un’adolescente, con un muro tappezzato di foto con le amiche, trousse piene di oggetti che Regan non aveva mai visto abbandonate sopra cassettoni e pouf, e vestiti sparsi ovunque.

Sul letto c’erano Mary, Vanessa e Claire, tre cheerleader del terzo anno. Neanche loro sembravano a disagio in biancheria intima. Regan si chiese se accogliessero tutti i ragazzi in quella mise provocante. Fece scivolare lo sguardo sui loro corpi mezzi nudi, ma nulla si mosse tra le sue gambe. In compenso, i canini si allungarono e gli punsero la lingua.

Lorie chiuse la porta con un calcio, distogliendolo dalla contemplazione. Posò le mani sulle spalle di Regan, lo guidò verso il letto e lo esortò a sedersi, per poi iniziare a scrutarlo con aria meditabonda. Le ragazze, che non avevano perso tempo ad accerchiarlo, gli stamparono baci sulle guance, giocando con i suoi riccioli neri e accarezzandogli i bicipiti da sopra la stoffa della camicia.

I loro odori e tutta quella pelle esposta fecero venire a Regan l’acquolina in bocca. Quanto gli sarebbe piaciuto concedersi un assaggio.

“Del gel nei capelli, ovviamente.” cominciò a elencare Lorie, “Magari un po’ di ombretto intorno agli occhi.”

“Del correttore per coprire le occhiaie.” aggiunse Mary.

“Che ne dite dell’eyeliner? Appena un pochino di mascara, sennò.” propose Vanessa.

“Rossetto?” chiese Claire.

“No, semmai un filo di lucidalabbra.” disse Lorie.

“Fondotinta?”

“A che serve? È già pallido.”

“Dove avete messo il suo completo?”

“Non è lì, nell’armadio?”

“È in bagno. C’era una piccola macchia sulla giacca, così l’ho pulito.”

“Regan, rilassati.” gli sussurrò Vanessa all’orecchio, vedendolo teso, “Ci prenderemo noi cura di te.”

Il moro deglutì: “È proprio ciò che temo.”

Le ragazze scoppiarono a ridere e continuarono a fargli le moine, arrivando addirittura a strusciarsi su di lui.

Regan non si lasciò smuovere e mantenne una facciata stoica, che durò al massimo per un paio di minuti. Presto, infatti, la sua sete raggiunse livelli esponenziali, facendogli desiderare di averle tutte alla sua mercé. Si rivelò difficile non cedere alla tentazione di ribaltarle sul materasso e affondare i denti nelle loro gole. Specialmente ora che i loro odori naturali non erano coperti da nauseanti scie di profumo e trucco.

Quasi avesse percepito la sua voglia, Claire lo spinse a stendersi sul letto e gli salì sopra a cavalcioni. I suoi movimenti erano fluidi, esperti. Regan si irrigidì e lottò contro la sete con tutte le sue forze, anche se una grossa parte di lui voleva solo arrendersi. Per una volta, avrebbe tanto voluto essere se stesso, sguinzagliare il mostro che albergava nei recessi della sua coscienza e lasciare che sfogasse gli istinti, repressi per anni sotto la frusta di Deirdre.

I capelli biondi incorniciavano il viso di Claire in soffici e voluminosi boccoli e i suoi occhi azzurri brillavano maliziosi. I seni erano compressi dentro coppe troppo piccole, tanto che Regan si chiese come facesse la stoffa a non esplodere. Scendendo giù, sulla pancia piatta, il suo sguardo si imbatté nel bordo di pizzo di un paio di mutandine bianche con ricami blu, in pendant col reggiseno.

Claire portò in contatto le loro pelvi e ondeggiò il bacino con un mugolio impressionato: “Sento qualcosa di notevole, qua sotto…”

Stavolta Regan non dovette simulare lo shock, che crebbe ancora di più quando la mano di Claire lo tastò con decisione. Emise un singulto strozzato e le strinse il polso in una morsa ferrea.

“Non essere timido, Regan. Vuoi toccare?” lo provocò, posando la mano libera del ragazzo su uno dei suoi seni, “Ti piace?”

“Sei morbida.” rispose in tono piatto, allarmato dalla piega degli eventi.

Le sue sinapsi stavano lavorando a ritmo serrato per inventarsi una scappatoia di qualche genere, ma il suo istinto gli gridava di abbandonare ogni remora. Sarebbe stato così bello, appagante e dolce consegnare le redini al vampiro. Perché no, in fondo? Che male avrebbe potuto fare un piccolo assaggio?

Vanessa si sdraiò al suo fianco, sulla destra. Mary, invece, occupò il lato sinistro, intrufolando le dita sotto la sua camicia, attraverso gli spazi tra un bottone e l’altro. Vanessa gli catturò il mento e lo obbligò a girare la testa, per poi attaccare le sue labbra. Dal momento che esse erano già socchiuse per la sorpresa, non esitò a inserire la lingua. Squittì quando sfiorò la punta di una zanna, ma non si ritrasse. Anzi, il bacio si fece più famelico.

Regan non sapeva più come fosse finito su quel letto con tre ragazze arrapate, né perché lo stessero seducendo, ma pian piano smise di importargli. Si disinteressò a qualsiasi cosa che non fosse l’odore del loro sangue che pompava nelle vene e il battito accelerato dei loro cuori. L’aria era satura di elettricità, aspettativa. Un desiderio potente, che nulla aveva a che fare con la lussuria, lo travolse.

Claire gli prese la mano che ancora le palpava il seno e se la portò fra le cosce, dentro le mutandine. I polpastrelli di Regan accarezzarono la sua intimità bagnata e, seguendo l’istinto, la penetrò con due dita. Claire gemette forte, dando voce a tutto il suo apprezzamento, soprattutto quando Regan scoprì il ritmo perfetto e stimolò un’area precisa dentro di lei. La camera si riempì dei suoi ansiti e gemiti. Regan represse a fatica una risata all’udire quei versetti ridicoli.

Lorie, rimasta sino ad allora in silenzio a osservare la scena, si unì a loro. Salì sul letto, si sdraiò dietro Vanessa e si sporse sopra di lei per reclamare le labbra di Regan.

Claire venne e ricadde con un sospiro sognante sulle coltri. Il suo odore pungente spedì scariche di adrenalina nel ragazzo quando lo annusò sulle proprie dita. L’euforia lo pervase, dissolvendo il suo autocontrollo. I pensieri, invece che annebbiarsi sotto l’influsso della carica sessuale sprigionata dalle ragazze, si affilarono come lame e i sensi divennero più acuti. Era stufo di quei preliminari, voleva nutrirsi.

Ghermì la prima ragazza che aveva a tiro, cioè Vanessa, e la rovesciò sulla schiena. Le divaricò le gambe e ci strisciò in mezzo, avvicinando la bocca alle mutandine, già umide di eccitazione. Le leccò per un po’, poi morse con forza l’attaccatura della coscia. I canini bucarono la carne facilmente e il sangue si riversò nella sua bocca a fiumi, caldo e corposo. In risposta, ottenne un concerto di urletti estatici. I suoi gemiti si fusero con quelli della ragazza, creando una sinfonia erotica a cui avrebbe potuto abituarsi.

Succhiò per minuti interi, finché non avvertì Vanessa raggiungere l’apice. Allora si staccò e, senza premurarsi di pulire il sangue che gli macchiava le labbra, si fiondò su Mary, azzannandola sul seno. Lei riversò la testa all’indietro, la bocca spalancata in un grido muto e le guance arrossate.

Lorie si spalmò sulla schiena di Regan. Con la coda dell’occhio, lui vide la sua mano sparire sotto le mutandine, evidentemente impaziente di ricevere stimoli. Con l’altra mano la ragazza lo spogliò della camicia, prendendo subito a baciargli e leccargli la schiena come se stesse venerando un’opera d’arte.

Mary emise un verso strozzato e si accasciò tra le braccia di Regan, sorridente, le palpebre a mezz’asta e lo sguardo vacuo di chi ha visto il paradiso.

Fu il turno di Lorie. Regan la strattonò e la obbligò a stendersi accanto a Vanessa. Costellò di piccoli baci la sua pelle color ebano, dalla gola fino al ventre, dove morse con rinnovata frenesia. Si cibò di lei a grandi sorsate, constatando che il suo sangue era buono come immaginava.

Quando anche Lorie si arrese al piacere, Regan si girò verso Claire e penetrò con le zanne nella delicata carne del suo polso, mugugnando la propria approvazione non appena il suo sapore dolce gli esplose sul palato.

Una volta terminato di assaggiare pure lei, tornò su tutte quante, una dopo l’altra, a cominciare da Vanessa. Le baciò con passione e leccò i fori lasciati dai denti, consapevole delle proprietà curative della sua saliva. Ne aveva già sperimentati gli effetti in precedenza. Le ferite, infatti, si rimarginarono in poche lappate e la pelle tornò liscia, priva di imperfezioni.

Regan sentiva il proprio sangue vibrare e i muscoli guizzare sotto la pelle, pieni di energia. Il suo intero corpo era animato da una forza inebriante che aveva provato una sola volta tre anni addietro, ma allora non aveva potuto godersela appieno. Reclinò il capo e scoppiò a ridere, delirante ed ebbro. Le ragazze gli rivolsero sorrisi adoranti e le loro mani accarezzarono distrattamente il punto in cui le aveva morse.

Se Regan fosse stato più lucido, avrebbe notato che c’era qualcosa di strano. Tanto per cominciare, nessuna di loro aveva battuto ciglio quando le aveva morse. Inoltre, non v’era traccia di paura o ribrezzo in loro, sembravano prigioniere di una bolla di beatitudine inscalfibile. Ma l’euforia gli ottenebrava il cervello, rendendolo indifferente a tutto ciò che non fosse l’appagamento sessuale che scorgeva riflesso nei loro occhi.

“Siete bellissime…” disse con una voce più bassa di almeno due ottave, estranea persino alle sue orecchie, “Deliziose. Incantevoli, semplicemente incantevoli. Credo proprio che vi divorerò tutti i giorni, piano, senza fretta.”

Ignorò i loro miagolii supplicanti, registrando appena i vari “Farei di tutto per te” e “Scegli me!” che rotolarono fuori dalle loro labbra arrossate, e palpò con gentilezza il seno di Lorie, che era la più vicina.

“Mi ami, Regan?” domandò Vanessa, osservandolo languidamente da sotto le folte ciglia scure.

“Certo che ti amo.” rispose con un sorriso accondiscendente.

“E io? Ami anche me?” sospirò Claire.

“Amo anche te.”

“E io?” chiesero in coro Lorie e Mary.

“Vi amo tutte.” dichiarò con un ringhio possessivo, “E voi mi amate?”

“Sì!” esclamarono all’unisono.

“Vi prenderete cura di me, d’ora in avanti?”

“Ovvio!”

“Ho sempre tanta fame, sapete?” disse con un piccolo broncio.

“Ti sfameremo noi.” promise Lorie, “Dicci solo cosa ti serve.”

Regan curvò la bocca in un ghigno feroce e i suoi occhi azzurri si tinsero del colore delle fiamme dell’inferno. La voce della coscienza, molto simile a quella di Deirdre, non era che un bisbiglio lontanissimo ormai, soffocata e ridotta al silenzio dalla dolce frenesia del vampiro. Gli era impossibile ricordare perché la nonna avesse imposto la regola delle cinque dita di sangue al giorno. Perché così poco?

Beh, ora non era importante. Aveva una festa a cui presenziare.

 
*

Roman aveva deciso: si sarebbe travestito da Dracula. Era stanco di optare per il licantropo, in onore dei suoi illustri natali, e se le uniche alternative erano travestirsi da scheletro o da vampiro, era meglio quest’ultimo.

Aveva esitato a confermare la sua presenza, finché Jennifer non lo aveva placcato e costretto a venire, sotto la velata minaccia di farlo precipitare in fondo alla catena alimentare. Roman avrebbe di gran lunga preferito restarsene a casa, ma aveva ritenuto saggio non alienarsi le simpatie dei suoi compagni.

Scese in salotto, dove i cugini si stavano preparando per andare con i genitori a fare “dolcetto o scherzetto” nel vicinato. Fece una piroetta su se stesso e il mantello svolazzò in maniera teatrale attorno alla sua figura. Trevor e Nina risero, mentre gli zii gli fecero i complimenti per il trucco.

“Non fare tardi, tesoro.” gli raccomandò sua madre sulla porta.

“Tornerò entro il coprifuoco, tranquilla.”

Accettò il suo bacio sulla fronte, salutò il branco e uscì nell
aria frizzante di fine ottobre. Il cielo era terso, punteggiato di stelle, e una lieve brezza soffiava dalloceano. Guidò verso la scuola, attento a non stropicciare troppo il mantello sul sedile. Era curioso di vedere da cosa si era mascherato Regan.

Al suo arrivo, notò che c’erano già decine di macchine assiepate davanti all’ingresso, perciò parcheggiò vicino al cancello. Prima di scendere, indossò le zanne finte e si specchiò per appurare che il trucco non fosse colato.

Jennifer lo individuò all’istante. Gli corse incontro in bilico su dei tacchi vertiginosi, un sorriso eccitato sulle labbra e i capelli sciolti sulle spalle in volute dorate. Il costume da strega sexy le fasciava le curve nei punti giusti, la scollatura evidenziava l’assenza di reggiseno e le calze a rete erano strappate in zone strategiche.

“Roman! Anzi, Dracula!”

“Ciao, Jennifer.” la salutò senza entusiasmo.

“Quante volte dovrò ripeterti di chiamarmi Jen? Andiamo, Charlotte e Zack ci aspettano dentro.”

“Regan è arrivato?”

“Non ancora.”

Lo prese a braccetto e lo trascinò in palestra. La musica poteva essere udita da un isolato di distanza, quindi Roman strinse i denti e si preparò all’assalto sensoriale.

Quando entrò, si concesse alcuni secondi per ammirare gli addobbi. I muri erano ricoperti di ragnatele finte, dal soffitto pendevano lanterne a fibra ottica a forma di ragno e, sopra i tavoli posizionati a semicerchio intorno al palco del dj, c’erano candele arancioni a forma di zucca. Passandoci accanto, registrò forte e chiaro l’odore delle zucche e si rese conto che erano vere. Erano state svuotate e intagliate dai volontari, e all’interno era stato piazzato un lumino.

C’erano già parecchi studenti e una manciata di professori, tutti in maschera. Alcuni stavano ballando, altri sedevano ai tavoli a chiacchierare. C’era chi era vestito da vampiro, come lui, chi da scheletro, chi da lupo mannaro, chi da strega e chi perfino da gentiluomo del Seicento. Roman suppose che impersonassero i giudici dei processi alle streghe, poiché il loro abbigliamento era molto simile a quello dei manichini di cera che aveva visto al museo di Salem.

“Roman, che bello vederti!” esclamò Charlotte non appena la raggiunse.

“Ciao. Wow, sei… inquietante.”

Charlotte ridacchiò e fece una piroetta per farsi ammirare. Si era travestita da infermiera di Silent Hill: le sue guance erano rigate di sangue finto, le orbite cerchiate di nero, i capelli legati in una coda bassa e braccia e gambe ricoperti di bende.  

“Dunque, il comitato organizzativo ha in serbo molte sorprese quest’anno. C’è il labirinto degli orrori nell’ala est della scuola e il club di arte ha allestito due aule con rappresentazioni davvero suggestive dei processi alle streghe. Nell’aula di Chimica dei ragazzi si esibiranno in una scena tratta dal film Arancia Meccanica. In quella di Storia, invece, c’è una mostra di bambole antiche. Lasciamelo dire, sono terrificanti!” ridacchiò dietro una mano, ma smise quando si accorse che Roman non condivideva la sua ilarità, “Ehm, sì. Bene, Jennifer può farti fare un giro.”

“Certo!” rispose la bionda, “Prendiamo qualcosa da bere, prima.”

“Divertitevi! Io vado a cercare Zack.”

Jennifer lo condusse al tavolo del buffet. Lei si servì del punch, Roman una coca. Poi uscirono dalla palestra e si inoltrarono nel corridoio per osservare le varie attrazioni. Quella delle bambole antiche era notevole. Roman non si era mai sentito intimorito da una bambola, ma d’ora in avanti era certo che avrebbe avuto gli incubi.

Jennifer rimase appiccicata a lui per tutto il tempo, ignara del disagio del ragazzo. Per lo più parlò lei, dell’ultimo film che aveva visto, dell’ultima canzone che la ossessionava, dell’ultimo libro che aveva letto, della sua famiglia, di ciò che aveva fatto durante l’estate e dei progetti che aveva dopo il liceo. Roman si limitò ad ascoltare con un orecchio, mentre il cervello elaborava a ritmo frenetico piani di fuga che non comprendessero l’asporto delle corde vocali di Jennifer. Dov’era finito Regan?

Quando entrarono nel labirinto degli orrori, il discorso virò proprio sul ragazzo.

“Siete diventati migliori amici, ho saputo.” enunciò Jennifer.

“Sì.”

“Di cosa parlate, di solito?”

“Dei nostri interessi, delle nostre famiglie. Cose così.”

“Mi fa strano immaginare Regan che articola frasi intere.” scherzò Jennifer, “Cioè, ultimamente è migliorato, ma è rimasto un po’… come dire…”

“Beh, non puoi pretendere che cambi di punto in bianco. Comunque, a me piace così com’è. Non lo avrei mai creduto, all’inizio, ma si è rivelato una persona affascinante, ricca di sfumature. Sono contento di averlo incontrato e di non essermi arreso con lui. Ho scoperto un amico sincero e leale.”

“Abbiamo frequentato le medie insieme, però non ci siamo mai parlati.” raccontò Jennifer, “Lui era il ragazzino solitario con la faccia sempre contorta in un’espressione o apatica o omicida, quindi tutti gli stavano alla larga. Nemmeno Regan ha mai provato a farsi degli amici, a dire il vero. Preferiva starsene per conto suo, lontano dagli altri.”

“Lo dici perché lo sai, o perché ti sembrava che fosse così?”

“Dimmelo tu.” sbuffò con un sorriso nervoso, “Sei tu quello che lo conosce meglio di tutti.”

“Regan è molto selettivo. I suoi standard non li ho ancora capiti, ma una volta che entri a far parte della sua cerchia, sa come dimostrarti che ci tiene, a modo suo.”

Camminarono in silenzio per un paio di minuti. Poi Jennifer, incapace di rimanere zitta troppo a lungo, riprese la parola.

“Come ti trovi ad Ashwood Port?”

“Bene, per ora.”

“E hai notato qualcuno che ti interessa, oltre a Regan?”

Eccola qui, la domanda. Roman se l’aspettava, perciò non esitò a rispondere.

“Tu, Charlotte, Zack e Regan siete quelli con cui ho legato di più. Siete tutti diversi, ma simpatici, gentili e disponibili. Non contavo di instaurare tante amicizie già durante i primi giorni.”

“Oh, certo, è una cosa…” tossicchiò e strinse un po’ più forte il braccio di Roman, “Volevo dire, hai notato qualcuno a cui potresti essere interessato romanticamente?”

“No. In verità, non ho neanche cercato. Non ho voglia di tuffarmi in quel tipo relazioni, al momento. L’ultima che ho avuto è finita male e non ho intenzione di cominciarne un’altra così presto. In più, tra studio e allenamenti, mi rimarrebbe pochissimo tempo da dedicare a un’eventuale dolce metà.”

“Capisco.”

Roman venne schiaffeggiato da una zaffata di delusione allo stato puro, ma non trovò la forza di sentirsi in colpa.

“Tu?” le chiese.

“Oh, io sono come te, sempre impegnata. Dove infilerei un ragazzo in una routine come la mia?” ridacchiò complice.

Roman si girò ad ammirare la bara di un confederato zombie per celare una smorfia e roteare gli occhi indisturbato.

Dopo il labirinto, tornarono in palestra per riunirsi agli altri. Jennifer lo invitò a ballare, ma Roman declinò educatamente e si sedette a un tavolo, approfittando della relativa quiete per scrivere un messaggio a Regan. L’amico gli rispose che era per strada e quello bastò a risollevargli l’umore.

Non dovette attendere molto prima di vederlo marciare in palestra con falcate sicure e un ghigno sulle labbra, attorniato da quattro cheerleader, due per lato. Entrarono a braccetto, dividendo la folla a metà. Mentre si facevano largo verso il centro, calamitarono l’attenzione generale come dei magneti. Era difficile, se non impossibile, distogliere lo sguardo.

Roman si alzò e sgomitò tra gli studenti assiepati sulla pista da ballo per raggiungere l’amico. Durante il tragitto, si prese secondi preziosi per osservare il suo costume. Era nero, di foggia ottocentesca, con tanto di stivali e gilè di broccato rosso. Il materiale della giacca, lunga fino al ginocchio, sembrava velluto, ma da quella distanza non ne era certo. Sulla testa portava un capello a cilindro, che passò subito a Lorie con un mezzo inchino e un sorriso ammiccante. Lei lo accettò ridacchiando e lo indossò come un trofeo.

Ora Roman poteva scorgere i capelli di Regan, pettinati all’indietro con il gel. I riccioli gli accarezzavano il retro delle orecchie e la base del collo, lasciando libero un viso che sembrava scolpito nella più delicata delle porcellane. Il lato sinistro era celato da una maschera bianca, che delineava il contorno del labbro superiore, del naso e della tempia. Le labbra erano più rosse del normale, umide, come se ci avesse passato sopra la lingua ripetutamente. L’occhio visibile era abbellito da una sottile striscia di eyeliner. Alle mani portava guanti neri di pelle. I pantaloni aderivano alle sue gambe snelle, non lasciando niente all’immaginazione.

Era una visione da mozzare il fiato, tanto che Roman esitò, scioccato dal carisma che emanava. Notò a malapena i costumi delle ragazze – abiti d’epoca completi di corsetti, una marea di fronzoli e sottane ingombranti – poiché troppo occupato ad ammirare Regan con occhi fuori dalle orbite. Aveva qualcosa di diverso. Quasi poteva percepire un’aura di potere aleggiargli intorno.

Prima che potesse farsi avanti, Mike e altri ragazzi lo anticiparono, circondando Regan come falene attratte dal bagliore della fiamma.

“Wow, guarda che roba! Ragazze, ottimo lavoro.” le lodò Mike, occhieggiando Regan dall’alto in basso con sguardo predatore, “Chi saresti?”

“Il Fantasma dell’Opera.”

“Stai da Dio.”

Se Roman non avesse avuto l’assoluta certezza che Mike non era dell’altra sponda, quella scena gli avrebbe fatto sorgere dei dubbi.

“Scusate il ritardo. Questi angeli ci hanno messo una vita a farsi belle.” scherzò Regan.

Roman boccheggiò quando vide Lorie e Vanessa scoccare sonori baci sulle sue guance.

“Mmm, mi domando per chi.” rise Mike.

“Per voi, ovviamente. Io sono solo il loro umile chaperon.” disse e si profuse in un inchino teatrale.

“Allora, mentre questi cari angeli danzeranno con i loro cavalieri, toccherà a me intrattenere lo chaperon ed evitare che si annoi.” sancì offrendo la mano a Regan, che la prese con aria divertita.

Si lasciò guidare verso un tavolo e si sedette con le gambe accavallate, la schiena reclinata e un braccio piegato sulla tovaglia. La sua posa, seppur rilassata, trasmetteva autorità, sicurezza e raffinatezza, come un principe che ha accettato di graziare i popolani con la sua regale presenza.

“Desideri qualcosa da bere?” gli domandò Mike.

“E da mangiare?” si inserì Peter, sbucando da dietro Mike.

Allibito, Roman li guardò fare a gara per accaparrarsi l’attenzione di Regan, neanche fosse la fanciulla più corteggiata della città e loro i poveri spasimanti. La situazione era assurda e ridicola. Peccato che lui non stava messo tanto meglio: la propria parte animale smaniava per spintonarli via e marcare il territorio, quella razionale era in preda alla più totale confusione.

Sbirciò in direzione della pista, dove Lorie, Vanessa, Mary e Claire volteggiavano tra le braccia di vari ragazzi. Le loro facce erano cristallizzate in un’espressione vacua, sognante. Che avessero bevuto prima di venire alla festa?

Preoccupato, si avvicinò a Regan e inalò il suo odore con discrezione. Non notò tracce di alcool, ma qualcos’altro reclamò i suoi sensi: una scia di sangue fresco. Eppure, non sembrava ferito.

“Regan.” lo chiamò, poggiandogli con forza una mano sulla spalla, e si tolse la dentiera finta per poter articolare meglio le parole.

“Roman! Mi chiedevo dove fossi finito. Vieni, siedi con noi.” lo invitò con un sorriso smagliante, “Bel costume.”

“Grazie. Posso parlarti? In privato, magari.”

Regan roteò gli occhi scocciato. Sordo alle proteste del suo pubblico, si scusò, giurando che sarebbe tornato presto. Lo seguì fuori dalla palestra, nel corridoio che conduceva agli spogliatoi. Quando si fermarono, si addossò al muro e lo fissò a braccia conserte.

“Togliti la maschera, per favore. Cioè, entrambe.” disse Roman.

Regan inarcò un sopracciglio. Dopo un istante di esitazione, intascò quella bianca che gli copriva il viso e si disfò pure di quella metaforica. Il sorriso malizioso venne rimpiazzato da un’espressione distaccata e gelida.

Roman si guardò intorno per appurare che fossero soli, poi domandò: “Va tutto bene?”

“A meraviglia. Qual è il problema?”

“Sei strano.”

“Grazie.”

“No, intendo… più strano del solito. Cos’è successo tra quando ci siamo salutati a casa tua e il tuo arrivo alla festa?”

“Vuoi essere più specifico?”

“Le ragazze ti hanno dato qualcosa? Droga? Funghi allucinogeni?”

“Mi stai chiedendo se sono fatto?”

“Sì.”

“No, non lo sono.”

Roman si impensierì quando realizzò che stava dicendo la verità.

“Allora che hai? Sei diverso.”

“Definisci ‘diverso’.”

“Non lo so. Sei più…” gesticolò vagamente verso di lui, fallendo nel trovare le parole.

“Se devo perdere tempo ad ascoltarti balbettare, preferisco tornare in palestra.”

Roman lo afferrò per un braccio e lo strattonò indietro, contro di sé. Approfittò della posizione per annusare il suo odore più da vicino. Colse di nuovo la scia di sangue fresco, poi quella di fragola emanata dal lucidalabbra. Soffermò lo sguardo su quell’area per più tempo di quanto imponesse la decenza. Soltanto lo sbattere di una porta in lontananza riuscì a strapparlo dalla contemplazione.

Avvampando, si scansò di qualche centimetro e scrollò il capo per scacciare la nebbia che gli ottenebrava il cervello. Fissò Regan sconvolto, combattuto tra la voglia di affondare il naso nel suo collo e lo strano senso di pericolo che gli serpeggiava nelle ossa.

Quando inspirò per calmarsi, l’odore del sangue tornò a riempirgli le narici.

“Sei ferito?”

“Eh? No.” rispose confuso, “E lasciami, non ti ho dato il permesso di toccarmi.”

Roman mollò la presa bruscamente e arretrò di un passo: “S-scusa…”

“Che problema hai?” indagò Regan, trafiggendolo con un’occhiata glaciale.

La postura rilassata non era che un vago ricordo, sostituita con quella più rigida di un predatore in procinto di attaccare.

“Regan, che ti prende? Puoi dirmi tutto, lo sai.”

“Certo che lo so.” disse, riacquisendo il tono affettato, e gli sfiorò una guancia con i polpastrelli, in una carezza gentile e intima.

Roman smise di respirare. Sebbene superasse l’amico di qualche centimetro, non si era mai sentito tanto piccolo. Gli pareva di trovarsi al cospetto di un alfa, anche se Regan non era un licantropo. L’impulso di inginocchiarsi e mostrargli la gola si fece inspiegabilmente più forte ogni minuto che passava. Rabbrividì e si impose di non cedere.

Regan dovette intuire qualcosa, perché rinnovò il sorriso e la tensione abbandonò il suo corpo.

“Oh, ora capisco. Sei geloso. Ma di chi? Ti interessa una delle ragazze con cui sono arrivato? No, non penso. Se così fosse, me lo avresti già detto. C’è solo una persona che ha catturato la tua attenzione, sin dal primo giorno…” ghignò seducente, sporgendosi verso di lui, “Dimmi, Roman. Hai mai immaginato di baciarmi?”

Se anche non lo avesse mai fatto, di sicuro lo stava facendo adesso. Roman schiuse le labbra e inalò l’odore inebriante che Regan irradiava a ondate, rischiando di soffocare. Le mani di Regan si aprirono sulla sua camicia e i loro toraci aderirono. Solo un filo d’aria separava le loro bocche. Quando i loro respiri si fusero, il battito di Roman accelerò.

“Cos’altro hai immaginato di fare al tuo migliore amico? Coraggio, non essere timido. Dimmelo e avrai un assaggio. Stanotte mi sento generoso.”

Roman deglutì e scosse la testa nel tentativo di scacciare il torpore che gli assediava la mente e il desiderio che gli appesantiva gli arti. Si rese conto che Regan sprigionava una sorta di sensualità capace di risvegliare un’eccitazione che non aveva mai provato in vita sua. Distrattamente, si chiese se per caso Regan non fosse un Incubus.

“Vuoi baciarmi, Roman?”

Il cervello in tilt, Roman si ritrovò ad annuire. Un attimo dopo, le labbra di Regan calarono sulle sue, imprimendo un marchio indelebile nella sua anima e bruciando gli ultimi neuroni funzionanti che gli restavano.

Le loro lingue si unirono presto alla danza. Vinti i primi istanti di insicurezza, si corteggiarono per lunghi minuti e si esplorarono senza posa, assetate di contatto. Nessuno dei due pareva intenzionato a soccombere al dominio dell’altro e proprio per questo era divertente, un po’ come se stessero lottando e giocando al medesimo tempo.

Roman si beò del suo sapore e scoprì di amarlo, nonostante il retrogusto ferroso del sangue. Non avrebbe più potuto farne a meno, ne era certo. Mai aveva sperimentato un simile senso di appagamento, quasi che il mondo si fosse finalmente stabilizzato sul suo asse. Lui e Regan si incastravano alla perfezione. Se non fosse stato tanto preso dal bacio, si sarebbe commosso fino alle lacrime. Erano fatti per stare insieme, ormai era ovvio. Come aveva potuto non capire subito che Regan era il suo vero Compagno? I segnali erano stati talmente ovvi. Un capogiro lo travolse a quella realizzazione.

Non appena si staccarono per riprendere fiato, Regan gli artigliò i capelli sulla nuca e lo obbligò a reclinare la testa all’indietro. Le ginocchia di Roman cedettero e, quando toccarono il pavimento, emise un acuto e languido guaito. Se fosse stato lucido, sarebbe arrossito per l’imbarazzo, ma al momento era troppo frastornato per badarci.

“Questa posizione ti dona.” mormorò assorto Regan, delineando con iridi simili a ghiacciai artici i contorni della sua figura, per poi focalizzarsi di nuovo sul suo viso come un falco che ha puntato la preda, “Ora che hai avuto ciò che volevi, fa’ il bravo. Resta al tuo posto, segui il copione, non fare domande. E, per favore, goditi la festa.”

Allentò la presa e, prima di interrompere definitivamente la carezza, gli sfiorò la gola con le dita. I guanti erano freddi, eppure lasciarono impronte brucianti sulla sua pelle. Infine, gli diede le spalle, girò l’angolo e sparì, abbandonandolo in ginocchio in mezzo al corridoio deserto.

Roman impiegò almeno venti minuti per recuperare le facoltà motorie. Era incredibile come, con un singolo bacio, Regan lo avesse ridotto a un ammasso di gelatina tremante. Non solo: lo aveva sottomesso. Stranamente, il pensiero non gli provocava ribrezzo.

Percorrendo il corridoio verso l’uscita a passi incerti, estrasse il cellulare dalla tasca per controllare l’ora. Era da poco passata la mezzanotte. Siccome non voleva fronteggiare nessuno in quelle condizioni, optò per tornare a casa. Non si sarebbero accorti della sua assenza, concentrati com’erano su Regan. E se qualcuno, l’indomani, gli avesse chiesto come mai fosse fuggito senza salutare, si sarebbe inventato che era in ritardo per il coprifuoco, anche se mancava ancora un’ora abbondante.

Aveva tutto con sé, chiavi e portafoglio compresi, quindi non ritenne necessario riaffacciarsi in palestra per un giro di saluti. Corse fino alla macchina, fece inversione e si immise in strada, ancora scombussolato. Non sapeva cosa lo sconcertava di più, se il bacio o il comportamento di Regan. Era ovvio che non era se stesso, doveva aver assunto qualcosa. Decise che avrebbe atteso ventiquattro ore, per concedergli il tempo di calmarsi, poi avrebbe preteso risposte.

Si leccò le labbra ad occhi socchiusi, avvertendo il sapore dell’amico su di esse. Sotto la fragola, c’era quella dannata scia di sangue fresco che lo stava facendo ammattire.

Varcando la soglia di casa, pregò che tutti stessero già dormendo. Le sue speranze si dissolsero nel momento in cui le sue orecchie captarono delle voci provenire dalla biblioteca. Si irrigidì, trattenne il fiato e avanzò piano in direzione delle scale, attento a evitare le assi scricchiolanti.

Aveva appena adagiato il piede sul primo gradino, quando registrò il suo nome bisbigliato in tono agitato da sua madre. Si impietrì, convinto di essere stato beccato, ma presto si rese conto che stava parlando di lui, non a lui. Francamente, non sapeva se fosse meglio o peggio. Con il cuore a mille, acuì l’udito.

“Dovresti dirglielo, Vince.”

“Non è pronto.”

“Perché tu non lo hai mai preso sul serio!”

“Sciocchezze.”

“Fin dall’inizio, ti sei focalizzato esclusivamente su Declan. Non provare a negarlo, entrambi sappiamo che è così. Spesso ho dovuto ricordati che hai anche un secondo figlio!”

“Tamara…”

“No, ora mi ascolti. Ti sei sempre rifiutato di concepire l’idea che Declan potesse tradirti, o che potesse accadergli qualcosa, e guarda dove questo ci ha portati! Domani potresti non avere più un Secondo, soltanto perché non hai addestrato Roman come riserva. Non ti ho dato un solo figlio, ma due! Vale a dire due chance! La prima si rivela un fiasco? Vai con la seconda.”

“Declan non ha ancora deciso.”

“Intendi tergiversare finché lui non ti degnerà di una risposta chiara, o introdurrai Roman al ruolo di alfa reggente, come avresti già dovuto fare? Hai bisogno di un Secondo, Vince. Tutto il branco ne ha bisogno. Ne va della nostra stabilità. Smetti di pensare a Declan come il tuo unico successore e comincia a tenere presente anche Roman. È giovane, ma è forte. Se non lo fosse, non sarebbe giunto all’ultimo stadio della trasformazione a diciassette anni.”

“Ciò non significa che debba metterlo al corrente della faccenda.”

“Tenerlo all’oscuro non gioverà a nessuno. Non puoi fare tutto da solo.”

“Non sono solo: ho te, Ruby e Sean.”

“Ruby e Sean hanno Trevor e Nina. I loro cuccioli vengono prima di qualunque altra cosa, come lo era per noi quando i ragazzi sono nati. Se si dovesse arrivare a una scelta, li caricherebbero in macchina e filerebbero via nell’arco di due secondi netti.”

Roman ascoltò sgomento dalle scale, incapace di muoversi o respirare.

“Hai bisogno di Roman. Che ti piaccia o no, è lui il prossimo in linea di successione. Ti prego, fatti aiutare. Magari una mente più fresca, diversa dalla tua, potrà fornirti le chiavi per sbrogliare questo mistero.”

“Ci penserò. Non voglio prendere decisioni affrettate.”

“Non aspettare troppo, Vince. Ci sono in gioco delle vite.”

“Lo so.”

Prima che la porta della biblioteca si aprisse, Roman schizzò su per le scale per rintanarsi in camera. Con la schiena premuta contro la porta chiusa, si costrinse a regolarizzare il respiro. Il suo cuore batteva nella cassa toracica con così tanta violenza da sembrare un tamburo da guerra.

Deglutì il groppo che gli ostruiva la gola e si mise in moto, desideroso di raggomitolarsi nel piumone e bandire tutti i pensieri. Si spogliò velocemente, si struccò e indossò il pigiama. Quando si fu sotterrato nelle coperte fino alla testa, gli occhi sbarrati nel vuoto, cercò di dare un senso alla conversazione che aveva origliato. Non gli piacque nessuna delle teorie che gli vennero in mente.

Serrò le palpebre e, rannicchiandosi in posizione fetale, guaì piano, le membra rigide per via dell’ansia. Non credeva di riuscire ad addormentarsi, eppure il sonno lo colse neanche un’ora dopo, precipitandolo in una spirale di incubi agghiaccianti.

 
*

L’orologio a muro del salotto segnava le due e un quarto di notte. La casa era immersa in un silenzio ovattato. Deirdre stava russando in camera sua. Poe era acciambellato sul cuscino di Regan.

Le orecchie pelose scattarono nella sua direzione quando il ragazzo entrò, aprendo gli occhi quanto bastava per riservargli un’occhiata penetrante.

Regan si spogliò, ripiegò i vestiti sulla sedia e indossò il pigiama. Adocchiò il letto indeciso. Ancora carico di energia com’era, se anche si fosse sdraiato, sarebbe rimasto a fissare il soffitto per ore. Il sangue delle ragazze lo aveva rinvigorito più di quanto avrebbero potuto fare dieci lattine di Red Bull.

Era stata una serata magnifica. Aveva ballato, aveva bevuto punch e si era scattato delle foto con gli altri, di gruppo o uno alla volta a turno. Mike aveva creato un profilo Instagram a suo nome, dato che Regan non ne aveva uno da nessuna parte, e ci aveva caricato suddette foto con una marea di tag, iniziandolo così al mondo dei social.

Per non parlare della lista di prime volte che ora poteva vantare: il primo bacio con una ragazza e con un ragazzo, i primi preliminari, il primo ballo alla sua prima festa scolastica, il primo profilo social. Stentava ancora a credere che tutto quello fosse avvenuto sul serio. Si sentiva… euforico.

Si sedette alla scrivania e accese il computer per rileggere un saggio che avrebbe dovuto consegnare lunedì, tanto per passare il tempo e invitare il sonno. Un’ora dopo, infatti, si stropicciò gli occhi e sbadigliò.

All’improvviso, lo schermo si oscurò. Dapprima, credette che fosse saltata la corrente, ma la lampada della scrivania era ancora accesa. Appena lo pensò, anche quella si spense. Imprecò. Si appoggiò allo schienale della sedia con un sospiro e si massaggiò le palpebre pesanti. Gli occhi gli frizzavano e i muscoli, ormai svuotati dell’energia ricevuta ore addietro, stavano iniziando a intorpidirsi.

Si stiracchiò con un grugnito e fece per alzarsi, ma il soffio minaccioso di Poe lo bloccò. Gli scoccò un’occhiata perplessa e lo vide mostrare le zanne alla scrivania. Regan si voltò a rallentatore.

In contrasto sullo sfondo nero del computer, scorse la sagoma di una testa e un collo, come se qualcuno si stesse affacciando dallo schermo. Il colorito della sagoma era anch’esso nero, ma di una gradazione lievemente più chiara, altrimenti si sarebbe fuso con tutto il resto, mimetizzandosi.

L’ormai familiare sibilo gli aggredì le orecchie, azzerando tutti gli altri suoni. La pelle si accapponò. La rabbia causata dalla violazione dei confini del suo territorio riemerse dal luogo buio in cui dimorava. Le zanne scesero all’istante, le unghie si affilarono, i muscoli si tesero.

Si erse in piedi per assumere la posizione di attacco, con le gambe divaricate e i pugni chiusi, e osservò meglio la sagoma dell’intruso. Non aveva una faccia e il collo era più sottile del normale. Se ne stava lì, immobile, muto. Regan ebbe la netta impressione che lo stesse provocando.

“Chi sei?” ringhiò cupo alla creatura e la sua voce rimbombò cavernosa nella stanza.

Alle sue spalle, Poe miagolò agguerrito, il pelo ritto e gli artigli snudati.

Il sibilo crebbe d’intensità e lo assordò per qualche secondo. Poi la mano della creatura emerse bruscamente dallo schermo, si allungò nella sua direzione e gli cinse il collo. Fu troppo veloce, Regan non riuscì a impedirglielo. Dita nere e scheletriche si serrarono attorno alla sua gola e una forza invisibile, disumana, lo strattonò in avanti.

Regan strinse i denti, fece perno sui talloni e si aggrappò al polso ossuto. Attingendo alle sue riserve di energia, la costrinse a mollare la presa.

Se avesse avuto uno specchio, avrebbe visto il suo viso diventare pallido come la luna, le occhiaie scurirsi e le iridi tingersi del colore delle braci sonnecchianti, due biglie infuocate circondate da un mare di tenebra.

Con un gesto repentino torse il braccio della creatura. Il movimento avrebbe spezzato le ossa a chiunque, ma quella si limitò liberarsi e ritirare l’arto dentro lo schermo, in silenzio.

“Come osi?!” ruggì e agguantò il computer a due mani per scuoterlo con enfasi.

La creatura reclinò la testa, come se stesse ridendo. In un battito di ciglia, scomparve e al suo posto Regan vide due occhi verdastri guizzare al centro dello schermo nero, prima di fondersi con esso e svanire a loro volta.

La lampada sul soffitto si accese di colpo. Regan strizzò le palpebre, temporaneamente accecato.

“Cosa stai facendo? Con chi stavi parlando? Che fai con il computer?” bofonchiò sua nonna dalla soglia, ancora mezza addormentata.

Non appena la vista si adattò, Regan tornò a guardare lo schermo, scontrandosi con il saggio che aveva scritto. Depose piano il computer sulla scrivania e si girò a fronteggiare Deirdre.

“Scusa. Mi sa che stavo sognando.”

“Sei pure sonnambulo adesso?”

Regan scrollò una spalla.

“Va’ a letto, è tardi.”

“Sì. Buonanotte.”

“Buonanotte, leprotto.” lo salutò con uno sbadiglio e richiuse la porta.

Regan si afflosciò. Ad un tratto, si sentiva debole, svuotato, come se avesse combattuto una lotta all’ultimo sangue. E forse era stato davvero così. Gli ci era voluta tutta la sua forza per svincolarsi da quelle tenaglie a forma di dita.

Allora realizzò di aver appena lottato contro quello che, senza dubbio, poteva essere etichettato come un demone, uscendone vincitore.

“Sono davvero figo.” commentò impressionato.

Poe attirò la sua attenzione con un miagolio. Regan gli sorrise e si sedette sul letto per fargli i grattini dietro le orecchie. Poi portò la mano libera al collo, massaggiandosi i tendini dolenti, e fece una smorfia.

“Beh, direi che è stato interessante.”

Il gatto assottigliò le palpebre e lo fulminò con un’occhiataccia, in palese disaccordo.








 
  
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