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Autore: edoardo811    23/02/2019    4 recensioni
La pace ha continuato a regnare al Campo Mezzosangue, gli Dei si sono goduti molti anni di tranquillità. Ma la pace non è eterna.
La regina degli dei Amaterasu intende dichiarare guerra agli Olimpi, mentre un antichissimo mostro ritornato in auge si muove nell'ombra, alla ricerca di Ama no Murakumo, la leggendaria Spada del Paradiso.
EDWARD ha trascorso l'intera vita fuggendo, tenuto dalla madre il più lontano possibile dal Campo Mezzosangue, per ragioni che lui non è in grado di spiegarsi, perseguitato da un passato oscuro da cui non può più evadere.
Non è facile essere figli di Ermes. Soprattutto, non è facile esserlo se non si è nemmeno come i propri fratelli. Per questo motivo THOMAS non si è mai sentito davvero accettato dagli altri semidei, ma vuole cambiare le cose.
STEPHANIE non è una semplicissima figlia di Demetra: un enorme potere scorre nelle sue vene, un potere di cui lei per prima ha paura. Purtroppo, sa anche che non potrà sopprimerlo per sempre.
Con la guerra alle porte e forze ignote che tramano alle spalle di tutti, la situazione sembra farsi sempre più tragica.
Riuscirà la nuova generazione di semidei a sventare la minaccia?
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le insegne imperiali del Giappone'
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14

Nuova minaccia

 

 

Una volta messa una buona quantità di miglia di distanza tra loro e la stazione di servizio, Stephanie raccontò di cosa lei, Thomas ed Afrodite avevano parlato, ovviamente omettendo le parti più imbarazzanti, ossia circa il novanta percento di tutto quel discorso.

«Per prima cosa, abbiamo saputo perché lei e Ares hanno deciso di risparmiare Edward» iniziò a dire, prima di venire interrotta da Konnor.

«Mio padre vuole che l’impresa fallisca, vero?» domandò, con tono di voce incolore. 

La ragazza l’osservò sorpresa. «Ve l’ha detto mentre ci aspettavate?»

«No.» Konnor sospirò pesantemente, stringendosi con forza nelle spalle. «Ma era piuttosto intuibile.»

«Aspettate, cosa?» si intromise Edward. «Perché vorrebbe che l’impresa fallisca? Non ha nessun senso!»

«Per lui ne ha.» Konnor fece una smorfia. «Ti ha risparmiato perché spera che tu non riesca a restituire la spada in tempo. Vuole che gli dei giapponesi dichiarino guerra all’Olimpo.»

«Ma… perché?»

«Perché lui è il dio della guerra» mugugnò Lisa, giungendo alla stessa conclusione. «È ovvio che ne voglia combattere una. E se è tra dei, ancora meglio.»

«Continuo a non capire» obiettò il figlio di Apollo, iniziando a tamburellare le dita sul volante. «Dioniso ha detto che gli dei giapponesi le suonerebbero ai greci. Perché Ares li vorrebbe affrontare?»

Konnor sollevò le spalle. «Pensi davvero che un dio come lui ammetterebbe mai di essere inferiore a un altro? È stata una sorpresa enorme che anche solo il signor D l’abbia fatto… mio padre vuole che scoppi la guerra per dimostrare di essere il più forte. Non mi sorprenderei se cercasse perfino di intralciare il nostro viaggio, in qualche modo.»

«Wow. Questo sì che si chiama ottimismo…» commentò Lisa.

Neppure Konnor sembrava molto entusiasta delle sue stesse parole. Non doveva essere stato semplice per lui parlare del padre in quel modo. E il fatto che il loro incontro non fosse stato certo dei migliori non doveva aver aiutato. Ares si era comportato quasi come se il figlio non fosse stato nemmeno presente. Forse non aveva gradito il fatto che Konnor si fosse schierato contro Buck. O forse non gliene importava niente e basta.

«Sinceramente, sono rimasta più confusa dal motivo di Afrodite» riprese il discorso Stephanie. «Ha... ha detto che non voleva che un semidio innocente venisse giustiziato per i peccati del padre.»

«I peccati del padre?» domandò Konnor, per poi osservare Edward.

«Non guardare me» si difese lui. «Non ho idea di cosa voglia dire. Sapete, forse non ve l’ho mai raccontato, ma mio padre non è che sia stato molto presente nella mia vita.»

Konnor si voltò di nuovo verso di lei, ignorando quel tono sarcastico. «Steph?»

«Anch'io non ho nessuna idea» ammise la figlia di Demetra, scuotendo il capo. «E la profezia non dice niente in merito a questi fantomatici peccati.»

«Sentite, gente» riprese Edward, con un sospiro. «Siamo vicini a Philadelphia. Non credo proprio che quei porci di sbirri abbiano smesso di cercarci. Concentriamoci sul non finire in prigione e basta. Per risolvere gli indovinelli avremo tempo in quantità.»

Cercò di usare un tono sprezzante e disinteressato, ma era palese che in realtà fosse anche più teso di loro. Dopotutto, era la sua impresa, la sua storia personale, e di mezzo c’era il suo di padre. Chiunque al suo posto si sarebbe sentito allo stesso modo. Konnor si irrigidì di nuovo, ma rimase in silenzio.

«Ma è tutto qui?» si ostinò Lisa. «Siete rimasti così a lungo là dentro per discutere solo di questo? E poi perché avrebbe dovuto dirlo proprio a voi?»

Stephanie esitò. «Beh...»

«Perché sapeva che noi l’avremmo ascoltata» la anticipò Thomas, riaprendo bocca per la prima volta da quando erano partiti.

Lo sguardo di Lisa si indurì. «Che cosa vorresti insinuare, nano?»

Tommy strinse i pugni, ma mantenne la calma. «Quello che ho detto. Io e Steph siamo quelli che conoscono Edward meglio di tutti, a parte Rosa. Afrodite non avrebbe mai parlato di una questione simile con te o con Konnor. E se l’avesse fatto con Edward, probabilmente lui avrebbe sollevato un polverone. Senza offesa amico.»

Edward scrollò le spalle, con un sorrisetto. «Eh sì, mi conosci bene.»

Anche Tommy sorrise, sistemandosi meglio contro il sedile. Lisa gli lanciò un’altra occhiataccia, per nulla convinta, ma alla fine distolse lo sguardo con un grugnito, mugugnando qualcosa a bassa voce.

Steph fu colpita da come Tommy mantenne il controllo della situazione. Forse era proprio per via delle parole di Afrodite, sul fatto che fosse partito per Rosa. Pensare a lei era riuscito a fargli mantenere la calma, anche se aveva ricevuto l’insulto che più detestava. Sapeva che, se voleva completare l’impresa, doveva restare concentrato. Sinceramente, Stephanie sperava che anche Lisa, Edward e Konnor lo capissero. Erano una squadra, non dovevano tormentarsi a vicenda di continuo, o quell’impresa sarebbe andata a rotoli.

La figlia di Demetra si strinse nelle spalle, accomodandosi meglio e adagiando il collo lungo il poggiatesta. Tornò a pensare alle parole di Afrodite, sull’importanza che, stando alla dea, lei avrebbe ricoperto in quell'avventura. Che il verso della profezia riguardo il sangue della vergine c’entrasse qualcosa? Prima non ci aveva pensato molto, a causa di tutto quello che era successo all’aeroporto, ma ora che si trovavano in quel momento di tranquillità, in macchina... era possibile. Poteva trattarsi proprio del suo sangue? La ragazza rabbrividì, cercando di non pensarci.

 

***

 

Era passato un po’ dall’ultimo sogno che aveva fatto. A dire il vero, non ricordava nemmeno l’ultima volta che fosse successo. Eppure, eccola lì, a vagare in quella sua forma priva di corpo in quello strano luogo, ad osservare un qualcosa che stava succedendo chissà dove. L’unica cosa che sapeva, era che non prometteva niente di buono.

Ciclopi, arpie, segugi infernali trattenuti a stento con dei guinzagli da dei lestrigoni e... dracene.

Stephanie rabbrividì. Non aveva mai nascosto il suo disgusto e la sua paura per i serpenti, e sinceramente, ancora quel giorno, era sorpresa del fatto che Jane e le sue seguaci non le avessero mai fatto trovare un serpente nel suo letto al Campo Mezzosangue per tormentarla, ma forse era perché nemmeno loro dovevano andarne pazze. 

Non sapeva bene da che cosa provenisse questa sua fobia. Forse era per il fatto che quando era bambina se n’era trovato uno di fronte in mezzo ai fiori di suo padre.

Per questo motivo, la vista delle donne mostruose la lasciò pietrificata per un istante, ma la paura non durò a lungo. Le dracene erano famose per essere impacciate, lente e abbastanza patetiche, se paragonate ad altri mostri, inoltre del serpente avevano solamente due code, al posto delle gambe, perciò non erano così spaventose, nemmeno per lei.

La parte spaventosa, però, doveva ancora arrivare.

Uno dei lestrigoni avanzò in mezzo a quel bizzarro ambiente, sembrava un cantiere edile da poco avviato, visto che il complesso di palazzi in costruzione altro non erano che un ammasso di travi di ferro e pilastri di cemento ancora in bella vista. Camion, furgoni, pick-up, gru e betoniere popolavano la zona poco illuminata da alcuni faretti, assieme ai mostri, su un terreno chiaramente spianato da poco, con il terriccio arancione ricoperto dalle impronte più svariate.

Osservando quel luogo, Steph provò una fitta al cuore. Un tempo lì doveva esserci un bosco, o un giardino, o qualcosa di simile. Ora, invece, non rimaneva altro che la gigantesca, sporca, impronta dell’uomo, che come sempre non poteva accontentarsi di ciò che già aveva e doveva continuare ad estirpare il poco che rimaneva alla natura, gli alberi, le piante, i fiori e la vegetazione, per far posto ai suoi mostri di cemento, ferro e vetro.

Certo, essendo la figlia della dea della fertilità e dell’agricoltura, Stephanie era di parte in quella conversazione. Sapeva come funzionavano le cose, l’uomo avrebbe continuato a espandersi, ma poteva comunque percepire, pure in sogno, il dolore che quel luogo emanava, il grido muto, che nessuno a parte lei poteva udire, della natura che era stata estirpata.

Si rese conto che i mostri erano disposti in una specie di semicerchio, tutti affacciati verso un anfratto buio nascosto sotto lo scheletro di un palazzo, dove le luci dei faretti non riuscivano ad arrivare.

Il gigante cannibale si avvicinò al buio, a disagio. E se lui pareva spaventato, chissà cosa Stephanie avrebbe dovuto pensare. «L-La squadra incaricata di intercettare i semidei all’aeroporto ha fallito. Sono... ehm... tutti morti, capo...»

Una serie di bisbigli e strani versi da far accapponare la pelle provenne dall’ombra. La ragazza non capì cosa volessero significare, ma una terrificante sensazione prese forma dentro di lei. Anche se non poteva esserne certa, non c’erano molte altre lingue oltre al greco, il latino o, nel loro caso, il giapponese, che mostri e simili potevano parlare. Quella era la lingua dei tempi antichi

Il lestrigone era sempre più spaventato. «M-Mi duole molto, capo, ma io non la capisco questa lingua…»

«IDIOTA!» tuonò un’agghiacciante voce femminile, gutturale e cavernosa. Ma non provenne dall’ombra. Provenne da uno dei ciclopi, nonostante quello fosse palesemente un maschio. Ora che ci faceva caso, pure lui e i suoi simili sembravano terrorizzati. E la tensione era palpabile anche sui volti delle arpie e delle dracene. Perfino i segugi infernali si ammansirono all’improvviso quando quella voce orribile sferzò l’aria come una frusta. I sospetti di Stephanie su chi si potesse trovare in mezzo a quel buio cominciarono a diventare certezze. E più lo facevano, più avrebbe voluto svegliarsi per mettersi a piangere e sperare che tutto quello, in realtà, non stesse accadendo davvero.

«Non mi aspettavo che sconfiggessero quei mocciosi» proseguì il ciclope, o meglio, la donna a cui il ciclope faceva da tramite. «Quegli stolti dovevano soltanto intralciarli. Ora che sono costretti a muoversi via terra, per noi sarà più semplice catturarli.»

Stephanie sentì la propria pelle accapponarsi, per quanto impossibile potesse sembrare. Ora, molte più cose si fecero chiare nella sua mente. I lestrigoni all’aeroporto... forse erano ignari delle intenzioni di questo loro "capo", ma lui... o lei, aveva in mente un piano ben preciso fin dall’inizio, un piano che era andato a buon fine. La figlia di Demetra si ricordò delle parole di Dioniso: non solo l’uomo che Edward aveva sognato e i suoi scagnozzi li avrebbero cercati, molti mostri si sarebbero messi sulle loro tracce. Anche quelli più pericolosi.

«Per colpa dei semidei, ho perso la mia casa» continuò la voce. «Per colpa loro, da carceriera, sono diventata carcerata, per colpa loro ho perduto la mia possibilità di rinascere. Ho trascorso tutto questo tempo nel Tartaro ad attendere il momento in cui mi sarei potuta vendicare. Quegli sciocchi ora si stanno dirigendo proprio verso di noi, inconsapevoli del destino che li attende. Non appena avremo messo le mani su di loro...» Il ciclope sogghignò, emettendo un suono gutturale che probabilmente doveva essere una risata, ma a Steph parve più il suono di una pala che affondava nella ghiaia. «... rispolvererò le mie tecniche di tortura.»

La risata divenne più forte, finendo con il contagiare tutti i presenti.

«Che avete da ridere?!» li fulminò ancora una volta la voce. «Mettetevi al lavoro! Trovate i semidei e portatemeli!»

I mostri sobbalzarono, annuirono freneticamente e cominciarono a fuggire in tutte le direzioni.

«Anche tu!» tuonò ancora il ciclope interprete, per poi trasalire e intuire che il capo stesse parlando proprio con lui. Annuì a sua volta e corse via, raggiungendo i suoi simili.

Dall’ombra provennero un’altra serie di inquietanti bisbigli, sicuramente non un elogio rivolto agli sgherri, subito seguito da un potente fruscio d’aria, come se fosse stato generato da un paio di gigantesche ali.

Fu proprio con quest’ultimo rumore che Stephanie si ridestò.

 

***

 

Riaprì gli occhi, e la prima cosa che percepì furono la schiena e il collo intorpiditi. Si era addormentata sul sedile. Accanto a lei, Tommy ronfava sommessamente appoggiato alla portiera, con le mani posizionate sotto la testa a mo’ di cuscino. Davanti, Lisa aveva abbassato un po’ il sedile e non si era fatta troppi problemi a stravaccarsi. Konnor teneva anche gli occhi chiusi, ma la figlia di Demetra era abbastanza sicura che li avrebbe riaperti immediatamente al primo cenno di bisogno. L’unico sveglio era Edward, con un gomito appoggiato contro al finestrino, una mano a sorreggersi la testa e l’altra stretta attorno al volante. Della musica metal fuoriusciva dalle casse della radio a volume moderato, con un cantante che sbraitava appellativi poco gentili a un interlocutore immaginario.

Stephanie si strofinò le mani sulle tempie, mugugnando, attirando l’attenzione dell’autista. In mezzo alle ombre che inondavano la macchina, riuscì a scorgere un sorriso sul suo volto, reso più chiaro dalle luci stradali.

«Ben svegliata» borbottò Edward. «Non è carino guidare di notte mentre tutti i passeggeri sono addormentati, sai? Fa venire un sonno del diavolo.»

Prima di rispondere, Stephanie ebbe bisogno di riepilogare un attimo cosa stesse succedendo. Avevano superato Philadelphia poco dopo l’incontro con Afrodite e Ares e adesso si stavano muovendo in autostrada. Dovevano essere in Illinois, ormai. Complessivamente, erano quasi dodici ore che stavano viaggiando. Dodici ore che Edward non staccava le mani dal volante. Erano solo le dieci di sera, ma quando si viaggiava per così tanto tempo, la stanchezza era quadruplicata.

«Edward, dovresti riposare un po’ anche tu» mormorò lei. Le sembrò strano dirgli proprio quelle parole alla prima occasione che ebbero di parlare da soli, ma si sentì genuinamente preoccupata per le sue condizioni. Con tutto quello che doveva già passargli per la testa, accumulare così tanta spossatezza durante la guida non poteva certo fargli bene. Il suo sguardo stralunato parlava benissimo da sé.

«Non posso riposarmi. Sono l’unico che sa guidare.»

«Sì, beh, non puoi certo pretendere di arrivare a San Francisco senza mai fermarti. È tutto il giorno che guidi. Devi essere a pezzi» insistette lei. «Siamo quasi a Chicago dopo solo un giorno di viaggio, è quasi un quarto di strada, e abbiamo ancora altri sei giorni di tempo! Di questo passo possiamo fermarci per qualche ora ogni sera, e arriveremmo comunque entro la scadenza. Ti prego, Edward. Preferirei che tu non ti addormentassi mentre sei al volante.»

Edward la scrutò tramite lo specchietto retrovisore per qualche istante, poi abbozzò un sorrisetto. «Non credevo tenessi così tanto a me.»

Stephanie sentì le guance bruciare. «Non... non è solo per questo. Devo ricordarti che hai quattro passeggeri a carico?»

«No, non serve. C’è già il rompiscatole accanto a te che se ne occupa.»

«Ti sento» gracchiò Konnor, senza muoversi di un millimetro e continuando a tenere gli occhi sigillati.

«E ti pareva!» 

La ragazza si voltò verso il figlio di Ares. «Tu sei d’accordo con me, vero?»

«Certo. Non possiamo dormire in questa scatola per tutto il tempo, o dovranno amputarci gambe e braccia.»

«Quindi ora fate pure squadra contro di me?» protestò Edward. «Ma allora è una congiura!»

«Non è una congiura» lo sbeffeggiò Stephanie. «Semplicemente, noi due usiamo il cervello di tanto in tanto.»

«Ha-ha. E va bene, miss, dove dovremmo trascorrere la notte? Hai in mente qualche posticino di classe? Io opterei per un bel ponte.»

Stephanie esitò. In effetti, nemmeno lei sapeva cosa fare. Avrebbero potuto accamparsi, ma non avevano nessuna tenda, e dubitava che Tommy ne avesse una nello zainetto magico. Osservando il piccoletto assopito, realizzò che non avevano bisogno di nessuna tenda, perché avevano di meglio: la chiave per qualsiasi stanza di motel esistente nel paese e probabilmente nel mondo.

«Credo di sapere cosa fare» annunciò con un sorriso.

 

***

 

L’idea di dormire abusivamente in un motel non le andava molto a genio, ma purtroppo non potevano andare a prenotare una stanza come se nulla fosse, con tutti i notiziari che sicuramente stavano ancora parlando di loro. Inoltre avevano bisogno dei soldi mortali per benzina e cibo, usandoli per dei motel avrebbero finito con l’esaurirli tutti in tempo record. Sarebbero rimasti solo per qualche ora, si ripeté, nulla di che. Sarebbero entrati e usciti senza che nessuno se ne accorgesse.

Trovarono un complesso di motel solitari sul ciglio dell’autostrada verso Chicago. Optarono per un lungo palazzo orizzontale grigio e nero, alto due piani. La reception, a differenza degli altri motel, era all’interno del palazzo e non fuori, perciò sarebbero riusciti a sgattaiolare dentro una stanza senza dare nell’occhio.

Edward parcheggiò accanto all’edificio e spense il motore. Di fronte a loro, sull’autostrada, macchine e camion proseguivano incuranti i loro tragitti. Alle loro spalle, vegetazione.

Svegliare Thomas fu semplice, Lisa invece si rivelò un avversario più tosto. Quando riuscirono a trascinarli giù dall’auto, spiegarono loro la situazione. Tommy sembrava contrario all’idea, ma non appena si rese conto delle condizioni di Edward decise di ascoltarli. Una volta appurato che la zona fosse libera, i cinque ragazzi sgattaiolarono sulle scale, salendo al secondo piano, e non appena furono sicuri di aver trovato una stanza libera, lasciarono a Tommy il compito di aprirla.

«Fate piano» mormorò, mentre avanzava nella camera semibuia, guidato dalla luce artificiale dei lampioni dell’autostrada e dalla luna. Trovò un interruttore e lo premette, illuminando una classica stanza da motel, un grosso letto matrimoniale di fronte a un televisore e la porta del bagno oltre di esso.

«Va bene allora…» cominciò Stephanie, mentre Konnor si richiudeva la porta alle spalle.

«Io mi prendo il letto» affermò Lisa, buttandosi su di esso con un sospiro esausto. «Buona notte.»

«Aspetta!» protestò Steph. «Ho bisogno di parlarvi!»

La figlia di Bacco si mise a sedere, osservandola confusa. Anche gli altri si voltarono verso di lei. «Che vuoi dirci?»

Stephanie sospirò, ripensando all’incubo che aveva fatto e alla creatura che parlava la lingua dei tempi antichi. «Sediamoci, prima.»

La figlia di Demetra si posizionò sul bordo del letto matrimoniale, con Lisa seduta accanto da una parte, e Tommy dall’altra. Edward rimase seduto su una sedia accanto alla finestra, mentre Konnor rimase in piedi, appoggiato alla parete vicino alla porta. Nessuno disse una parola mentre raccontava quello che aveva visto. A racconto concluso si strinse nelle spalle, osservando i compagni in cerca delle loro reazioni. Il primo a parlare fu Konnor, che come al solito mantenne i nervi saldi. «Era il loro piano fin dall’inizio. Volevano farci perdere l’aereo.»

Steph annuì, senza rispondere.

«Il loro capo…» cominciò Tommy, incerto. «… è…» 

«Niente nomi» lo ammonì Konnor.

Thomas annuì imbarazzato. «Sì, sì, certo... ma pensate anche voi quello che penso io?»

«Sì» sussurrò Stephanie, tutto d’un fiato. Aveva sperato che i compagni la contraddissero, e invece non era successo. E quando ebbe la conferma definitiva dei suoi dubbi, sentì le proprie interiora contorcersi dalla paura. Una mano si posò sulla sua spalla, facendola sussultare. Thomas la guardò apprensivo, rivolgendole un cenno della testa. Steph ricambiò lo sguardo per un momento, grata di quel piccolo gesto di conforto.

«Scusate, ma non vi seguo» disse Edward, massaggiandosi una tempia. «Che significa “niente nomi”?»

«Significa che mostri e dei possono sentirti quando li chiami per nome» spiegò Konnor. «Ad alcuni non importa, come la maggior parte degli dei, ormai sono abituati ad essere nominati da chiunque, ma per i mostri la faccenda è diversa, soprattutto per quelli così desiderosi di farci a pezzi come questo. Se lo chiamassimo per nome, ci troverebbe in un istante.»

«E allora perché ci siamo fermati? Questo tizio… o tizia, o quello che è, è un motivo in più per continuare a muoverci.»

«Perché devi riposare, Edward. Vuoi arrivare vivo a San Francisco o no? Se svieni mentre guidi finiresti solo con l’ammazzarci tutti.»

Edward rispose con un mugugno, distogliendo lo sguardo.

«Non correremo nessun rischio, qui. Ci basterà fare dei turni di guardia» concluse il figlio di Ares.

Stephanie annuì, cercando di rafforzare le sue parole, ma Edward non sembrava ancora molto convinto. Si accasciò contro lo schienale della sedia, con espressione assorta. «Va bene allora. Ma all’alba ripartiamo. Non dimentichiamoci della polizia.»

«Non potrei nemmeno se volessi» mugugnò Konnor, staccandosi dalla parete. Si diresse verso il televisore, sotto gli sguardi confusi di tutti. Lo accese, assicurandosi di tenere il volume basso, e cambiò canale un paio di volte fino a quando non trovò quello che cercava. Un notiziario che stava riportando proprio i fatti dell’aeroporto.

«Non ci posso credere...» mugugnò Lisa. «Ma non hanno ancora finito di parlarne?»

Konnor sorrise amaramente. «Siamo delle star, ormai. Ti consiglio di abituarti all’idea, perché appariremo in televisione ancora per molto tempo.»

I loro cinque volti erano in bella vista sullo schermo, per via di un filmato di una telecamera di sicurezza che li aveva ripresi mentre scappavano dalla zona d’imbarco. L’idea che la sua faccia si trovasse in bella mostra sulla televisione nazionale per quella particolare situazione non fece sentire Stephanie a proprio agio. Sperò con tutto il cuore che al Campo Mezzosangue nessuno guardasse i notiziari, altrimenti avrebbe già potuto immaginare il sorrisetto divertito di Jane e le prese in giro che avrebbe ricevuto in merito. Diventata famosa per aver combinato un disastro all’aeroporto ed essere ricercata dalla polizia. Sì, sicuramente era un repertorio niente male. Si augurò anche che suo padre non stesse guardano la televisione, in quel momento. Conoscendolo, alla vista della figlia nei guai con la legge, gli sarebbe venuto un attacco di cuore per la preoccupazione.

Ma il peggio doveva ancora venire. Non erano accusati solo di aver aggredito delle guardie, stando alle parole della giornalista e le parole in sovrappressione sullo schermo. Una in particolare suscitò una reazione in tutti i presenti.

«Terroristi?!» interrogò Lisa, atterrita. «Ma è assurdo! Che cosa...»

«Questo è quello che succede se attacchi le guardie in un aeroporto» mugugnò Konnor. «Anche se erano mostri, la Foschia li ha comunque fatti sembrare reali. Probabilmente ora tutti credono che noi stavamo trasportando armi e che quelli abbiano solo cercato di fermarci. In poche parole, i mostri sono diventati dei martiri, noi degli assassini. La polizia, e probabilmente anche i federali, non ci molleranno finché non ci troveranno. E guardate.» Indicò lo schermo, su una frase che lasciò sbigottita la figlia di Demetra: "Riconosciuti due dei terroristi responsabili dell’attacco all’aeroporto Kennedy."

«R-Riconosciuti?» ripeté Stephanie, sempre più interdetta. «Ma...»

Konnor si allontanò dal televisore, sospirando pesantemente. «Era per questo che non volevo proseguire il viaggio. Sapevo che sarebbe finita così. Vedete...» Si voltò verso di loro, concentrandosi soprattutto su Stephanie. Ora, quei suoi occhi di ghiaccio sempre critici ed esaminatori, parevano semplicemente demoralizzati. «... la polizia mi ha riconosciuto.»

«Ma... come?!»

«Tua madre è una sbirra» esordì Edward, con tono indecifrabile, alzandosi dalla sedia. Osservò Konnor dritto negli occhi. «Vero?»

Konnor strinse i pugni. «Non è una “sbirra”. È la poliziotta più decorata del suo distretto. Mostra un po’ di rispetto.»

Edward sogghignò. «Non mostrerò mai rispetto per quei porci.»

Il figlio di Ares fece un passo verso di lui, ma Tommy, Stephanie e stranamente perfino Lisa si frapposero tra loro, impedendo la catastrofe.

Da un lato, Stephanie aveva sospettato che il motivo della tensione di Konnor derivasse da qualcosa del genere, ma scoprirlo in quel modo fu davvero sorprendente. Ancora più sorprendente, però, era stato il fatto che proprio Edward lo avesse capito per primo. E soprattutto il suo comportamento dopo averne avuta la conferma. Ecco perché Konnor lo aveva guardato male, in macchina: non aveva gradito le parole di Edward. E, sinceramente, anche Stephanie le trovò irrispettose.

«Konnor, calmati» mormorò, mentre lei e Tommy cercavano di tenerlo lontano da Edward.

«Tu sì che conosci la parola “tatto”» borbottò Lisa al figlio di Apollo, con un braccio alzato di fronte a lui. Edward sogghignò e sollevò le spalle.

Una volta che la situazione sembrò tornare sotto controllo, Konnor si sedette su un’altra sedia, accanto al mobile della televisione, per poi lanciare un’occhiataccia ad Edward. La figlia di Demetra lo osservò angosciata. Chissà cosa stava passando in quel momento. Sua madre era un’agente decorato di polizia... e lui era appena stato accusato di terrorismo, probabilmente infangando non solo sé stesso, ma anche la reputazione della madre, a cui voleva senz’altro bene. Doveva sentirsi malissimo.

«Ma... sbaglio o erano due quelli che erano stati riconosciuti?» domandò Tommy, facendo vagare lo sguardo tra i compagni. «E allora chi è l’altro?»

Quella domanda aleggiò nell’aria per qualche secondo. Poi, con un fruscio, tutti si voltarono verso il televisore, dove purtroppo stavano continuando a mostrare le immagini della loro fuga.

«Io non sono mai stata invischiata con la legge prima di oggi» mormorò Stephanie. «E mio padre è un fioraio, non un poliziotto.»

«Lo stesso vale per me» spiegò Tommy. «Anche se mia madre era una cameriera, e non un...»

«Davvero tu non hai mai avuto problemi con la legge?» gracchiò Lisa, divertita. «Questa è buona!»

«Ma è la verità!» protestò lui, alzando la voce. Stephanie gli intimò di rimanere zitto, spaventata dall’idea che qualcuno potesse averlo sentito. Il ragazzo realizzò cosa aveva appena fatto e arrossì, per poi abbassare la testa imbarazzato. Lisa ridacchiò divertita, ma prima che la figlia di Demetra potesse rimproverarla una volta per tutte, un sospiro profondo provenne alle loro spalle. Si girarono verso di Edward, che si accasciò di nuovo sulla sedia, appoggiandosi una mano sulla tempia. La sua espressione raccontò tutto quello che c’era da sapere.

Il notiziario fece proprio in quel momento un riepilogo veloce. 

I ragazzi riconosciuti erano due: il primo era Konnor Murray, il figlio della decorata agente di polizia Ronda Murray, alla quale si dovevano decine e decine di crimini sventati e casi risolti, una vera eroina di tutti i giorni del suo distretto di New York; il secondo, invece, era proprio Edward Model, figlio di Kate Model, che era una...

Stephanie non riuscì a credere ai suoi occhi. La prima cosa che la lasciò sorpresa, fu la foto della donna, recuperata dal filmato di una telecamera di sicurezza. Era davvero bella, con i lunghi capelli castani legati in una coda di cavallo, la carnagione abbronzata e occhi marroni profondi e penetranti, con un luccichio malizioso dentro di essi, che la figlia di Demetra riuscì a riconoscere all’istante, perché uguali a quelli del figlio. Ma non era tutto.

Kate Model... era una ladra d’arte, responsabile di furti di dipinti, armi antiche, gioielli, perfino vasi e sculture da musei e templi antichi giapponesi, oggetti che poi smerciava in traffici illegali tra Giappone e Stati Uniti. In tutti i suoi anni di attività, era arrivata a sottrarre beni dal valore complessivo di circa, si stimava, venti milioni di dollari. Ritiratasi da quella scena quasi vent’anni prima, ne aveva trascorso in fuga dall’autorità un’altra quindicina, per poi svanire apparentemente nel nulla. Molti dei suoi tesori rubati non furono mai ritrovati, tutto ciò che la polizia trovò di suo fu proprio il figlio, Edward Model, sconvolto e terrorizzato, in una lugubre notte invernale nei pressi di un magazzino abbandonato a Los Angeles.

Il ragazzino era stato prelevato e interrogato dalla polizia. Aveva blaterato cose assurde su dei mostri che avevano portato via la madre, tutte storie alle quali nessuno aveva mai creduto. Alcuni avevano accusato la madre di averlo tenuto in ostaggio e fatto impazzire, altri, invece, erano fermamente convinti che fosse stato proprio lui ad uccidere la genitrice. A causa di prove insufficienti per giustificare entrambe le teorie, tuttavia, il ragazzino era stato lasciato andare e inserito in un programma di affidamento. Dopo aver causato problemi costanti per due anni alle famiglie affidatarie, continuando a mostrare chiari segni di squilibrio mentale e minacciato dalla prospettiva di venire ricoverato in un ospedale psichiatrico, era scappato, nascondendosi dall’autorità per i restanti due anni.

Tutto ciò che si domandavano le autorità ora, era: che cosa ci faceva un ragazzo apparentemente modello come Konnor Murray in compagnia di uno come Edward Model? E chi erano i restanti tre membri di quella cellula terroristica formata da ragazzini?

A servizio concluso, Konnor spense la televisione. Il silenzio calò nella stanza. Nessuno ebbe il coraggio di girarsi di nuovo verso di Edward e, soprattutto, di parlare.

«Bene» sbottò il figlio di Apollo, con voce innaturalmente calma. «Ora sapete la verità su di me. Contenti?»

Konnor si voltò verso di lui. La rabbia di poco prima sembrava sfumata del tutto. Ora, nel suo sguardo, c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che Edward non gradì affatto.

«Fatti sparire quello sguardo impietosito dalla faccia, o giuro che ti massacro.» 

Il figlio di Ares si incupì, di fatto obbedendogli, ma non disse o fece nulla.

«Edward...» mormorò Stephanie. I due ragazzi si osservarono per un momento. Che il figlio di Apollo non se la fosse passata bene, questo l’aveva capito. Ma mai avrebbe pensato fino a quel punto. Però, a conti fatti... come altro potevano essere andate le cose? Edward aveva sperimentato sulla propria pelle cosa significasse essere un semidio senza tuttavia sapere di esserlo. Tutti loro erano stati trovati in tenera età dai satiri e portati al Campo Mezzosangue, oppure i loro stessi genitori mortali avevano raccontato loro la verità, ma non lui.

Edward rappresentava l’altra faccia della medaglia, quella di cui nessuno mai parlava. Aveva visto mostri, spiriti, ninfe e chissà che altro, e per tutto il tempo non aveva avuto altro che mortali attorno a sé, mortali che naturalmente non avevano mai creduto a ciò che lui vedeva. E se aggiungeva al tutto il fatto che la polizia era a caccia di lui e sua madre, le cose non facevano altro che peggiorare. Avevano accusato lui di averla uccisa, e accusato lei di aver abusato di lui, facendolo impazzire. Erano cose terribili da dire a qualcuno, ed Edward aveva trascorso gli ultimi anni con quella reputazione tra le famiglie affidatarie e le forze di polizia, saltando dall'una all'altra parte in continuazione, senza una vera casa, senza una vera famiglia, senza più nulla.

Per loro essere semidei era sempre sembrato così... normale. Semplice. E avevano dato per scontato che anche per Edward lo fosse stato, nonostante, per lui, esserlo aveva significato vivere una vita d’inferno, per la strada, in fuga dalla polizia, accusato di essere uno psicopatico. Era sempre stato solo, aveva sempre e solo avuto sua madre Kate dalla sua parte, e alla fine aveva perso anche lei, in maniera non molto ben chiara, ma nessuno aveva il coraggio di domandarglielo proprio in quel momento.

Forse... forse sarebbe stato meglio scoprire cosa fosse successo proprio da lui, non tramite in un servizio di telegiornale. Stephanie si sentì come se avesse appena ficcato il naso in cose che non la riguardavano. Avevano violato la privacy di Edward, scoprendo segreti lugubri del suo passato che sicuramente lui per primo voleva dimenticare e che aveva deciso di tenere nascosti per un motivo.

Non riuscendo a trovare le giuste parole da usare, la ragazza abbassò la testa, sentendosi stupida per questo. Anche Tommy cercava di essere di conforto all’amico, ma pure lui sembrò riscontrare gli stessi problemi della figlia di Demetra. Lisa si strinse nelle spalle, distogliendo lo sguardo, indecifrabile. Fu Konnor, alla fine, quello che ruppe il silenzio: «Edward» lo chiamò, serio in volto. «Ascolta, mi dispiace per quello che ti è successo, ma...»

L’interpellato lo interruppe, sollevando una mano. «Qualsiasi cosa tu voglia dire, lascia prima che ti faccia una domanda. Sei mai stato... tenuto chiuso in una stanza senza finestre per dieci ore di fila, ammanettato ad una sedia subito dopo aver perso tua madre, con una luce accecante puntata sulla faccia e un gruppo di uomini in divisa che ti sbraitavano addosso?»

Konnor serrò le labbra, rimanendo in silenzio. Quello scenario sembrava essere uscito direttamente da un film dell’orrore. 

Edward annuì. «Già, come pensavo.» Fece vagare lo sguardo su tutti i presenti e si alzò in piedi. «Devo dormire. Sono esausto. Se all’alba non sono sveglio, svegliatemi voi. Non restiamo qui un minuto di troppo.»

Non disse altro. Fece il giro della stanza, curandosi di non incrociare lo sguardo di nessuno, nemmeno di Thomas, afferrò un cuscino dall’armadio e lo gettò a terra, per poi sdraiarsi sul tappeto, dall’altro lato del letto, nascondendosi così dagli occhi di tutti. Un silenzio imbarazzato si sollevò tra i restanti quattro ragazzi. Stephanie sentiva i sensi di colpa divorarla dall’interno, ma non c’era nulla che potesse fare. La storia di Edward era così assurda che non aveva idea di come muoversi, non sapeva nemmeno se sarebbe mai più riuscita ad avere una vera conversazione con lui.

«Beh... anch’io sono stanca» annunciò Lisa, rompendo quella parete di silenzio che si era innalzata. Sembrava più a disagio di tutti loro messi insieme, ma grazie al cielo, con le sue parole, era riuscita a spezzare la tensione.

«Sì, dovremmo proprio dormire...» convenne Konnor, alzandosi in piedi, chiaramente desideroso di lasciarsi la conversazione appena avuta alle spalle. «Faccio io il primo turno di guardia. Chi mi dà il cambio?»

«Io» affermò Stephanie. «Svegliami pure quando vuoi. Tanto ho già dormito in macchina.»

«Va bene.» Konnor non perse altro tempo a discutere. Un istante dopo, era già fuori dalla stanza.

«Faccio io il turno dopo di te» mormorò Thomas, con un filo di voce. Sembrava il più mortificato per la situazione, lì dentro. Stephanie ricordò l’abbraccio tra lui ed Edward, quando il figlio di Ermes aveva realizzato che non lo avrebbe più visto alla capanna Undici. Tra tutti loro, lui era quello che conosceva meglio Edward, l’unico che davvero poteva considerarsi suo amico. Se c’era qualcuno che doveva esserci rimasto male per quella storia, quello era lui. Provò una stretta al cuore osservandolo. Gli posò una mano sulla spalla, cercando di essere confortante, e annuì.

Si sdraiò anche lui per terra, dal lato opposto del letto, lasciandole così il posto libero accanto a Lisa.

Stephanie si adagiò sul materasso, osservando il soffitto angosciata. Accanto a lei, Lisa si spogliò della camicia, rimanendo con la t-shirt del campo, e si infilò sotto le coperte. Steph allungò la mano verso l’interruttore della luce, e il buio tornò ad inondare la stanza, facendola scivolare in un sonno inquieto.

 

***

 

Sperare di poter dormire serena forse era un po’ troppo. Dopo il sogno di quei mostri nel cantiere, l’idea di farne un altro subito dopo non era certo delle migliori. Purtroppo, non toccava a lei decidere. Il lato positivo era che non si trovava più in nessun cantiere, ma in uno stupendo giardino. Fiori di ogni genere sorgevano a perdita d’occhio, dai più comuni a quelli più esotici e rari. Stephanie non credeva di aver mai visto una varietà come quella. Li riconobbe tutti, grazie agli studi che aveva fatto assieme al padre, un grande appassionato. Si passava dalle rose iceberg a fiori che i mortali avevano creduto estinti, come i Cosmos del cioccolato, le Scarpette di Venere e le Orchidee fantasma.

Stephanie si guardò attorno meravigliata, chinandosi su alcuni Cosmos per odorarne l’aroma vanillato. L’aria era umida, tiepida, ma non afosa. Il canto dei grilli e delle cicale ronzava nelle sue orecchie, mentre la dolce brezza le carezzava la pelle, una sensazione meravigliosa, che, per qualche strano motivo, le fece pensare alle carezze della madre, anche se lei non poteva ricordare di averne mai ricevute. Quel luogo la riportò con la mente a quando era ancora bambina, ricordandole le giornate trascorse nel giardino del padre, nella sua casa in Kansas, di quando correva spensierata dentro di esso, giocando con il suo cane e con suo padre, al quale aveva sempre voluto, e ancora voleva, un mondo di bene. Riusciva perfettamente ad immaginarlo, anche a distanza di tutto quel tempo, i suoi capelli brizzolati nonostante fosse appena sulla quarantina e gli occhiali da vista incastonati sul suo volto glabro e paffuto.

Ricordava che la sua infanzia era sempre stata felice, anche in assenza della sua vera madre, perché dopotutto aveva sempre avuto lui, Eric Winkler, il padre più buono, dolce e sensibile che sarebbe potuto esistere, il quale l'aveva sempre trattata con la stessa delicatezza che usava per i fiori e le piante che coltivava. All’epoca era felice, non aveva paure, preoccupazioni, non poteva sapere che cosa, invece, il futuro le avrebbe riservato con la sua vita da semidea e tutto il resto. Aveva accettato questo fardello, naturalmente, e si era trasferita a New York per proseguire lì i suoi studi e andare al Campo Mezzosangue, ma, nel profondo, non avrebbe mai voluto essere costretta a lasciare il padre e trascorrere con lui solamente un mese all'anno.

Prima che la nostalgia la assalisse, rischiando di farle versare una lacrima o due, si accorse che il giardino era stato allestito sopra un promontorio, affacciato su una splendida città luminosa e colorata. Era crepuscolo, non notte come al motel. Ovunque fosse, doveva esserci un fuso orario diverso. E non appena si accorse dell’enorme ponte rosso in lontananza stagliato sul mare, realizzò immediatamente dove si trovava. Schiuse le labbra per la sorpresa. Quello era il Golden Gate. La città era San Francisco!

Sentì un suono all’improvviso, una voce femminile calda e melodiosa, che la fece trasalire. Avanzò lungo i sentieri del giardino illuminati da lampade appese su dei tralicci e dalla luce del crepuscolo, seguendo quel canto. Il giardino si spostò in una zona più boschiva, nell’entroterra, dove gli alberi dai fitti rami andavano a formare un confine naturale tra esso e il resto della boscaglia. Infine, giunse alla fonte di quella voce, una donna inginocchiata su alcuni fiori, gli abiti da giardinaggio sporchi di terra.

Non appena la vide, Stephanie pensò che si trattasse di sua madre. Tuttavia, non appena si accorse dei narcisi su cui stava lavorando, realizzò che, sì, forse poteva sembrare Demetra, ma non era lei.

Se la stava sognando, voleva dire che le voleva parlare. E vista la volta precedente, allora non era molto sicura di volerla assecondare, soprattutto dopo aver già parlato con Afrodite. Purtroppo, però, non aveva altra scelta. Si schiarì la voce. La donna smise di canticchiare e si voltò verso di lei. Era molto bella, i capelli dello stesso colore del grano, lunghi e riccioluti, e gli occhi marroni, di una tonalità calda come l’estate. Le sorrise calorosamente, anche se la ragazza non riuscì a capire se fosse un sorriso sincero oppure no. «Ben arrivata, sorella.»

Stephanie sentì la propria bocca inaridirsi all’improvviso. Deglutì. «Ciao Persefone.»

   
 
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