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Autore: apeirmon    07/04/2019    2 recensioni
Quattro giocatori che si spostano sul tabellone del mondo fino a raggiungere la stessa casella, affrontare le stesse penalità e seguire gli stessi indizi. Ambientata contemporaneamente prima e dopo il prologo di "Jumanji - Benvenuti nella giungla", ma con i personaggi del primo film, questa storia esprime la mia ammirazione per Chris Van Allsburg e spero di riuscire a metterci ogni briciola di genialità in me che conosco e che mi farà conoscere scriverla.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alan Parrish, Altri, Judy Shepherd, Peter Shepherd, Sarah Wittle
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nota dell’autore: Gli tsukunogami sono oggetti con più di cento anni che, secondo la mitologia nipponica, si animano.
 
Quando smisi di vorticare, mi ritrovai in una stanza piena di scaffali e di libri. In un angolo noto una scatola di plastica con delle rane velenose.
La mia testa lavorava freneticamente per cercare di capire ciò che stava accadendo, eppure non ci riusciva. Ma non ci sarebbe comunque stato lo spazio necessario per dei pensieri.
Ero libero!
La gioia di essere tornato nel luogo della mia infanzia mi aveva riscaldato come un monsone. Non mi sembrava casa mia, ma non sapevo quanto potesse essere cambiata durante la mia assenza.
- Maman!? - cominciai a chiamare, voltandomi verso un corridoio, ma la mia voce fu sovrastata da un grido di ragazza che rimbombò sulle pareti.
- Nadine!
Uscii di corsa dalla stanza, percorsi l’andito e mi affacciai in un salotto in cui si trovavano cinque esseri umani, tutti coperti da vestiti: una donna bionda cercava di farne rialzare un’altra, un uomo castano guardava un forte vento infuriare fuori dalla finestra e un altro uomo stava tirando una ragazza fuori da un buco nella parete. Lei aveva gli stessi capelli di Nadine…
Fu impressionante ritrovarmi davanti tutte quelle persone dopo tanto tempo, ma l’istinto mi fece spostare lo sguardo per terra. E ricordai: perché ero finito nella giungla, cosa provocava quel gioco e cosa mi aveva tolto. Ma non mi importava: avevo aspettato così tanto per rivedere Nadine, impegnandomi giorno dopo giorno per vivere, con la speranza che qualcuno mi avrebbe trovato.
Dovevo salvarla dal vento.
Non sapevo perché, ma mi gettai accanto al gioco di società e tirai i dadi sul tabellone. Sapevo che non sarei tornato indietro, e l’istinto mi diceva che era la cosa giusta da fare. Vidi che in alto c’erano tre puntini e vidi la pedina dell’elefante grigio spostarsi di tre caselle.
Dei simboli verdi si composero al centro del tabellone; sapevo che erano lettere, ma non riuscivo a riconoscerle più. Avevano questa forma: «Pour te souhaiter la bienvenue, s’apaiseront tes soucis».
Un tonfo.
Mi alzai in piedi e osservai l’uomo dai capelli grigi caduto sulla schiena abbracciare la ragazza castana, che si voltò piangendo sul suo petto. La donna bionda che si era rialzata li fissava con occhi spalancati, piena di un’emozione che conoscevo continuamente da almeno cinque anni.
Anche l’altra donna aveva gli occhi spalancati, ma fissava me. Aveva guance rosee e lisce, di una semplicità che mi fece dimenticare di respirare; gli occhi erano luminosi, nonostante quasi del tutto neri, in quel poco azzurro che li circondava; sotto il suo naso piccolo e delicato, le labbra rosa scuro distanti tra loro lasciavano scorgere denti più bianchi di quelli di un caimano.
Osservai il suo petto rigonfio sotto il maglione nero e mi sforzai di rimanere fermo, quando mi accorsi che il mio sesso si era ingrandito e sollevato.
“Ehi! Non azzardarti!” mi minacciò l’uomo castano mettendosi davanti a me e avvicinando un cuscino ai miei genitali. Sembrava parlare in una lingua che un tempo conoscevo, ma che avevo dimenticato del tutto. Presi il cuscino, capendo che per loro la nudità era spaventosa.
“No! No...” esclamò e sussurrò l’altro uomo alzandosi e portando una mano alla bocca, con gli occhi fissi sul gioco. “Non può essere. Come è finito qui?”
La sua preoccupazione era immensa. La ragazza castana mi guardava e vidi perfettamente che non era mia sorella: gli occhi non erano marroni, ma verdi.
“Conosci Jumanji?” domandò sorpreso l’uomo castano.
L’altro non rispose subito, ma mi guardava con compassione.
“Ci sono stato dentro, proprio come quest’uomo. Capisci l’inglese?” mi chiese.
Non ricordavo molto della mia lingua, ma provai a dirgli che non lo capivo.
Je sais pas… tu dis…
“È francese.” disse la donna bella continuando a fissarmi. “Il… Il gioco l’ho importato dalla Francia. Comment-tu t’appelles?
Mi stava chiedendo qualcosa!!! E sapeva il francese! Cosa le avrei risposto? Credo mi stesse chiedendo il nome. Cercai di ricordarlo. Ne ero quasi sicuro perché l’avevo scritto su una roccia con un sasso rosso, molto tempo prima, e ogni tanto passavo di lì.
Phi… Philippe.
Philippe? C’est un beau prénom!” si complimentò con me. Qualcosa lo ricordavo.
“Come sarebbe che ci sei stato dentro?” domandò l’uomo che mi aveva dato il cuscino all’altro. In inglese! Ricordavo che era inglese!
“In una specie di giungla… Non chiedermi di ricordarlo, ma ci ho già giocato. Ci abbiamo giocato.”
Perché mi ignoravano? Finalmente ero uscito da lì e avevo davanti degli esseri umani. Volevo ritrovare la mia famiglia, ma non ricordavo abbastanza francese per spiegarlo.
“Come ‘abbiamo’? ‘Abbiamo’ chi?” continuò l’uomo castano.
“Io, Sarah…” l’uomo dai capelli grigi allargò i polmoni, “tu e Judy.”
“Cosa!? Come fai a sapere che ci abbiamo giocato ieri!?” disse la ragazza dai bei tratti. L’altro uomo aveva improvvisamente la faccia piena di pieghe.
“Non ieri… Nel 1995. Siamo tornati indietro nel tempo di ventisei anni. Voi non eravate ancora nati. Lo so che è difficile da… NO! SARAH!”
Sobbalzai al grido che fece quando voltò la faccia. Seguii il suo sguardo: l’altra bionda aveva preso un oggetto lungo e grigio dal buco in cui veniva risucchiata la ragazza simile a Nadine e l’aveva alzato sopra il gioco da tavolo.
L’uomo che aveva urlato le aveva afferrato le braccia e cercava di spingerla verso il divano.
“Lasciami, Alan! Bernie non deve più toccarli quei dadi!”
“Certo, ma non sappiamo cosa succede rompendolo! Ne avevamo già parlato, ricordi?”
Non mi piaceva quella situazione: volevo scappare, allontanarmi da tutti questi estranei aggressivi!
Ma vidi qualcosa che me lo impedì: la ragazza castana aveva gli occhi spalancati, ma non sulla scena di lotta, bensì verso la parete. Mollai il cuscino e la raggiunsi prima che iniziasse a cadere a terra. Riuscii a sostenerla.
“BERNIE!” urlarono i due smettendo di lottare e balzando verso di noi. Lasciai loro la ragazza che evidentemente si chiamava “Berni”. Ma poco prima avevo sentito un odore disgustoso.
“Sei pazzo! Io non… Non ho mai giocato prima a quel gioco!” inveì l’uomo vicino alla finestra.
“Peter!” gridò la donna che ammiravo cambiando espressione, prima di chinarsi anche lei su Berni.
All’improvviso, sentii lo stesso odore di prima arrivare dal corridoio.
“Che cos’ha!? Bisogna chiamare un’ambulanza!” urlò la donna che teneva la ragazza.
“Potrebbe essere solo lo spavento per il tornado.” rispose l’uomo accanto a lei.
L’altro si era seduto per terra e fissava il pavimento.
Corsi verso la fonte dell’odore strano: oltre il corridoio c’era una stanza con un tavolo, e lì sopra c’era del cibo. Ma non era mangiabile, era chiaramente contaminato.
Presi il piatto su cui era poggiato e lo riportai in salotto.
La donna dall’aspetto meraviglioso mi stava venendo a cercare. Mi venne di nuovo voglia di saltarle addosso, ma mi sforzai di pensare alla ragazza svenuta.
Mi guardò i genitali tesi, impressionata, ma quando vide il cibo che portavo si spaventò, portandosi una mano alla bocca. Volevo rassicurarla, ma non riuscivo a parlarle.
“No! Come può essersi…? ‘Contaminazioni’!” disse, prima di prendere il piatto. “Merci!
Mi aveva ringraziato! Ero felice. Non provavo quell’emozione da tantissimo tempo.
“Perché non mi avete mai detto nulla? Mi conoscete da quando avevo sette anni!” sentii chiedere l’uomo castano.
“Non volevamo spaventarvi! Eravate dei bambini. E poi non ci avreste creduto: i vostri genitori vi avrebbero solo allontanato da noi!” rispose l’altro.
“Alan...” cominciò la più bella.
“E dopo?! Avresti dovuto avere più fiducia in me! Non ti sembro abbastanza intelligente da capire?”
“Lo sai che non è così! Sei uno scienziato: come avresti potuto ammettere un gioco che trasforma la realtà?”
“PRIMA DI GIOCARCI LO SAPEVO CHE ERA PERICOLOSO!” gridò il castano prima di affannare pesantemente. Mi spaventava. Più di rettili, felini e ragni: a quelli ero abituato. Ma la rabbia di quell’uomo dagli occhi castani mi atterriva davvero.
“Ora c’è un problema più grave: Bernie non è svenuta per lo spavento!”
La donna che reggeva la ragazza guardò il piatto: “Che… Che cos’è quella roba nera?”
“Mi sembra proprio ergot, o Claviceps purpurea, una muffa che attacca le graminacee e ostacola la circolazione, se ingerita. È originaria del Sud America e credo…” abbassò la voce “credo di averla fatta uscire io dal gioco.”
“Che stai aspettando, Alan?! Portiamola in ospedale!” gridò l’evidente madre della ragazza, in lacrime.
“No. Non potrebbero fare niente.”
“Ma che stai dicendo?”
“Ricordi le piante carnivore? A Jumanji ogni specie ha caratteristiche potenziate rispetto a quelle che conosciamo sulla Terra. Non potrebbero fare nulla se non studiare il caso.”
“Sempre meglio tentare, no?! Non possiamo aspettare che le si fermi il sangue!”
“Sai cosa dobbiamo fare. È il solo modo per annullare l’effetto.” disse lui fissandola intensamente.
Lei scosse la testa freneticamente: “No! Non può continuare a giocare! È fuori questione! Saranno i medici a trovare una cura adeguata.”
“Se la portiamo in ospedale non potrà continuare la partita e morirà di sicuro. Credimi: è l’unico modo.” rispose lui prima di abbracciarla.
“Come fai a conoscere quella muffa?” domandò l’uomo spaventoso.
“Ho dovuto valutare una sedia fatta con alcune graminacee e l’ho trovata, quindi mi sono documentata. Peter, non possiamo far morire Berenice.”
L’altro scosse la testa. Poi mi guardò: “Lo porto a vestirsi e a farsi la barba, prima che ti violenti.”
Mi prese per un braccio. Ero troppo spaventato per fare resistenza. Mi portò in una stanza tra quella in cui mi ero ritrovato e c’erano le rane e il salotto. Credevo fosse un bagno.
Chiuse la porta e io sentii uno scatto: mi ricordai delle chiavi. Perché mi aveva chiuso dentro?
Piansi.
La mia famiglia era sicuramente morta, le persone che avevo incontrato, a parte quel dolce splendore, mi ignoravano o mi trattavano male e non conoscevo più nulla del mio mondo.
La mia faccia era tutta bagnata. Non riuscivo a respirare.
La porta si riaprì e sentii che qualcuno entrava nel bagno. Poi un sospiro.
“Su, non fare così. Mi dispiace di essere stato brusco. Pardon! Ti prometto che ritroveremo la tua casa. Maison. Maison.” mi disse afferrandomi dalle braccia e tirandomi in piedi.
Avevo capito che si riferisse a una casa. Forse voleva dirmi che ero al sicuro.
Mi portò nella doccia e mi lavò. I getti d’acqua mi spaventarono all’inizio, ma poi mi rilassai.
Dopodiché mi asciugò e mi tolse la barba con un rasoio. Anche quello mi preoccupava, ma sapevo che voleva aiutarmi. Poi mi ricordò come infilarmi mutande, jeans, una maglietta azzurra e scarpe a strip. Infine mi tagliò i capelli fino al collo con delle forbici.
Merci.” lo ringraziai. “Ton prénom?
“Ah, il mio nome! Peter. Pi-ter.”
Pitèrre.” ripetei. Lui mi sorrise e aprì la porta per riportarmi dagli altri.
Tutti e quattro erano seduti al tavolo su cui avevo trovato il cibo avvelenato. La donna dai bei tratti mi osservò con la bocca socchiusa. Berni era sveglia ma scossa.
“Mi dispiace per non averti detto niente, Peter, ma ho bisogno del tuo aiuto per salvare Bernie.” disse suo padre. “Se lo si finisce, tutti gli effetti del gioco si annullano e il tempo torna indietro.”
“Ti prego, Peter.” aggiunse la madre con gli occhi ancora lucidi.
Pitèrre aspettò qualche secondo, prima di dire: “Va bene.”
La madre di Berni gli sorrise commossa, mentre il padre gli disse: “Grazie! Grazie!”
Philippe… Ils sont Peter… Alan… Sarah… et Bernie. Je suis Judy.” mi disse lentamente la donna con gli occhi luminosi indicandomi gli altri. Ma solo un nome mi era rimasto impresso.
Judy. Tu es… Tu es trés belle.” le dissi.
“Ah! Merci.” rispose con occhi sgranati verso il pavimento.
Guardai la famiglia al lato del tavolo: “Berni… Sara… et Al…
“Alan. Ma anche solo ‘Al’ mi sta bene.” disse l’uomo coi capelli grigi sorridendo.
“Come mai tu ricordavi benissimo l’inglese quando sei uscito dal gioco?” gli domandò Sara.
“Van Pelt era molto loquace. Per lo più mi insultava, ma a volte faceva anche noiosissimi discorsi.”
Philippe, quel-est ton nom?” mi chiese Judy.
Mi aveva chiesto il cognome. Ma non me lo ricordavo.
Nadine!” risposi invece. “Maman, papa et Nadine!”
“Nadine dev’essere sua sorella.” commentò Judy.
“Be’, finché non ricorderà il suo cognome, non sarà facile rintracciarla.” disse Pitèrre.
“Aspettate… Se non sbaglio era il nome della moglie del cliente che mi ha dato Jumanji!”
“L’hai rubato a un’asta?!” si sorprese Alàn. “Ma io dico: non potevi lasciarlo lì?!”
“Mi dispiace… Ma almeno abbiamo liberato Philippe!”
“E avvelenato Berenice!” urlò Sara. Judy abbassò di nuovo il capo e io le accarezzai un braccio per consolarla. Lei si ritrasse per un attimo e Pitèrre fece un movimento brusco con la mano, ma poi entrambi mi permisero di continuare.
“Ora calmiamoci. Finirete il gioco come l’altra volta. Vi guideremo noi.” disse Alàn fermo. “Judy, ora tocca a te, se non sbaglio.”
“Io non voglio giocare.” sentii parlare per la prima volta Berni. Tutti la guardammo.
“Tesoro, se riusciamo a finire il gioco, non sarai più avvelenata.” le disse suo padre.
“Non voglio rischiare di essere sbranata da un leone o di essere incenerita da un fulmine… Io non gioco!” rispose lei, decisa.
“Tu giocherai!” gridò Sara. “Siamo noi responsabili di quello che ti succede e non ho proprio…”
Un tonfo che veniva dal corridoio fece alzare tutti. Pochi secondi dopo, vari uomini in divisa invasero la stanza e ci afferrarono. Mi scrollai di dosso quello che aveva provato a prendermi e mi lanciai a liberare Judy. L’ultima cosa che vidi fu un pugno guantato.
 
Stringo Berenice al mio fianco. Ma ho paura anch’io.
Non mi sarei mai immaginato di ritrovare quel maledetto affare nella mia vita. Ero certo di averlo fatto sprofondare definitivamente sul fondo dell’oceano Atlantico.
E invece, adesso mi aveva intrappolato di nuovo! Non nella giungla, ma nella cella di una nave con la mia famiglia, i ragazzi che mi stanno più a cuore e un giovane svenuto che ha passato il mio stesso inferno.
“Non preoccupatevi… Ne usciremo! Se avessero voluto ucciderci l’avrebbero già fatto.” dico.
Judy mi guarda scettica, Peter fissa il muro e Sarah ha ancora la faccia tra le mani.
A un tratto, alcuni militari si avvicinano alle sbarre.
“Vi prego: mia figlia è stata avvelenata. Permetteteci di salvarla!” imploro.
“Seguiteci tutti tranne la ragazzina. Se provate a fare scherzi, sarà lei a pagarne le conseguenze.”
Chi di noi aveva giocato a Jumanji in una dimensione parallela è obbligato a seguirli. Ci portano in una grande stanza con un tavolo al centro a cui è seduto un vecchio orientale. Ha il volto pieno di rughe e petecchie, è calvo e si intravedono le ossa sotto la pelle tirata.
Veniamo fatti sedere davanti a lui. Tra di noi ci sono solo il tavolo e Jumanji.
“Benvenuti sulla mia umile nave! Mi scuso per le maniere, ma dovevo essere sicuro di potervi parlare in un luogo riservato. Mi chiamo Mononobe e voglio parlarvi.”
“Lei sa cos’è Jumanji?” gli chiede Judy.
“Meglio di chiunque altro. L’ho costruito io.”
Non riesco a sbalordirmi: provo immediatamente un disprezzo talmente forte per quell’essere da volergli staccare la testa all’istante. Tutti gli istinti che avevo sviluppato quarantuno… no: sessantasette anni prima mi stanno riassalendo e solo l’amore per mia figlia mi tiene seduto.
“Perché l’hai costruito?”
La voce di Peter, affianco a me, è calma e controllata, ma ne avverto l’odio.
“La magia tradizionale giapponese è andata quasi del tutto perduta o trasformata in racconti mitologici nei secoli, ma io sapevo praticarla. Esistevano maledizioni, poi trasformate nella leggenda degli tsukunogami, capaci di legare l’anima di un umano ad un oggetto. Ho costruito questo gioco da tavolo e l’ho fornito di potenti abilità magiche in modo che pensi autonomamente, guidi il gioco in base ai giocatori e colleghi due dimensioni. In questo modo, sottrae energia vitale ai bambini che lanciano i dadi e regalano alla mia vita il tempo che va dall’inizio alla fine della partita. Se un giocatore muore, ricevo gli anni di vita che gli sarebbero rimasti.” ci spiega con distacco l’uomo.
“Lei è un essere spregevole! Infligge sofferenza ai bambini per allungarsi la vita!” urlò Sarah.
“Per i primi secoli riuscii a controllare gli spostamenti del gioco. Poi, nel decimo secolo, uno tsunami trasportò Jumanji sull’altra sponda dell’Oceano Pacifico. Sapevo che era arrivato ad altri esseri umani perché continuavo a rimanere in vita, ma in tutti quei secoli non potevo rintracciarlo e dovevo affidarmi alla capacità del gioco di attirare i bambini. Nella mia lingua 'juuman ji' significa 'centomila esperienze personali'. Dato che nessuno viene creduto quando le racconta, sono davvero molto personali.”
Mi chiedo perché ci stia raccontando tutto questo. Dove vuole arrivare?
“Dai primi contatti tra America e Giappone, ho costruito un’organizzazione qui volta a ritrovare Jumanji. Ma le capacità magiche del gioco di nascondersi agli adulti impossibilitava anche i miei uomini. Infine, due sere fa, sono venuto a conoscenza che questo artefatto era stato messo all’asta a Parigi. Se avessi potuto, sarei morto d’infarto. Ma sono protetto da qualsiasi tipo di morte, quindi non sperateci. Quando sono arrivato a Parigi, però, l’asta era già conclusa e Jumanji era sparito. Mi sono informato su chi l’avesse valutato, e ho scoperto che la responsabile, Judy Shepherd, aveva preso un aereo per Brantford, perciò l’ho seguita. Quando ho saputo che vi si era formata una temporanea tromba d’aria, ho subito capito dov’era Jumanji ed eccoci qui.”
“Che cosa vuoi?” chiedo acido.
“Voglio che appena vinto il gioco, ma prima che il vincitore pronunci “Jumanji”, uccidiate l’unica minorenne che sta giocando.”
Rovescio la sedia e salgo sul tavolo per spezzargli il collo, ma due soldati mi tirano indietro.
“RAZZA DI BASTARDO! IO TI BUTTO IN UN VULCANO! COSÌ TE LA GODI LA VITA ETERNA!” grido, ma un colpo alla tempia mi impedisce di continuare.
“Se un bambino muore a gioco vinto, il conteggio degli anni che gli mancano diventa infinito, e quel tempo viene passato a me, rendendomi immortale. In tal caso, non avrei più bisogno di Jumanji, perciò risparmiereste molte sofferenze a bambini innocenti. Oltretutto, la ragazzina tornerebbe in vita. Sappiate che mantengo la mia memoria ogni volta che il tempo viene riavvolto, e che so dove è stata iniziata questa partita. Se non eseguirete le mie istruzioni, recupererò il gioco, vi ucciderò e convincerò degli ingenui bambini ad obbedirmi.”
“Non daremmo mai l’immortalità ad una schifezza come te!” gli annuncia Judy.
“Questa è la vostra opinione generale?” ci chiede.
Ma prima che qualcuno possa rispondergli, del fumo da sotto il tavolo riempie il centro della sala, ottenebrando tutte le nostre viste. Io ricordo la posizione di Jumanji e lo prendo, per poi tirare Sarah a terra. Sento Peter fare lo stesso con Judy.
“Bloccate le porte!” ordina la schifezza decrepita, quindi sento decine di piedi dirigersi verso due posti. Dagli stessi due posti, sento venire due detonazioni, che spazzano via il fumo sopra di noi.
Una donna castana di occhi e di capelli, vestita da militare, ci fa segno di raggiungerla oltre la porta da cui eravamo entrati, ormai ridotta a uno squarcio.
Immediatamente, tiro su Sarah e seguo Judy e Peter tenendola per mano.
“Grazie!” dice Judy, correndo.
“Arriveranno altre guardie che hanno sentito le esplosioni!” ci avvisa lei con l’‘r’ moscia.
“Mia figlia è in una cella della nave!” le dice Sarah.
“L’ho ja liberata. Ora sta fujendo con Philippe su una scialuppa.”
“Tu sei Nadine, vero?” le chiede Judy, non sorprendendomi affatto.
Oui. Tutti dentro!” ci ordina, entrando in una stanza. Quando anche Sarah è dentro, chiude la porta.
Mentre riprendo fiato, sento i soldati correre appena fuori. Tornato il silenzio, ricomincia a guidarci fino a una rampa di scale. La saliamo e ci ritroviamo sul ponte della nave.
Ma sono rimasti dei soldati.
Nadine evita un proiettile e ne manda a segno un altro. Vedo Peter disarmare un uomo con un calcio, mentre io mollo il gioco e sferro un pugno da far perdere i sensi.
“Judy, tira i dadi! Non possiamo uscirne così!” le grido.
Una raffica di proiettili mi costringe a ripararmi dietro il muro che protegge le due donne, così vedo un quattro e un cinque sui dadi. Sparo con l’arma che ho sottratto al soldato caduto, ma non ne ho mai usate: Van Pelt me le ha sempre fatte detestare. Così devo ritrarmi sprecando un proiettile.
«Anche il corso della tua giornata finirà con una bella cascata» sento leggere Judy.
Il mio sguardo si dirige automaticamente al cielo: un immenso muro d’acqua sta precipitando sulla prua, anche se il cielo è assolutamente limpido.
Faccio appena a tempo ad afferrare Sarah e Judy che la nave si ribalta. Tutti e tre veniamo premuti contro uno dei muri accanto alla porta, mentre sento urla sfrecciarmi accanto.
“PETER!” grida Judy, tenendo il gioco ben chiuso.
Il pavimento è quasi completamente in verticale. Mi alzo e guardo giù: no, sarebbe davvero un salto troppo alto. Meglio non rischiare!
Noto che un proiettile ha spaccato un cardine della porta e mi viene un’idea: sparo anche all’altro cardine, attento all’angolazione per non colpire le due donne di rimbalzo, poi stacco la porta.
“Quando sarò dall’altra parte, avvicinatemi la porta facendola scorrere sul muro!”
“Alan, che intenzioni…?”
Ma prima che finisca la frase, ho già preso la rincorsa sul muro, ho saltato e mi sono aggrappato al parapetto come se fosse una scala a pioli. Mi volto verso di loro, aspettando che mi avvicinino la porta abbastanza da metterci una mano sotto.
“L’ho presa! Correteci sopra in fretta e aggrappatevi al parapetto!”
“Alan, non credo che sia una…” comincia Sarah, ma Judy ha già fatto due falcate e si è appesa due barre sopra di me. “E figuriamoci!”
“Coraggio, Sarah!” la sprona la mia amica.
Dopo un attimo di esitazione, corre sulla porta, ma scivola e cade di lato.
“SARAH!”
La caduta mi sembra interminabile…
La vedo precipitare contro l’acqua violenta della cascata che continua a spostarsi sull’estremo inferiore della nave, la vedo sfracellarsi straziantemente nell’impatto, e poi, più nulla.
Ma la porta non ci serve più adesso, e la mia presa è salda sulla mano di mia moglie, che riesce ad aggrapparsi alle sbarre sotto di me.
Quando siamo giunti a circa dieci metri dal mare, mi porto dall’altra parte del parapetto: “Saltate!”.
Ci tuffiamo finalmente nel mare gelido. Quando riemergo, cerco Peter e Nadine, ma vedo solo uomini in divisa militare. Sarah e Judy tornano in superficie pochi secondi dopo. Eppure…
“Dov’è il gioco!?” grido. Judy e Sarah cominciano a spostare lo sguardo da una parte all’altra.
“Eccolo lì!” mi indica mia moglie. Riesco a intravedere una scatola verde e nuoto in stile libero per raggiungerla. La afferro, ma le ante sono aperte.
“Mancano i dadi!” urlo alle due bionde.
“Ce li ho io!”
Peter è a qualche metro da me e nuota nella mia direzione. È un sollievo che si sia salvato!
Quando mi raggiunge, mi tende i dadi, ma non riesce a darmeli: uno dei soldati lo colpisce alla testa con il calcio di un’arma da fuoco. Vedo i dadi rotolare sul tabellone e comporre un undici.
Sferro un pugno all’aggressore e sorreggo Peter. Poi leggo il messaggio.
«Ti accorgerai dei nostri denti, e non solo perché siamo contenti»
“SARAH! JUDY! VERSO LA SPIAGGIA! NUOTATE!”
Non mi piace! Ho entrambe le mani impegnate. Squali? Coccodrilli marini?
La cascata è terminata e la nave è tornata in orizzontale, anche se fortemente oscillante.
“ALAN! IO NON TI LASCIO QUI!” mi risponde quella cocciuta di mia moglie.
Poi capisco cosa sono: attorno al corpo di vari soldati, a una trentina di metri da noi, l’acqua si sta tingendo di rosso. Peter le chiamerebbe ‘Serrasalminae', ma io preferisco 'piranha'.
Ogni manciata di secondi, un nuovo corpo viene circondato dal suo stesso sangue, e Sarah non accenna a fuggire. È finita…
Alàn!” grida una voce.
Mi giro.
Nadine sta spingendo con i remi una scialuppa di salvataggio a cinque metri da me, affiancata da Philippe e Bernie. Con un ampio sorriso, scalcio sott’acqua per risparmiare tempo e lancio Jumanji nel veicolo per poter far issare meglio Peter a Philippe.
“Sali anche tu, papà!” mi grida mia figlia.
Per un attimo penso di tornare indietro a salvare Sarah e Judy, ma poi la ragione ha la meglio dicendomi che posso salvarle solo dalla scialuppa.
Salgo sull’imbarcazione, aiutato da Philippe, e riabbraccio mia figlia.
“Pensavo che ti avrebbero ucciso!” mi confessa sussurrando.
“Ora siamo al sicuro. Nadine, prendo io i remi!”
“No, sci vuole esperienza! Tiratele su!”
Quando raggiungiamo le due donne, afferro le braccia di Sarah e la traggo in salvo.
Ma sento Judy urlare, poco prima che Philippe la tiri su e la abbracci.
Co… Comment vas-tu?” le chiede.
C’est juste une petite morsure.” risponde osservando il brandello di jeans strappato.
Guardo i piranha agitarsi furibondi sotto il pelo dell’acqua.
“Ora si può proscedere.”
Vedo Nadine lasciare i remi ed estrarre un sacchetto di plastica dalla tasca della divisa. Preme il pulsante del telecomando che contiene e subito si sente un’altra esplosione.
Quella che dev’essere la sala macchine della nave va in fiamme.
Sono piuttosto contrariato dalla freddezza della donna, ma non è niente in confronto allo sconcerto che leggo sul volto di Philippe.
Nadine!
Désolée, mon frère, mais c’était le seul moyen.
“So che ci avrebbero seguiti, altrimenti, ma c’era davvero bisogno di danneggiarla così pesantemente?” le chiede Judy delusa.
“Voi non li conoscete. Forse non è abbastanza neanche così. E comunque, il tempo tornerà indietro, justo?” ci dice senza il minimo rimpianto.
“Voglio aiutarvi a finire il gioco.” ci comunica Berenice guardandomi con stima. “So che con voi posso stare tranquilla.”
“Ottima decisione. Degna di una non-Parrish!” rispondo, alludendo all’ereditaria avversione per il proprio cognome nella nostra famiglia.
“Se ci cercheranno ancora, forse, non è una buona idea tornare a casa di Peter.” fa notare Sarah.
“Già. Ci trasferiremo a casa mia.” dichiaro.
   
 
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