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Autore: Saelde_und_Ehre    22/05/2019    7 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
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IX.
Zum Nahkampf vom Schicksal erkoren
(parte seconda)


 
 

Friedrich von Kleist non riusciva ancora a credere a ciò che aveva visto: il sottotenente Kühn era riemerso dalla mischia avvicinandosi pericolosamente ai 7TP che risalivano il crinale, aveva lanciato una granata contro uno di essi ed era balzato in copertura prima che l’ordigno deflagrasse.
Subito dopo, un’immane esplosione aveva ridotto il blindato a un ammasso di ferro carbonizzato, intorno al quale avevano preso a danzare lugubri lingue di fiamma.
Per un attimo, il tenente si chiese che effetto dovesse fare trovare la morte dentro una bara di metallo lambita dalle fiamme – una corazza, che nel momento più inaspettato si sarebbe potuta rivelare la più infida e invalicabile delle prigioni. Erano proprio quelli i momenti in cui si rendeva conto che a spingerlo ad arruolarsi nella fanteria non era stato soltanto il suo radicale attaccamento a certi valori, ma anche la convinzione che, al momento dell’estremo sacrificio, avrebbe voluto versare il suo ultimo tributo di sangue alla luce del sole, guardando in faccia il proprio nemico.
“Von Kleist!”
La chiamata di Hans lo distolse da quelle considerazioni. Senza neanche voltarsi, Friedrich vide il maggiore scivolargli al fianco con un fucile in spalla.
“Signore?”
Per tutta risposta, l’altro ricaricò l’arma e gli intimò di fare silenzio. Erano così vicini che le loro spalle si sfioravano, rendendoli partecipi della reciproca presenza. Si trovavano a ridosso delle prime linee, in un posto relativamente protetto – il fulcro degli scontri si era per il momento spostato altrove, permettendo a loro e ai soldati asserragliati lì intorno di riprendere fiato – e per un po’ rimasero a osservare l’avanguardia nemica senza proferire motto: tutto procedeva secondo le loro previsioni.
Il braccio di un cannone sbucò al di sopra delle teste dei soldati. Il blindato tentò una manovra, i cingoli annasparono sferragliando nel fango, un obice lo colpì di striscio al fianco scalfendone la corazzatura. Imperterrito, con movimenti solenni e misurati, il mezzo proseguì fino ad assestarsi sulla spianata. Friedrich trattenne il fiato: il cannone brandeggiò fino a prendere di mira la postazione dietro la quale lui e il maggiore si erano riparati, spazzando la vegetazione con una raffica di mitragliatrice.
“Via!” latrò. Con prontezza, afferrò Hans per la giubba dell’uniforme e lo spinse via, poco prima che il proiettile si abbattesse contro i sacchi di sabbia sventrandoli e sparpagliando per terra tutto il loro contenuto. I due ufficiali si allontanarono di corsa, inseguiti a distanza ravvicinata da una tempesta di traccianti.
“Attento!” Impegnato a tenere d’occhio la torretta del 7TP, Friedrich si sentì agguantare da un paio di mani forti e scaraventare di schiena contro la parete di un cratere, per poi avvertire su di sé tutto il peso del corpo di Hans che gli si era buttato addosso. Cercò di trattenere il fiato, ma non riuscì a resistere al naturale istinto di stringerlo a sé, per proteggerlo a sua volta.
Senza alcuna copertura se non quella dell’erba alta che circondava la buca, rimasero entrambi immobili, i respiri affannati, consapevoli che in quel momento stavano sul serio rischiando la vita.
I proiettili della mitragliatrice sferzarono l’aria avanti e indietro, così vicini da fargli stringere i denti e rizzare i capelli sulla nuca, poi una cannonata sollevò un geyser di terra e detriti. Nessuno dei due osò muovere un muscolo, ma la presa del maggiore intorno alla sua giacca si fece convulsa.
Le raffiche si acquietarono di colpo, all’improvviso, anche se il rumore dei cingoli continuava a sovrapporsi al rombo del motore. Con la coda dell’occhio, Friedrich si accorse che la torretta del cannone era stata sfondata da un grosso calibro: solo allora rilassò appena la tensione delle braccia, e Hans smise di gravargli addosso concedendogli di tornare a respirare.
Senza tradire i propri movimenti, ispezionò con rapidità i dintorni e sobbalzò: un paio di fanti erano strisciati dietro un albero, dirigendo il tiro verso di loro. Dovevano essersi accorti che erano ancora vivi.
“Signor maggiore, dietro di lei!”
Al grido soffocato del tenente, Bühler si tirò su con uno scatto fulmineo, parandoglisi davanti con la pistola in pugno; Friedrich si risollevò a sua volta e ricaricò la propria, pronto a coprirgli le spalle. Riuscì soltanto a sentire due colpi secchi, in rapida successione, poi Hans abbassò l’arma e si volse nuovamente verso di lui con apprensione. “Friedrich, tutto bene?” sussurrò.
Il tenente aggrottò le sopracciglia. “Sì, e tu?”
“Ho perso il fucile. Devo procurarmi un’altra arma adatta alla mischia…” Si guardò intorno e individuò nel fango un mitra abbandonato dai polacchi. “Venga con me, tenente.”

Si avvicinarono con cautela ai due soldati colpiti: uno giaceva rannicchiato e tremante contro il tronco dell’albero, con una macchia di sangue che gli imbrattava l’uniforme verde oliva; l’altro, che dalle mostrine sembrava un sottufficiale, era raggomitolato per terra e non dava alcun segno di vita.
Quando si accorse della loro presenza, il primo dei due alzò le mani in segno di resa e indicò il commilitone, cercando di far capire loro a gesti che era ferito e bisognoso di assistenza.
Bühler affidò entrambi i prigionieri alle cure dei medici tedeschi e si volse verso il suo aiutante. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma in quel momento una voce conosciuta costrinse entrambi a voltarsi simultaneamente nella stessa direzione.
“Dov’è il maggiore?”
Friedrich allungò il collo e vide il sottotenente Kühn coi capelli arruffati e il volto sporco di fuliggine, che trascinava a spalle un soldato ferito. Distinse soltanto un ciuffo biondo cenere, sporco di sangue rappreso, le braccia che penzolavano inerti e le spalline bianche da ufficiale. Subito fu colto da un cattivo presentimento, e altrettanto rapidamente ne ricevette conferma.
Hans, che doveva esser giunto alla stessa conclusione, andò incontro al giovane ufficiale. “Sottotenente, che cosa è successo?”
“Signor maggiore, il capitano Fromm è ferito!”
“Lo conduca al posto di medicazione,” gli ordinò l’altro. Rimase a guardarlo mentre aiutava due soccorritori, appena giunti sul posto, a caricare il ferito su una barella, poi tornò a rivolgersi al suo compagno. “Von Kleist, le affido il comando della compagnia. Raggiunga il sottotenente Kühn, qui ci penso io.”
Friedrich lanciò uno sguardo apprensivo in direzione del capitano, poi guardò Hans e annuì. “Sissignore.”

Sospinto dal vento del tardo pomeriggio, il fumo si dissipò, rivelando alla vista un campo disseminato di morti, feriti e prigionieri. Con un sospiro, il capitano Bentheim si tolse il berretto e si passò una mano tra i capelli scuri: la cruenta battaglia era terminata, spianando la strada all’inesorabile avanzata dell’esercito tedesco, e anche quel giorno il loro contributo si era rivelato fondamentale. Dal brulicare di figure che intravedeva sul pendio, il giovane dedusse che anche le altre tre compagnie stavano rompendo le righe per rimettersi in marcia. Alle sue spalle poteva sentire gli ordini degli addetti alla logistica che smistavano armamenti e prigionieri, mentre i comandanti di plotone facevano salire le truppe sui camion. Dopo aver sconfitto la fanteria che si erano mossi per intercettare, Konrad aveva deciso di proseguire con l’accerchiamento per impegnare le truppe corazzate su due fronti convergenti: una scelta che aveva costretto i pochi mezzi e la fanteria superstite a una frettolosa ritirata al di là della linea del fronte, prima ancora che l’azzurro del cielo si caricasse di tonalità pastello e il globo evanescente della luna facesse capolino al di sopra del bosco.
Anche se i soldati del battaglione erano di buonumore per la lunga serie di successi di cui si erano resi artefici, lui era uno dei pochi, insieme al maggiore Bühler, a pensare che la vera vittoria – quella definitiva – fosse ancora lontana.

Dopo cena, gli ufficiali avevano preso la consuetudine di attardarsi a gruppetti sulla terrazza della caserma, per chiacchierare e godersi il fresco di quelle sere di fine estate: era l’unico momento della giornata in cui si potevano mettere da parte le formalità e riscoprire i vecchi cameratismi.
Friedrich e Konrad, appena tornati dall’infermeria in cui era ricoverato il capitano Fromm, uscirono alla ricerca dei loro compagni e individuarono la testa castana di Hans, che dava loro le spalle e teneva i gomiti appoggiati alla balaustra, immerso nella contemplazione del paesaggio sottostante. Ai due lati del maggiore, il capitano Walkenhorst e il capitano Schwieger fumavano le loro sigarette e parlavano.
Senza intromettersi nella conversazione, Friedrich si affacciò a guardare nella stessa direzione che catturava l’attenzione del suo compagno: cielo e terra si confondevano in una distesa nero pece, in cui la falce della luna e le stelle sembravano ardere di un lume smorto. A terra, invece, era stranamente buio, come se tutti i lampioni e le luci delle abitazioni fossero spenti. Solo ogni tanto, come un fuoco fatuo, una luce isolata fendeva l’oscurità, per poi scomparire subito dopo dando l’illusione di non essersi mai accesa. Il sordo fragore dell’artiglieria pesante, che operava senza sosta nelle retrovie turbando il silenzio della notte, faceva pensare a un temporale senza pioggia né fulmini.
“Allora, alla fine che ti ha detto von Rauheneck?” chiese Schwieger, rivolto al maggiore.
“Forse non ci crederete, ma è soddisfatto dei risultati che abbiamo riportato sul campo.”
Gli altri lo fissarono con tanto d’occhi; Walkenhorst, incredulo, scoppiò a ridere. “Sul serio?”
Senza scomporsi, Bühler si strinse nelle spalle. “Era a conoscenza di ogni singola fase delle operazioni prima ancora che gliene facessi rapporto. A volte mi chiedo come faccia.”
“Far parte dello Stato Maggiore del comando di Divisione ha i suoi vantaggi, a quanto pare”, osservò Bentheim. “Avrà informatori ovunque.”
Von Kleist sollevò un sopracciglio. “Ma se sapeva già tutto e non aveva da contestarci nulla, perché ti ha tenuto per un’ora nel suo ufficio?”
“Sai com’è,” rispose il maggiore, in tono allusivo. “Parla, parla…” E mentre lo diceva, alzò gli occhi al cielo e mimò il gesto di puntarsi la pistola alla tempia, come faceva sempre quando voleva ironizzare su qualcosa che lo spazientiva. Si voltò per cercare lo sguardo di Friedrich, e quel gesto strappò al giovane un leggero sorriso.
“Guardate il lato positivo, ragazzi,” disse Schwieger dopo un paio di minuti di silenzio, schiacciando nel posacenere il mozzicone ormai esaurito. “Quando avremo finito qui, ce ne torneremo per un po’ a casa dalle nostre famiglie e magari ci berremo una birra tutti insieme, ripensando a questa vittoria come…”
“Non è ancora detta l’ultima parola,” obiettò il maggiore. “Credere nella vittoria non significa averla già in pugno.”
“Sì, certo. Ma se gli uomini trovano nelle parole e negli atti dei loro comandanti una sincera speranza, sono portati a combattere con più ardore.”
“Qui però non siamo nelle SA, a combattere per le strade: non bastano l’ardore o la fiducia nella causa per determinare le sorti di una battaglia, Günther, e lo sai bene.”
“Tu hai mai combattuto per le strade, Hans?” lo punzecchiò Schwieger, veterano delle squadre d’assalto che sfoggiava il distintivo Alte Kämpfer sulla manica destra dell’uniforme. Spense la sigaretta schiacciandola nel posacenere e lo fissò, inarcando le sopracciglia. La conoscenza reciproca, maturata in anni di battibecchi amichevoli quando erano ancora parigrado, lo portava a prendersi un’inusuale confidenza con lui. “A diciannove anni, quando tu andavi alla scuola militare, io ero già una camicia bruna. C’ero anch’io ad Amburgo, ai tempi della Domenica di Sangue: i comunisti uccisero un mio camerata, io sparai a uno di loro per difenderlo e trascorsi i mesi successivi con la paura di beccarmi una pallottola nella schiena mentre tornavo a casa dal lavoro. A quei tempi era la motivazione ad animare le masse popolari: se non ci fosse stata quella, forse adesso non saremmo qui.”
Bühler strinse gli occhi, poi alzò le spalle. “Abbiamo metodi diversi”, concesse, impassibile. “Ma devi riconoscere che, in un esercito, si va poco lontano senza una buona strategia a monte. E soprattutto, senza una visione obiettiva delle cose.”
“E tu devi riconoscere che, se le truppe sono demoralizzate e non credono in ciò per cui combattono, la tua strategia rischia di rivelarsi un colossale buco nell’acqua. Secondo te, Hans, cos’è che rende così forte il nostro esercito?”
“L’ho detto e lo ribadisco: la determinazione degli uomini è importante, ma se gli ufficiali sono degli incompetenti senza spina dorsale che campano di illusioni, l’esercito rischia di diventare un’orda di sbandati.”
Günther rimase in silenzio, per ponderare le parole dell’amico, poi gli poggiò una mano sulla spalla. “Su questo, almeno, ci troviamo d’accordo,” concluse, con un sorriso bonario.

Friedrich, una cartelletta di documenti sottobraccio, si fermò per un istante a guardare fuori dalla finestra: era ormai tarda sera, ma Hans era ancora seduto alla scrivania a firmare e compilare rapporti da inviare al comando di Divisione. Lanciò un’ultima occhiata di sfuggita al piazzale deserto e ai camion parcheggiati lungo il perimetro delle mura, poi bussò alla porta dell’ufficio ed entrò, posando la cartella sulla scrivania.
Bühler alzò appena la testa, senza staccare la penna dal foglio. “Non ti preoccupare, Friedrich, faccio da solo.”
“Figurati, lo faccio volentieri”, replicò l’altro. In qualità di aiutante di campo, assistere il maggiore anche durante le mansioni d’ufficio rientrava nei suoi specifici compiti, e quei momenti erano un’occasione per trascorrere del tempo insieme. Anche se si trattava pur sempre di incombenze lavorative, quando erano da soli potevano gettare le maschere – o meglio, mettere formalmente da parte gradi e gerarchie – e riprendere i loro rapporti di familiare scioltezza.
Hans sollevò un sopracciglio, ma non disse nulla. Diede una rapida scorsa a un altro foglio, vi appose la propria firma e lo mise da parte, riponendolo nell’apposita cartella.
“Naturalmente,” puntualizzò Friedrich con una tiepida risata, “non lo faccio perché mi piaccia sgobbare qua e là per sistemare scartoffie.”
“Se così fosse, probabilmente dovrei sentirmi offeso,” replicò il maggiore, sullo stesso tono. “Ma se vuoi andare a dormire, vai pure. Ne avrò ancora per molto.”
“Anche tu dovrai andare a dormire, prima o poi. Non sei fatto di ferro.”
“Da quando sono qui al fronte, sono abituato a fare le ore piccole per compilare rapporti. Tu, piuttosto, dovresti riposare: adesso spetta a te l’onere di comandare la compagnia di Fromm, e non saranno l’orgoglio o la testardaggine a tenerti sveglio quando sarai troppo stanco.”
Von Kleist non si mosse, determinato a ignorare la provocazione. Rimase in piedi di fronte a lui, immobile, poi fece un passo avanti e batté i palmi delle mani sul piano della scrivania, inducendolo ad alzare lo sguardo. “Sono forse ordini del maggiore?” lo stuzzicò, con un luccichio impertinente negli occhi chiari.
Bühler emise un sospiro sconfitto, scrollò le spalle e gli indicò una sedia nell’angolo vicino alla finestra, di poco discosta dalla scrivania. “Mettiti a sedere, forza.”
Mentre Hans tornava a occuparsi dei documenti, il tenente notò che l’unica significativa aggiunta apportata in quello spartano ufficio era una cartina della Germania – comprese le terre che le erano state sottratte col trattato di Versailles – appesa al muro. Sulla sedia c’era una vecchia copia ingiallita e consunta del romanzo Heinrich von Ofterdingen, che Hans stava probabilmente rileggendo. Friedrich se la poggiò sulle ginocchia, aprendola lì dove Hans aveva lasciato il segno, e gli occhi gli ricaddero su una frase. La lesse ad alta voce: “C’è una sola causa del male – la generale debolezza, e questa debolezza non è altro che ristretta sensibilità morale e mancanza di desiderio per la libertà.”
“Sacrosanto”, osservò il maggiore, firmando l’ennesimo documento per poi metterlo da parte. “Anche se, a queste due cose, aggiungerei la mancanza di senso del dovere.”
Von Kleist richiuse il libro con un tonfo. “Dovere e morale sono inscindibili – o almeno, dovrebbero esserlo,” replicò. “E a essi è soggetta la libertà, che non sta nell’agire seguendo le proprie pulsioni egoistiche, ma nell’adoperarsi per un fine come se fosse un dovere inderogabile: non perché sia frutto di un’imposizione, bensì come un imperativo mosso da volontà e ragione. Questo è il senso di tutto: la legge morale è universale, ma il dovere va interiorizzato.”
“Sai a cosa mi riferisco, Friedrich”, disse Bühler, con un sospiro. Lasciò ricadere la penna, si abbandonò contro lo schienale della sedia e si voltò verso di lui. “Non puoi pretendere di spiegare certe cose a chi non ha la vocazione del soldato. In tempo di guerra esistono solo gli ordini, e tutti – nessuno escluso – sono tenuti a seguirli: ne converrai che, se questa semplicissima massima viene meno, il funzionamento di un reparto rischia di venire compromesso irrimediabilmente.”
Il tenente annuì, scrutandolo con espressione critica: non gli era sfuggita la sfumatura nervosa che distorceva la sua voce, né l’inusuale fretta con cui aveva liquidato quel discorso, che entrava in contraddizione col piacere che entrambi solevano trarre dal parlare di filosofia, politica, arte e cultura. “Se ne renderanno conto prima o poi, volenti o nolenti. Spetta a noi dare loro l’esempio,” gli ricordò in un sussurro, poggiandogli una mano su una spalla.
Con un gesto all’apparenza casuale, noncurante, le mani si sfiorarono in una fugace carezza e i lineamenti del maggiore parvero rilassarsi, mentre le labbra si piegavano in un leggero sorriso. “Meglio prima che poi.”
Forse, rifletté Friedrich, si riferivano a due sfumature di dovere vagamente differenti, seppur tendenti al medesimo fine. Anche Hans ne era senz’altro consapevole, ma in quel momento le sottigliezze di significato passavano in secondo piano.
Rimasero in silenzio per un tempo imprecisato, assorti nei rispettivi pensieri. Hans allungò la mano che teneva poggiata sullo schienale della sedia per accarezzargli i capelli sulla nuca, nel punto in cui erano tagliati più corti, per poi far scorrere le dita tra le ciocche dorate. D’istinto, Friedrich piegò all’indietro la testa e socchiuse gli occhi per meglio assaporare quel contatto.
Quando li riaprì, volgendo verso di lui uno sguardo ardente, colse nelle sue iridi il consueto luccichio di bronzo fuso. Nonostante l’elettricità che li pervadeva, il pensiero costante era non adesso: adesso si dovevano mantenere le distanze, moderare i gesti e le parole, non si doveva compromettere nulla per un capriccio personale. Tutto, perfino i loro sentimenti, era subordinato all’obiettivo finale.
Fuori si iniziava già a udire lo scalpiccio degli ufficiali che si dirigevano verso i loro alloggi, ogni tanto una voce o una risata sommessa. Friedrich gettò uno sguardo all’orologio appeso alla parete, sospirò e fece per alzarsi. “Sarà meglio che vada, si sta facendo tardi,” disse, riprendendo la solita attitudine marziale. Si rimise il berretto, poi si fermò di fronte alla scrivania del maggiore e guardò ancora una volta i fogli sparpagliati. “E se fossi in te, riposerei almeno un paio d’ore. Ricorda che anche domani ci aspetta un’altra giornata di marce forzate.”
Hans annuì. “Grazie per avermi fatto compagnia, Friedrich. Va’ pure a dormire, e non preoccuparti per me: il tempo di smaltire le comunicazioni importanti, poi andrò a letto anch’io.”
Entrambi sapevano che non era vero, ma nessuno dei due proferì parola a riguardo. Si salutarono senza smancerie, dandosi appuntamento per il giorno successivo.

  
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