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Autore: crazy lion    13/06/2019    4 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
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CAPITOLO 107.
 
CONFESSIONE, DISCUSSIONE E PICCOLI PASSI AVANTI
 
Era domenica, la febbre era passata due giorni prima e Mackenzie stava recuperando le forze. Si sentiva ancora molto stanca ma sapeva di non poter perdere altri giorni di scuola, anche perché si era resa conto che stando a casa recuperare era difficile. Elizabeth le diceva quali compiti erano stati assegnati e non solo, le portava delle fotocopie che le maestre avevano dato e le spiegava cos'avevano fatto a scuola, col risultato che la bambina passava pomeriggi interi a scrivere e a fare esercizi mentre la sua amica, accanto a lei, faceva di tutto perché fosse in pari. Lavoravano gomito a gomito svolgendo i compiti per casa insieme e formavano una squadra perfetta.
Elizabeth era venuta lì anche quel giorno con la mamma e le bambine stavano facendo gli esercizi di inglese e matematica per lunedì.
"Come va?" chiese Mary a Demi.
"Sta meglio, grazie."
"No, io vorrei sapere come ti senti tu. Sembri stanca."
"Lo sono. In questi giorni ho lavorato dalle otto di mattina fino alle sette di sera, mia mamma stava con Mac qui a casa e Andrew andava a prendere Hope all'asilo, la portava al lavoo finché terminava e poi tornavano a casa. Non c'era altro modo. Io non potevo uscire, stiamo correndo come dei matti perché il documentario è lungo e complesso, ci sono un sacco di cose da dire, i video da montare, tante persone a cui porre domande e soprattutto molte emozioni differenti da vivere, per me ma non solo. Io lavoro part-time da quando ci sono le piccole, ma i giorni scorsi onn è stato proprio possibile."
"Sì, posso solo immaginare quanto quel documentario sia stancante emotivamente."
"Ma è anhe bello, alla fine. Sto tirando fuori cose che all'inizio fanno male, poi passano le ore e mi dico:
"Adesso mi sento più leggera."
Con l'album c'è sempre qualche imprevisto: il microfono che non va, problemi con gli strumenti… E voi? Voi come state?" chiese, non volendo parlare solo di se stessa e temendo di stancare l'amica.
"Noi due?" domandò Mary a sua volta e si indicò il ventre.
"Esatto."
"A parte le nausee stiamo bene. Aspetta." Prese il cellulare, sbloccò lo schermo e le mostrò una foto. "L'ha fatta Jayden. Non so quanto si veda, ma comunque…" Inddicò un puntino al centro. "È lui!" esclamò eccitata. "Ho fatto la prima ecografia venerdì. Quando te l'ho detto ero al secondo mese e ci rimarrò ancora per un po’, fino alla tredicesima, cioè l’inizio di dicembre."
“Non ci capisco niente fra mesi e settimane. Si chiede:
“Di quanti mesi sei?”,
ma poi le donne in gravidanza e i medici contano le settimane.”
Demetria si lasciò andare ad un lamento di frustrazione ma, anche se non lo disse, nel più profondo del suo cuore sperava di poter fare lei stessa quei calcoli difficili un giorno, quando magari con Andrew… Appunto, magari. Forse. O forse non sarebbe mai rimasta incinta. La verità era che, pur amando le sue figlie più della propria vita, la sterilità l’avrebbe fatta sempre sentire incompleta. Non sbagliata, non più almeno, ma come se le mancasse qualcosa, ecco.
“Dem, mi stai ascoltando?”
Mary le agitava una mano davanti agli occhi da chissà quanto e lei non se n’era nemmeno resa conto.
“No, scusa. Mi ero immersa nei pensieri e… Dicevi?”
"Ti stavo spiegando che il calcolo delle settimane di gestazione è un po' complesso, bisogna farci l'abitudine. Siccome la data del concepimento non è mai del tutto sicura, i ginecologi calcolano l'inizio della gravidanza dal primo giorno dell'ultima mestruazione."
"Wow. Cioè, un bel casino! Se succederà a me non so come farò. Non sono mai stata brava in matematica."
Le due risero, ma la prima aveva fatto quella battuta per cercare di non sentire l’acuta fitta di dolore che quel “se succederà a me” le aveva provocato. Si diede dell’idiota per averlo detto.
"Comunque la ginecologa mi ha già detto la data presunta. Ovvio che potrebbe nascere qualche giorno prima o dopo, non c'è mai nulla di esatto e, comunque, ne saprò di più in seguito."
"E sarebbe?"
"Il 10 giugno. Sai, quando sono uscita dalla clinica la prima volta, pensavo che non ci sarei tornata più. Mi sentivo meglio, forte. Arrivata a casa, però, ho ricominciato a sentire quelle voci nella mia testa che mi dicevano che ero grassa, brutta e che non valevo niente. I miei non litigavano più, ma si vedeva che lo facevano solo per me, per farmi stabilità e che altrimenti, fosse stato per loro, si sarebbero scannati ogni volta. Una sera siamo usciti a cena tutti e tre insieme. Io ho cercato di mangiare normalmente, non troppo in fretta e di non abbuffarmi. Ho dovuto aggrapparmi al tavolo con tutte le mie forze per non correre in bagno a vomitare poco dopo e ce l'ho fatta, ho resistito."
"Dio Mary, è meraviglioso!" esclamò Demi mentre il suo viso si apriva in un largo sorriso, poi la abbracciò.
L’altra ricambiò. La sua stretta era meno decisa, ma ugualmente affettuosa.
"Sì, ma poi una volta a casa i miei hanno iniziato a litigare, sono scoppiati. Si davano reciprocamente la colpa di tutto, dei miei problemi, del fatto che negli ultimi anni non avevano avuto un matrimonio felice e dicevano di averlo portato avanti solo perché c'ero io. Sentirli urlare mi ha fatta ricadere pian piano in quel tunnel. All'inizio non mi rendevo nemmeno conto di abbuffarmi e vomitare, lo facevo e basta. Era diventato automatico, come lo era stato prima; dopo qualche giorno mia mamma se n'è accorta. E allora via dal medico, poi in ospedale e dopo di nuovo in clinica. È stato orribile, mi sembrava di non aver fatto nessun passo avanti e anzi, di essere tornata più indietro di prima. Quando sono uscita, due mesi dopo, ho cercato di ritrovare un po' di equilibrio. Ti sei mai chiesta perché, solo due anni dopo essere tornata a casa, sono rimasta incinta? Insomma ero giovane, ero guarita da poco."
"Non sta a me giudicarti, tesoro. Non lo farei mai."
"No, lo so. Solo, ti sei mai domandata perché così presto?"
"Da quando ti ho rivista sì, ma non ti avrei mai fatto questa domanda. Devi essere tu a parlarmene, se te la senti. Tuttavia, non so se adesso sia il momento adatto, questi giorni sono stati difficili per tutti" rifletté Demi con dolcezza.
"No, voglio farlo. Mi aiuta a distrarmi, almeno per un po' non penserò a tutto quelllo che dovremo affrontare."
"Ti ascolto, allora."
Mary raccontò di aver conosciuto Jayden qualche mese dopo essere tornata a casa. Era un cliente di un bar dove lei aveva iniziato ad andare tutte le mattine a fare colazione. Uscire, prendere un po' diaria fresca e poi mangiare qualcosa, anziché restare sempre in casa, spesso sola dato che i genitori lavoravano, la faceva sentire meglio. Il suo umore stava migliorando, anche se non era ancora il momento di smettere con gli antidepressivi, sia a detta sua che dello psichiatra che la seguiva. I primi tempi lei e Jayden si erano semplicemente visti e salutati con la mano, lui le aveva sorriso ma spesso lei non aveva ricambiato. Non vedeva un motivo per il quale sorridere, soprattutto ad una persona che non conosceva. Certo avrebbe dovuto farlo per cortesia, ma per quanto fosse brutto da dire, non ne aveva voglia. E poi non ce la faceva proprio a sorridere in quel periodo. A volte sì, ma la mamma le diceva che il sorriso non le arrivava agli occhi, era spento. “Io non mi arrabbiavo per questa sua constatazione” continuò, “anzi le davo ragione. A volte mi sforzavo di sorridere per mia nonna, per esempio, che era anziana e ogni volta che mi vedeva, sapendo quanto stavo male, piangeva. Non sopportavo di vederla così, per cui sorridevo e le dicevo che stavo molto meglio.”
Un giorno, però, si era sentita sola. Si sedeva su un tavolino in fondo al locale, ma quella mattina aveva provato un opprimente senso di soffocamento. Non conoscendo altri che lui, gli aveva chiesto se avrebbe potuto accomodarsi al suo tavolo e il ragazzo aveva accettato. Le loro prime conversazioni avevano riguardato il tempo, alcune notizie sul giornale e poco altro, poi avevano iniziato a conoscersi meglio. Beh, a dire il vero era stato Jayden a parlare, lei l’aveva fatto poco perché temeva che, se gli avesse raccontato i suoi problemi, lui sarebbe scappato e poi non voleva turbare una persona che non conosceva bene. Col tempo si erano aperti sempre di più e avevano cominciato a vedersi anche fuori da quel bar, benché solo come amici, o una cosa del genere. Mary non usciva sempre con lui, spesso non ne aveva voglia e declinava gli inviti, oppure lo invitava a casa sua per stare più tranquilla e diceva ai genitori che era, appunto, un amico. Avevano scoperto di avere molte cose in comune: entrambi amavano la lettura anche se Mary preferiva i romanzi d’amore e lui quelli d’avventura, adoravano gli animali e in particolare i cani, il genere di musica che preferivano era il rock… Lui era sempre molto gentile e simpatico, riusciva a farla ridere, a farla ridere davvero, con qualche battuta o barzelletta divertente, ma non esagerava mai. Sapeva quand’era il momento di scherzare e quando, invece, bisognava parlare di argomenti più personali o seri.
"E quando gli hai raccontato come stavi?" le domandò Demi.
"Dopo sei mesi circa. Gli ho detto tutto, pian piano, spiegandogli ogni mio problema, tutte le emozioni e le sensazioni che provavo e avevo provato durante il mio percorso fino a quel momento. E lui mi ha detto…” Mary ebbe un singulto. “Mi ha detto che sua sorella aveva avuto lo stesso problema, anni prima. Anche lei era stata bulimica e aveva sofferto di depressione."
"Cazzo."
"Già, cazzo. Non me l'aspettavo nemmeno io. Insomma, lui mi capiva. E aveva notato delle cose mentre ci frequentavamo: il fatto che mi aggrappavo al tavolo dopo aver mangiato, che mi sforzavo di andare piano mentre mi nutrivo, insomma mi ha detto che aveva capito, più o meno, o meglio aveva avuto il sospetto che fosse così. Non mi aveva detto niente perché aspettava che fossi io a raccontargli tutto, perché sapeva quanto è difficile parlare di cose del genere e aveva voluto darmi i miei tempi.”
“Molto gentile e rispettoso da parte sua!” osservò Demi.
“Già. Io allora mi sono messa a piangere e l'ho abbracciato. Ho provato un sollievo enorme! Credevo che non avrebbe compreso, che se ne sarebbe andato e invece…" Mary rimase senza fiato per qualche secondo, poi riprese: "Ci siamo messi insieme quasi un anno dopo - undici mesi per la precisione -, quando io ne avevo quasi ventuno e lui ventitré. Siamo andati molto, molto piano. Ci siamo presi i nostri tempi; insomma, una persona che è uscita da poco da una clinica per curare i suoi disturbi fa fatica a fare amicizia, figuriamoci se pensa di fidanzarsi! L'ho presentato ai miei come fidanzato dopo un mesetto, lui ha fatto lo stesso con i suoi. Io stavo sempre meglio, ho smesso di prendere gli antidepressivi proprio in quel periodo ma so che non è stato solo grazie a Jayden e alla sua vicinanza, bensì soprattutto grazie alla mia forza di volontà. Comunque, poco dopo averlo presentato ai miei, lo stesso mese, io e lui abbiamo fatto l’amore. Lo volevamo entrambi, però era presto. Allora non ce ne rendevamo conto, pensavamo che in fondo ci conoscevamo da parecchio tempo ed eravamo pronti, ma parlandone in seguito ci siamo resi conto che pur amandoci molto e con tutti noi stessi avremmo dovuto aspettare di più, vedere la nostra relazione crescere prima di fare quel passo.”
“Come abbiamo fatto io ed Andrew, insomma” mormorò Demi.
Mary le strizzò l’occhio.
“Quindi avete…”
L’altra annuì, un po’ in imbarazzo: non era abituata a parlare di cose del genere con altre persone che non fossero il partner.
“Quando, se posso sapere?”
Non avrebbe mai voluto metterla in difficoltà.
“Quando siamo andati al lago Tahoe, la settimana scorsa. È stato fantastico!” esclamò con un sorriso radioso che le illuminò il viso. “Ma stavamo parlando ancora di te. Continua.”
Mary ritornò seria.
"Lui aveva il preservativo. Pensavo che non l'avrei mai fatto se non avesse avuto le protezioni. Solo che si è rotto e, da stupida, anche se questo andava contro ciò che ho appena detto, ho creduto che per una volta non sarebbe successo nulla, che non sarei rimasta incinta. Non ho nemmeno parlato con Jayden di questa cosa tanto ero sicura e lui non ha detto niente. Alcune settimane dopo ho cominciato ad avere le nausee, poi non sopportavo più il caffè, e alla fine mi sono decisa a fare le analisi. Ero incinta. Ero terrorizzata, non sapevo come i miei avrebbero reagito, cos'avrebbe detto Jayden, ma non ho pensato nemmeno per un momento di non tenere Elizabeth. Mi vergogno così tanto che con questo piccolino sia stato il contrario! Io lo amo più di me stessa!"
Detto questo scoppiò a piangere, coprendosi il viso e la bocca con le mani anche per non far sentire i singhiozzi alle bambine che giocavano al piano di sopra.
Demi lasciò che si sfogasse, sapeva anche troppo bene quant'è importante piangere e buttare fuori tutto quello che abbiamo dentro, soprattutto in momenti di grande tristezza, tensione o confusione. Sapeva che a volte le parole di conforto, gli abbracci, i baci, le carezze di affetto non bastano, che in certi casi l'altra persona non può fare nulla se non rimanere lì accanto e stare in silenzio, rispettando i sentimenti e i tempi di colei o colui che sta soffrendo. Le faceva malissimo vederla così, non poter fare niente per aiutarla, ma già il fatto che fosse lì per Mary contava moltissimo, perché almeno non era sola.
"Anche lui ti ama" mormorò la ragazza dopo un po', appoggiando la mano sopra il ventre di Mary che aveva appena tolto la sua. "Ti ama moltissimo e sa che lo fai anche tu."
"Davvero?" le chiese l'altra, con una voce che assomigliava più a quella di una bambina impaurita che a quella di una donna.
"Davvero."
Mary tirò su col naso e iniziò ad inspirare ed espirare finché non si fu calmata un poco.
"Per fartela breve" concluse, "Jayden all'inizio è rimasto quanto me, ma abbiamo deciso entrambi di tenere il bambino. Abbiamo invitato i nostri genitori al ristorante e ad un certo punto, durante la cena, abbiamo dato a tutti un pacchetto con due scarpine rosa e due azzurre. Mia mamma e quella del mio ragazzo sono scoppiate a piangere, mentre i nostri padri hanno avuto una reazione molto diversa. Non hanno più per parlato tutta la sera e ad un certo punto il mio è uscito e non si è fatto vedere per diversi minuti. Il giorno dopo ne abbiamo parlato tutti insieme e loro due hanno detto di essere molto preoccupati per noi. Alla fine io non avevo niente in mano: non studiavo perché ero rimasta a casa al fine di riprendermi e non lavoravo. Lui invece aveva un lavoro ma non guadagnava moltissimo. Non vivevamo insieme e non avevamo una casa nostra. Anche le nostre mamme erano in ansia per noi, però la felicità era il sentimento più forte che provavano in quel momento. O almeno questo era ciò che mostravano, ora che sono mamma capisco che la loro preoccupazione doveva essere tantissima e che forse non ce l'hanno detto per non farci stare in pena. Volevo dare a mio figlio il futuro migliore possibile. Avevo iniziato l'università studiando lingue, ma poi mi sono resa conto che studiare e lavorare - nel frattempo avevo trovato un lavoro come commessa - era per me troppo stancante e difficile, soprattutto vista la gravidanza. Molte ce  la fanno, io purtroppo pur con tutta la buona volontà non ci sono riuscita. Vomitavo prima degli esami, stavo male, mi veniva la febbre anche dopo averli sostenuti, non sai quante volte ho studiato stando di merda. Insomma, alla fine il mio medico e il mio ginecologo mi hanno vivamente sconsigliato di continuare e di riposarmi. I miei, pur vedendo come stavo, credevano fosse solo ansia e che mi sarebbe passata, ma alla fine io ho mollato. Ho continuato a lavorare e mi sedevo ogni volta che ne avevo l'occasione, anche perché i miei datori di lavoro sapevano come mi sentivo e che essendo incinta avevo bisogno di sedermi ogni tanto. Con i soldi che i nostri genitori ci avevano messo da parte negli anni e con le nostre paghe siamo riusciti a prendere in affitto un appartamento, ed è lì che è nata Elizabeth un paio di mesi dopo, il 19 dicembre. È stato difficile, sì, molto difficile, ma ce l'abbiamo fatta. Qualche anno più tardi abbiamo avuto abbastanza denaro per comprarci una casetta, infatti non è molto grande ma ci stiamo bene. I nostri genitori ci hanno dato una mano, mi volevano regalare una delle loro auto per esempio ma io gliel'ho pagata, non molto però ho voluto farlo. Mi sembrava giusto. Il più l'abbiamo fatto io e Jayden con le nostre forze. Lui faceva il pizzaiolo in una pizzeria molto frequentata qui a Los Angeles ed era bravissimo, anzi lo è, quindi la paga era piuttosto alta anche se non abbiamo mai avuto moltissimi soldi. Non ci è mai mancato il pane, ad ogni modo. Non è stato semplice, comunque. E adesso che è stato licenziato è ancora più complicato. Anche se Elizabeth è arrivata molto presto, averla è stata la cosa più bella della mia vita. Ho mantenuto un'alimentazione il più sana possibile durante tutta la gravidanza, ma mi ci è voluto qualche altro anno per uscire definitivamente dal mio problema alimentare… anche se non se ne esce mai del tutto. A volte non le senti le voci che ti dicono di non mangiare o di abbuffarti?"
"Sì,” rispose l’altra sospirando, “ma cerco di ignorarle, di pensare che me lo sono sognato o cose del genere. Non ci voglio ricadere."
"Già, nemmeno io. Una volta era più difficile mandarle via, poi con il passare degli anni è diventato più facile. Aver avuto la mia bambina in quel periodo mi ha aiutata, comunque. Ad avere più rispetto per me stessa, per il mio corpo, per la mia vita e a capire che dovevo farlo prima di tutto per me ma non solo, che avevo un'altra vita da proteggere. Ovviamente sono stata seguita da una nutrizionista, da una psicologa e da una psicoterapeuta per anni, anzi dalla seconda ci vado ancora. Diventare mamma ti fa crescere e ti fa capire tante cose. Ti fa diventare più grande, più donna."
Demi annuì. La capiva ed era completamente d'accordo.
Una volta terminato il racconto, ormai stanca di parlare, Mary si appoggiò allo schienale del divano. Non diceva così tante cose da un sacco di tempo e poi era difficile affrontare certi argomenti. Tuttavia l'aveva fatto volentieri: adesso che aveva ritrovato la sua amica Demi, non voleva che ci fossero segreti fra loro.
"Sei stata molto coraggiosa, Mary. Sia in quel periodo, sia ora a raccontarmelo. Già il fatto che tu non abbia avuto nessun dubbio su tenerla o no vista la tua situazione lo dimostra."
"Non so se si tratti di coraggio o solo dell'amore che provo per lei, ma grazie" rispose con un sorriso. "E tu? Non hai niente da raccontare oggi?"
"Non un granché. Mackenzie si è quasi del tutto ripresa come hai visto, e mi domando cosa succederà nei prossimi giorni. Come andranno le cose a scuola, per esempio, o cosa racconterà alla psicologa domani pomeriggio quando ci andrà. Devo anche finire di organizzarmi per il Battesimo."
"È un periodo stressante per tutti, ma sono sicura che quella sarà una giornata bellissima e molto importante anche per Mac."
"Già. Sai che avevo una compagna alle elementari che si chiamava come te? Eravamo amiche."
"Davvero?" chiese Mary, stupita non tanto di ciò quanto del fatto che Demi avesse avuto due amiche con lo stesso nome.
"Sì. L'ho conosciuta pochi mesi prima di iniziare "Barney And Friends". Mia mamma aveva mandato me e Dallas a scuola, quindi non studiavamo più a casa con il tutor il che era meglio, almeno stavamo con altra gente. E insomma, tra i miei compagni c'era anche lei ed è stata quella con la quale ho più legato."
"Poi che è successo?"
"Quando ho cominciato le registrazioni dello show non ci siamo più viste molto di frequente, finché purtroppo ci siamo proprio perse di vista. Avevamo due vite troppo diverse e orari differenti, quindi…" terminò, mentre il suo tono di voce si abbassava sempre più.
"Mi dispiace" sussurrò l'altra prendendole la mano.
"Tranquilla, evidentementedoveva andare così. Spero solo che abbia trovato qualcun altro di speciale - era così che mi definiva -, qualcuno che le abbia dato qualcosa di simile alla nostra amicizia. Io ho incontrato Selena e te e auguro anche a lei la stessa cosa."
Un pianto catturò la loro attenzione.
"È Hope, vado a prenderla" disse Demi e si avviò di sopra.
Mentre passava davanti alla camera delle bambine sentì Elizabeth ridere e decise di non entrare, lasciandole giocare in pace.
Quando Hope vide entrare la mamma smise subito di piangere.
"Ehi!" mormorò Demi avvicinandosi al lettino e scostando le coperte. "Tranquilla, sono qui."
La prese in braccio e insieme scesero in salotto. Dopo averla cambiata, si sedette con lei sul divano.
"Hai fame?" le chiese, pensando che volesse fare merenda.
"No."
"Capisce tutto, eh?" osservò Mary.
"Già, e parla anche abbastanza bene per la sua età. Sa dire qualche numeroo i nomi degli animali, capisce tutti i comandi che le do e riesce anche a dire frasi semplici."
"Quanto ha adesso? Scusa, forse me l'avevi già detto qualche tempo fa."
"Tranquilla. Quasi ventitré mesi, li farà il 5 dicembre."
"Giochi, mamma?"
Hope la guardava con occhi colmi di speranza. Forse, domandandoglielo quasi in un sussurro, avrebbe detto di sì. Era qualche giorno che lei e la mamma non si divertivano più insieme e la piccola non riusciva a capire perché. Lei era meno dolce, a volte se Hope combinava qualcosa il suo tono si faceva più duro del solito. Era molto diversa; e la bambina, spesso, non la guardava più se lei non lo faceva, incurvava le spalle e giocava con meno entusiasmo, ma di questo Demi non si accorgeva. La piccola avrebbe voluto dirle come si sentiva ma non riusciva perché non sapeva abbastanza parole. Lo faceva con gli occhi, però. Ogni tanto si intristiva ma poi, come tutti i bambini di quell'età, sorrideva dopo un secondo e così, anche se non lo sapeva, la mamma non ce la faceva a comprendere che lei fosse triste e perché.
"No, sono stanca. Scusa" rispose Demi.
La piccola si imbronciò per un secondo. Aveva fatto qualcosa di male? Era per questo che la mamma non voleva giocare con lei? Era stata cattiva?
"Gioco io con te, Hope" si offrì Mary e la piccola ritrovò subito il sorriso.
Dopo un po’ iniziò a lamentarsi e corse in cucina. Le due donne la seguirono e videro che indicava il frigorifero, lamentandosi.
“Cosa voi, Hope?” chiese Demi con dolcezza mentre lo apriva.
La bambina le stava indicando una bottiglia.
“Cosa vuoi bere?” le chiese ancora.
Era ovvio ad entrambe ma, anche se la piccola aveva una mimica molto simpatica e se si faceva benissimo capire a gesti e grazie alle espressioni del viso, la mamma riteneva che fosse molto importante che parlasse e le dicesse cosa desiderava. Molti genitori non lo facevano rendendo per i figli le cose più facili, ma così, almeno secondo lei, commettevano un errore. A volte Hope non riusciva a dirlo e le uscivano suoni senza senso, altre invece pronunciava male una parola, ma l’importante era che ci provasse.
“Succo” disse la piccola indicando per l’ennesima volta la confezione.
“Succo, brava!” esclamò Demi battendo le mani mentre Mary la imitava.
Demetria versò la bevanda per Hope e anche per loro due. Un succo d’arancia ci stava proprio.
 
 
 
Intanto, Mackenzie ed Elizabeth erano in camera a divertirsi. La prima, ancora un po' debole, non ne aveva molta voglia. Tuttavia i bambini in genere la ritrovano in fretta, soprattutto se sono in compagnia come nel loro caso. Sedute sul parquet, avevano una bambola ciascuna e davanti a loro tutto l'occorrente per vestirle e pettinarle.
"Secondo te devo metterle le scarpe rosa o quelle bianche?" chiese Elizabeth, indicando due paia di scarpine piccolissime.
La sua bambola, che considerava molto meno bella di quella dell'amica, si chiamava Karen. Aveva i capelli scuri e lunghi anche se non troppo, che la bimba le aveva raccolto quel giorno in una traccia. Avrebbe voluto tagliarglieli, ma la mamma le aveva spiegato che non sarebbero più ricresciuti e così si era ricreduta. Aveva supplicato i genitori, giorni prima, affinché le prendessero qualche accessorio in più per le sue bambole. Mac ne aveva tantissimi, in confronto ai suoi lei non aveva praticamente nulla. Aveva circa quindici Barbie a casa e ognuna indossava qualcosa, poi qualche altro vestito per cambiarle ma non abbastanza per tutte loro e lo stesso valeva per le scarpe.
Le bianche rispose Mackenzie dopo averci pensato per qualche secondo.
Dopo averle pettinate e sistemate a dovere, le due bambine si immaginarono di farle salire su un'auto che le avrebbe portate in discoteca, ma durante il tragitto decisero che quella non era la soluzione migliore. In fondo, alle piccole la musica alta non piaceva affatto e poi quella da discoteca era sempre fredda, non trasmetteva loro emozzioni, o almeno era stato così le poche volte in cui l'avevano udita. Non che ci fossero mai andate, vista la giovane età, ma qualche volta i genitori avevano detto loro che un dato pezzo sentito in televisione, che faceva parte di qualche programma, era uno di quelli che di solito si ascoltano in discoteca. Optarono quindi per un tranquillo locale in cui un'orchestrina suonava il Walzer e la Mazzurca, sicuramente molto più orecchiabili e allegri. Lizzie e Mac fecero sedere Isabelle e Karen per terra fingendo che fosse un tavolo e la prima ordinò ad un immaginario camerietre due aranciate, due panini e delle patatine, non prima di aver chiesto all'amica se le andasse bene.
Hai scritto qualcosa nel tuo diario in questi giorni? chiese Mac, uscendo momentaneamente dal gioco.
L'altra non ci rimase male, anzi, fu felice di parlarne con qualcuno.
"Sì, ho raccontato quello che è successo e come mi sono sentita, tu?"
Anch'io. E ho paura di tornare a scuola domani.
"Tranquilla, ti starò vicina tutto il tempo."
Le due si sorrisero e Mackenzie fu grata all’amichetta per quella risposta tanto gentile, piena di affetto per lei. Era piccola, ma nonostante avesse sofferto credeva ancora nel "per sempre", per cui si diceva che ci sarebbero sempre state l'una per l'altra e che la loro amicizia sarebbe durata in eterno.
Ma tu non puoi proteggermi da lui, da loro pensò, riferendosi a James e agli altri bulli; ora però le due erano più forti perché le maestre sapevano, e se fosse successo qualcosa avrebbero potuto dirlo loro.
Anch'io non ti lascerò, domani fu la risposta di Mac, poi le bambine si abbracciarono sentendosi non tranquille, ma abbastanza serene e fu proprio per questo che rientrarono nel gioco con facilità.
"Ecco la vostra ordinazione, signorine" disse Elizabeth cambiando un po' la sua voce per farla più grossa, in modo che assomigliasse a quella di un uomo.
Dopo aver ringraziato iniziarono a mangiare. Il cibo era buonissimo.
Ora ne ho davvero voglia, però! si lamentò Mackenzie. Una volta potremmo mangiare tutti insieme e prepararli, opure andare fuori.
"Sarebbe bellissimo!"
A Mackenzie venne in mente che, per rendere l'atmosfera festosa del locale immaginario in cui erano, avrebbero potuto mettere su della vera musica. Mackenzie aveva un piccolo stereo in camera, sopra la scrivania. Si alzò, si avvicinò al tavolo e lo accese. La stazione sulla quale si trovava trasmetteva un programma dedicato alla politica, la seconda il giornale radio.
Uffa! pensarono entrambe. Possibile che quando ascoltiamo la radio non ci sia mai niente di bello?
Proprio quando stavano per spegnere, ecco la canzone perfetta. Elizabeth tirò un piccolo urlo, aggiungendo subito dopo che la mamma adorava quel cantante e che ascoltava così tanto i suoi album che ormai anche lei aveva imparato alcune canzoni a memoria. Disse all'amica che quella parlava di un amore tormentato ma che alla fine i due riuscivano a stare insieme e che Ed raccontava in essa la storia di suo nonno.
Wow, bello! esclamò Mackenzie pensando all'amore tra i suoi genitori adottivi, che con tutto quello che era successo ne avevano passate tante. Allora balliamo, che aspettiamo?
Dimenticandosi delle bambole, le due bambine si ritrovarono al centro della stanza a muoversi a ritmo di musica, fregandosene del fatto che non erano per nulla aggraziate.
 Si scatenarono alzando le mani in aria, facendo una piroetta dopo l'altra e rientrarono di nuovo nel gioco, immaginando di essere le loro bambole. La pista si stava riempiendo di persone che ballavano in coppia o da sole, mentre l'aria si riempiva di un'energia che contagiava tutti.
I was twenty-four years old 
When I met the woman I would call my own 
Twenty-two grand kids now growing old 
In that house that your brother bought ya 
On the summer day when I proposed 
I made that wedding ring from dentist gold 
And I asked her father, but her daddy said, "No 
You can't marry my daughter"
 
She and I went on the run 
Don't care about religion 
I'm gonna marry the woman I love 
Down by the Wexford border 
She was Nancy Mulligan 
And I was William Sheeran 
She took my name and then we were one 
Down by the Wexford border
 
Well, I met her at Guy's in the second World War 
And she was working on a soldier's ward 
Never had I seen such beauty before 
The moment that I saw her 
Nancy was my yellow rose 
And we got married wearing borrowed clothes 
We got eight children, now growing old 
Five sons and three daughters
[…]
Essendo solo bambine, le due non potevano comprendere il significato profondo della canzone. Quell'amore era reso più che tormentato, impossibile a causa delle differenze di religione dei due. Non preoccupandosene e andando contro il volere del padre di Nancy che aveva detto di no a William quando lui gli aveva chiesto la mano della figlia, i due erano scappati e avevano poi trovato la felicità.
Cambiando stazione ritrovarono quella stessa canzone e ripresero a ballare subito, stavolta dando anche calci in aria. Alla fine, le due amiche si ritrovarono senza fiato.
"Che figata!" esclamò Lizzie. "Sembrava di, non so, ritrovarsi ad una festa irlandese."
Mackenzie annuì soltanto, troppo stanca per scrivere.
Poco dopo scesero in salotto e, quando le mamme le videro, chiesero loro cos'avessero combinato. Avevano sentito della musica, dei passi e vedevano che erano sudate.
Abbiamo ballato.
"Per essere così stanche dovete averlo fatto con molto entusiasmo" commentò Mary, "ma sono felice che vi siate divertite."
Hope giocava sul tappeto mentre Demi la guardava. Semplicemente la guardava. Ogni tanto le sorrideva, le parlava, ma niente di più. Mary non se n’era preoccupata, pensava che appunto fosse solo stanca, ma a dire il vero Demetria aveva la testa da un’altra parte.
Poco dopo le due ospiti se ne andarono, visto che ormai era ora di cena, ma dopo i saluti Mary disse a Mackenzie:
"Uno di questi giorni potresti venire tu a casa mia. Ci farebbe molto piacere!"
La bambina non seppe perché ma arrossì.
Certo che sì! rispose, felice. Posso, mamma? domandò poi, ricordando di dover chiedere il permesso.
“Assolutamente, basta mettersi d’accordo.”
 
 
 
Anche se avrebbe voluto andare da Demi per cena, Andrew aveva deciso di non farlo. Forse dopo, ma per adesso voleva stare solo. Non sapeva bene perché, ma era una di quelle serate nelle quali la sorella gli mancava più del solito. Erano passati otto mesi dalla sua morte, otto mesi e sette giorni per la precisione, e anche se riusciva a distrarsi e se stava andando un po’ avanti il dolore in lui c'era sempre. Si nascondeva in un angolo della sua mente, ma Andrew lo sentiva ogni singolo secondo della giornata, anche quando era con Bill o con Demi e le bambine, le uniche persone con le quali stava davvero bene. Aveva appena finito di sistemare alcune carte per un altro caso di divorzio a cui stava lavorando e di trascrivere al computer delle cose e adesso era stanco. Andò in cucina e si fece un'insalata nella quale mise del tonno, poi preparò la tavola e mangiò nella terrina in cui aveva messo il cibo. Al primo boccone fece una smorfia. Mangiava verdura perché doveva e perché faceva bene, ma non ne era mai stato un grande amante. Ci aveva messo il tonno proprio perché mandare giù gli venisse meno faticoso e poi adorava il sapore di quel pesce. I suoi gatti entrarono in cucina e, se Jack rimase in silenzio, Chloe cominciò a piangere.
"Cosa c'è?" le chiese a bocca piena.
Lei emise un altro miagolio più forte del precedente.
"Non ti do il tonno, signorina. Non ti è mai piaciuto."
Ricordava ancora di averglielo fatto provare qualche anno prima e lei l'aveva annusato e poi era andata via schifata. Si ritrovò a pensare, come a volte faceva, che i suoi gatti non erano come quelli che aveva avuto anni prima, quando i genitori erano ancora in vita. Sì, ne aveva avuti altri, e con lo stesso nome di quelli che aveva adesso, ma avevano caratteri molto diversi. Del resto, così come ogni persona è unica, lo è anche ciascun animale. Rammentò che Chloe adorava il tonno e il pollo mentre a Jack piacevano i wurstel, anche se si erano sempre nutriti principalmente di croccantini. Tuttavia non gli piaceva fare confronti tra i gatti che aveva avuto e quelli che ora gli riempivano il cuore e la vita, e soprattutto non voleva pensare a quel che era successo, o meglio, a quanto aveva fatto. Alcune lacrime gli rigarono le guance e se le asciugò in fretta ricacciando indietro, con uno sforzo immenso, i brutti ricordi. Si piegò e accarezzò il pelo della sua gattina. Si sentì subito meglio e sorrise quando anche Jack venne a reclamare la sua dose di coccole e grattini sulla testa che gli piacevano tanto.
"Sì, sì, voglio bene a tutti e due allo stesso modo, gelosone" lo rassicurò. "Lo dico sempre ad entrambi, non l'avete ancora imparato?"
Dopo che ebbe lavato e rimesso a posto ogni cosa si risedette alla scrivania. Aveva finito il lavoro, almeno per quel giorno e il successivo avrebbe portato ogni cosa allo studio legale per continuare a seguire anche altri casi. C'era una cosa personale che voleva e, soprattutto, sentiva il dovere di fare. Tolse la chiavetta che conteneva i documenti di lavoro ed entrò nella cartella in cui aveva tutti i racconti e le poesie da lui scritti. Il diario di Carlie non c'era più e non era abbastanza bravo in informatica per riuscire a recuperarlo, né conosceva qualcuno che avrebbe potuto farlo. Avrebbe potuto cercare un tecnico informatico esperto, ma non se l'era sntita: lui aveva fatto il danno, lui in qualche modo avrebbe dovuto riparare. Anziché iniziarne uno nuovo, aveva scelto di scriverle delle lettere, una per ogni file. Non sapeva se ne avrebbe scritta una a settimana o ogni giorno, o se alla fine le avrebbe comunque riunite tutte in un unico documento, voleva però ricominciare ad avere un contatto con lei, qualcosa che li unisse ancora di più, che gliela facesse sentire più vicina. Dio solo sapeva quanto ne aveva bisogno. "Lettera 1", nominò così il file e una volta entrato cominciò a scrivere lasciando che le sue emozioni fluissero come acqua in un torrente. Ogni tanto però si fermava, si guardava intorno anche se non sapeva bene perché. Dopo un po’ però smise di farlo e si immerse in quel fiume di parole, che lo trasportò tra dolore e ricordi.
 
Domenica, 19 novembre 2019
 
Cara Carlie,
scusami per quello che ho fatto. Anzi, chiederti scusa o perdono non sarà mai abbastanza. Ammettiamolo: tutti possono sbagliare, ma quello era un documento di estrema importanza e avrei  dovuto stare attento. E sì, lo so, ho fatto una grandissima cazzata! Non volevo eliminare il diario che avevo iniziato a scrivere, è stato uno stupido errore e mi sono vergognato così tanto e sentito talmente male che non ho nemmeno provato a recuperarlo. Inizierò quindi a scriverti delle lettere, tanto è lo stesso. L'importante è che, attraverso queste mie parole, io ti senta ancora più vicina a me. So che lo sei, che sicuramente sarai un bellissimo angelo che mi guarda dal Paradiso ogni secondo di ogni singolo giorno, ma pur essendo credente, il mio dolore è immenso ed essere cosciente della tua vicinanza spirituale non mi basta. Avrei bisogno che tu fossi qui fisicamente, di saperti viva e in salute. Mi ricordo ancora la dolcezza della tua voce, e anche se eri la mia sorella minore il tono che usavi con me mi calmava sempre come le onde del mare, come una ninnananna. Rammento la morbidezza delle tue mani, così lisce che ogni volta le accarezzavo facendo piccoli circoli sulla tua pelle. Credevo ti avrebbe dato fastidio e invece tu rimanevi lì immobile.
Nonostante le nostre scaramucce ci siamo sempre voluti bene, non avrei potuto desiderare una sorella migliore. Ti ho sempre ammirata per la decisione che hai preso di partire per il Madagascar, e mentre andavi a fare vaccini su vaccini e visite per prepararti e non rischiare per quanto possibile di avere problemi una volta giunta laggiù, mi dicevo che non sarei mai riuscito ad avere il tuo stesso coraggio.
Avrei dovuto sapere che da quel coma non ti saresti risvegliata più. Ma chi perde la speranza in momenti del genere? Nessuno, credo, o almeno nessuno che sia tanto legato ad una persona che si trova in quello stato. Eppure, anche se avrei dovuto essere preparato, quando sei morta il mio mondo e la mia vita sono andati ancora di più in pezzi, frantumandosi come un bicchiere di cristallo scagliato a terra con veemenza.
 
Le raccontò di tutto quello che era successo dopo, del suo dolore che, scrisse, "mi aveva tolto la voglia di vivere fino a portarmi a tentare il suicidio", chiedendole se si vergognava di lui per aver cercato di uccidersi e rispondendosi, sia nella sua testa che per iscritto, che no, sua sorella non era il tipo che avrebbe detto o provato quelle cose. In seguito le parlò di Mackenzie e Hope, di quanta luce avessero portato nella sua vita, dei momenti di serenità che riuscivano ancora a dargli nonostante il dolore che provava.
 
Anche Demi è così, come loro. E la cosa bella - e per la quale la ammiro - è che non mi ha mai forzato a superare il lutto in fretta, ad andare avanti, a tornare alla vita. Le persone che lo fanno si comportano così perché vogliono che chi ha perso qualcuno stia bene, ma non funziona con tutti. Se qualcuno si fosse comportato così con me, mi avrebbe fatto molto male. Ho deciso di rispettarmi, Carlie. Per molto tempo ho pensato che avrei dovuto essere più forte, superare la tua morte più in fretta perché forse tu avresti voluto così. Ho anche sentito dire che i morti  non sono in pace finché non li lasciamo andare. Vedendoti tanto triste nei miei sogni, penso che forse sia vero. Ma so che è altrettanto vero il fatto che devo prendermi i miei tempi e non correre, altrimenti poi la sofferenza tornerà ancora più terribile.
Dicono che quando si soffre tantissimo sia difficile persino alzarsi dal letto la mattina, o anche semplicemente respirare. Io provo questa sensazione dal giorno in cui non ci sei stata più. Mi sembra di soffocare senza di te, che non ci sia aria, e mentre io sento questo e vedo la gente che cammina normalmente mi domando come faccia a respirare se io non ci riesco, per quanto mi sforzi. Poi mi ricordo che è solo la mia mente, non il mio corpo, a percepirlo. Eppure, mi sembra una sensazione così reale e spaventosa! Non sto bene, ma forse ogni tanto un po' meglio. Sto cercando di andare avanti. Sono passati solo otto mesi, non credo di poter pretendere di più. Ma penso anche al mio futuro con Demi e le piccole, a quello che potremo fare tra un po' di mesi o qualche anno. Chissà, magari andremo a convivere e poi ci sposeremo. Non voglio morire, non più. Voglio vivere, voglio essere un compagno amorevole, un padre affettuoso, un bravo avvocato, e farlo non solo per loro ma anche per me. Lo desidero, ma so che la tua assenza mi pesa molto. La tua mancanza fisica vicino a me è una cosa che mi blocca. È dura, Carlie. Lo sarà sempre. E non credo di poter dire che riesco a convivere pacificamente con il tuo ricordo, di rammentarti con il sorriso e un velo di malinconia. No, no! È ancora troppo presto per quello. Forse, però, un giorno questa sofferenza sarà meno intensa, meno disturbante. Già il fatto che a volte io non ci pensi è qualcosa. Il problema è che dopo mi sento in colpa. Ma non importa, credo. Ci sono abituato. Sto un po' meglio, è questo quello che conta. Spero che, nonostante tutto, tu sia fiera di me.
Ti voglio bene,
Andrew
 
Dopo aver finito quella lettera, nella quale aveva mescolato un dolore immenso e un po' di speranza e constatato che purtroppo il primo dominava sulla seconda, chiuse il file e il computer. L'amore che provava per Demi era sincero e restare con lei lo stava non tanto salvando dai suoi demoni - a quello avrebbe dovuto pensare da solo -, quanto aiutando ad essere più forte per sconfiggerli. E lei gli stava facendo provare sensazioni che non aveva provato con nessun'altra donna. Sì, si disse, il loro amore era più forte del dolore. Una volta suo padre gli aveva detto che quel sentimento è la forza che muove il mondo. Non sapeva se fosse così, purtroppo c'erano molte persone crudeli sulla Terra, ma era consapevole che l'amore aveva cambiato e migliorato le vite di entrambi, facendo diventare i loro cuori e le loro anime un cuore solo e un'anima sola.
Tuttavia, nonostante questi ultimi pensieri, non se la sentiva di andare da lei. Demi si accorgeva di tutto, in particolare da dopo il suo tentativo di suicidio. Sapeva che lui stava male senza che nessuno dei due proferisse parola. Lo capiva da un sospiro, da uno sguardo, da un'espressione. Le sue emozioni erano troppo forti e contrastanti in quel momento. Se ne sarebbe resa conto, pensò, e lui non voleva andare da lei solo per distrarsi, per non pensare, ma perché gli faceva piacere. Se non fosse rimasto a casa, non sapeva per quale delle due ragioni si sarebbe diretto dalla fidanzata.
"Non è serata" disse ad alta voce mentre si sedeva sul divano sentendo, oltre al dolore, un gran dispiacere; avrebbe tanto voluto vederla, ma non così.
Aveva già preso il telecomando in mano per accendere la televisione e perdersi in qualche programma, quando il suo telefono emise un bip. Non lo teneva quasi mai in silenzioso perché se uno dei suoi clienti lo chiamava voleva essere pronto a rispondere. Non capitava sempre ma a volte succedeva che una donna gli telefonasse in preda al pianto spiegandogli quanto la causa di divorzio la stesse distruggendo. Ogni tanto capitava anche con gli uomini, anche se loro erano sempre più restii a buttar fuori le proprie emozioni. Andrew era un avvocato e non uno psicologo, lo sapeva, ma il suo rapporto con i clienti era sempre stato corretto e non vedeva niente di male nel dare un supporto, per quanto possibile e sempre nei limiti della professionalità. Era convinto che un avvocato non dovesse solo combattere per la giustizia, ma anche essere umano. E, ogni volta che gli era stato chiesto perché volesse farlo, o perché avesse deciso di esserlo, lui aveva sempre risposto:
"Perché voglio aiutare la gente.”
Credeva in quella frase dal più profondo del suo essere.
Si alzò e prese il cellulare da sopra il tavolo della cucina. Era Demi, e il suo nome gli fece spuntare un sorriso enorme sulle labbra, uno di quelli che non avrebbe mai creduto di poter fare in una serata del genere. Gli aveva mandato un messaggio vocale su WhatsApp.
"Ciao, amore! Stai bene? Io e le bambine vorremmo vederti, ma sto per metterle a letto. Se ti va di passare, io ci sono. Ti amo!"
Nonostante una parte di sé pensasse che era una pessima idea, l'altra gli disse di andare e lui la seguì.
 
 
 
Mackenzie era andata a letto da poco e si era addormentata subito. Hope, invece, non ne voleva sapere di prendere sonno.
"Ovviamente" disse Demi con un sospiro.
Sua figlia era una brava bambina, ma le sere in cui lei era stanca era difficile starle dietro. Aveva provato varie volte a prenderla in braccio per addormentarla, ma lei non ne aveva voluto sapere e, dopo infiniti e forti pianti, Demi si era arresa e l'aveva rimessa sul tappeto a giocare. Sapeva che avrebbe dovuto essere più insistente, alzare anche solo un pochino la voce per farsi ubbidire - per quanto la cosa non le piacesse - ma era troppo esausta per riuscirci. Si sentiva giù di tono da alcuni giorni, a dir la verità e dormiva poco e male, tanto che aveva cominciato a bere un infuso di valeriana ogni sera. Dalla riunione con le insegnanti di Mackenzie si era sempre sentita strana.
Quando suonò il campanello la ragazza si precipitò ad aprire.
"Ciao!" salutò Andrew con un gran sorriso.
Lui non ricambiò il saluto, non come lei si sarebbe aspettata, almeno. Le si avvicinò, la prese fra le braccia e la baciò con passione. Fu un bacio lungo, intenso e pieno di sentimento. I due fecero di tutto per prolungarlo il più possibile, mentre le rispettive lingue esploravano la bocca dell'altro. Quando si staccarono erano entrambi senza fiato.
"Come mai questo saluto così speciale?" chiese Demi quando si fu ripresa.
"Avevo voglia di baciarti e non riuscivo ad aspettare. Scusami se ti ho spaventata, non era mia intenzione."
Forse aveva sbagliato a comportarsi così, si disse l'uomo. Avrebbe potuto proferire parola, prima e invece no, le si era gettato addosso neanche fosse stato un selvaggio.
"No, mi è piaciuto" si affrettò a rispondere Demi per rassicurarlo. "Sei stato passionale, non violento. E adoro quando sei così, perché la passione fa sì che gli uomini siano ancora più romantici."
Colpito da quella frase lui non seppe cosa dire e,  dopo averla presa per mano, entrò con lei in casa. Mentre varcavano la soglia Danny uscì correndo. Nonostante potesse andar fuori attraverso una porticina basculante che Demi aveva in cucina, quando la porta era aperta preferiva farlo da lì. Aveva cinque mesi, era un bellissimo gattino e, grazie a Dio, era in salute e non si allontanava mai molto da casa. Demetria voleva comunque sterilizzarlo, ma avrebbe dovuto aspettare altri tre mesi circa. Batman, invece, era nella sua cuccia accanto al divano a dormire.
"Papà!" esclamò Hope, alzandosi e volandogli in braccio.
"Ciao, principessa!"
Demi notò una cosa in quel momento, mentre li guardava. Quando loro si erano baciati e poi parlati, il suo ragazzo aveva sorriso, ma il sorriso non gli era mai arrivato agli occhi, si era come spento. Ora, invece, con la bambina si era trasformato e il suo volto si era illuminato. I bambini facevano quell'effetto, certo, ma lei si chiese se fosse accaduto qualcosa, o se semplicemente fosse una di quelle giornate, più difficili di altre, nelle quali Andrew soffriva di più. Non osò chiederglielo per paura che potesse avere un crollo psicologico.
"Come ti senti?" chiese Andrew alla sua ragazza; la vedeva pallida e stanca, con due occhiaie che le arrivavano fino ai piedi ed era preoccupato.
"Non so. La riunione con le insegnanti avrebbe dovuto calmarmi e invece mi ha resa più ansiosa di prima. Ho sempre paura che possa accaderle qualcosa, o che capiti a Hope."
Hope li guardava e faceva qualche gorgoglio, oppure provava a dire parole che però le uscivano senza senso ed erano incomprensibili. Tuttavia i suoi occhietti cominciavano a chiudersi.
"Purtroppo non possiamo proteggerle da tutto, anche se lo vorremmo" osservò lui. "E questa consapevolezza è dura per un genitore."
"Già. Mackenzie è strana, comunque. E' stata male, è vero, e oggi ha giocato tranquillamente con Elizabeth però è molto silenziosa, sulle sue, spesso sta in camera e non capisco perché non si sfoghi. Proprio ora che aveva ricominciato ad aprirsi!"
"Dalle un po' di tempo. Probabilmente, almeno spero, la situazione in classe sarà più calma nei prossimi giorni e le cose cambieranno. A quel punto, sia lei che Lizzie si sentiranno meglio e più sicure. Ma non è solo questo che ti preoccupa, vero?" le domandò, abbassando il tono.
Nel frattempo Hope si addormentò ed Andrew si offrì di portarla a letto. Demi lo ringraziò e, mentre lo aspettava, rimase seduta sul divano a contorcersi le mani respirando con un leggero affanno. Quando l'ebbe di nuovo accanto, disse:
"Esatto, non è solo questo che  mi preoccupa. In questi mesi ho pensato spesso a quello che Mackenzie mi ha detto e che ha raccontato a Catherine: che ricorda certe cose e altre no, che mancano dei pezzi a quel puzzle."
"Me lo ricordo, e quindi?"
"Noi abbiamo sperato e aspettato che rammentasse altro, ma per ora così non è stato. Mi stavo chiedendo se fosse il caso di raccontare tutto alla polizia. In fondo, anche se Mac non ricorda cos'è successo di preciso in quei pochi minuti sa che è capitato, quindi i poliziotti potrebbero… non so, riaprire il caso, magari, indagare su questo e forse rifare il processo, se l'assassino venisse accusato di qualcos'altro. Se ci pensi ha senso."
"Sei sicura che sia giusto portarla?"
"I poliziotti devono sapere quindi sì, credo sia giusto. In fondo almeno informarli non costa nulla, non ti pare? Vedranno loro cosa fare con le informazioni che forniremo."
"Che fornirà Mackenzie, vorrai dire. O meglio, che non sarà in grado di fornire, visto che non ricorda."
"Dalle tue parole devo dedurre che sei contrario. Pensavo fossi con me."
"Ascoltami, Demi." Le prese la mano. "Non è che sono contrario. Il tuo ragionamento ha senso, anche se quello che è accaduto nel breve lasso di tempo di cui parliamo potrebbe essere una cosa come un’offesa pesantissima che lui le ha rivolto e che l’ha bloccata. Dura per lei, certo, ma non rilevante per riaprire un caso o accusare qualcuno di qualcosa.”
“Sì, lo so.”
“Dico solo che portarla dalla polizia proprio adesso, in questo momento in cui la situazione a scuola non è delle migliori, forse non è una buona cosa per lei. Le metteremmo addosso troppa ansia e paura. In fondo non stiamo nascondendo niente, né noi né lei, visto che la bambina non ricorda nulla. Per cui, anche se andiamo non la settimana prossima ma quella dopo, cosa cambia?"
Il suo ragionamento non faceva una piega, tuttavia la ragazza non era convinta.
"È già qualche mese che dice che è successo qualcosa, che mancano dei tasselli. Nemmeno aspettare troppo è giusto, Andrew. Che ne sai? Quella settimana potrebbe succedere qualcos'altro."
"E poi, sei sicura che lei voglia farlo?"
No, non lo era affatto. Anzi, forse sapeva già quale sarebbe stata la sua iniziale risposta e che, se l'avessero fatto, avrebbero sottoposto la bambina ad un'ulteriore, difficile prova. Come se non ne avesse affrontate già abbastanza, nella sua breve vita.
"No" rispose infatti. "Ma potremmo provare a convincerla. Forse rispondendo alle loro domande riuscirebbe a ricordare qualcosa. Potremmo cercare di spiegarle… e comunque, io sono dell'idea che dovremmo parlargliene presto, già domani mattina."
"Io no, invece."
I toni si stavano alzando, la tensione cominciava a farsi sentire. Nella stanza calò un silenzio pesante, mentre i due si guardavano con la determinazione che luccicava loro negli occhi. Ognuno era convinto della propria idea e non riuscivano a trovare un punto d'incontro. E poi quella frase arrivò, improvvisa come un fulmine e più gelida del ghiaccio.
"Tu non sei suo padre."
Cinque parole. Cinque parole che avrebbero reso le cose più difficili tra loro e che, pensò Andrew, stavano a significare:
"Non prendi tu questo genere di decisioni."
Fece male, come un coltello che affonda pian piano nella carne.
Entrambi rimasero senza fiato, lui per il dolore, lei perché si pentì subito e amaramente di ciò che aveva detto. Come aveva potuto anche solo pensare una cosa del genere? Le era venuta non sapeva nemmeno lei come e si diede dell'idiota per essere stata tanto impulsiva.
"Che hai detto?" chiese Andrew con un filo di voce. "Che… che cos'hai… detto?"
"Intendevo che non lo sei di fronte alla legge" spiegò lei schiarendosi la voce.
Falso pensò. Quel che hai detto è falso, e lo sai benissimo.
Non voleva litigare né farlo arrabbiare, e ferirlo era l'ultima cosa che desiderava. Guardando i suoi occhi pieni di lacrime, il volto pallido e lo sguardo assente, capì ancora meglio di esserci riuscita e si fece schifo.
"Cazzate!" sbottò lui, alzando un po' la voce ma non quanto Demi si sarebbe aspettata. "Sappiamo entrambi cosa intendevi."
Andrew fu scosso da un singhiozzo. Nel profondo sapeva che Demi non pensava quelle cose, ma era troppo sconvolto per comprenderlo davvero e calmarsi. Si era sentito padre di quelle bambine fin da quando le aveva viste per la prima volta, e quella frase detta con freddezza, quasi con astio, era stata il colpo di grazia. Quello che gli mancava per finire quella serata di merda.
"Io… io non volevo. Perdonami."
Demi non sapeva come scusarsi, il suo era stato un sussurro appena udibile. La fitta al centro del petto aumentava secondo dopo secondo e anche la testa le doleva, ma era il cuore quello che soffriva di più.
"È questo che si prova quando si fa del male a chi si ama?" si chiese.
Sì, doveva essere così; ed era una delle sensazioni più sgradevoli che avesse mai provato in vita sua. Non avrebbe voluto sentirla mai più.
"So che non lo pensavi, Demi" le disse Andrew, facendole tirare un piccolo sospiro di sollievo. "Tuttavia quello che mi hai detto mi ha ferito e non credo che stare insieme stasera ci farebbe bene. Prendiamoci un po' di tempo e vediamoci domani, okay? O nei prossimi giorni. Allora le emozioni che proveremo saranno meno intense e potremo ragionare con più calma."
Il fatto che non avessero litigato fu di conforto per entrambi, ma era ovvio che quanto appena successo avesse aperto delle ferite che ora bruciavano e sanguinavano. Era meglio dormirci su, sempre che fossero riusciti a farlo.
"D'accordo" rispose Demetria, inghiottendo il groppo che aveva in gola.
Dopo un breve saluto, Andrew uscì. Rimasta sola, la ragazza si sdraiò a peso morto sul divano e cominciò a piangere sommessamente. Il suo fidanzato, in auto, faceva lo stesso.
 
 
 
Che buoni, mamma, grazie! esclamò Mackenzie prendendo in mano un altro pancake alla nutella.
Era allegra, quella mattina. Conoscendola, Demi si domandò se fingesse oppure no ma non glielo chiese. La bambina, però, non stava mentendo. Era davvero serena, o almeno si sforzava il più possibile per esserlo anche solo per un po'. I giorni precedenti non erano stati facili, era vero, soprattutto il mercoledì della settimana precedente quando c'era stata la riunione tra i suoi genitori, Jayden e Mary e le insegnanti, e ancora non sapeva che situazione avrebbe trovato una volta che fosse stata tra le mura scolastiche. In più l’incidente di Hope e la mamma era avvenuto il 7 di quel mese, soltanto tredici giorni prima e tutto questo messo insieme era molto da sopportare soprattutto per una bimba della sua età. Tuttavia, il fatto di essere stata con Lizzie e aver giocato un po' con lei l'aveva messa di buon umore e, nonostante sapesse che la attendeva una lunga giornata, si sentiva carica e pronta ad affrontarla.
"Sono felice che ti piacciano, tesoro" le rispose la ragazza, distrattamente.
Mac vide che aveva solo un pancake nel piatto.
A te no? le chiese.
Era strano, la mamma non faceva mangiare né a lei né a Hope dolci molto spesso perché diceva che era meglio così per la salute, ma più volte avevano gustato insieme un panino o delle fette biscottate con la nutella. Forse non apprezzava quei pancake in particolare? Ma perché? Le sembravano ben cotti.
"No, sono molto buoni," disse dandone un paio di pezzetti a Hope e infilandoglieli direttamente in bocca per evitare che si sporcasse, "è solo che… ieri sera non sono stata tanto bene e non mi va di mangiare."
Si era fermata. La pausa era durata al massimo un paio di secondi, ma la bambina l'aveva notata. Anche il modo che aveva di parlare era diverso. La mamma sembrava molto stanca. I giorni passati dovevano essere stati duri anche per lei. E quel pomeriggio, parlando con la psicologa, dicendole quale decisione aveva preso, Mac temeva che l'avrebbe delusa e non sapeva se sarebbe riuscita a sopportarlo. Un'improvvisa fitta allo stomaco e alla pancia la costrinse a smettere di mangiare per qualche attimo. Doveva chiederglielo, o magari anche restare vaga per il momento, ma farle una domanda che si avvicinasse il più possibile a quello che stava pensando. Avrebbe voluto ci fosse anche papà per porre la stessa domanda a lui.
Mamma? chiese, guardandola seria.
"Sì?"
Ecco… mi chiedevo…
Stava per sganciare la bomba, ma con ciò che voleva domandare l'avrebbe resa un po' più facile da digerire, o forse la mamma non avrebbe nemmeno capito qual era il vero senso di quella questione. Mac prese un altro profondo respiro e poi contò da tre a uno, lentamente.
Se io non ricorderei più, mai più, tu ti arrabbieresti?
Demi sorrise: la figlia non si era nemmeno accorta di aver messo il condizionale al posto del congiuntivo ma non importava, era ancora molto piccola e già parlava, cioè, scriveva benissimo. Poi tornò seria. Quella domanda l'aveva sorpresa molto e anche Mackenzie lo notò. Il suo piccolo cuore accelerò e lei cominciò a respirare affannosamente, provando però a farlo piano perché la mamma non udisse niente.
"Mac, ascoltami." Doveva cercare di usare parole semplici, in modo che la bambina potesse comprendere. "Ti ho portata da Catherine perché non stavi bene. Sì, soprattutto perché potessi ricordare ma sapevo che sarebbe stato difficile. Ma tu e lei avete parlato anche di tante altre cose, e va benissimo così! Per me l'importante è che tu stia bene e che sia felice. E se lo sarai anche non ricordando tutto, beh, non importa. Non sarebbe colpa tua. Solo, non forzare la tua mente e non costringerla a ricordare. Penso che Catherine sarebbe d'accordo con me su questo."
Okay rispose la bambina.
Era più tranquilla, adesso, ma non sapeva se sarebbe stata felice senza i suoi ricordi, senza una parte della se stessa di quella notte. E senza questo, sarebbe stata davvero felice? Era convinta che quanto avrebbe detto a Catherine quel pomeriggio avrebbe sconvolto i suoi genitori. Non è che avesse paura di non ricordare più. Si trattava di qualcosa che andava oltre questo e non era sicura che, una volta saputo, la mamma sarebbe stata altrettanto gentile. Se la sarebbe presa con lei perché in fondo era giusto, perché lei non era forte, era debole.
Una volta arrivata a scuola Mackenzie corse subito da Elizabeth e le due bambine si abbracciarono.
"Mi sei mancata!" esclamò Lizzie, che sembrava non voler più lasciar andare la sua amica.
A Mac non dispiaceva, anzi, si sentiva sicura in quella stretta. Stava sempre bene quando era con lei. Elizabeth la faceva sentire protetta anche se avevano la stessa età.
Anche tu. Com'è andata in questi giorni?
Quello prima non ne avevano parlato, concentrandosi solo sul gioco.
"A casa tutto bene, a parte il fatto che papà non ha ancora un lavoro. Comunque i miei sono più tranquilli e mi dicono di pensare solo al fratellino o alla sorellina che arriverà. A scuola niente." Il giorno prima avevano evitato quel secondo argomento per non rovinare i momenti che avevano passato insieme. "Quelli non mi hanno più presa in giro molto, ma le maestre non ci hanno ancora parlato in classe, né mostrato video o altro. Forse aspettano te, non so."
E James, Brianna e Yvan sono stati chiamati dalla Direttrice?
Elizabeth fece un gesto come per dire che anche di quello non aveva idea.
"La prima ora abbiamo la maestra Beth, chiediamo a lei."
Mentre raggiungevano i compagni, Mackenzie guardò l'amica. Appariva abbastanza tranquilla, anche se alcuni movimenti delle mani e l'espressione a volte seria del volto facevano trasparire la tensione che doveva provare. Lei, invece, non riusciva ad essere così controllata. Non ce la faceva nemmeno a scrivere, non quanto avrebbe voluto. Troppe emozioni si agitavano nel suo animo e la sua mente era tanto piena di pensieri che la testa avrebbe potuto esploderle da un momento all'altro. Le faceva male fin da quando si era svegliata, complice anche il fatto che non aveva dormito molto bene. Cristo, aveva solo sei anni, pensò mentre saliva le scale con la classe. I bambini erano in fila indiana a due a due e la maestra era in testa e li guidava. Avrebbe dovuto essere come tanti dei bimbi che la circondavano, senza fare pensieri così maturi e tristi, senza soffrire, senza sentirsi talmente stanca di ricordare da provare un quasi irrefrenabile istinto di crollare e lasciarsi andare… a cosa non sapeva. A un pianto, forse. Invidiava i suoi compagni. Loro non avevano sofferto tanto, almeno era quello che sperava. Non avrebbe augurato a nessuno di passare ciò che aveva passato lei, nemmeno a James, Brianna e Yvan. Se da una parte adorava essere così matura, dall'altra lo odiava perché la costringeva a crescere molto in fretta. Non importava che giocasse, che la mamma le dicesse che aveva il diritto di comportarsi come una bambina, o meglio importava solo in parte. Una parte di lei non era più piccola, ormai. Non era colpa di nessuno, se non dell'uomo che aveva ucciso i suoi genitori; ma anche prima, quando erano vivi, visto il posto in cui viveva aveva dovuto vedere o sentir parlare di cose che un bambino non dovrebbe nemmeno conoscere: senzatetto, povertà, droga, alcol, prostituzione e molto altro. Non sapeva bene cosa fossero quelle sostanze, quale fosse il significato di quelle parole, la sua vera mamma gliel'aveva spiegato in modo semplicissimo e tale da non turbarla, ma aveva capito che erano molto brutte. E l'aveva compreso anche guardandosi intorno, camminando in certe zone del quartiere con i suoi, annusando l'aria pregna dell'odore nauseabondo dell'alcol e a volte non solo di quello. L'aveva visto nel pallore e negli occhi strani della gente che, le avevano detto i suoi, aveva bevuto troppo. Ora che era cresciuta sapeva definirli, quegli occhi. Vuoti e tristi. E quando aveva chiesto al papà perché quelle persone bevessero così tanto, lui aveva risposto:
"Tesoro, la vita per alcuni è un po' difficile. Noi non siamo così sfortunati."
"Un po' difficile". Tempo dopo aveva capito che il padre aveva voluto nascondere, con le prime due parole, ciò che in realtà intendeva. Che la vita è dura e che certe persone, per motivi diversi, ne rimangono distrutte o segnate per sempre. Lei l'aveva imparato anche troppo bene. No, non avrebbe dovuto essere così matura, e invece lo era anche in quel momento. Desiderava solo sentirsi normale, come tutti gli altri. Ma sapeva che non lo sarebbe mai stata davvero, perché perdere i genitori, vederli mentre vengono uccisi, smettere di parlare non è normale - non le sarebbe mai successo se la sua vita fosse stata serena e felice. Certo, ora era molto migliorata. Aveva due genitori fantastici, due zie stupende e due nonni meravigliosi. Tuttavia ci sarebbero state cose che non avrebbe mai scordato, fantasmi che sarebbe stato difficilissimo, se non impossibile, lasciare nel passato.
Elizabeth per fortuna non si accorse del suo momento di assenza, se così si poteva definire, ma quando Mackenzie sentì il banco davanti a sé provò una sensazione stranissima. Non si era quasi accorta di aver fatto tutto il percorso fino ad arrivare in classe, si era staccata dalla realtà probabilmente per qualche secondo, anche se in realtà le pareva di averlo fatto per ore. Tuttavia il ritorno al presente non fu traumatico e violento come al solito, non le parve di ricevere una botta. Si sentì, invece, sollevata di non pensare più al passato, almeno per il momento. Era come se qualcuno le avesse tolto un grosso peso dal petto e dallo stomaco e il dolore alla testa era quasi passato. Trasse un lungo sospiro di sollievo e si accomodò, guardandosi poi intorno. Elizabeth era al suo fianco come sempre, gli altri si stavano accomodando e facevano casino. Non sembrava esserci nulla di strano. James, Yvan e Brianna nemmeno la guardavano, né osservavano Elizabeth.
Meglio essere invisibili per loro che venire prese in giro pensò Mac, domandandosi cosa sarebbe successo, se le maestre avrebbero parlato alla classe…
In parte avrebbe tanto voluto alzarsi e domandarlo alla Rivers, ma lasciò stare per il momento. Cercò di rilassarsi ma non era facile e, mentre la maestra faceva l'appello, provò una punta d'ansia. Quando la donna disse il suo cognome e il nome la bambina alzò la mano, come faceva sempre visto che non poteva dire "Presente" e poi la riabbassò. Anche adesso nessuno dei tre la guardava. Si girava sempre per controllare, era più forte di lei.
"Mackenzie, hai la giustificazione?"
La voce gentile della maestra fu come musica per le sue orecchie. Era carezzevole, le piaceva tantissimo e annuendo, le sorrise. Le mostrò il libretto e quando la donna le chiese se stava meglio fece cenno di sì con la testa.
Non parlarono più e la lezione iniziò. Per quella e le ore successive non accadde niente di brutto. Nessuno tirò a lei o alla sua amica pezzettini di carta e gomma, né le offese, né parlò loro alle spalle. Era bello, ma era anche strano. Abituate ad essere schernite, le bambine non potevano credere che fosse tutto a posto, che quella situazione si fosse già risolta e stavano sempre in allerta, in attesa che le cose cambiassero. Non ne parlavano, ma si lanciavano sguardi intensi che dicevano tutto.
A ricreazione i bambini uscirono in giardino come sempre. Era una bella giornata di sole e il clima era mite. Nonostante l'inquinamento della città il cielo era azzurro e limpido. Guardandolo, Mackenzie sorrise. Non sapeva dire perché, ma osservarlo le aveva sempre dato speranza. Mentre lei ed Elizabeth passeggiavano mano nella mano, vide che un'insegnante prendeva da parte James, Brianna ed Yvan. Che li stesse portando dalla Direttrice? Forse aveva scelto quel momento per non dare nell'occhio, perché i bambini non si sentissero a disagio. Se avesse detto loro di seguirla in presidenza prima o durante una lezione, avrebbero avuto tutti gli sguardi puntati addosso. Non che a Mac sarebbe dispiaciuto anzi, credeva che se lo sarebbero meritato, così almeno si sarebbero vergognati di quel che avevano fatto. Non seppe mai quello che disse loro la donna, ma sperò che non li avrebbe sgridati troppo.
 
 
 
"Sapete perché siete qui?"
La signorina Carlisle si lasciò andare contro la sedia trattenendo un sospiro e si passò una mano sugli occhi stanchi. I giorni precedenti non erano stati facili e aveva dormito pochissimo. Gestire bene una situazione delicata come quella non era semplice, soprattutto perché erano coinvolti dei bambini e, per quanto avessero fatto del male a due loro compagne in diversi modi, bisognava andarci piano. Avevano pur sempre solo sei anni, dopo tutto.
"Per quello che abbiamo fatto" rispose James che però sembrava distratto, più interessato a guardarsi in giro che a concentrarsi sulla conversazione.
"E cos'avete fatto?"
Non c'era accusa nel tono della donna. Voleva solo capire ciò che i genitori avevano detto loro dopo la riunione  che si era tenuta il venerdì precedente a scuola, organizzata subito dopo quella con i genitori di Mackenzie e Lizzie. La Direttrice aveva detto che ci sarebbe voluto di più, e invece aveva fatto di tutto perché così non fosse.
"I nostri genitori ci hanno spiegato che abbiamo sbagliato" disse Brianna con voce tremolante, chiaro segno che si sentisse in soggezione e che avesse paura di quello che sarebbe potuto accadere.
"Perché avete sbagliato?"
Voleva che lo dicessero, li avrebbe tenuti lì tutto il tempo necessario. Solo dopo avrebbero potuto affrontare il resto.
"Abbiamo preso in giro due nostre compagne, Elizabeth e Mackenzie" continuò Yvan. "James ha anche tirato i capelli a Mac e fatto cadere Lizzie, che stava per andare addosso a un banco."
Da come l’aveva detto sembrava che avesse appena letto qualcosa. Lo aveva fatto in modo meccanico, senza emozione né nessuna particolare inflessione della voce.
Ed eccoli arrivati al punto, finalmente! Adesso arrivava la parte più difficile, si disse la donna passandosi le mani sul volto sudato. Trovava complesso non far trasparire la tensione, ma doveva farlo.
"Sentite" iniziò, cercando di mantenere un tono gentile, "ho parlato con i vostri genitori di quel che è successo e…"
"È stata Mackenzie? Le avevo detto di non farlo."
James era cambiato, adesso. Il suo viso si era trasformato: gli occhi erano pieni di rabbia, i lineamenti più duri. Dal tono di voce che aveva usato sembrava più grande. La signorina Carlisle provava pena per quel bambino e, allo stesso tempo, sapeva che ciò che aveva passato non giustificava per nulla le sue azioni.
"Non te lo posso dire, James. Ma anche se fosse così, tu non devi più farle del male. Mai più. E nemmeno a Lizzie, e lo stesso vale per voi due" mise in chiaro, con voce ferma ma non troppo dura. Voleva che capissero, non terrorizzarli. "Perché lo avete fatto?" chiese poi, più tranquilla.
"Beh, la mamma dice che i negri sono diversi" spiegò James. "E quindi io ho pensato che prenderla in giro per il colore della sua pelle fosse divertente. E anche perché ha quel problema con la parola, anche questo non la rende come noi."
Ma che bell'esempio! pensò la signorina Carlisle. Questa donna lo cresce dicendogli che le persone con un colore di pelle diverso dal nostro sono differenti, e probabilmente anche inferiori. Fantastico! Razzista fino al midollo, proprio!
Non avrebbe dovuto giudicare ma era stato più forte di lei e, per un attimo, provò anche un forte senso di disgusto. Non andavano educati così, i bambini!
"Il fatto che molte persone abbiano il colore della pelle diverso dal nostro non significa che lo siano, sapete?" Decise di rivolgersi a tutti, in modo da farli sentire più coinvolti e che capissero. Doveva spiegare le cose in maniera semplice e non usare parole complesse o fare discorsi troppo profondi. "James, tu all'inizio della scuola sapevi leggere bene?"
"No" rispose il bambino, pensando che non ci riusciva molto nemmeno adesso ma la cosa non gli interessava un granché.
"E qualcuno ti ha preso in giro per questo dicendoti, non so, che eri una schiappa o cose simili?"
"No. C'erano dei miei compagni che sapevano leggere meglio di me e mi dicevano che presto avrei imparato, ma erano pochi. Tutti gli altri erano come me" concluse guardando gli amici.
"E la maestra vi ha trattati male per questo? O l'hanno fatto i vostri genitori, o gli amici della vostra famiglia?"
"No" risposero i tre all'unisono.
"Vedete? Così come nessuno vi ha presi in giro perché non sapevate leggere bene, cosa normale per la vostra età, allo stesso modo non c'è nulla di sbagliato nell'avere un colore della pelle diverso, che sia nero o di altro tipo. Chi non è bianco è normalissimo, come tutti gli altri. So che spesso voi dicevate a Mackenzie cose come "negra". Vi chiedo per favore di non farlo più. Forse non lo sapete, magari avete sentito questa parola a casa, ma non è bella da dire e nemmeno Muta lo è. La vostra compagna sta molto male quando si sente chiamare in questo modo."
"E come dobbiamo riferirci a lei, allora?"
"Chiamandola per nome, come fate con il resto dei compagni. Dare dei soprannomi ad una persona non è mai giusto, se questa non dice che le piacciono. Mackenzie ed Elizabeth sono state molto spaventate da tutto quello che è successo in questi mesi e non si trovano bene in classe. Prima mi avete spiegato che le avete prese in giro per divertimento. C'è qualche altro motivo?"
"Noi siamo una sorta di banda, diciamo sempre così." Stavolta fu Yvan a parlare. "James è il capo e noi lo seguiamo. Io e Brianna l'abbiamo fatto e basta, ci sembrava bello."
Si passò una mano fra i capelli biondi per rimetterli a posto. La Direttrice notò che continuava a lisciarsi le pieghe dei pantaloni o della maglia, non sapeva se per nervosismo o perché ci teneva ad essere perfetto… forse era più valida la prima ipotesi.
"Esatto" concordò la piccola. “Era divertente…”
La signora colse un’esitazione nella voce di Brianna, una piccolissima ma udibile incrinatura.
“Parla pure, se devi dire qualcosa” la incitò.
“È solo che… insomma, io dopo che le ho strappato il biglietto di auguri che mi aveva scritto le ho detto che le sue parole non valevano molto visto che non parlava, e poi ci sono rimasta male” ammise, mentre i compagni la guardavano con gli occhi sgranati.
“E perché non sei andata a chiederle scusa?”
“Pensavo che era solo un momento di… confusione” disse dopo un attimo di pausa per trovare quella parola difficile ma che conosceva.
“Quindi non lo volevi davvero? Scusarti, intendo.”
“Non lo so.”
Si tirò con forza i lunghi capelli rossi come se fosse esasperata, se non sapesse nemmeno lei cosa pensare di se stessa e di quella situazione.
Il sorriso dipinto sui volti di James e Yvan stava a significare che credevano sul serio in quanto avevano appena detto, ovvero che pensavano fosse divertente offendere, prendere in giro e fare male. Ed era veramente sconcertante che dei bambini, soprattutto della loro età, la pensassero a quel modo. Brianna invece aveva esitato, era già qualcosa. Non sorrideva, rimaneva seria e con lo sguardo basso.
“Poi girano delle voci” aggiunse James. “A scuola, dall’inizio.”
“Quali?”
“Dicono che Mackenzie ha bei voti solo perché è ricca e non perché se li merita.”
La donna sospirò.
“E chi le ha messe in giro?”
“Non lo so. Non noi, lo giuro.”
Lei non credeva completamente a quei bambini, ma decise di farlo comunque.
“Tutti, e ripeto tutti qui prendete i voti perché ve li meritate e secondo quanto studiate. Anche lei. Non c’entrano la ricchezza o il colore della pelle o altro. Chiaro?”
I tre annuirono, leggermente spaventati dal suo tono duro.
Ora, si disse la Direttrice, veniva la parte più difficile. Già la riunione con i genitori dei tre alunni non era stata facile. Non tutti avevano creduto a quanto lei aveva spiegato ma, se quelli di Yvan e Brianna erano rimasti sconvolti e avevano continuato ad  esclamare, increduli, cose come:
"Oh mio Dio!"
"Non ci credo!"
"Ma davvero hanno fatto questo?"
"Non ci siamo mai accorti di niente, avremmo dovuto!"
"Mi sembra tutto assurdo!"
quelli di James, divorziati da un paio d'anni, si erano messi a litigare urlandosi contro a vicenda che la colpa era dell'uno o dell'altra. La signora Carlisle aveva cercato di mettere ordine in quel caos, facendosi spiegare bene la situazione. I due si erano divisi perché lei – sì, proprio lei - l'aveva tradito. Non aveva indagato le motivazioni che avevano spinto la donna a farlo, ma aveva saputo che c'era stata una battaglia per l'affidamento del figlio, che alla fine era stato dato alla madre e il padre, che poteva andare a prenderlo nei weekend, non era d'accordo e stava ancora cercando di riportare la moglie in tribunale. Insomma, i due litigavano e il bambino, ovviamente, ci andava di mezzo e ne soffriva. Alla fine la donna, con moltissima pazienza, era riuscita a far comprendere ai due che non importava di chi fosse la colpa e, tra parentesi, credeva che tutti e due ne avessero una parte - anche se si era trattenuta dal dirlo ad alta voce - e che la cosa importante era stare vicino a James. Non aveva mai avuto scatti di rabbia o comportamenti strani, le avevano spiegato i due, ma era ovvio che se si comportava così di rabbia, dentro, doveva averne moltissima e purtroppo la sfogava sugli altri, anziché buttarla fuori in modo sano. Per cui, alla fine, dopo aver discusso erano arrivati ad una conclusione. Alla Direttrice non piaceva poi così tanto, le sembrava esagerata, ma i genitori erano loro.
"Ha detto che Mackenzie è spaventata?" chiese Brianna.
"Esatto, e anche la sua amichetta. Sono molto sole e per tanto tempo non hanno detto nulla ai genitori, finché ad un certo punto non ce l'hanno più fatta. Sapete," e qui guardò James, "non c'è niente di sbagliato a dire che si ha un problema, che si ha bisogno di parlare o di aiuto."
"Io non ho bisogno di aiuto" replicò subito il bambino, ma la sua vocina tremava.
Nonostante quello che aveva fatto, la cattiveria che aveva dimostrato - perché nel suo caso di questo si trattava, ancora più che negli altri due - alla donna dispiacque molto per lui e ne ebbe compassione. Era un bambino chiuso in se stesso che nascondeva dolore, rabbia e frustrazione dietro un'apparente sicurezza. Si era costruito un muro per proteggersi, ma sarebbe bastato poco per farlo crollare.
"Non te ne vergognare, James. So cosa stai passando."
"Attenta" le disse una voce dentro la sua testa. "Stai camminando su un terreno pericoloso. La situazione è delicata."
"Chi…" chiese il bimbo, non riuscendo nemmeno a finire la domanda mentre i suoi lineamenti si indurivano come mai prima.
Brianna e Yvan non avevano espressioni sorprese sul volto, il che significava che sapevano tutto. Almeno con loro si era aperto, pensò con una punta di sollievo la donna, anche se non sapeva quanto.
"Ho parlato con i vostri genitori di tutto questo, come saprete. E i tuoi me l'hanno detto. Volevo capire se tutti fossero a cono… insomma, se sapessero perché avevate preso in giro delle vostre compagne."
"Io…" mormorò Brianna.
"Sì? Parla pure liberamente."
La voce della Direttrice era sempre dolce, così la bambina decise di fidarsi.
"Io non so cosa Mackenzie… insomma come sta, ecco. Non ho mai…"
"Non te lo sei mai chiesta?"
"Già. E neanche per Elizabeth."
"Lo immaginavo."
"Sono una persona brutta?" chiese con gli occhi pieni di lacrime.
Si sentiva male per quello che aveva fatto. I suoi genitori le avevano sempre detto di aiutare le persone in difficoltà e di rispettare tutti anche se le stavano antipatici, di non far male a nessuno. Lei invece aveva agito nel modo contrario.
"No, sei solo una bambina che ha sbagliato molte cose, come James e Yvan."
"Non lo farò più!" esclamò la piccola piangendo, mentre pensava al bigliettino che Mackenzie le aveva scritto per farle gli auguri; era stata gentile e lei l'aveva strappato dicendole cose bruttissime.
"Perché piangi?" chiese James, aspro. "Sei solo una perdente!"
"James!" lo rimproverò la Direttrice con voce dura.
Lui si zittì all'istante.
La donna passò un fazzoletto a Brianna, poi guardò Yvan attendendo che dicesse qualcosa. Ci vollero diversi secondi prima che il bambino si decidesse a parlare.
"Io in parte penso ancora che è bello, ma… non lo so" disse, confuso.
Per quanto la parola "divertente" in quel contesto facesse salire alla donna una gran rabbia, si controllò dicendosi che erano solo bambini. Forse ad Yvan serviva un po' più di tempo per capire i suoi errori e rimediare, o almeno così sperava. Nel frattempo, c'era da pregare affinché non facesse nulla ad Elizabeth e Mac.
"Noi abbiamo detto agli altri di non farle giocare e sedere al nostro tavolo" continuò Brianna. "E ci hanno ascoltati!"
"Più che detto l'abbiamo imposto" puntualizzò James, indifferente a tutta la situazione. "Li ho minacciati di rubar loro ogni giorno la merenda se non l'avessero fatto e, se provavano a dirlo alla maestra, io dicevo che non sapevo nulla."
La donna sorrise per tutti quegli errori che facevano i bambini, normalissimi per la loro  età comunque. Registrò quella nuova informazione e si sarebbe premurata di riferirla alle altre maestre e a tutti i genitori.
"Anche rubare e dire quelle cose è sbagliato" riprese, poi continuò facendosi serissima: "Voi tre scriverete ciascuno due lettere di scuse qui, adesso, una per Elizabeth e l’altra per Mackenzie. Dovranno essere sentite. Voglio che crediate davvero in ciò che scriverete. Non  devono essere lunghe o difficili, basta poco e vi posso dare una mano con le parole se volete. Coraggio!"
James sbuffò e anche Yvan, mentre Brianna prese un foglio e una penna e cominciò a scrivere senza fiatare. La donna li osservò mentre scrivevano a fatica, Brianna era concentrata mentre gli altri due non molto, ma sembrava si stessero impegnando. Una volta finito, ognuno mise i propri fogli in due buste e scrisse sopra il proprio nome.
"Molto bene" disse la signora e stava per continuare a parlare quando James la fermò.
"Gliele porta lei queste, vero? Non dovremo mica farlo noi!" esclamò, come se la cosa fosse più che ovvia.
"No, lo farete voi invece. Chi sbaglia deve rimediare, cioè…"
"So cosa vuol dire, non sono mica scemo!" sbottò il bambino, stizzito.
"James, non alzare la voce e non sfidare la mia pazienza. Chiaro?"
"Chiarissimo" borbottò l'altro.
"Dicevo, chi sbaglia deve sistemare le cose."
"Crede che Mackenzie ci perdonerà?" chiese Brianna.
Sembrava davvero pentita, e lei era quella che grazie a Dio le aveva fatto meno male.
"Non lo so, cara. Intanto tu dalle la lettera e scusati a voce con lei, dille quello che provi e poi si vedrà."
“Ed Elizabeth?”
“La stessa cosa.”
"Se non lo faranno io le capisco, siamo stati cattivi" osservò ancora la piccola.
Brianna sembrava quella più ben disposta, aveva già capito i suoi errori e voleva rimediare, o quantomeno domandare scusa in modo sincero. Era un grande passo in avanti quello che stava facendo, non era da tutti. La donna si sentì di dirlo alla bimba che sorrise.
"Io non sono cattiva, Direttrice. Ma ho fatto cose brutte senza un motivo e questo fa schifo."
"Vuoi dire che esci dalla banda?"
Si sentiva e si vedeva lontano un miglio che James era il capo. Mandava alla bambina sguardi glaciali che facevano accapponare la pelle.
"La banda... Non c'è più nessuna banda, per me. Non è divertente, né bello."
Certo, se davvero Brianna voleva cambiare questo non sarebbe avvenuto da un giorno all'altro. Le cose che stava dicendo erano appunto solo parole, poi si sarebbero dovuti vedere i fatti perché, come dice un proverbio, tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.
Si sentì bussare alla porta e la Direttrice esclamò:
"Avanti!"
Non sembrava sorpresa di vedere qualcuno, si dissero i bambini e James, invece, rimase di sasso quando vide sulla soglia quella donna.
"Mamma?" chiese, quasi senza fiato.
"Ciao" gli disse lei, sorridendogli appena.
I giorni precedenti gli aveva detto di essere delusa dal suo comportamento, ma più che altro era delusa da se stessa e dal modo in cui l'aveva educato. Ci era voluta una riunione del genere per smettere di nascondere la testa sotto la sabbia e capire di aver fatto tantissimi errori come donna e come madre. O meglio, aveva sempre saputo di averli commessi e cercato di non pensarci.
La Direttrice rifletté sul fatto che era una donna molto bella, con i capelli nerissimi e gli occhi dello stesso colore come quelli del figlio, un po’ bassa e grassottella e con uno sguardo diversissimo da quello di James, o meglio da quello che aveva ora. Se lui era arrabbiato  lei sembrava sì agitata, ma i suoi lineamenti restavano dolci. Si notava solo un continuo movimento delle ciglia e qualche contrazione delle labbra, per il resto era impassibile. O non era agitata, cosa che la signorina Carlisle riteneva poco probabile, o nascondeva benissimo le sue emozioni.
"James, tua madre è qui per un motivo, l'ho fatta venire io. Bambini, uscite per favore."
"No!" li fermò James mentre si stavano già alzando. "Yvan è mio amico, Brianna forse non lo è mai stata, ma voglio che stanno."
"Va bene" riprese la donna. "Ho chiamato qui tua madre perché ho preso una decisione qualche giorno fa. Visto tutto quello che hai fatto, ho dovuto adottare dei provvedimenti molto seri."
Il bambino non capì cosa la parola "provvedimenti" volesse dire, ma dagli sguardi seri di sua madre e della donna capì che non doveva essere niente di buono.
"Da domani sei sospeso per tre giorni. Il che significa" ci tenne a sottolineare, dato che il bambino stava già sorridendo al pensiero di stare a casa, "che non si tratta di una vacanza. La sospensione è una cosa molto grave, che abbassa di parecchio i voti e che a volte, ma non nel tuo caso, può portare alla bocciatura. In questi tre giorni dovrai riflettere su quello che è successo e su ciò che hai fatto. Inoltre, sono d'accordo con i tuoi che la cosa migliore sia mandarti da uno psicologo, ovvero un dottore con cui parlerai e che ti aiuterà a capire come mai sei tanto arrabbiato e al quale potrai dire tutto."
"Ma io non…"
"Lo so che non vuoi, ma almeno provaci. Ti assicuro che ti farà stare meglio, nel tempo."
Forzare qualcuno ad andare in terapia non era la cosa migliore, ma in quel caso non era stato possibile trovare un'altra soluzione. James aveva bisogno di aiuto, questo era innegabile, e se i genitori non riuscivano a garantirgli un ambiente sereno, l'intervento di uno psicologo avrebbe potuto essere di giovamento.
"Verremo anche io e papà, a volte, a parlare con te e con il dottore" gli spiegò la mamma. "Ne verremo fuori tutti insieme. Anzi, avremmo dovuto farlo molto prima."
Nel sentire quelle parole, James si rilassò un poco anche se era ancora contrariato.
"C'è un'altra decisione che i tuoi hanno preso, e che non credo ti piacerà" continuò la Direttrice.
Oddio, cosa c'era ancora? James respirò allargando le narici più del normale mentre i suoi occhi mandavano lampi e cercò di controllarsi. In più avrebbe voluto soltanto crollare sulla prima superficie disponibile e restare lì per un po’ a riposare, ma non poteva, e odiava tutto ciò perché era senza energie. Più di tutto, però, era annoiato. Voleva solo andare via.
"Andrai in un'altra scuola."
"Sì, già da lunedì prossimo. È più vicina a casa e io e papà abbiamo pensato che forse andare in un nuovo ambiente senza tutte queste tensioni potrebbe aiutarti."
Secondo la signorina Carlisle questo non aveva senso. Concordava sul fatto che per Mackenzie sarebbe stato difficile rimanere in classe con James negli anni a venire, ma forse se fosse rimasto lì le insegnanti che già aveva avrebbero potuto aiutarlo, fare quello che avevano deciso di fare anche con gli altri compagni. Era contenta che non fosse stata Mac ad andarsene - ne avrebbe avuto tutte le ragioni visto quello che aveva passato - o Lizzie. Ma le dispiaceva per James, perché farlo fuggire dai problemi, dai suoi sbagli non lo avrebbe aiutato a crescere.
Allora James non ci vide più. La Direttrice gli aveva spiegato perché aveva sbagliato - anche se lui non credeva di averlo fatto -, costretto a scrivere due lettera a quelle mocciose e a portargliele di persona, detto della sospensione, dello psicologo da cui non voleva andare e adesso gli facevano anche cambiare scuola? No, era troppo! Fu un attimo. Accadde tutto così in fretta  che nessuno riuscì a fermarlo. Si alzò di scatto facendo stridere le gambe della sedia contro il pavimento, poi siccome era molto leggera e non tanto grande riuscì a sollevarla e la scagliò dall'altra parte del tavolo, dove si trovava la Direttrice. La donna riuscì a spostarsi in tempo e a schivarla, ma per un pelo. La sedia andò a sbattere violentemente contro il muro e lì si spaccò in due. Nel frattempo, approfittando del momento di smarrimento dei presenti, il bambino aveva agguantato un portapenne pieno di penne e matite e l’aveva lanciato contro la madre. Tutto il contenuto era finito a terra in una pioggia di rumori secchi. Dopo fu il delirio. La mamma di James gli diede uno schiaffo così forte sul collo da farlo barcollare, poi corse via con lui urlandogli contro cose come:
"Ma sei stupido? Cosa ti dice il cervello?"
Brianna e Yvan corsero via, la prima piangendo e il secondo rimanendo in silenzio, ma solo perché era troppo sconvolto per parlare. La bambina prese anche le lettere di James che gli erano cadute. Le avrebbe portate lei a Mac e Lizzie. La Direttrice provò a fermarli, a calmarli ma era troppo tardi. Intanto, comunque, alcune segretarie e qualche maestra erano già corse in ufficio e la voce si sparse presto tra i corridoi scolastici. Per un po’ ci fu un gran fermento vicino all’ufficio, poi la situazione si calmò. In fondo, per fortuna la signorina Carlisle stava bene e decise di non fare più nulla riguardo a James. Non che avrebbe potuto fare molto, comunque, né per aiutarlo a risolvere i suoi problemi né per punirlo, dato che avrebbe presto cambiato scuola e non sarebbe più tornato lì. E poi non era stata colpita, per cui non era il caso di sollevare un polverone. Certo era che, comunque, la cosa l’avesse scossa parecchio e che un bambino che arriva a tanto deve avere dei problemi seri.
 
 
 
Brianna e Yvan entrarono in classe piuttosto trafelati. L'insegnante di francese, che stava facendo leggere ad una bambina un semplicissimo dialogo tra due persone, si fermò ma non sembrò sorpresa, come se sapesse quello che stava per accadere. Vedendoli agitati disse loro di accomodarsi e di tranquillizzarsi e altre cose che Mackenzie, pur essendo vicina alla cattedra, non capì. Intanto i compagni attorno, Elizabeth compresa, avevano iniziato a mormorare, non comprendendo che cosa fosse successo e come mai ora Brianna aveva portato due fogli a Mac e Yvan gliene porgeva un terzo. Eliabeth fu colpita quando lo fecero anche con lei.
"Bambini, sono successe delle cose” esordì l’insegnante. “Ne parleremo presto tutti insieme, ora non preoccupatevi" li rassicurò.
“Non ci puoi dire nemmeno di cosa si tratta, Josephine?” chiese un bambino.
“È successa una cosa non molto bella e dovremo spiegarvela e parlarne in modo che, speriamo, non si ripeta. Non posso dirvi altro per ora.”
Che non succedesse era impossibile, purtroppo. Il bullismo c’è sempre e dappertutto, magari è nascosto, non più in una classe ma in un’altra. Era una piaga difficile da sconfiggere. Se avesse cominciato a parlarne forse gli altri avrebbero capito chi era stato preso di mira e iniziato a fare domande a Mackenzie e ad Elizabeth. Era meglio che non venissero tartassate, non sarebbe stato giusto e ne avevano già passate tante. In più Mac, con tutto quello che aveva vissuto, come aveva fatto ad affrontare anche questa? La donna la ammirava, ma le dispiaceva anche tantissimo per lei. Sinceramente avrebbe preferito che i due bambini avessero dato le lettere alle loro compagne in un altro momento, quando gli altri non potevano vedere. Forse le bambine si sarebbero sentite male nel momento in cui, quando avrebbero cominciato a parlare di bullismo, tutti avrebbero intuito che erano loro le vittime. In fondo la voce della sospensione di James e del suo cambio di istituto sarebbe circolata prestissimo, non ci voleva molto a fare due più due. Infatti aveva proprio chiesto ai bambini di consegnare i fogli più tardi, magari prima di uscire dalla classe per andare a mensa, ma loro avevano voluto farlo subito. In parte li capiva, lo ammetteva, o almeno credeva di farlo. I piccoli non avrebbero saputo esprimerlo vista la loro tenera età, ma forse desideravano liberarsi di un qualcosa che li opprimeva e, con la consegna di un foglio in cui avevano cercato di spiegare quello che sentivano, si erano tolti un pensiero.
Mackenzie trascorse tutta quell'ora battendo la penna sul banco e scrivendo e capendo poco. Intuiva cosa fossero quelle lettere, ma non sapere cosa contenessero la faceva stare male. La sua mente continuava a vagare tra i ricordi di tutto quel periodo e le preoccupazioni del presente, non dandole mai tregua. Fu solo al cambio dell'ora successiva, quando i bambini uscirono dall'aula per andare in palestra, che lei rimase un attimo indietro e, seduta al proprio posto, aprì la prima lettera. In fondo c'era il nome di James. Trasse un profondo respiro e iniziò a leggere:
 
Ciao Mackenzie,
scusa per le cose che ho detto, sono stato cattivo. Prometto che non lo faccio più. Mi perdoni?
James
 
Parole molto semplici, giuste per un bambino della loro età. Tuttavia, visto tutto quel che James le aveva fatto le apparivano forzate e false. La penna aveva lasciato segni così marcati da rischiare di bucare il foglio, il che denotava quanta rabbia aveva dovuto provare il bambino nello scriverle. Non l'aveva visto tornare in classe, non sapeva se ci avrebbe ancora parlato ma si augurava di no; e no, non l'avrebbe perdonato. Non provava nulla nei suoi confronti, se non una gran paura. Era troppo piccola per sapere cosa fosse il rancore ma comunque, se ne fosse stata a conoscenza, non avrebbe provato nemmeno quello. E non sentiva per lui neanche l'odio che invece nutriva nei confronti dell'uomo cattivo; o forse in parte sì, ma non in maniera tanto forte. Ad ogni modo, all'uomo e ai sentimenti per lui non pensava molto spesso. Aveva sempre sentito dire che l'odio fa male alle persone, le rende cattive anche se sono buone e lei non voleva diventare cattiva. Di tutta quella storia orribile, le uniche cose che davvero aveva in testa erano i ricordi, quelli che aveva di quella notte e di ciò che era accaduto dopo e, più di tutto, il dolore. Un dolore atroce e continuo. Non ne parlava spesso ma lo sentiva sempre nell’anima, nel cuore e nella mente. A volte quando pensava a loro e a quanto le mancassero sentiva una fita allucinante al petto e allo stomaco, come se anche il fisico soffrisse per la loro assenza.
Il 21 febbraio saranno due anni pensò. Mi sembra di averli visti ieri con quella ferita orribile e tutto quel sangue…
Si portò le mani al volto e pianse un fiume di lacrime, cercando di essere silenziosa. Il dolore era lancinante, doveva buttarlo fuori o sarebbe scoppiata e, siccome non riusciva ad urlare - ce l’aveva fatta solo qualche volta e comunque non era il luogo adatto, - piangere era l’unico modo che aveva per liberarsi almeno un po’ di quel peso. Nel giro di qualche minuto si ritrovò senza energie e con il viso inondato, gli occhi ardevano come un fuoco, ma decise di distrarsi - se di distrazione si poteva parlare – leggendo il secondo foglio. Cercò di concentrarsi perché la sua mente era ancora ai suoi genitori e a quella notte. Le venne un conato di vomito ma trasse un lunghissimo respiro per calmarsi e riprendersi.
La lettera di Yvan non era molto diversa dalla precedente, anche se a Mac le sue parole suonarono almeno in parte vere. Ora restava solo quella di Brianna. Ma perché non tornava nessuno a controllare come mai era rimasta in classe? Era sicura che la maestra avesse visto che aveva in mano le lettere.
"Tutto bene?"
Era proprio lei, infatti. Era tornata.
Con chi hai lasciato gli altri? chiese la bambina, pensando che era impossibile che fossero rimasti soli.
"Una mia collega che era ancora in palestra con i suoi. Sono molti meno di voi, e siccome non potevo lasciare sola nemmeno te sono tornata subito. Stai bene?"
Non lo so ammise. In parte sì. Insomma, finalmente io e Lizzie siamo riuscite a dire quello che ci faceva stare male e ora lo sapete anche voi. In parte, però, ho paura concluse abbassando lo sguardo.
"Non c'è nulla di cui vergognarsi in questo" le rispose la maestra con un gran sorriso. "Di cos'hai paura?"
Quella domanda la colpì come una freccia al centro del petto, ma rispose comunque.
Che possano farmi ancora del male. Farci puntualizzò, perché alla fine non stava soffrendo solo lei e, anche se non lo diceva, Elizabeth provava lo stesso, ne era certa.
L'insegnante prese una seggiola e si sedette davanti a lei, così da essere alla sua altezza, poi allungò le mani lentamente, non sapendo se Mackenzie volesse prendergliele o meno. Non era sua intenzione metterla in imbarazzo o costringerla a fare qualcosa che non voleva. Dopo un attimo d'esitazione la bambina gliele strinse forte.
"Non so dirti se succederà di nuovo o no, tesoro" sussurrò con dolcezza, "ma se dovesse accadere, tu dovrai essere coraggiosa come sei stata qualche giorno fa e raccontare tutto, però subito, questa volta. Lo so che fa paura, che quando succedono queste cose si pensa sempre che passeranno in fretta, ci sono passata anche io. Ma c'è differenza tra le prese in giro e il bullismo."
Mackenzie annuì.
Anche tu hai sofferto?
Gli occhi grigio-verdi della maestra si rabbuiarono. Incurvò leggermente le spalle e il suo viso si accartocciò in una smorfia di dolore. Una sofferenza che, pensò la piccola, era molto simile a quella che aveva visto negli occhi del papà quando era stato male.
“Sì” sussurrò la ragazza. “Molto. Ma ora è tutto passato, sto bene” concluse sorridendo.
Aveva dovuto sforzarsi molto per riuscirci, però era stato giusto così. L’aveva fatto per Mackenzie, per non causarle altro dolore. Quello che Justice Evans non le disse fu che, nonostante il suo luminoso sorriso e il fatto che sembrasse sempre felice, in passato aveva sofferto moltissimo a causa dei bulli, soprattutto al liceo, e che nemmeno parlarne con i suoi genitori e con gli insegnanti era servito a molto perché poi loro avevano continuato, nonostante le sgridate e le punizioni. E così lei un giorno, all'ultimo anno, devastata da tutto lo schifo che le lanciavano addosso, aveva preso delle pillole dopo aver scritto una lettera d'addio ai suoi genitori nella quale aveva riversato tutta la sua sofferenza. Se proprio loro non l'avessero trovata in tempo sul divano di casa, sarebbe morta. Erano passati anni e adesso, dopo un lungo periodo di terapia, alti e bassi e tanto sostegno da parte di famiglia e amici, stava bene ed era serena. Nell'anima però le restavano dei segni indelebili, cicatrici che ogni tanto dolevano ancora e che l'avevano resa più forte. Se c'era una cosa di cui si rimproverava, per quanto concerneva la situazione di Mackenzie, era di non essersene accorta prima visto quello che lei stessa aveva vissuto, però quello era un sentimento che accomunava tutte le insegnanti.
Grazie scrisse la bambina, riportandola al presente.
"Figurati! Non siamo qui solo per insegnare."
Mackenzie aprì la busta che conteneva l'ultima lettera e distese sul tavolo il foglio. La maestra stava per allontanarsi, probabilmente pensando che si sarebbe sentita in soggezione o osservata avendola lì, ma lei la fermò.
Rimani, Justice, ti prego! la implorò.
Brianna era stata molto cattiva con lei, anche se meno degli altri, e se fino a quel momento Mac aveva tirato fuori un coraggio che non credeva le appartenesse leggendo le lettere precedenti senza nessuno a sostenerla, adesso sentiva di avere un disperato bisogno di avere lì qualcuno. Purtroppo la mamma non poteva esserci, quindi la maestra Justice che si era dimostrata così gentile in quella situazione era l'unica a cui poteva aggrapparsi.
"Va bene. Non ti lascio, tranquilla" le disse infatti con dolcezza materna, scivolando poi nel silenzio per darle il tempo di leggere e di assimilare quelle parole.
Mac si disse che Brianna doveva essere stata aiutata dalla Direttrice viste le parole che aveva utilizzato, ma non era importante.
 
Ciao Mackenzie,
oggi la Direttrice ci ha spiegato che abbiamo sbagliato tutti con te, e mi dispiace. Scusa a nome mio e degli altri.
Pensavamo fosse divertente, James ci aveva detto così e noi abbiamo… giocato. Ma non è un gioco, questo. La parola "gioco" e quello che ti ho detto insieme fanno proprio schifo.
Eri stata gentile a darmi quel biglietto e l’ho strappato, poi ti ho detto delle cose brutte che ancora ricordo. E ho parlato tanto alle tue spalle. Ma non ti ho mai chiamata Muta, giuro. Era James a farlo, e trovo bruttissimo quello che ha fatto a te e a Lizzie. Tutti vi abbiamo ferite, chi dentro e chi anche fuori. Io non lo faccio più, promesso. Mi perdoni?
Brianna
 
Lei sembrava veramente pentita, forse iniziava a capire di aver sbagliato e, magari, avrebbe voluto anche rimediare.
Andiamo, maestra disse Mackenzie.
"Sei sicura?"
Sto un po' meglio, credo.
Si sorrisero e poi si diressero in palestra. La bambina andò in spogliatoio e si cambiò le scarpe infilandosi quelle da ginnastica che aveva portato in un sacchettino di tela, poi raggiunse i compagni che erano tutti seduti in cerchio. Nel frattempo, l'altra insegnante se ne andò con la sua classe. Brianna la guardò e le fece un piccolo sorriso, ma non si avvicinò. Mackenzie apprezzò quel gesto: voleva lasciarle i suoi tempi, che fosse lei a decidere cosa fare. Yvan, invece, le fu subito accanto e le corse incontro così velocemente che quasi la travolse.
"Hai letto? Hai letto, vero? Perdonami, devi perdonarmi!" esclamò.
No, lei non doveva proprio niente! In quel momento si domandò se quelle lettere fossero state date anche a Lizzie - era stata così concentrata sulle sue che non si era accorta che non era stata la sola a riceverle -, e cosa ne pensava. Beh, gliel'avrebbe chiesto dopo.
Sono molto arrabbiata, Yvan. Non ci riesco. Scusa rispose, come se avesse dovuto scusarsi di qualcosa, poi e lo lasciò così, interdetto, in piedi al centro della palestra. Si diresse da Brianna e la salutò, dopodiché scrisse: Ho letto la tua lettera.
"Mackenzie, io… cioè, non volevo, o meglio sì volevo, ma oggi ho capito che era una cosa brutta e io non sono così, non…"
Ho capito che sei sincera, Brianna. Mi hai fatto molto male, però, e non posso far finta di no. Ti perdono, comunque, almeno credo. Tu promettimi solo che non lo farai più e lasciami stare, okay?
Non avrebbe mai potuto voler conoscere o diventare amica di una persona che l'aveva presa in giro, offesa e bullizzata. Ammirava il fatto che si fosse accorta di aver sbagliato, ma l'aveva comunque fatto e non se la sentiva di darle una seconda possibilità perché, quando pensava a Brianna e agli altri due, provava solo emozioni negative: dolore, tristezza, paura, disgusto. Inoltre, nessuno le assicurava che non si sarebbe comportata ancora così.
"D'accordo" rispose l'altra, abbassando lo sguardo.
Era evidente che si aspettava qualcosa di più, qualcosa che Mac non poteva darle.
Mackenzie si allontanò da lei e si avvicinò ad Elizabeth. Seduta a gambe incrociate, in disparte, mentre l'insegnante cercava di far tacere tutti, aveva lo sguardo corrucciato.
Che c'è? le chiese l'amica, preoccupata. Vieni con gli altri, la lezione sta per iniziare.
"Non me ne frega niente della lezione" disse, proprio mentre la signorina Evans chiamava entrambe.
Elizabeth disse di dover andare in bagno, poi uscì e Mac la seguì, tanto la strada per i bagni era pochissima, si trovavano nel corridoio degli spogliatoi.
Mi dici che…
Non riuscì a finire la domanda perché, non appena vide un cestino, Elizabeth sollevò la mano, strappò delle carte che teneva e le gettò via con una furia che Mac non le aveva mai visto.
"Hai letto quelle lettere?" chiese Lizzie.
Sì.
"E?"
Ho più o meno perdonato Brianna, gli altri no. Tu?
Credeva di conoscere già la risposta, ma l'aveva domandato lo stesso.
"Visto che ci hanno trattate male e isolate io no, non li ho perdonati. E ho gettato via quelle lettere senza aprirle, se proprio vuoi saperlo" terminò, aspra.
In lei si agitavano una rabbia e un dolore pazzeschi, sentimenti che in Mac si erano un po’ acquietati almeno per il momento. Era vero, restava anche in sospeso la questione isolamento. In fondo era una cosa che riguardava tutti i compagni, che non le facevano giocare e mangiare con loro. Mackenzie non disse niente. Non se la sentiva di condannare l'amica per quel gesto. Forse per rispetto avrebbe dovuto dare un'occhiata a quei fogli, ma non era di certo obbligata a perdonare e, mentre lei aveva lasciato aperto un piccolo spiraglio, almeno per Brianna, l'altra aveva alzato un muro tra lei e i bulli.
Vuoi parlarne?
Lizzie fece cenno di no e poi aggiunse:
"Non adesso, sono troppo arrabbiata. Grazie, comunque."
Almeno l'aveva ringraziata. Mac decise di lasciarle il tempo di sbollire e le due tornarono in palestra per iniziare a giocare e correre.
“Mac, Lizzie!” le chiamò Brianna e poi si avvicinò mentre correvano.
“E adesso cosa vuole questa?” borbottò Elizabeth stizzita.
Mackenzie le appoggiò una mano sulla spalla per cercare di tranquillizzarla.
“Io e Yvan spiegheremo tutto agli altri. Diremo loro di farvi sedere al loro tavolo e di giocare con voi, se lo vorranno. Credo di sì comunque. Katie si è arrabbiata spesso con noi perché avevamo imposto questa regola a tutti, e anche altri l’hanno fatto, ma James era cattivo e avevano tutti un po’ paura.”
Grazie, Brianna le rispose Mackenzie.
“Quello non è normale” mormorò Elizabeth e la sua amica annuì.
Ma a proposito, dov’era?
 
 
 
Andrew aveva deciso di andare al lavoro a piedi, quella mattina. Camminare gli faceva bene, gliel'avevano detto il medico, la psicologa e lo psichiatra, perché aumentava le endorfine e, in sostanza, migliorava l'umore. Quel giorno, però, il suo non avrebbe potuto essere più nero. Era difficile camminare e dover aspettare minuti interi a causa di tutto quel traffico, comunque. Tuttavia lo sapeva benissimo, quindi non era poi tanto infastidito. Lui e Demi non litigavano spesso e, purtroppo, a volte quando lo facevano era colpa sua. Stavolta però era stata lei a sbagliare. Le parole che aveva detto lo avevano ferito profondamente. Avrebbe aspettato che fosse stata lei a scusarsi e a fare il primo passo. Era sicuro che sarebbero riusciti a risolvere, l'avevano sempre fatto.
"Tu non sei suo padre."
Quella frase continuava a rimbombargli nella testa a ripetizione, come un disco rotto. Faceva male, come se qualcuno gli avesse spezzato ogni singolo osso del corpo. Anzi no, era anche peggio perché ad essere rotto, in realtà, era il suo cuore. Nonostante il dolore che quelle cinque parole gli provocavano, la sua ragazza gli mancava da impazzire. In parte era arrabbiato con lei, stava male, ma d'altro canto gli sembrava di non respirare senza Demetria vicino. Mentre procedeva verso lo studio legale ascoltava musica sul suo iPod ma non riusciva a concentrarsi, non capiva il senso delle parole e a volte si distraeva così tanto che quasi non comprendeva quando terminava una canzone e ne iniziava un'altra. Ed Sheeran, James Blunt, Rihanna, Anastacia, tutti cantanti che gli piacevano molto, ma che al momento non riusciva ad apprezzare.
Una volta arrivato non salutò nessuno - il che sì, era molto maleducato da parte sua, e poco dopo si sentì male per questo - ma al momento non aveva voglia di parlare o di rispondere alle domande dei colleghi. Le più ovvie, e quelle che tutti si ponevano l’un l’altro soprattutto il lunedì dopo il weekend erano:
"Come stai?"
e
"Cos'hai fatto nel fine settimana?"
e lui non aveva voglia di rispondere a nessuna delle due. Per questo si diresse nel suo ufficio e, dopo un’ora nella quale sistemò alcune carte, andò in tribunale. Aveva un'altra adozione da finalizzare, quel giorno, il che lo faceva sorridere. Almeno non doveva occuparsi di un divorzio - aveva lì tutti i documenti che una donna, nel pomeriggio, avrebbe dovuto venire a firmare per poi mandarli al marito, comunque. Iniziare la giornata con quelle questioni l'avrebbe reso ancora più triste. Si era sempre detto che avrebbe dovuto separare il lavoro dalla vita privata, non pensare ai problemi mentre era lì, dividere la sua mente a compartimenti stagni; e questo gli era stato inculcato anche all'università, ai corsi di formazione e il primo giorno in cui era arrivato nello studio di Jennifer. Lui ci provava, ci metteva tutto il suo impegno, ma non sempre ci riusciva. Il viaggio in macchina fu un po' lungo, ma fortunatamente non arrivò in ritardo. Fuori dall'edificio, una donna lo aspettava. Aveva un passeggino davanti a sé.
"Amelia, salve!" la salutò gentilmente Andrew stringendole la mano.
"Buongiorno, avvocato" ricambiò lei con un sorriso tirato.
"Emozionata?"
"Anche ansiosa, direi."
La donna rilasciò un gran sospiro, come se avesse trattenuto il fiato per chissà quanto tempo. Aveva quarantasette anni ed era ancora molto bella, con i capelli neri e lunghissimi e due occhi scuri  e profondi. Dopo un lungo matrimonio finito perché aveva scoperto che il marito giocava d'azzardo e, nonostante la buona volontà di lei che si era offerta di aiutarlo per curare quella dipendenza non era riuscito a smettere, alla donna ci erano voluti diversi anni per riprendersi. Ora stava bene, sapeva di aver fatto la cosa giusta lasciandolo nonostante l'amore che aveva provato per lui e, dato che tutto andava per il meglio nella sua vita - la casa era rimasta a lei, aveva un lavoro, una stabilità economica e si sentiva bene in tutti i sensi -, aveva deciso di realizzare quello che era da sempre stato il suo sogno: avere un bambino. Con il marito ci aveva provato per molto tempo, anche con l'inseminazione, ma purtroppo non era mai arrivato. Stavano pensando all'adozione quando lei si era accorta della dipendenza dell'uomo e tutto era andato in fumo. Il percorso di Amelia non era stato facile. L'età di certo non aveva giocato a suo favore, ma era riuscita a trovare un'assistente sociale che l'aveva seguita benissimo e l'aveva ritenuta idonea all'adozione. Nonostante avesse adottato dal sistema dell'affidamento Amelia rappresentava uno di quei casi estremamente rari, tanto da poter essere definiti eccezioni, in cui una donna di una certa età riusciva ad adottare seguendo quella strada un bambino di appena due mesi. Ed ora era lì, dopo dieci, con il piccolo Cooper, per finalizzarla e diventare sua madre di fronte alla legge.
"Mi tremano le gambe" continuò la donna, mentre la voce le si spezzava.
"Mi guardi." Quella di Andrew invece era sicura e anche dolce, per quanto il suo lavoro glielo permettesse. "Andrà tutto bene, il più è fatto ormai."
"Sì…"
Lì c'erano delle coppie in attesa di finalizzare un'adozione, lei era l'unica single. I due stavano per entrare ma, in quel momento, il bambino si svegliò e si mise a piangere. Amelia lo tranquillizzò subito sussurrandogli parole dolci mentre Andrew la guardava pensando a Demi. Anche lei era così: guardava le figlie con lo stesso, sconfinato affetto, con la medesima adorazione.
"Vuole prenderlo in braccio?" gli chiese la signora.
Di solito Andrew non prendeva mai in braccio i bambini delle persone che aiutava, perché non lo trovava un comportamento professionale. Nonostante gli facessero tantissima tenerezza, soprattutto se piccoli come in quel caso, e anche se ascoltava le famiglie quando avevano un problema e cercava di aiutarle o di calmarle, non si spingeva mai più in là. In quel caso però era stata Amelia a chiederglielo, per cui fece cenno di sì e sorrise. Si avvicinò al passeggino, sganciò le cinghie e sollevò Cooper, mentre lui lo guardava incuriosito con i suoi grandi occhi castani. Aveva i capelli dello stesso colore e un visetto paffuto che l'uomo avrebbe riempito di baci, ma si trattenne.
"Ciao, piccolino!" lo salutò, e lui fece un sorriso enorme. "Vedo che è a suo agio con le persone che non conosce" commentò poi l'avvocato, non sapendo cos'altro dire.
"Oh sì, per fortuna! Sorride a tutti."
"Come Hope" mormorò l'altro più a se stesso che a lei, ma la donna lo sentì perché gli domandò di chi stesse parlando.
"Di mia figlia. Ne ho due, per la verità, una di sei anni e l'altra, Hope appunto, che ne ha quasi due."
Amelia sorrise, forse immaginando come sarebbe stato Cooper a quelle età.
"Mamma" disse il bambino indicandola.
Si guardava intorno con curiosità, ma poi puntava sempre gli occhi verso di lei come se, inconsciamente, avesse paura che sparisse.
Amelia lo salutò con la  mano e poi disse:
"Ha imparato in questi giorni. È bellissimo! Ogni volta che lo dice, io provo una gioia che non credevo possibile!"
Aveva gli occhi lucidi.
"Posso solo immaginarlo. È stato così anche per la mia ragazza. Entriamo?"
Lei riprese il bambino e lo rimise nel passeggino, poi si diressero all'interno. Un paio d'ore dopo - dovettero aspettare perché prima c'erano altre famiglie - uscirono e tutto era andato benissimo. La parte burocratica relativa all'adozione era conclusa. Dopo aver salutato la sua cliente e Cooper, Andrew risalì in macchina e accese il cellulare. Quelle situazioni per lui erano sempre molto emozionanti e una volta uscito dal tribunale si era lasciato andare e si era commosso. Ora, però, rimase sconvolto quando vide così tante chiamate e da persone che di solito non gli telefonavano mai. Guardò tutte quelle scritte sullo schermo e rimase senza fiato. Che era successo? Le scorse ad una ad una per dirsi che non stava sognando.
Dianna.
Phil.
Joe.
Selena.
Eddie.
Dallas.
Selena.
Dianna.
Dianna.
Eddie.
Dallas.
Eddie.
Madison.
Dianna.
Dianna.
Dianna.
C'erano un'altra trentina di chiamate, circa cento messaggi su WhatsApp e anche qualcuno normale. Gli sfuggì un lamento di frustrazione. Che cosa volevano tutte quelle persone da lui? Non sapevano che era al lavoro? Subito dopo si diede del coglione e si disse che, se l'avevano chiamato quando non lo facevano mai, ci doveva essere una ragione precisa. Che fosse successo qualcosa alle bambine? O a Demi? Sentì la testa pesante, come se qualcuno stesse esercitando su di lui una forte pressione e la percepì anche al petto dove il cuore, adesso, gli doleva ancora di più. Prima di perdere completamente il controllo e non volendo fare un incidente accostò, spense il motore, trasse un lunghissimo respiro e decise di chiamare Dianna, visto che era quella che gli aveva telefonato più volte. La donna rispose dopo un solo squillo.
"Andrew! Finalmente, non sapevamo più come contattarti. Devi venire subito, abbiamo bisogno di… insomma, non… lei non…"
Prima che potesse dire qualcosa, l'uomo sentì la voce di Eddie in sottofondo. Sembrava stesse rassicurando la moglie o qualcosa del genere, poi fu proprio lui a parlargli.
"Andrew, ascolta" disse, con voce rotta come se avesse pianto. "È successa una cosa. Magari non è niente e ci stiamo preoccupando per nulla, però…"
"Eddie, cos'è capitato?"
Era esasperato, non ne poteva veramente più. Se dovevano dirgli qualcosa di brutto che lo facessero immediatamente, maledizione! Ma quanto udì rischiò di mandarlo fuori di testa.
"Demi è scomparsa."
Gli ci volle qualche secondo per registrare quelle informazioni, tutto gli sembrava troppo veloce per la sua testa. Cercò di collegare la prima parola alla seconda, poi quelle due alla terza.
"Cosa?” quasi gridò. Che… che significa?"
Che diavolo stava succedendo, ora? Non ci capiva più niente.
Finita quella telefonata, calde lacrime rigavano le guance dell'uomo. Eddie gli aveva descritto la situazione - per fortuna era sparita solo da due ore - e avevano deciso di non allertare la polizia, per il momento. Lui aveva spiegato quel che era accaduto la sera prima e Eddie gli aveva detto di non sentirsi in colpa, che lui non aveva fatto niente e di cercarla, di andare nei posti che frequentavano insieme, o in quelli in cui magari Demi, da giovane, si appartava per voler stare sola, se ce n'erano e se li conosceva. Loro intanto la stavano cercando in città. L'ultima cosa che aveva sentito erano stati i singhiozzi di Dianna. Lui aveva suggerito che forse voleva solo stare da sola, che forse non era il caso di allarmarsi adesso. Ma Dianna era agitata, anche perché c'era la questione della macchina abbandonata per strada, dove terminava la città e ci si avvicinava a colline e zone boschive. Eddie aveva detto che non c'erano segni di frenate sull'asfalto, né graffi sull'auto o altro che potesse segnalare che aveva fatto un incidente. Tuttavia, nonostante si dicesse di stare calmo, Andrew non ci riusciva. Doveva cercarla, anche a costo di essere cacciato via da lei in malo modo se l'avesse trovata, anche a costo di litigare di nuovo.
"Dove sei?" si chiese, mentre iniziava a girare senza meta. "Come stai? Cosa ti è successo? E' colpa mia?"
Solo il vento gli rispose.
 
 
credits:
Ed Sheeran, Nancy Mulligan
 
 
 
 
NOTE:
1. mi sembrava importante spiegare come mai Mary aveva avuto Elizabeth poco dopo essere guarita, non volevo che sembrasse una cosa scritta e buttata là a caso, o dare l’impressione di non prendere sul serio malattie come la depressione o la bulimia;
2. il fatto che Demi stimoli la figlia a parlare è molto positivo, ovviamente non deve farlo troppo. La critica ai genitori che invece non lo fanno, concentrandosi solo sulla mimica dei bambini è rivolta ad una persona che conosco molto bene e che con la sua bimba fa così, tanto che lei a quasi due anni di età sa dire solamente “Nonno” e “Papà”. Sarà che io, anche a causa della mia disabilità, ho iniziato a parlare presto e che mio fratello, non potendo comunicare con me grazie agli occhi ha dovuto fare lo stesso, però non trovo giusto rendere tutto facile ai bambini solo perché si fanno capire tramite le espressioni facciali o i gesti delle mani;
3. spero di aver trattato bene la questione del bullismo. Essendo bambini ho dovuto andarci molto piano, ma al contempo volevo che comprendessero i loro sbagli. Brianna sembra inizire a riuscirci, gli altri no;
4. gli errori che i bambini fanno, come congiuntivi sbagliati, indicativo al posto del congiuntivo e così via sono voluti;
5. purtroppo, fenomeni come il bullismo (ma non solo questo) possono portare una persona alla disperazione più totale e assoluta. Ci sono stati casi di ragazzi e ragazze che si sono suicidati per questo, per colpa della cattiveria di altri compagni. Justice per fortuna ce l’ha fatta, ma la mia è solo una storia. È orribile che cose del genere accadano nella realtà, che delle persone arrivino a fare così male a chi è più debole da spingerlo ad ammazzarsi per smettere di soffrire e di impazzire. Non è giusto.

 
 
 
ANGOLO AUTRICE:
dopo un fortissimo mal di schiena e alle spalle che mi ha letteralmente bloccata e mi dà ancora problemi, un’influenza durata quasi un mese e altri casini, eccomi qui ad aggiornare con un ritardo assurdo e vergognoso. Non so davvero come scusarmi. Sappiate che non voglio mancarvi di rispetto e che il mio interesse per questa fanfiction non è affatto calato.
Sì, ho finalmente deciso come scrivere i titoli dei capitoli, mettere solo il numero non mi sembrava più così interessante. Lo so che è una cazzata, ma io sono una molto precisa, soprattutto nella scrittura.
Il capitolo era così lungo (superava ampiamente le cinquanta pagine) che ho dovuto dividerlo in tre, considerando che in questo avrei dovuto parlare anche dei restanti giorni prima del Battesimo, ma non ci sono riuscita. Ho tagliato alcune scene, dialoghi, ma più di così non potevo fare. (Ho anche tolto un capitolo futuro che non dava niente alla storia, comunque, quindi tagli ce ne sono parecchi). La seconda parte, cioè l’altro capitolo, è quasi pronta. Se volete ve la posso postare la prossima settimana, o tra due, ditemi voi. Io a luglio starò via due o tre settimane e non avrò internet, quindi non potrò pubblicare in quel periodo, ma mi porterò il PC e continuerò a scrivere.
 
Comunque, qui succedono un po’ di cosette come avrete potuto notare. Ci ho pensato molto prima di inserire quella questione della polizia. Se ci pensate ha senso: è accaduto qualcosa, ma Mac non se lo ricorda, e anche se magari è soltanto un’offesa detta da quell’uomo, credo che la polizia debba saperlo. Forse non dovrei perché diminuisco l’interesse, ma non voglio che vi facciate film mentali più che altro, quindi… non posso dirvi cosa Mackenzie non ricorda, ma non sarà nulla di così rilevante da riaprire un caso o fare un processo, assolutamente. E non vi dico nemmeno se lo ricorderà in questo libro o nel prossimo. Ma, anche se non sarà importante per la polizia, lei cosa proverà?
 
Cos’ha fatto Andrew? Quando pensava ai suoi gatti di prima sembrava si sentisse in colpa per qualcosa… E Mackenzie? Cosa dovrà dire alla psicologa di tanto importante che potrebbe sconvolgere tutti? E che cavolo è successo a Demi? Dov’è andata? Le è capitato qualcosa di brutto?
   
 
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