7.
Green
forest
Ritornai
a casa con gli occhi
gonfi e rossi.
La
tristezza che mi appesantiva
il petto faceva male e non ero completamente sicura che fosse colpa di
Jacob;
dopotutto lui aveva cercato di conquistarmi con gli unici mezzi che il
suo
stupido cervello mal funzionante gli avesse suggerito.
Quando
mi chiusi la porta
d’ingresso lanciai un urlo di rabbia, consona che non ci
fosse nessuno in casa
a quell’ora.
Mi
diressi verso camera mia e
sbattei la porta mentre la chiudevo dietro di me.
L’ira
dentro di me era cieca e
immotivata, ma mi sembrava palpabile come una cortina di fumo; guardai
furiosa
il cellulare lasciato sul materasso e vidi che c’erano tre
messaggi e un paio
di chiamate perse.
Tutte
di Bella.
Dovevo
chiamarla per aiutarla,
per sapere come stava e per assicurarmi che la rottura con Mike stesse
guarendo?
Perché
io?
Aveva
più amiche di me in quella
stupida cittadina piovosa, poteva benissimo andare da loro a piangere
ogni sua
lacrima.
Io
avevo già le mie e non avevo
nessuno a cui confidare quel dolore in mezzo al petto.
Non
avevo più Jacob, il vecchio e
solare Jacob, né avevo Jasper, il dolce Jasper sempre
preoccupato per me.
Il
cellulare squillò per
l’ennesima volta, quella giornata, ma questa volta riconobbi
il numero alla
prima occhiata; ed era un numero che non volevo vedere.
Mia
madre stava cercando di
contattarmi?
Dopo
quasi un mese
che me ne ero
andata di casa senza dire una parola? Strano, avevo pensato che
avrebbero
resistito di più senza la loro piccola cenerentola.
Non
risposi, ovviamente, ma
stetti a guardare lo schermo lampeggiare e mostrare la sfilza di numeri
che io
avevo imparato subito a riconoscere a memoria.
Mia
madre rinunciò a chiamarmi
dopo qualche squillo a vuoto.
Sospirai,
cercando di ricacciare
indietro le lacrime inutili e di riuscire a fare qualcosa per il giorno
successivo, il giorno della gita.
Avevo
già preparato una piccola
borsa con il blocco degli appunti e dei guanti in lattice usa e getta,
ma per
noia la ricontrollai una seconda volta.
Poi
mi alzai per scegliere i
vestiti più adatti per una scampagnata simile: jeans spessi,
maglione a collo alto color oro e giacca scamosciata, oltre che scarpe
da ginnastica con suola
antiscivolo.
Era
tutto pronto, non avevo nulla
da fare.
Non
trovai altra soluzione che
stendermi sul letto e osservare il soffitto mentre la giornata cambiava
colore,
da grigio pallido del pomeriggio coperto al nero della notte che
avanzava.
Esaminai
meglio la reazione di
poco prima: cosa mi aveva fatta arrabbiare così tanto?
Che
Jake stesse cercando di
allontanarmi da Jasper in ogni modo possibile?
Che
Billy mi avesse messo addosso
una paura del diavolo con quella frase?
Oppure
era semplicemente una
malattia che stavo covando?
Con
il tempo di Forks, poi, la
terza era la più probabile delle teorie.
Altre
lacrime scesero senza che
io sapessi perché.
Ero
arrabbiata con mia madre, con
mio padre, con tutti quelli che mi avevano obbligato ad andarmene da
casa mia,
che mi avevano costretta a lasciare tutto quello che conoscevo per
affrontare
una vita che non mi sembrava appartenere.
Stavo
sempre in casa, non uscivo
mai.
Forse
era quello il problema; la
mia psiche si stava ribellando a quella vita monotona che stavo
seguendo senza
accorgermene.
Mi
promisi che il giorno dopo,
appena tornata dalla gita scolastica, sarei andata a Port Angeles e
avrei fatto
un giro di vetrine.
Tanto
per tornare un attimo
all’adolescenza che mi stavo facendo sfuggire dalle mani.
La
mattina dopo svegliarsi fu
abbastanza facile, dato che non avevo dormito molto e quindi rialzarsi
dal
letto praticamente già fatto non fu un’impresa.
Mi
vestii come avevo programmato,
senza voglia e con il morale sotto i piedi; presi la borsa e mi diressi
al
piano inferiore, per prepararmi qualcosa prima di partire.
Nonno
Arthur era nella sua camera
a dormire, potevo sentirlo russare, e questo mi
tranquillizzò un pochino.
Preparai
un paio di panini con
prosciutto e pomodori, li avvolsi prima nella pellicola trasparente poi
nella
stagnola e infine li cacciai nella sacca a tracolla che avevo.
Non
mangiai niente però, per
paura di arrivare in ritardo: saremmo partiti con un piccolo autobus
dal
parcheggio della scuola almeno mezz’ora prima del solito
orario scolastico e se
qualcuno fosse arrivato in ritardo sarebbe rimasto
nell’edificio a seguire le
lezioni con le classi rimanenti.
E
quello per me non era
auspicabile.
Come
solito pioveva, ma non a
dirotto come solito; era una pioggerellina leggera, tanto per
umidificare l’aria
già satura.
Salii
sul pick-up e di nuovo la
strana rabbia del giorno prima mi prese alla gola, come se qualcuno
tentasse di
strozzarmi.
Stavo
ripensando a mia madre e a
mio padre, al motivo per cui ero scappata di casa. Non sarei mai
più tornata,
potevano scordarselo.
Non
dopo quello che mi avevano
fatto.
Accesi
il motore e mi immisi
nella strada per raggiungere la scuola; mentre stavo guidando riconobbi
dietro
di me la spider rossa fiammante e la jeep scura dei Cullen.
Mi
superarono entrambe molto
velocemente, senza segni di saluto o di avermi riconosciuta a bordo del
mio
Toyota.
La
mia rabbia passò dai genitori
a Jasper.
Si
era allontanato da me dopo
avermi offerto una panoramica del paradiso –e sapevo che il
paradiso odorava di
grano e girasoli– e mi evitava.
Non
mi sorrideva più in quel modo
dolce e rassicurante.
Non
mi guardava più con quegli
occhi liquidi e dorati che avevo imparato a riconoscere in mezzo a
miliardi di
altri occhi.
Con
un pensiero assurdo, sperai
in quel momento che lui potesse avvertire la pugnalata fredda dei miei
pensieri
nella schiena, o che almeno gli stessero fischiando le orecchie.
Arrivai
nel parcheggio che le
auto dei Cullen erano già nei loro soliti posti.
Io
parcheggiai il mio grosso
veicolo nel primo posto libero che trovai, scesi sbattendo forse
più del dovuto
la portiera e mi guardai attorno con astio.
Nessuno
quel giorno doveva
rivolgermi la parola, era uno di quei giorni in cui anche il
più affettuoso dei
saluti ti sembra un insulto.
Raggiunsi
il piccolo autobus
giallo, salutando con finto garbo il professore, e mi sedetti negli
ultimi
posti, vicino al finestrino.
Sarebbe
stata una lunga giornata.
In
effetti nessuno mi salutò
quella mattina –tranne Raven, ma il suo fu piuttosto un
accenno di capo condito
di una risatina– e mi andò bene così.
Mi
andò meno bene quando scesi e
Mike Newton si attaccò a me, come se mi conoscesse da una
vita; non gli parlai
per tutto il tempo della lezione. Rimasi muta e munita di guanti a
sbriciolare
nervosamente foglie di ortiche e di cicuta.
Non
stavo prendendo appunti e
sinceramente non me ne importava più di tanto in quel
momento.
Quando
sentii Newton parlare
riguardo alla festa di fine anno, io sbattei foglie e coltello sul
piccolo
tavolino da campo che stavamo dividendo e lo fulminai con lo sguardo «io
non intendo andare a quell’accidenti
di festa, tanto meno con te! »
esclamai, forse a voce un po’ troppo alta.
Tutti
si voltarono a guardarmi,
straniti.
Anche
Mike mi osservò come se
fossi matta «come
hai fatto a…»«Field,
c’è qualcosa che non va? »
lo interruppe il professore, avvicinandosi
al nostro tavolino.
Io
presi un profondo respiro e
disegnai a forza un sorriso cortese sulle mie labbra «no,
nessuno. Vado a prendere
altre foglie»
dissi e portandomi appresso il coltello –solo per il
puro gusto di tenere qualcosa in mano– diedi le spalle alla
classe e mi
inoltrai nella foresta.
Camminai
a lungo, senza cercare
nulla.
Mettevo
un piede davanti all’altro
per cancellare la rabbia che mi rodeva da dentro: in quel momento tutti
sembravano essersi messi d’accordo per farmi perdere le
staffe.
Bella
con il suo piccolo problema
di cuore, Mike Newton con quella sua mania di voler uscire con me,
Jacob e il
suo cambiamento radicale.
Jasper
e la sua indifferenza.
Era
quella che mi faceva più male
e capii che era quello il motivo della mia rabbia: era sfociata per non
lasciar uscire la tristezza.
Calciai
con poca forza un
ciottolo e mi sedetti sulla grande radice ricoperta di muschio di un
albero.
Era
tutto così verde e fresco in
quella foresta che mi metteva la voglia addosso di stendermi in mezzo
al
sottobosco a dormire.
Il
fruscio lieve delle foglie
mosse dal vento, i canti degli uccelli e i versi degli altri animali;
per un
momento fui in pace con me stessa e con il mondo che mi circondava.
Un
po’ come una pomata fresca su
una ferita che bruciava.
Un
po’ come il fazzoletto di
Jasper sulla ferita sanguinante.
Ecco,
mi diedi della stupida, stavo
pensando di nuovo a quel ragazzo freddo e maligno; freddo per la sua
indifferenza, maligno perché mi aveva portato a un passo
dalla felicità senza
concedermela.
Sentii
una mano fredda sulla
spalla, così dannatamente fredda, e mi alzai di scatto
girando su me stessa.
Come
se lo avessi chiamato, il
biondo ragazzo era in piedi dove prima io stavo seduta «mi
stavo preoccupando»
disse soltanto, con la sua voce
cadenzata.
Io
lo fissai, stringendo il
coltello nella destra, con un’espressione diffidente «per
prendere un paio di ortiche
ci stavi mettendo troppo»
aggiunse, sfoggiando ancora una volta il suo sorriso.
Ero
troppo arrabbiata, però, per
poter cedere come tempo prima a quella sfolgorante espressione «e
a te che importa se faccio una
brutta fine oppure no? »
gli chiesi, sputando quanto più veleno possibile.
Il
suo viso s’incupì «a
me importa molto»
disse scendendo con un balzo
agile dalla radice sollevata «per
questo sono stato lontano da te. È per questo che
sei arrabbiata».
Non
spiegai come sapesse tutto
quello che io non avevo detto a nessuno, quasi nemmeno a me stessa, ma
non
cedetti. Rimasi a guardarlo con faccia seria «fammi
indovinare, perché mi trovi strana e non vuoi
avere nulla a che fare con una a cui piace il proprio sangue. Ho notato
la tua
faccia a biologia, la volta scorsa»
dissi, dandogli le spalle per poter tornare indietro,
per scappare da lui e dal suo viso irresistibile.
Sentivo
dentro il mio cuore un
tumulto di emozioni che non sapevo spiegare: avevo paura, sudavo
freddo,
sentivo caldo, volevo colpirlo ma non volevo fargli del male.
Era
lo stesso nodo che mi si era
annodato in petto quando Jacob aveva tentato il suo
“delicato” approccio nella
cucina di casa mia, solo amplificato e ingigantito al massimo.
Mi
sembrava di morire.
Lui
fece qualche passo verso di
me «io
sono pericoloso. Ogni minuto che passi con me
rischi la vita e il tuo istinto te lo sta urlando anche adesso»
mi disse, rimanendo impassibile
e con il corpo teso.
La
mia mano stringeva sempre di
più il manico del coltello, così tanto che avevo
paura ne prendesse la forma
come con la plastilina «tu
sei in pericolo in questo momento»
aggiunse «e
io sto cercando in tutti i modi
per tenerti in salvo da me stesso. Ma non ci riesco. Non posso starti
lontano».
Jasper
si avvicinò a me di un
altro passo «so
che hai capito che sono diverso, che la mia
famiglia è diversa…»
e lo sentii fermarsi appena dietro la mia schiena.
Non
mi stava toccando né sentivo
che le sue mani si stessero avvicinando.
In
effetti mi erano sempre
sembrati strani, ma belli, i Cullen.
Mi
venne di nuovo in mente il
ruscello con le pietre e le piccole foglie galleggianti, e
improvvisamente
ricollegai tutto quanto.
La
pelle pallida, le occhiaie
scure, Jacob e le sue scempiaggini sui vampiri.
Il
tocco fresco e delicato e i
sudori freddi che provavo in quel momento.
Dejà-vue.
Mi
voltai ridacchiando e il suo
volto era esattamente come lo avevo sognato, indeciso e sofferente «siii
certo, tu sei un vampiro.
Esci di giorno e frequenti una normale scuola superiore dove una volta
hai
anche assaggiato quella schifosa tartina di carne e aglio. Qualcuno mi
salvi,
Jasper Cullen è un vampiro»
e risi.
Risi
per isteria e per il tono
che la mia voce aveva assunto; allora erano tutti in combutta contro di
me per
impedirmi di essere felice! Ora si era spiegato tutto.
Il
ragazzo non fu rise, non
accennò nemmeno a un sorriso.
Mi
guardò mordendosi il labbro e
guardando attorno a sé; sembrava cercasse qualcosa.
Poi
vidi i suoi occhi dorati
fissarsi sul grande masso alla nostra sinistra, probabilmente franato
dalla
montagna sopra di noi. Quasi si materializzò vicino ad esso
–e io non lo avevo
visto muovere un passo– e si chinò sulle ginocchia
per tirarlo su «ma
sei pazzo ti spaccherai la
schiena! »
esclamai, spegnendo la risata quasi istantaneamente.
Ricordavo
bene il sogno che avevo
fatto, come ogni sogno vivido che facevo, ma pensavo che quello che
avevo visto
fosse stato un eccesso della mia fantasia.
Invece
Jasper si caricò sulle
spalle quei quintali di roccia come se stesse tirando su appena qualche
chilo e
mi guardò con una faccia strana, a metà tra il
divertito e il distrutto.
Come
se avesse lanciato un
pallone da calcio, poi, scaraventò il masso sopra la mia
testa e abbatté un
piccolo albero dietro di me.
Io
ero rimasta senza parole,
completamente; non riuscivo a ingranare nella mia mente
perché, tutto quel che
stava accadendo, non mi mettevo a correre gridando aiuto.
Jasper
mi guardò ancora, questa
volta angosciato «per
questo capisci che potrei ucciderti anche solo con
un dito? Non posso sopportare l’idea di farti del
male…per non parlare della
sete…»«sete?
».
Il
biondo vampiro annuì «il
tuo sangue mi attira più di
qualsiasi altra cosa. Posso dissetarmi di animali per giornate intere,
ma
appena sento l’odore del tuo sangue perdo il controllo».
Mi
spiegò che tutta la sua
famiglia era composta di vampiri e che loro erano diversi dai vampiri
normali –che
di solito si cibavano di sangue umano–.
Loro
erano come vegetariani,
bevevano solo il sangue degli animali che cacciavano in quelle foreste «sei
troppo preziosa per me per
lasciarmi andare a questo egoismo istintivo di noi vampiri. Non penso
altro che
a te, giorno e notte, non riesco a togliermi dai polmoni il tuo profumo
e
quello del tuo sangue. Quando poi hai fatto quella
cosa a biologia, mi sono sentito morire».
In
quel momento, però, non
sentivo paura. Jasper stava sparando così tanti complimenti
a raffica che io non
riuscivo nemmeno a respirare.
Arrossivo
e basta.
Magari
avrei ripreso a respirare
quando sarei svenuta per mancanza d’aria «sei
una droga, capisci? Sei una droga alla quale io
non posso né voglio resistere»
si avvicinò ancora un po’ e io potei vedere di
nuovo
quella piccola cicatrice bianca sulla sua mascella.
Non
era sola, però.
Sembrava
che assieme ad essa ce
ne fossero altre, soprattutto dal collo e una piccola, quasi invisibile
linea
argentea sopra il sopracciglio sinistro.
Alzò
una mano e delicatamente
strofinò il dorso di essa sulla mia guancia «quando
arrossisci, poi, oltre a essere più carina
diventi anche più appetitosa».
Io
mi allontanai, guardandolo con
sospetto, anche se dentro stavo bruciando in una maniera assurda «chi
mi dice che quel masso non l’hai
messo tu? Poteva esser fatto di polistirolo. Io non mi faccio ingannare
da
certi trucchetti»
dissi, anche se non ne ero convinta del tutto.
Perché
avrebbe dovuto prendermi
in giro a quel modo?
Improvvisamente
lui sorrise,
allargando le braccia «vuoi
provare con quel coltello? Quello è vero»
ridacchiò.
Io
lo guardai con un paio di
occhi che sembravano uova fritte «ma
sei pazzo? »
urlai, nascondendo il coltello dietro la schiena.
Con
un fruscio lui mi fu
improvvisamente dietro «avanti,
non mi farai nulla».
Non
ne ero convinta e stavo
ancora cercando di capire come facesse a muoversi così in
fretta: che trucchi
stava usando? Aveva un fratello gemello?
Io
guardai la lama appuntita del
coltello, poi osservai Jasper aprirsi un poco la camicia, rivelando il
fisico
bianco e perfetto.
Una
statua di marmo «al
massimo sfogherai la tua
rabbia uccidendomi»
ridacchiò ancora.
Io
sbuffai, senza però muovere la
punta dell’improvvisata arma verso il suo petto. Stavo
arrossendo per la
visione che avevo davanti e se non fosse stato abbastanza freddo sarei
svenuta
per le elevate temperature che stava raggiungendo il mio sangue.
Improvvisamente
una rabbia a me
estranea mi colse e io quasi non ci vidi più: alzai il
coltello e fui convinta
di piantarlo nel suo petto, con miriade di gocce di sangue caldo che
sprizzavano a destra e a sinistra.
Invece
la punta della lama slittò
sulla sua pelle, come se avessi colpito una roccia, e si
piegò a ricciolo; la
pelle di Jasper non presentò un solo graffio «questa
è la corazza di un omicida»
disse, intristito e guardandosi
il petto.
Fece
una smorfia disgustata a
qualcosa che io non riuscivo –o non ne ero capace, in quel
momento– a vedere.
Io
guardai la lama piegata e poi
guardai il suo viso. Era angosciato come mai, sembrava un quadro antico
che il
pittore avrebbe intitolato “lotta interiore” «sai
una cosa? »
gli dissi, buttando via il coltello nel sottobosco «a
me non da fastidio»«ora
sei tu ad essere pazza»
e scosse la testa.
Io
gli sorrisi e un fiotto caldo
nel cuore mi riempì completamente, dalla testa ai piedi.
Mi
sembrava di volare almeno
quindici centimetri sopra il suolo «non
hai paura di me? »
mi chiese il biondo vampiro «non
hai paura che entri una notte
in camera tua e ti morda, succhiandoti via ogni alito di vita? ».
Cercai
di immaginarmi la scena,
ma non mi sembrò poi così spaventosa; soprattutto
perché io, mentre lui
affondava i denti nel mio collo, lo stavo spogliando.
Jasper
avvertì il calore e l’emozione
che stavo provando «ripeto,
tu sei una pazza suicida»
mi disse, regalandomi però uno
dei suoi ammalianti e caldi sorrisi.
Richiuse
i due bottoni della
camicia mentre io parlavo «sarò
pure una pazza suicida, ma anche tu sei una
droga, quasi quanto io lo sono per te».
Con questa frase lasciammo la foresta, per ritornare alla nostra lezione, più leggeri entrambi: io dalle mie preoccupazioni e Jasper dal loro riflesso.
«Ah,
comunque
sono Jasper Hale» puntualizzò lui, dopo qualche
secondo.
Io risi felice, ma non mi lanciai ad abbracciarlo come avrei voluto.
Sentivo
che era ancora troppo presto.
Risposta
alle recensioni:
Norine: Tutto
spiegato da lui
stesso, quel drogato XD In effetti Sarah è (sono) un pochino
strana, ma è fatta
così! Poi si sfrutterà la cosa per alcuni
capitoli rossi che metterò un po’
più avanti hihi
Nanerottola:
Eccolo qui, vivo e
vegeto *coff* beh più o meno XD Team Jasper? HALE, yes!