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Autore: Flaminia_Kennedy    26/07/2009    2 recensioni
Per la sesta volta in un giorno mi chiesi perché mi ero voluta trasferire a Forks, la zona più piovosa di tutto il continente americano.
Certo, non adoravo il sole di casa mia in Texas, ma nemmeno il perenne strato di nubi che nascondeva il cielo.
[...]
Ridacchiai, perché il volto di quel ragazzo dai capelli bruni e corti mi ispirava simpatia, un po’ come gli orsacchiotti che avevo nella mia vecchia camera a Dallas.
Quando l’auto, guidata da un ragazzo dai capelli ramati e sparati in aria, arrivò a pochi metri da me il ragazzone si infilò dentro la vettura, parlando concitatamente con il ragazzo vicino a lui.
Era un tipo dai capelli color miele e in quel momento il volto meraviglioso e pallido era contratto da una smorfia addolorata.
Genere: Azione, Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jasper Hale, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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7.

Green forest

 

Ritornai a casa con gli occhi gonfi e rossi.

La tristezza che mi appesantiva il petto faceva male e non ero completamente sicura che fosse colpa di Jacob; dopotutto lui aveva cercato di conquistarmi con gli unici mezzi che il suo stupido cervello mal funzionante gli avesse suggerito.

Quando mi chiusi la porta d’ingresso lanciai un urlo di rabbia, consona che non ci fosse nessuno in casa a quell’ora.

Mi diressi verso camera mia e sbattei la porta mentre la chiudevo dietro di me.

L’ira dentro di me era cieca e immotivata, ma mi sembrava palpabile come una cortina di fumo; guardai furiosa il cellulare lasciato sul materasso e vidi che c’erano tre messaggi e un paio di chiamate perse.

Tutte di Bella.

Dovevo chiamarla per aiutarla, per sapere come stava e per assicurarmi che la rottura con Mike stesse guarendo?

Perché io?

Aveva più amiche di me in quella stupida cittadina piovosa, poteva benissimo andare da loro a piangere ogni sua lacrima.

Io avevo già le mie e non avevo nessuno a cui confidare quel dolore in mezzo al petto.

Non avevo più Jacob, il vecchio e solare Jacob, né avevo Jasper, il dolce Jasper sempre preoccupato per me.

Il cellulare squillò per l’ennesima volta, quella giornata, ma questa volta riconobbi il numero alla prima occhiata; ed era un numero che non volevo vedere.

Mia madre stava cercando di contattarmi?

Dopo quasi un mese che me ne ero andata di casa senza dire una parola? Strano, avevo pensato che avrebbero resistito di più senza la loro piccola cenerentola.

Non risposi, ovviamente, ma stetti a guardare lo schermo lampeggiare e mostrare la sfilza di numeri che io avevo imparato subito a riconoscere a memoria.

Mia madre rinunciò a chiamarmi dopo qualche squillo a vuoto.

Sospirai, cercando di ricacciare indietro le lacrime inutili e di riuscire a fare qualcosa per il giorno successivo, il giorno della gita.

Avevo già preparato una piccola borsa con il blocco degli appunti e dei guanti in lattice usa e getta, ma per noia la ricontrollai una seconda volta.

Poi mi alzai per scegliere i vestiti più adatti per una scampagnata simile: jeans spessi, maglione a collo alto color oro e giacca scamosciata, oltre che scarpe da ginnastica con suola antiscivolo.

Era tutto pronto, non avevo nulla da fare.

Non trovai altra soluzione che stendermi sul letto e osservare il soffitto mentre la giornata cambiava colore, da grigio pallido del pomeriggio coperto al nero della notte che avanzava.

Esaminai meglio la reazione di poco prima: cosa mi aveva fatta arrabbiare così tanto?

Che Jake stesse cercando di allontanarmi da Jasper in ogni modo possibile?

Che Billy mi avesse messo addosso una paura del diavolo con quella frase?

Oppure era semplicemente una malattia che stavo covando?

Con il tempo di Forks, poi, la terza era la più probabile delle teorie.

Altre lacrime scesero senza che io sapessi perché.

Ero arrabbiata con mia madre, con mio padre, con tutti quelli che mi avevano obbligato ad andarmene da casa mia, che mi avevano costretta a lasciare tutto quello che conoscevo per affrontare una vita che non mi sembrava appartenere.

Stavo sempre in casa, non uscivo mai.

Forse era quello il problema; la mia psiche si stava ribellando a quella vita monotona che stavo seguendo senza accorgermene.

Mi promisi che il giorno dopo, appena tornata dalla gita scolastica, sarei andata a Port Angeles e avrei fatto un giro di vetrine.

Tanto per tornare un attimo all’adolescenza che mi stavo facendo sfuggire dalle mani.

 

La mattina dopo svegliarsi fu abbastanza facile, dato che non avevo dormito molto e quindi rialzarsi dal letto praticamente già fatto non fu un’impresa.

Mi vestii come avevo programmato, senza voglia e con il morale sotto i piedi; presi la borsa e mi diressi al piano inferiore, per prepararmi qualcosa prima di partire.

Nonno Arthur era nella sua camera a dormire, potevo sentirlo russare, e questo mi tranquillizzò un pochino.

Preparai un paio di panini con prosciutto e pomodori, li avvolsi prima nella pellicola trasparente poi nella stagnola e infine li cacciai nella sacca a tracolla che avevo.

Non mangiai niente però, per paura di arrivare in ritardo: saremmo partiti con un piccolo autobus dal parcheggio della scuola almeno mezz’ora prima del solito orario scolastico e se qualcuno fosse arrivato in ritardo sarebbe rimasto nell’edificio a seguire le lezioni con le classi rimanenti.

E quello per me non era auspicabile.

Come solito pioveva, ma non a dirotto come solito; era una pioggerellina leggera, tanto per umidificare l’aria già satura.

Salii sul pick-up e di nuovo la strana rabbia del giorno prima mi prese alla gola, come se qualcuno tentasse di strozzarmi.

Stavo ripensando a mia madre e a mio padre, al motivo per cui ero scappata di casa. Non sarei mai più tornata, potevano scordarselo.

Non dopo quello che mi avevano fatto.

Accesi il motore e mi immisi nella strada per raggiungere la scuola; mentre stavo guidando riconobbi dietro di me la spider rossa fiammante e la jeep scura dei Cullen.

Mi superarono entrambe molto velocemente, senza segni di saluto o di avermi riconosciuta a bordo del mio Toyota.

La mia rabbia passò dai genitori a Jasper.

Si era allontanato da me dopo avermi offerto una panoramica del paradiso –e sapevo che il paradiso odorava di grano e girasoli– e mi evitava.

Non mi sorrideva più in quel modo dolce e rassicurante.

Non mi guardava più con quegli occhi liquidi e dorati che avevo imparato a riconoscere in mezzo a miliardi di altri occhi.

Con un pensiero assurdo, sperai in quel momento che lui potesse avvertire la pugnalata fredda dei miei pensieri nella schiena, o che almeno gli stessero fischiando le orecchie.

Arrivai nel parcheggio che le auto dei Cullen erano già nei loro soliti posti.

Io parcheggiai il mio grosso veicolo nel primo posto libero che trovai, scesi sbattendo forse più del dovuto la portiera e mi guardai attorno con astio.

Nessuno quel giorno doveva rivolgermi la parola, era uno di quei giorni in cui anche il più affettuoso dei saluti ti sembra un insulto.

Raggiunsi il piccolo autobus giallo, salutando con finto garbo il professore, e mi sedetti negli ultimi posti, vicino al finestrino.

Sarebbe stata una lunga giornata.

 

In effetti nessuno mi salutò quella mattina –tranne Raven, ma il suo fu piuttosto un accenno di capo condito di una risatina– e mi andò bene così.

Mi andò meno bene quando scesi e Mike Newton si attaccò a me, come se mi conoscesse da una vita; non gli parlai per tutto il tempo della lezione. Rimasi muta e munita di guanti a sbriciolare nervosamente foglie di ortiche e di cicuta.

Non stavo prendendo appunti e sinceramente non me ne importava più di tanto in quel momento.

Quando sentii Newton parlare riguardo alla festa di fine anno, io sbattei foglie e coltello sul piccolo tavolino da campo che stavamo dividendo e lo fulminai con lo sguardo «io non intendo andare a quell’accidenti di festa, tanto meno con te! » esclamai, forse a voce un po’ troppo alta.

Tutti si voltarono a guardarmi, straniti.

Anche Mike mi osservò come se fossi matta «come hai fatto a…»«Field, c’è qualcosa che non va? » lo interruppe il professore, avvicinandosi al nostro tavolino.

Io presi un profondo respiro e disegnai a forza un sorriso cortese sulle mie labbra «no, nessuno. Vado a prendere altre foglie» dissi e portandomi appresso il coltello –solo per il puro gusto di tenere qualcosa in mano– diedi le spalle alla classe e mi inoltrai nella foresta.

Camminai a lungo, senza cercare nulla.

Mettevo un piede davanti all’altro per cancellare la rabbia che mi rodeva da dentro: in quel momento tutti sembravano essersi messi d’accordo per farmi perdere le staffe.

Bella con il suo piccolo problema di cuore, Mike Newton con quella sua mania di voler uscire con me, Jacob e il suo cambiamento radicale.

Jasper e la sua indifferenza.

Era quella che mi faceva più male e capii che era quello il motivo della mia rabbia: era sfociata per non lasciar uscire la tristezza.

Calciai con poca forza un ciottolo e mi sedetti sulla grande radice ricoperta di muschio di un albero.

Era tutto così verde e fresco in quella foresta che mi metteva la voglia addosso di stendermi in mezzo al sottobosco a dormire.

Il fruscio lieve delle foglie mosse dal vento, i canti degli uccelli e i versi degli altri animali; per un momento fui in pace con me stessa e con il mondo che mi circondava.

Un po’ come una pomata fresca su una ferita che bruciava.

Un po’ come il fazzoletto di Jasper sulla ferita sanguinante.

Ecco, mi diedi della stupida, stavo pensando di nuovo a quel ragazzo freddo e maligno; freddo per la sua indifferenza, maligno perché mi aveva portato a un passo dalla felicità senza concedermela.

Sentii una mano fredda sulla spalla, così dannatamente fredda, e mi alzai di scatto girando su me stessa.

Come se lo avessi chiamato, il biondo ragazzo era in piedi dove prima io stavo seduta «mi stavo preoccupando» disse soltanto, con la sua voce cadenzata.

Io lo fissai, stringendo il coltello nella destra, con un’espressione diffidente «per prendere un paio di ortiche ci stavi mettendo troppo» aggiunse, sfoggiando ancora una volta il suo sorriso.

Ero troppo arrabbiata, però, per poter cedere come tempo prima a quella sfolgorante espressione «e a te che importa se faccio una brutta fine oppure no? » gli chiesi, sputando quanto più veleno possibile.

Il suo viso s’incupì «a me importa molto» disse scendendo con un balzo agile dalla radice sollevata «per questo sono stato lontano da te. È per questo che sei arrabbiata».

Non spiegai come sapesse tutto quello che io non avevo detto a nessuno, quasi nemmeno a me stessa, ma non cedetti. Rimasi a guardarlo con faccia seria «fammi indovinare, perché mi trovi strana e non vuoi avere nulla a che fare con una a cui piace il proprio sangue. Ho notato la tua faccia a biologia, la volta scorsa» dissi, dandogli le spalle per poter tornare indietro, per scappare da lui e dal suo viso irresistibile.

Sentivo dentro il mio cuore un tumulto di emozioni che non sapevo spiegare: avevo paura, sudavo freddo, sentivo caldo, volevo colpirlo ma non volevo fargli del male.

Era lo stesso nodo che mi si era annodato in petto quando Jacob aveva tentato il suo “delicato” approccio nella cucina di casa mia, solo amplificato e ingigantito al massimo.

Mi sembrava di morire.

Lui fece qualche passo verso di me «io sono pericoloso. Ogni minuto che passi con me rischi la vita e il tuo istinto te lo sta urlando anche adesso» mi disse, rimanendo impassibile e con il corpo teso.

La mia mano stringeva sempre di più il manico del coltello, così tanto che avevo paura ne prendesse la forma come con la plastilina «tu sei in pericolo in questo momento» aggiunse «e io sto cercando in tutti i modi per tenerti in salvo da me stesso. Ma non ci riesco. Non posso starti lontano».

Jasper si avvicinò a me di un altro passo «so che hai capito che sono diverso, che la mia famiglia è diversa…» e lo sentii fermarsi appena dietro la mia schiena.

Non mi stava toccando né sentivo che le sue mani si stessero avvicinando.

In effetti mi erano sempre sembrati strani, ma belli, i Cullen.

Mi venne di nuovo in mente il ruscello con le pietre e le piccole foglie galleggianti, e improvvisamente ricollegai tutto quanto.

La pelle pallida, le occhiaie scure, Jacob e le sue scempiaggini sui vampiri.

Il tocco fresco e delicato e i sudori freddi che provavo in quel momento.

Dejà-vue.

Mi voltai ridacchiando e il suo volto era esattamente come lo avevo sognato, indeciso e sofferente «siii certo, tu sei un vampiro. Esci di giorno e frequenti una normale scuola superiore dove una volta hai anche assaggiato quella schifosa tartina di carne e aglio. Qualcuno mi salvi, Jasper Cullen è un vampiro» e risi.

Risi per isteria e per il tono che la mia voce aveva assunto; allora erano tutti in combutta contro di me per impedirmi di essere felice! Ora si era spiegato tutto.

Il ragazzo non fu rise, non accennò nemmeno a un sorriso.

Mi guardò mordendosi il labbro e guardando attorno a sé; sembrava cercasse qualcosa.

Poi vidi i suoi occhi dorati fissarsi sul grande masso alla nostra sinistra, probabilmente franato dalla montagna sopra di noi. Quasi si materializzò vicino ad esso –e io non lo avevo visto muovere un passo– e si chinò sulle ginocchia per tirarlo su «ma sei pazzo ti spaccherai la schiena! » esclamai, spegnendo la risata quasi istantaneamente.

Ricordavo bene il sogno che avevo fatto, come ogni sogno vivido che facevo, ma pensavo che quello che avevo visto fosse stato un eccesso della mia fantasia.

Invece Jasper si caricò sulle spalle quei quintali di roccia come se stesse tirando su appena qualche chilo e mi guardò con una faccia strana, a metà tra il divertito e il distrutto.

Come se avesse lanciato un pallone da calcio, poi, scaraventò il masso sopra la mia testa e abbatté un piccolo albero dietro di me.

Io ero rimasta senza parole, completamente; non riuscivo a ingranare nella mia mente perché, tutto quel che stava accadendo, non mi mettevo a correre gridando aiuto.

Jasper mi guardò ancora, questa volta angosciato «per questo capisci che potrei ucciderti anche solo con un dito? Non posso sopportare l’idea di farti del male…per non parlare della sete…»«sete? ».

Il biondo vampiro annuì «il tuo sangue mi attira più di qualsiasi altra cosa. Posso dissetarmi di animali per giornate intere, ma appena sento l’odore del tuo sangue perdo il controllo».

Mi spiegò che tutta la sua famiglia era composta di vampiri e che loro erano diversi dai vampiri normali –che di solito si cibavano di sangue umano–.

Loro erano come vegetariani, bevevano solo il sangue degli animali che cacciavano in quelle foreste «sei troppo preziosa per me per lasciarmi andare a questo egoismo istintivo di noi vampiri. Non penso altro che a te, giorno e notte, non riesco a togliermi dai polmoni il tuo profumo e quello del tuo sangue. Quando poi hai fatto quella cosa a biologia, mi sono sentito morire».

In quel momento, però, non sentivo paura. Jasper stava sparando così tanti complimenti a raffica che io non riuscivo nemmeno a respirare.

Arrossivo e basta.

Magari avrei ripreso a respirare quando sarei svenuta per mancanza d’aria «sei una droga, capisci? Sei una droga alla quale io non posso né voglio resistere» si avvicinò ancora un po’ e io potei vedere di nuovo quella piccola cicatrice bianca sulla sua mascella.

Non era sola, però.

Sembrava che assieme ad essa ce ne fossero altre, soprattutto dal collo e una piccola, quasi invisibile linea argentea sopra il sopracciglio sinistro.

Alzò una mano e delicatamente strofinò il dorso di essa sulla mia guancia «quando arrossisci, poi, oltre a essere più carina diventi anche più appetitosa».

Io mi allontanai, guardandolo con sospetto, anche se dentro stavo bruciando in una maniera assurda «chi mi dice che quel masso non l’hai messo tu? Poteva esser fatto di polistirolo. Io non mi faccio ingannare da certi trucchetti» dissi, anche se non ne ero convinta del tutto.

Perché avrebbe dovuto prendermi in giro a quel modo?

Improvvisamente lui sorrise, allargando le braccia «vuoi provare con quel coltello? Quello è vero» ridacchiò.

Io lo guardai con un paio di occhi che sembravano uova fritte «ma sei pazzo? » urlai, nascondendo il coltello dietro la schiena.

Con un fruscio lui mi fu improvvisamente dietro «avanti, non mi farai nulla».

Non ne ero convinta e stavo ancora cercando di capire come facesse a muoversi così in fretta: che trucchi stava usando? Aveva un fratello gemello?

Io guardai la lama appuntita del coltello, poi osservai Jasper aprirsi un poco la camicia, rivelando il fisico bianco e perfetto.

Una statua di marmo «al massimo sfogherai la tua rabbia uccidendomi» ridacchiò ancora.

Io sbuffai, senza però muovere la punta dell’improvvisata arma verso il suo petto. Stavo arrossendo per la visione che avevo davanti e se non fosse stato abbastanza freddo sarei svenuta per le elevate temperature che stava raggiungendo il mio sangue.

Improvvisamente una rabbia a me estranea mi colse e io quasi non ci vidi più: alzai il coltello e fui convinta di piantarlo nel suo petto, con miriade di gocce di sangue caldo che sprizzavano a destra e a sinistra.

Invece la punta della lama slittò sulla sua pelle, come se avessi colpito una roccia, e si piegò a ricciolo; la pelle di Jasper non presentò un solo graffio «questa è la corazza di un omicida» disse, intristito e guardandosi il petto.

Fece una smorfia disgustata a qualcosa che io non riuscivo –o non ne ero capace, in quel momento– a vedere.

Io guardai la lama piegata e poi guardai il suo viso. Era angosciato come mai, sembrava un quadro antico che il pittore avrebbe intitolato “lotta interiore” «sai una cosa? » gli dissi, buttando via il coltello nel sottobosco «a me non da fastidio»«ora sei tu ad essere pazza» e scosse la testa.

Io gli sorrisi e un fiotto caldo nel cuore mi riempì completamente, dalla testa ai piedi.

Mi sembrava di volare almeno quindici centimetri sopra il suolo «non hai paura di me? » mi chiese il biondo vampiro «non hai paura che entri una notte in camera tua e ti morda, succhiandoti via ogni alito di vita? ».

Cercai di immaginarmi la scena, ma non mi sembrò poi così spaventosa; soprattutto perché io, mentre lui affondava i denti nel mio collo, lo stavo spogliando.

Jasper avvertì il calore e l’emozione che stavo provando «ripeto, tu sei una pazza suicida» mi disse, regalandomi però uno dei suoi ammalianti e caldi sorrisi.

Richiuse i due bottoni della camicia mentre io parlavo «sarò pure una pazza suicida, ma anche tu sei una droga, quasi quanto io lo sono per te».

Con questa frase lasciammo la foresta, per ritornare alla nostra lezione, più leggeri entrambi: io dalle mie preoccupazioni e Jasper dal loro riflesso.

«Ah, comunque sono Jasper Hale» puntualizzò lui, dopo qualche secondo.
Io risi felice, ma non mi lanciai ad abbracciarlo come avrei voluto. Sentivo che era ancora troppo presto.

 

 

 

Risposta alle recensioni:

Norine: Tutto spiegato da lui stesso, quel drogato XD In effetti Sarah è (sono) un pochino strana, ma è fatta così! Poi si sfrutterà la cosa per alcuni capitoli rossi che metterò un po’ più avanti hihi

Nanerottola: Eccolo qui, vivo e vegeto *coff* beh più o meno XD Team Jasper? HALE, yes!

   
 
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