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Autore: _Frame_    07/07/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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201. Eukodal e Vino surgelato

 

 

1 dicembre 1941

Krasnaya Polyana, Unione Sovietica

 

Prussia incrociò le braccia al petto, si aggrappò alle spalle, diede una forte strofinata alla giacca, soffiò pesanti nuvolette di condensa che batterono fra i suoi denti traballanti, e spostò il peso da un piede all’altro per tenere le gambe al caldo, facendo scricchiolare il ghiaccio che si era solidificato sulla piattaforma della stazione. Si sporse per l’ennesima volta verso la curva di binari, in cerca del muso del treno che non era ancora arrivato, di un pennacchio di vapore, del suo fischio o dello stridere delle sue ruote.

Il cielo di primo pomeriggio era basso e scuro, gonfio di nubi soffocanti come una gelida cappa di fumo da cui non filtrava nemmeno un timido raggio di sole. Aveva ripreso a nevicare già dalla mattina presto. La cascata di fiocchi era tale che non si distingueva più il punto dove lo strato di neve che rivestiva il suolo si separava da quello che si stava sbriciolando dal cielo.

Spagna si separò dal gruppetto di trasportatori che stavano aspettando alla stazione assieme a loro due. Si sporse dalla piattaforma come aveva fatto Prussia, sfregò la spalla sulla sua, e finì pizzicato in viso dalla nevicata. Tirò su col naso, si strofinò anche lui le braccia, e saltellò per scaldare i muscoli delle gambe. “Arriva?”

Prussia trattenne il respiro e tese l’orecchio – solo lo scricchiolare dei loro passi sulla piattaforma congelata e qualche sibilo di vento ovattato dalla caduta della neve. Aguzzò la vista – solo la neve che continuava a cadere, fitta come una nebbia, che rendeva i binari ancora più sottili e distanti, senza una fine. Scosse il capo e tornò indietro con le spalle. “Non sento niente.”

Spagna si mise incollato al suo fianco, dove si sentiva più al caldo, e si girò verso l’orologio appeso sotto il tettuccio della stazione. Stalattiti cristalline pendevano dal quadrante rotondo divorato da uno strato di ghiaccio che nasceva dalla circonferenza e saettava verso il centro. Le lancette segnavano le due di pomeriggio passate. Spagna tornò a levare gli occhi al cielo annuvolato. Era già buio. La nevicata tratteneva i raggi del sole già basso e inghiottito dall’orizzonte soffocato dalla distesa bianca. Le luci traballanti delle lanterne, alimentate con il petrolio che non si era ancora congelato, brillavano fioche e tristi lungo la piattaforma, indicando la via a un treno di cui non si sentiva nemmeno il vibrare lontano. “A che ora hanno detto che sarebbe dovuto arrivare?”

Prussia sbuffò una risata che gli fece battere i denti ancora più forte. “D-doveva arrivare g-già ieri, dan-n-nazione.” Sciolse l’intreccio delle braccia e si diede una strofinata alle guance che stavano diventando bluastre come le sue labbra. “Ma con il settanta percento delle linee ferroviarie interrotte e senza la possibilità di ristabilire le comunicazioni...” Scosse il capo. “Mi sa tanto che sarà un’attesa vana anche oggi.”

Spagna rabbrividì, rimboccò la giacca dell’uniforme e si tenne incollato al fianco di Prussia. Nonostante l’equipaggiamento invernale, si sentiva comunque gelare fin dentro le ossa. Mosse i piedi ghiacciati dentro gli stivali, fece scricchiolare le dita sui fogli di giornale con i quali li aveva imbottiti per isolarsi dal freddo, ma non sentì nulla. Aveva perso ogni sensibilità, come se i piedi gli fossero caduti dalle caviglie in giù. Riprese a battere i denti, e quel ticchettare ritmico e nervoso gli martellò fin dentro il cervello. Anche quello gli pareva congelato.

Spagna tornò a girarsi verso l’orologio della stazione, verso la parete su cui avevano appeso il termometro, anche quello rivestito di un opaco strato di ghiaccio. La colonnina di mercurio era precipitata a meno quaranta. Si abbandonò a un sospiro di nostalgia che gli fece male al cuore. Quanto mi manca il sole. Socchiuse le palpebre, si isolò dal vento che odorava di neve fresca, di petrolio bruciato, di ferro. Si allontanò dal gelo, dal tocco della neve che gli graffiava le guance e le orecchie, e immaginò di spazzare via quelle nuvole nere con un solo soffio, di scoprire i raggi del sole e di spalancare la sua luce su quella terra congelata. Le labbra s’inarcarono in un sorriso. Caro, caro sole mediterraneo. Rievocò il tepore dei raggi, il loro solleticare sulle guance, la luce raccolta nei suoi occhi e nel suo sorriso, la sua pelle che diventava più scura durante le giornate d’estate, il profumo del mare, delle spiagge e degli orti e dei frutteti nei quali amava passeggiare a piedi nudi, col cuore leggero e felice. Caro vecchio sole...

“Ma come faremo senza scorte?” Spagna riaprì gli occhi su quella cruda e fredda realtà, li posò sulla presenza di Prussia, l’unica cosa che riusciva ad alleviare il dolore soffocante di quel gelo. “E se il treno non arrivasse nemmeno oggi? Stiamo finendo tutte le provviste, tutte le munizioni, tutta la benzina, tutte le medicine. E se...”

“E anche se le scorte arrivassero in tempo, non è comunque detto che ci sarebbero d’aiuto.” Prussia si tenne stretto nelle spalle, in quel pessimismo che non gli apparteneva. Si lasciò avvolgere e inglobare in quel nero che gravava sulle loro teste. L’ultima volta che è arrivato qualcosa da mangiare non ci è comunque servito a nulla. Il pane non lo tagliavi neanche con l’accetta, il burro sembrava cemento, e quel poco che siamo riusciti a rendere commestibile è bastato a malapena per i soldati abbastanza in forma da essere in grado di mettere qualcosa sotto i denti senza collassare. Ne stiamo perdendo troppi. Si guardò attorno.

I soldati che lui e Spagna si erano portati dietro per aiutarli con i trasporti camminavano sul posto, compivano piccoli circoli, piccole marce su e giù lungo la piattaforma innevata per tenersi al caldo. Battevano le mani sulle braccia incrociate, soffiavano i loro aliti bianchi dentro i palmi chiusi a coppa, e tenevano gli sguardi premuti a terra. I passi corti e trascinati, le teste basse a ciondolare fra le spalle, le facce grigie e consumate dal freddo, gli occhi assenti e privi di luce, le loro ombre ancora più nere del cielo che li sovrastava, e nessun desiderio di tenersi su.

Prussia si sentì schiacciato dai loro sguardi irriconoscibili, da tutto il loro dolore che si riversava anche nel suo cuore. Oltre al fisico, anche i loro animi sono sempre più logorati. Per quanto potranno resistere in queste condizioni, prima di perdere del tutto la voglia di continuare a sopravvivere?

“Forse...” Spagna tremò contro il suo fianco, si fece più piccolo. “Forse Austria aveva ragione.” Anche il suo volto si era fatto smunto e sciupato, scarnificato da quel gelo che gli stava divorando l’anima. Gli occhi bassi e tenuti nascosti dall’ombra dei capelli troppo cresciuti. “Forse avremmo dovuto fermarci a Kiev e aspettare la primavera prima di far scattare la Tifone. N-nemmeno io avrei m-mai im-m-maginato che avrebbe fatto c-così freddo.”

Prussia soffiò un altro sospiro dalle narici e scosse il capo. “Ci saremmo dovuti fermare a Kiev sapendo di lasciare Ita fra le mani di Russia per tutto l’inverno?”

“Era una trappola. È sempre...” Spagna deglutì, ma il suo fiato era sempre più corto, i suoi affanni sempre più spezzati da quei brividi che non gli davano tregua. “È sempre stata una trappola. Russia aveva previsto tutto fin dall’inizio. Aveva previsto che non ci saremmo fermati, aveva previsto che l’inverno ci avrebbe bloccato e aveva previsto che non saremmo più potuti tornare indietro. E noi ci siamo cascati.”

“Tu cos’avresti fatto?”

Spagna batté le palpebre e gli scoccò un’occhiata interrogativa.

Prussia si passò una mano fra i capelli e scrollò via i fiocchi di neve che continuavano a cadergli addosso e a depositarsi fra le ciocche. “Cos’avresti fatto se ci fosse stato Romano al posto di Italia? Se Russia avesse rapito lui al posto di suo fratello? Anche in quel caso ti saresti fermato a Kiev?”

“N-non...” A Spagna vennero i brividi solo a pensarci. Brividi più freddi di tutto il ghiaccio e la neve in cui avevano dovuto sguazzare per arrivare fino a quel punto, fino alle porte di Mosca che non potevano nemmeno sfiorare con la punta del piede. “Non dire assurdità,” esclamò, ritrovando uno slancio di energia e di paura. “È chiaro che mi sarei subito fiondato a Mosca senza pensarci due volte. E lo avrei fatto anche per Italia, non solo per Romano.” Fece roteare lo sguardo. “Ma immagino sia per questo che io non sono più la nazione temibile e conquistatrice che ero una volta, no?”

Quelle parole colpirono Prussia. La nazione temibile che era una volta. Prussia rinfilò le mani nelle tasche, si strinse anche lui nelle spalle, corrugò la fronte, e respirò piano quei soffi di condensa che gli appannavano lo sguardo e la mente. Allora è questo il prezzo da pagare? La nostra umanità in cambio dell’invincibilità? Sbirciò di traverso il profilo di Spagna. I suoi occhi disperati che guardavano il pavimento, il viso grigio smagrito, la schiena ricurva e le spalle ingobbite. Non c’era più nulla in lui che incutesse timore. La sua nazione ha cominciato a perdere prestigio proprio dopo che Romano ha smesso di essere una sua colonia. Io stesso ho cominciato a farmi da parte dopo la rinascita di West, lasciando che fosse sua la responsabilità di guidare il paese. L’ago della bilancia può cadere solo da una parte, dopotutto. O sui sentimenti da essere umano o sul potere da nazione. Rintanò le labbra e la punta del naso sotto il bavero della giacca, respirò nel tepore che risaliva dal suo stesso corpo, e grattò la neve fresca con la punta dello stivale. Ma è davvero così impossibile riuscire a trovare un equilibrio?

“Eccolo!”

Tutti gli uomini accorsero sull’orlo della piattaforma, si lasciarono travolgere da un risucchio di vento e neve che era soffiato sui binari, e alcuni di loro si misero a sbracciare verso la curva nascosta dalla foschia. “Sta arrivando, lo vedo, sta arrivando!” Un fioco disco di luce infatti traballava da dietro la nebbia di neve.

“Treno in arrivo!” Uno dei soldati venne loro incontro, correndo sotto il riverbero delle lampade a petrolio appese sul tetto spiovente della stazione. Sbracciò facendo luce con una torcia militare, “Allontanatevi dai binari”, e alzò la voce per farsi sentire sopra lo scricchiolare dei suoi passi sulla neve fresca. “State attenti a non scivolare!”

Prussia e Spagna invece si fecero avanti, premettero i piedi sul bordo ghiacciato che sprofondava sui binari, tesero le spalle e lo sguardo, e andarono incontro alle vibrazioni sempre più forti, agli scossoni della piattaforma e al traballare delle stalattiti che pendevano dal tetto.

Spagna tese una mano davanti alla fronte, sgranò le palpebre, e catturò l’ovale di luce incastrato sul muso della locomotiva. I suoi occhi s’illuminarono di un verde acceso. Il primo scorcio di colore in mezzo a quel grigiore, a quella morte congelata. “Arriva.” Pinzò la manica a Prussia, gli diede un piccolo strattone, e Prussia gli raccolse la mano, accettò di condividere quel singhiozzo di gioia e di speranza che si stava avvicinando assieme al ritmico accelerare del treno. “Ci sarà almeno un po’ di cibo, che dici?” chiese Spagna. “Anche solo patate.” L’acquolina risalì la bocca secca, rialzò in lui un tiepido sorriso. “Dio, persino le patate mi andrebbero bene.”

“È di munizioni che abbiamo bisogno,” borbottò Prussia. “Munizioni, olio per motori, olio per armi, pacchetti di medicinali, e garze pulite. Prega che stia arrivando questo. E prega che sia per lo meno utilizzabile.”

Si elevò un fischio stridente. Il muso nero della locomotiva frantumò la barriera della foschia, la luce del suo faro inondò la piattaforma lastricata di neve, il pennacchio bianco si dilatò fino a sovrapporsi ai nuvoloni neri, e i freni fecero presa sollevando uno stridio scricchiolante. Il treno rilasciò uno sbuffo da animale affannato. Il vapore sfrigolante si abbassò e travolse gli uomini già avvicinati ai vagoni merci, soffiò lungo la superficie di neve, fece scricchiolare le stalattiti di ghiaccio, e solleticò le guance infreddolite di tutti.

Spagna rilassò i tratti del volto, toccato da quella carezza di calore, e si lasciò avvolgere compiendo un altro passo avanti. “Aah, che calduccio.” Gli occhi luccicarono, commossi.

Prussia gli strinse la mano che aveva avvolto e lo guidò verso i vagoni più vicini alla coda del treno. “Sbrighiamoci.” S’infilarono fra le spalle degli uomini, in mezzo ai loro brividi, al fremere dei loro respiri e a quello dei loro corpi scossi dagli spasmi di freddo e di gioia. Prussia si rivolse a uno di loro. “Non fate raffreddare la locomotiva.” Indicò la locomotiva che stava ancora fumando e sfrigolando, i vagoni che scorrevano sempre più lenti. “O qui rischiamo che non riesca più a ripartire.”

Lui annuì. “Agli ordini.”

Un altro soffio di vapore risalì dai binari – fsssh! – e il treno arrestò la corsa. I soldati scavalcarono lo spazio di vuoto fra la banchina e il vagone, due di loro atterrarono sulla piattaforma d’accesso, strinsero la presa sulla maniglia della porta scorrevole, e tirarono assieme.

Il ghiaccio incrostato sull’apertura scricchiolò, qualche scheggia s’infranse e cadde ai loro piedi, le loro mani strinsero, i loro muscoli indeboliti si gonfiarono, e le loro facce si contrassero in grigie espressioni cariche di sforzo.

Prussia stritolò la mano inguantata di Spagna, gli scaricò addosso tutti i brividi che fremevano attraverso i suoi muscoli, attraverso le sue gambe traballanti, attraverso il suo stomaco annodato in un groviglio di tensione, e attraverso il suo cuore che aveva preso a galoppargli nelle orecchie. Si morsicò il labbro, lo rosicchiò fino a sentire il sapore del sangue. Fece rimbalzare il peso da un piede all’altro, piantò le unghie nella stoffa del guanto e affondò la pressione nella mano di Spagna. I suoi occhi brillarono di rosso, carichi di quell’attesa che lo stava dilaniando. Dai, dai, forza...

Un ultimo strattone, e i due soldati spalancarono la porta scorrevole del vagone. La nebbiolina di neve si diradò. Uno di loro puntò la torcia e il fascio di luce penetrò l’ambiente buio, rischiarì le pareti e le casse di merci. Cataste su cataste di casse di legno impilate una sull’altra e tenute ferme da reti di corda.

Prussia sgranò le palpebre e compì un piccolo rimbalzo. “Sì!” Mollò la mano di Spagna e anche lui saltò sul vagone con un balzo solo. Si appese alla maniglia del portellone d’entrata e chiamò Spagna con una sbracciata. “Vieni e dammi una mano, aiutami a controllare.”

Spagna lo seguì, rischiò di scivolare sul ghiaccio della piattaforma, ed entrò anche lui nell’oscurità del vagone. “A controllare che cosa? Non basta che...”

“Che sia tutta roba utilizzabile.” Prussia si era fatto dare una torcia da uno dei soldati. Puntò il fascio di luce su una delle colonne, scelse la cassa più in cima e andò a scoperchiarla. Era colma di pacchi color ocra, tutti siglati dai codici di produzione. Erano pacchi di medicamenti. “Dobbiamo controllare che l’olio sia abbastanza vischioso, che le munizioni non si siano incollate fra loro, e che questi...” Scoperchiò l’impacco, estrasse il panetto della garza. Era duro come un mattone. “Questi...” Si tolse il guanto, infilò le unghie in cerca di uno spazio, di un lembo da sollevare, e fu come graffiare la pietra. Attraverso il volto di Prussia risalì un tale bruciore d’ira tale che avrebbe potuto sciogliere la neve dell’intera Siberia. “O questi pacchi di garze completamente congelate, cazzo!” Scagliò il pacco sulla parete.

Il pacco picchiò sul legno, rimbalzò all’indietro, e Spagna dovette schivarlo con un salto per non prenderselo in testa e finire ammazzato. “Wha!” Si chinò anche lui a raccoglierlo, vi batté le nocche sopra. Era duro come marmo. “Dici che siano inutilizzabili?”

“Completamente.” Prussia rigirò un altro pacco fra le mani e tornò a buttarlo dentro la cassa. “Se le garze non si possono srotolare, allora a che diamine ci servirebbero? Magari saranno buone da bruciare.” Si diede una strofinata alla nuca, dove il bruciore di rabbia e frustrazione lo stava ancora divorando. “Ammesso che si riesca a dare loro fuoco.”

“E le medicine?” Spagna diede un’occhiata anche nelle altre casse, rigirò dei pacchetti che non riconobbe, e si rivolse ai trasportatori che li stavano aspettando fuori dal vagone. “Morfina? Antibiotici? Non c’è...”

“Non è stato possibile trasportarle, signore.” Uno di loro, quello che aveva puntato la torcia per primo, scosse il capo a malincuore. “Sarebbe stato solo uno spreco, si sarebbero sicuramente congelate le boccette.”

Spagna esalò un lungo sospiro e si lasciò cadere seduto su una delle casse. “Ma allora siamo daccapo,” piagnucolò. “E io che pensavo che avremmo risolto almeno uno dei nostri problemi.”

Un soldato giunse correndo, si fermò nel gruppetto di quelli fermi sulla piattaforma davanti ai vagoni aperti, e bisbigliò qualcosa all’orecchio di quello con la torcia.

L’uomo richiamò Prussia e Spagna. “Aspettate.” Si spostò e fece loro strada verso i vagoni più vicini alla locomotiva. “C’è ancora qualcosa.”

Prussia e Spagna si guardarono di striscio e fra loro saettò una scintilla di curiosità. Balzarono giù entrambi, seguirono i trasportatori.

Spagna inarcò un sopracciglio. “Qualcosa?”

“E che cosa?” fece da eco Prussia.

L’uomo che li guidava scelse un altro dei vagoni e si fermò davanti. “Un dono di consolazione e di incoraggiamento, ci hanno detto. Da parte di un alleato.” Diede ordine di aprire il portellone.

Prussia si diede una strofinata al naso infreddolito, dilatò le narici, raccolse quell’aria attraverso cui la neve continuava a fioccare, e tastò un odore diverso. Un odore pungente di alcol, di mosto appena spremuto, di una bottiglia di vino appena stappata. Storse il naso, diede una spallata a Spagna. “Non senti anche tu?”

“Eh?” Anche Spagna diede un’annusata all’aria. “Sento cosa?”

“Questo odore,” disse Prussia. “Odore di...”

Spalancarono il portellone del vagone.

Rivoli di schiuma violacea e congelata colarono dagli spacchi che si erano aperti sulle cisterne esplose per il freddo. Una lastra di ghiaccio e vino ricopriva il pavimento del vagone, rivoli sciolti sbrodolarono dall’apertura, caddero sulla neve e aprirono chiazze violacee che si cristallizzarono subito, formando piccoli moccoli dall’orlo del gradino d’accesso.

Prussia e Spagna si sporsero, aggrappati al bordo del vagone, ed esclamarono assieme: “Vino?

Prussia barcollò indietro di un passo, s’infilò una mano fra i capelli. “Vino,” disse ancora. “Cisterne di vino. Vino congelato.”

“Vino esploso.” Spagna saltò su per primo, fece scricchiolare il vino rosso congelato sotto le suole, e picchiò il pugno su una cisterna esplosa e gocciolante, gonfia di ghiaccio fra gli spacchi del legno deformato. “Ma chi potrebbe...”

Prussia sghignazzò. “Solo un certo idiota può avere avuto un’idea tanto fessa. Fra tutto quello che poteva spedirci...” Scosse il capo e salì anche lui. “Proprio il vino.” Sembra una presa per il culo. Molto in suo stile, in effetti.

“S-sono desolato, signore.” Uno dei trasportatori si tolse il copricapo e lo stropicciò fra le dita consumate dal freddo. “Non ci eravamo accorti che fosse esploso.”

Prussia passò a sua volta la mano su una delle cisterne. Strinse un ghiacciolo colato fra gli spacchi del legno, lo staccò, lo rigirò, e ne succhiò la punta. Si lasciò scivolare seduto, schiena alla parete, e gambe distese. Continuò a succhiare e a rosicchiare il ghiacciolo di vino, fece schioccare la lingua sul palato per tastarne meglio l’aroma. “Sì, è decisamente roba sua,” commentò. “Il sapore è inconfondibile.”

Spagna si ritrovò travolto e invaso da una gelida disperazione. Andò anche lui a sedersi, si lasciò cadere con la schiena alla parete, le gambe distese sul vino congelato, e il fianco accasciato su quello di Prussia. Sospirò. Non si era mai sentito così solo. “È strano che mi manchi?”

“No.” Prussia si sfilò il ghiacciolo di vino dalle labbra sporcate di viola. “Manca anche a me. E non tanto lui, ma quanto...” Lo fece dondolare fra le dita. “Questo.”

Spagna annuì, tenne il capo basso come un cane che è stato picchiato sul muso. Comprese cosa fosse il questo di Prussia. “Niente sarà mai più come prima, vero? Anche...” Trasse un lungo respiro. “Anche quando la guerra finirà.”

Se la guerra finirà.” Prussia diede un’altra rosicchiata alla punta del ghiacciolo. Reclinò il capo all’indietro, si lasciò trascinare in quella nuvoletta di nostalgia che gli si era gonfiata attorno alla testa, complice anche il vino sciolto che era sceso a scaldargli la pancia e ad alleggerirgli i pensieri. Corrugò un sopracciglio. “Chissà se i telefoni funzionano ancora?”

 

.

 

“Vino!” strillò Prussia, indirizzando la sua vociaccia aspra contro il ricevitore del telefono. “Ci hai mandato un intero vagone pieno di vino surgelato, dannato rospo barbuto mangia-lumache!”

“Passamelo, passamelo.” Spagna gli s’incollò addosso, spremette la guancia sulla sua per avvicinarsi al ricevitore, e sventolò la mano per agguantare il telefono. “Dai, passamelo, voglio parlarci anch’io, digli che ci sono anch’io.”

Prussia gli aprì la mano sulla faccia, lo spinse via, e continuò ad abbaiare contro il telefono. “Si può sapere che idea del cazzo ti è venuta? Potevi mandarci proiettili, non vino. È di quelli che abbiamo bisogno.”

Dall’altro capo della linea, si udì il cinguettare di una voce serafica che riconobbero. “Sciocchezze, sciocchezze, quanto sei lagnoso,” lo rimproverò Francia. “Il vino è il miglior carburante del mondo. Tempra gli animi e fa bene al sangue.”

Prussia serrò la presa sul ricevitore, fino a sentirlo scricchiolare, e vi tenne il ringhio incollato. “Sì, se solo non si fosse ghiacciato.”

La guancia di Spagna tornò a premere sulla sua, la sua voce a squillargli nell’orecchio. “Paaassamelo!”

“Si è ghiacciato?” Dall’altro capo della linea, Francia sospirò, e il suo tono assunse una piega di delusione. “Non ha retto fino a voi?”

“No,” rispose Prussia. “Qui la situazione è abbastanza...” Fece roteare lo sguardo e parlò a denti stretti. “Complessa. È già tanto se le linee telefoniche funzionano, dato che i cavi stanno tutti esplodendo per il gelo.”

“E vi siete disturbati così tanto solo per parlare con me? Ooh, ma che dolci cuoricini di panna che siete.” Le parole di Francia giunsero fino a loro come un soffio di tiepida aria profumata, come un morbido abbraccio, come un bacio soffiato con labbra di zucchero. “Allora è vero che l’amore trova sempre un modo di trionfare.”

Prussia e Spagna si guardarono di traverso. Prussia gli diede un colpetto di spalla, se lo tornò a scollare di dosso, e piantò di nuovo il broncio contro il ricevitore. “E tu, allora?” fece a Francia. “Come mai tutto questo disturbo con quel diavolo di vino?”

“Per festeggiare, mi sembra ovvio.”

“Festeggiare?” sbottò Prussia. “E cosa ci sarebbe da festeggiare?”

“Ma la vostra vittoria a Borodino, non?” Francia approfittò di quel singhiozzo di esitazione da parte di Prussia e non si lasciò interrompere. “Non credete che non sappia cosa si prova a trovarsi in una situazione come la vostra solo perché ora sono imprigionato qui fra le mie quattro mura.” La sua voce si fece più cauta, sempre amabile e paterna, ma anche più seria, più vicina che mai al loro dolore. “Intrappolati in Russia, d’inverno, fra la neve e il gelo, dopo aver cominciato la campagna il ventidue di giugno. E per di più seguendo uno schema d’attacco così simile al mio, con gli stessi punti strategici.” Ci fu un fruscio, come se anche lui avesse stretto la presa o girato la guancia contro il ricevitore. “Ti sei almeno reso conto che state invitando Russia a combattere una guerra che ha già vinto?”

Spagna allontanò lo sguardo, sollevò un sopracciglio, e borbottò a voce così bassa da non fare nemmeno condensa. “È quello che avevo detto anch’io.”

Prussia lo zittì con una gomitata e tornò a scagliare la sua occhiataccia furente contro il telefono. “È solo per deprimerci che hai chiamato? Perché qui ne abbiamo abbastanza, se non te ne fossi reso conto, e l’ultima cosa che ci serve è qualcuno che...”

“Sei tu che hai chiamato me!” esclamò Francia. “E poi è meglio parlarci ora finché siamo in tempo. Finché c’è ancora qualche linea di comunicazione intatta. Prima che il freddo stermini anche quelle.”

“Guarda che non siamo ancora spacciati!” Prussia staccò il ricevitore dall’orecchio e vi premette l’indice sopra. “Russia non ci ha ancora sconfitti, non c’è nulla al mondo che possa sconfiggerci!”

“Nemmeno un’alleanza stipulata fra lui, America e Inghilterra?”

Calò il gelo. Un gelo che si arrampicò attraverso le gambe di Prussia e che gli artigliò il cuore, un gelo ancora più pesante di quello che si respirava in quella terra maledetta dal Cielo. Lui e Spagna si guardarono. Nei loro occhi la stessa domanda: e lui come diavolo fa a saperlo?

Prussia tornò a stringere le dita sul ricevitore, lo riappoggiò all’orecchio e innalzò un’aura di difesa come se si fosse trovato davanti a un nemico sul campo di battaglia. “E tu come lo sai?”

Francia chiocciò una risatina. “Sarò un territorio occupato ma rimango pur sempre una nazione. Non credere che mi tengano completamente all’oscuro di tutto.”

Prussia fece stridere i denti e masticò un gorgoglio. Ancora per poco, credimi. “Bene,” sbottò. “Perché invece è quello che farò io. Sei una nazione occupata dal mio paese, sei un mio prigioniero, sei un mio nemico, e io non ho nient’altro da dirti.” Staccò il ricevitore dall’orecchio. “Addio.”

“Bel ringraziamento per averti salvato il dèrrier!”

“Il de...” Prussia tornò a incollare il telefono alla guancia. “E cosa significa?”

Spagna gli bisbigliò un sussurro dietro l’orecchio libero. “È il didietro.”

“So cos’è un dèrrier, testa di segatura! Intendo cosa significa che lui mi ha salvato le chiappe.”

“Chiedilo alla testa di segatura,” rispose la voce filtrata di Francia. “A maggio. Nell’Atlantico. Quando siete affondati con la corazzata. Chi credi che gli abbia dato le coordinate per venirti a prendere?”

Prussia riaprì la bocca per cantargliele, ma il fiato gli rimase congelato fra le labbra. Sotto i suoi piedi si spalancò il vuoto, lo stesso in cui si era sentito risucchiare quando si era ritrovato ammollo nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, dopo l’affondamento della Bismarck, davanti all’immagine della corazzata capovolta che sprofondava fra le onde. “Tu hai...” Ruotò lo sguardo su Spagna, e Spagna sviò quell’occhiata girandosi di colpo, quasi a nascondere un segreto. Prussia rivisse il momento del salvataggio, quell’istante in cui si era asciugato l’acqua salata dagli occhi e aveva inquadrato l’immagine del Canaris all’orizzonte, quella nave che li avrebbe ripescati dall’acqua e tratti in salvo invece che lasciarli in pasto a Inghilterra. Sbuffò scocciato. “Perché lo hai fatto?”

Francia soffiò un sospiro. “Mi sembra di aver già fatto questo discorso,” rispose con tono più avvilito. “E mi sembrava che già allora io fossi stato abbastanza chiaro.”

Un altro ricordo in faccia, duro e aspro come uno schiaffo. L’ultima volta in cui loro tre si erano ritrovati assieme nella stessa stanza, poco dopo l’attacco a Taranto. Quell’amicizia spezzata, quella promessa di non rivedersi mai più se non da nemici, quella distanza fra loro che si era fatta inesorabilmente più larga, come la voragine nei loro cuori.

“Be’,” ribatté Prussia, acido. “Hai sprecato il tuo tempo.”

Spagna corrugò la fronte in un mezzo broncio di rimprovero. Gli diede un colpetto sulla spalla, lo incitò più volte con un’alzata di mento, e buttò occhiate di complicità verso il ricevitore ancora fra le sue mani. Non poteva chiudersi così fra loro tre, non di nuovo.

Prussia alzò gli occhi al cielo. Si diede una strofinata alla fronte, spremette un massaggio circolare prima sulle tempie e poi sulle palpebre annerite, e chiuse la chiamata con un brontolio. “Grazie per il vino surgelato.” Riagganciò senza nemmeno dare la possibilità a Francia di rispondere. Si rinfilò una bretella dello zaino attorno alla spalla, richiuse la cinghia della sacca che aveva gonfiato con i pacchi di medicamenti meno congelati che si era portato via dal carico del treno, masticò in un angolo della bocca il ghiacciolo di vino che aveva conservato, e incalzò la marcia. “Diamoci una mossa.”

Spagna se lo vide sfilare davanti, incapace di fermarlo. Annuì a capo basso, riluttante, ma anche lui si rimboccò la giacca e lo seguì per attraversare assieme il villaggio.

Aveva smesso di nevicare, le nuvole si erano diradate e avevano snudato il cielo che era di un tragico color pece nonostante fossero appena le quattro del pomeriggio. I loro passi risuonavano fitti e scricchiolanti in quel rispettoso silenzio di cordoglio, simile a quello che riempie le chiese durante i funerali.

Alcuni soldati uscirono dalle isbe conquistate, si unirono a quelli radunati all’esterno, attorno ai pallidi fuocherelli che avevano acceso e da cui risalivano sottili rigagnoli di fumo che sapeva di benzina e di olio. I soldati sistemarono i mattoni attorno alle lanterne e attorno alle fiamme, raccolsero quelli già caldi e li avvolsero in stracci e pezze di stoffa. Se li scambiarono a vicenda, li infilarono sotto gli abiti sporchi, li accostarono alle guance da cui la pelle si era screpolata per il freddo, altri li sistemarono contro il meccanismo di sparo e di caricamento delle mitragliatrici che rischiavano di congelarsi, o anche sotto le culatte dei cannoni che comunque non riuscivano ad aprire. Un paio di soldati si erano accovacciati sotto i carri, soffiavano sulle fiammelle che avevano acceso per tenere caldi i motori. Solo qualche voce borbottante si mescolava fra i tossiti, fra i lamenti, fra il singhiozzare dei più disperati che non riuscivano a consolarsi nemmeno con il tepore dei fuocherelli.

Spagna accelerò il passo, staccandosi da quel dolore, e si strinse di nuovo al fianco di Prussia. “Cosa faremo adesso?” Riprese a battere i denti, soffiò condensa bianca. “Come facciamo a smuoverci da questa situazione?”

Prussia si sfilò il ghiacciolo di vino dalle labbra e gettò il mozzicone a terra. “Intanto tu va’ da Romano e da West. Io mi occupo degli altri e poi vi raggiungo.” Diede una scossa allo zaino che gli stava scivolando dalla spalla. “Dobbiamo organizzarci per le prossime mosse.”

“Le prossime mosse?” fece Spagna. Il passo sempre più difficile e faticoso da trascinare, anche nella neve battuta. “E dove credi che ci porteranno le prossime mosse? Lo hai detto anche tu che ormai non c’è più speranza di poter prendere Mosca.”

Prussia fece per rispondere ma una voce li sorprese, più vicina rispetto a quelle dei soldati. “Ehi.”

Bulgaria zampettò fino a loro, stretto nella giacca dell’uniforme invernale, con la neve fresca che gli sguazzava attorno alle ginocchia, e li raggiunse con un broncio che gli contraeva il ricamo di cicatrici sul viso. Soffiò un sospiro di fatica per riprendersi dalla scarpinata nella neve. “È arrivato cibo?”

Prussia scosse il capo. “Niente cibo, e quel poco che ci è arrivato si è congelato.”

“Cosa?” Bulgaria rimase a bocca spalancata. Gli venne il tic a un occhio. “Scherzate, vero? E come facciamo a tirare avanti? Ormai anche tutti i campi sono completamente prosciugati, non possiamo nemmeno scavare la terra dato che è dura come cemento. E i russi ora non si lasciano più dietro nulla. Non abbiamo...”

“Consolati con questi.” Prussia si sfilò un pacco di medicamenti dallo zaino e glielo lanciò.

Bulgaria lo acchiappò al volo, lo rigirò fra le mani, vi batté le nocche sopra e corrugò un sopracciglio. “Sono duri come legno.”

“Dobbiamo accontentarci.” Prussia spostò lo sguardo verso un gruppo di soldati da cui proveniva il lamento più acuto e dolorante di qualcuno che stavano medicando, e ammorbidì il tono. “Romania in che condizioni è?”

“Pessime.” Bulgaria girò il capo di scatto, evitò il discorso, e s’infilò il pacco di medicamenti nella tasca della giacca. “Vado a cercare un medico,” brontolò. “Sperando sia avanzata almeno un po’ di morfina. Se non si è congelata pure quella.” Ripercorse i suoi stessi passi tatuati sulla neve e si allontanò, fino a diventare una sagoma piccola e lontana, dispersa nella foschia. Svanì assieme allo scricchiolare della sua camminata.

Spagna sospirò e s’incamminò nella direzione opposta, picchiettò un saluto sulla spalla di Prussia. “Ci vediamo più tardi.”

Prussia annuì di rimando. Si diede una strofinata alle guance infreddolite, levò lo sguardo verso i pennacchi di fumo che risalivano dalle isbe che avevano occupato, e una stretta di disagio gli annodò la bocca dello stomaco, facendolo esitare, inchiodandolo con i piedi nella neve.

C’era un altro dolore che anche lui avrebbe dovuto affrontare e dal quale non poteva sottrarsi.

 

.

 

Ungheria srotolò la benda vecchia e sporca da una mano di Austria, rigida come quella di un manichino. Lui gemette e lei si fermò, massaggiò lentamente il punto dove la stoffa era rimasta incollata a uno dei geloni che gli aveva divorato la pelle più nera all’altezza delle nocche, e riprovò a sollevare la garza. Ci fu di nuovo resistenza, quel suono viscido di pelle che si sbuccia e che si solleva filando come colla, e un altro ansito di Austria. Quel dolore si riversò anche su Ungheria. “Ti fa tanto male?” Anche a lei pareva di avere le mani sbranate da affilate morsicate di ghiaccio.

Austria strinse gli occhi e resistette, nonostante il respiro accelerato e i sudori freddi che gli avevano inumidito il pallore del viso. Scosse il capo. “Non sento più nulla.”

Gli occhi di Ungheria vacillarono, umidi di dolore. Lei raccolse le mani tremanti attorno a quella incancrenita di Austria, vi strofinò delicatamente le dita, la toccò con la fronte e con i capelli scivolati in avanti, gli baciò piano le nocche e lo tenne al caldo con il tepore del suo respiro. Riusciva solo a pensare a come quelle dita volavano leggere sul pianoforte, sfiorandone i tasti che rispondevano con il loro canto, con quelle melodie che gli illuminavano il profilo ora annebbiato solo dal dolore. Dita che ora Austria non riusciva nemmeno a flettere senza sentirsi divorare fino all’osso. A stento contenne le lacrime.

Austria allontanò lo sguardo. “Non torneranno mai più come prima.”

“No, no,” mormorò Ungheria. “Non dire così.” Gliele strofinò ancora. “È solo il freddo, solo il freddo. Non potrà durare per sempre. Vedrai che guarirai. Tornerà il caldo, e ancora prima della fine dell’inverno noi saremo già...” S’interruppe. Non riuscì a crederci nemmeno lei. Ungheria prese un lungo sospiro e tenne la mano di Austria custodita fra le sue. “Finirà presto.” Un’altra soffice carezza d’incoraggiamento. “Te lo prometto.”

Un liquido bagliore di tristezza luccicò dietro le lenti di Austria. Lui scosse il capo. “Non riesco più a sperare in nulla, ormai.”

Un colpo picchiò sulla porta congelata dell’isba e fece sobbalzare entrambi.

L’anta si spalancò, trascinò dentro un alito di vento gelido e una spolverata di neve che si rovesciò sul pavimento. Prussia calpestò la neve e riuscì a cantilenare nonostante la voce arrochita dal gelo. “Sono a casa, tesori miei.” Scrollò le suole incrostate di ghiaccio.

Ungheria si voltò a fulminarlo. “Finalmente.” Si rialzò dal pavimento su cui era china con le ginocchia e rabbrividì per la risacca d’aria che le era soffiata addosso. “Dovevate essere qua già un’ora fa.”

Prussia diede un calcetto al battente e richiuse la porta. “Il treno ha subito rallentamenti. Bloccato dalla neve, o chessò io.” Si diede una spolverata ai fiocchi di ghiaccio rimasti fra i capelli e sulle spalline. “Ma almeno è riuscito a raggiungere la stazione.”

“E il carico?”

“Congelato. Inutilizzabile.”

Ungheria fece schioccare la lingua e si diede una nervosa strofinata ai capelli. “Maledizione.”

“Già.” Prussia sbottonò le prime chiusure della giacca, vi infilò dentro la mano inguantata ed estrasse un mattone riscaldato che aveva rimediato dai soldati. “Consolatevi con questo.” Lo porse a Ungheria.

Ungheria vi premette i palmi nudi sopra, lo rigirò, lo accostò alla guancia, e il suo viso s’intiepidì, riprese un po’ di colore. Il suo respiro si rilassò. “È caldo.” Tornò a inginocchiarsi davanti ad Austria, avvolse il mattone in uno degli stracci che aveva usato per ripulirgli le ferite aperte. “Ecco.” Glielo posò in grembo, guidò le sue mani attorno al calore della terracotta. “Tienilo ben stretto, ma non togliere la pezza o rischi di ustionarti.”

Lo sguardo di Prussia si posò sulle mani doloranti di Austria che lui prese a sfregare sul mattone senza però riuscire a piegare le dita. Provò un moto di compassione davanti a quelle mani gonfie, nere e martoriate che invece avrebbero dovuto essere bianche e sottili, leggere e agili come il battito d’ali di una farfalla. “Il dottore cosa dice?”

Austria raccolse il mattone fra i palmi, lo sollevò, gli scivolò dalla presa ricadendo fra le gambe, e lui lo spostò usando i polsi. “Quello che abbiamo detto anche noi.” Strinse e riaprì le punte delle dita, contenne un ansito a denti stretti. “Sono geloni. Non possono guarirli, non in questo ambiente che non dà tregua, non senza medicine e bendaggi puliti.”

“Riesci almeno a impugnare un’arma?”

La faccia di Austria divenne quella di un cadavere, come se gli avessero risucchiato ogni battito dal petto.

Anche Ungheria rimase di sale, le labbra socchiuse e un tremolio a spezzarle il respiro. “Cosa...” Afferrò uno degli stracci e lo scagliò addosso a Prussia. “Ma sei serio?” esclamò. “Lui sta soffrendo e tu riesci solo a pensare...”

“Al proseguimento delle operazioni, in modo da poter uscire da questa situazione del cazzo una volta per tutte.”

“Ma quale proseguimento delle operazioni?” Ungheria tornò a rialzarsi con un rimbalzo solo, fu davanti a Prussia in soli due passi. “Ormai è finita. Germania lo sa e tu stesso hai detto che ormai è impossibile prendere Mosca. È finita perché l’esercito è sfinito, perché le armi non funzionano, perché i panzer non ripartono, e perché non è più possibile un accerchiamento della capitale, tantomeno uno sfondamento.”

“Ma siamo ancora qui, quindi tanto vale...”

“Siamo ancora qui perché Germania non vuole accettare la realtà,” ribatté Ungheria. “E tu dovresti fargli aprire gli occhi invece che assecondarlo.”

Prussia affilò il ringhio, i suoi occhi divennero di brace. “Non provare a dirmi come...”

“Non litigate!”

Tutti e due si voltarono verso lo strillo di Austria.

Austria rimboccò il panno che stava cadendo dal mattone. Aveva ancora le guance arrossate per lo sforzo di quell’esclamazione, e la fronte aggrottata nel suo solito broncio di disappunto. “È così che avete intenzione di risolvere questo disastro?” Guardò entrambi duramente. “Litigando?”

Prussia mantenne quella scura espressione di cruccio. “E come dovremmo risolverlo?”

“Va’ da Germania.” Nonostante Austria continuasse a tremare di freddo e a strofinare le mani attorno al calore del mattone, una nuova fiamma di vita gli bruciò nello sguardo. “Va’ da Germania e convincilo a intraprendere una ritirata. Subito.”

Ungheria rabbrividì all’idea. “R-ritirata?” Davvero sarà necessario un provvedimento così drastico? E tutto il territorio conquistato finora? E se Russia ci impedisse di ripetere l’attacco in primavera? Andrebbe tutto perso? “Ma...” Un nuovo dubbio stroncante s’impossessò di lei. “E Ita? Davvero dovremmo lasciare che rimanga prigioniero di Russia?”

Austria tornò a stringere le mani tremanti. Il dolore che provò dentro di sé fu più intenso della scarica di gelo attraverso le dita. “Se non lo facessimo, allora Russia imprigionerebbe tutti noi.” Scosse lentamente il capo. “E allora non rimarrebbe più nessuno in grado di salvarci.”

Quell’ultima frase vorticò attorno alla testa di Prussia, gli fece vedere doppio. Nessuno in grado di salvarci. Scosse il capo, indurì le spalle, caricandosi di forza, si riabbottonò la giacca e tornò ad abbandonare l’isba. “Vado da West.” Sbatté la porticina alle sue spalle, fece cadere un grumo di neve, e riattraversò da solo il villaggio.

 

.

 

Dal sudicio fondo di paglia di cui era ricoperto il pavimento dell’isba saliva un acidulo e marcio odore di umido, di sangue rappreso, della tintura di iodio, di urina, di pelle infetta, degli abiti sporchi di terra che i soldati non potevano cambiarsi da settimane e che stavano congelando assieme ai loro corpi sempre più deboli e sempre più prosciugati dal freddo.

Solo la pallida e traballante luce di una lanterna rischiariva le mura di cemento dell’isba. Deboli lamenti si levarono dagli angoli più bui dove i soldati feriti riposavano. Fruscio nella paglia umida, corpi che si rigirano, rantolii cavernosi, suole di stivali che grattano il pavimento e le pareti, ombre oscillanti dentro il riverbero della lanterna.

Uno dei soldati si rotolò supino, contrasse le braccia e le mani rattrappite dal gelo, spinse il capo all’indietro per guadagnare un sorso d’aria gelata che non riuscì a buttare giù, e gemette. “Non ce la faccio.” Si appese al vuoto con le dita che, sotto le bende ormai marce, erano diventate nere, senza unghie, e con le bolle di geloni sempre più larghe e vicine al palmo. Gli spasmi di dolore lo rodevano fino alle ossa, stretti e soffocanti come degli abiti che non poteva sfilarsi. Il soldato boccheggiò, disperato. “Non,” gemette ancora, “ce la faccio,” un altro ansito, “più.”

Il soldato che lo accudiva raccolse dell’altra paglia più asciutta e la spinse attorno al suo corpo e sotto la nuca per non fargli battere la testa sul cemento. “Ssh, ssh, non ti sforzare.” Affianco al soldato ferito ne riposava un altro che sibilava rantoli nel sonno, a intervalli sempre più lunghi e sempre più silenziosi. Era da ore che non si rigirava e che non spostava nemmeno una gamba, la sua faccia grigia giaceva su un fagotto di stoffa, gli occhi socchiusi fissavano il vuoto, e il suo fiato bianco di tanto in tanto scivolava fuori dalle labbra bluastre. Il soldato seduto sulle ginocchia raccolse dei brandelli di pelliccia che avevano trovato nelle isbe abbandonate e li avvolse attorno al compagno sofferente. “Risparmia le forze.”

L’uomo scosse la testa, strizzò gli occhi. “Non riesco, non riesco.” Cominciò a piangere. Amare lacrime di dolore e disperazione zampillarono dalle sue palpebre ristrette, gli rigarono le guance morsicate dal freddo e si congelarono prima di riuscire a scivolare fra i capelli. Si formarono spessi cristalli bianchi fra le ciglia che il suo compagno dovette sfregargli via per non farlo rimanere accecato. “Basta freddo,” singhiozzò il soldato. “Basta freddo, non ce la faccio, non voglio più.”

Uno dei soldati ancora in forze si mise alle spalle di un ferito, gli raccolse la schiena da terra, incatenò le braccia alle sue, lasciando che l’uomo si contorcesse contro di lui per i dolori, e fece cenno a quello che lo assisteva. Il secondo soldato annuì. Strinse saldamente lo stivale del ferito, si spostò indietro di un paio di ginocchiate, e glielo sfilò dalla gamba con uno strattone.

Il ferito gridò contro il braccio di quello che lo sorreggeva. “Aaah!” Assieme allo stivale era scivolata fuori la pelle nera e morta del suo piede in cancrena. I geloni e i calzini umidi che non poteva cambiarsi avevano fatto diventare la sua carne un tutt’uno con il cuoio della calzatura.

Bulgaria distolse gli occhi dalla scena, verde di nausea, e si tappò la bocca per reprimere un conato di vomito.

I passi del dottore si spostarono lungo il tappeto di paglia. L’uomo s’inginocchio affianco a un altro ferito che avevano coperto con pezzi di lana sintetica, con le pellicce e con vecchi sacchi di tela, e gli sollevò un braccio inerte per tastarne il polso. “Di morfina non ce n’è più, temo,” disse a Bulgaria che gli era zampettato dietro. “E anche gli antibiotici. Stiamo finendo tutto.”

Qualche altro lamento riecheggiò dalla camera affianco, dalla cantina che era stata a sua volta imbottita di paglia e utilizzata come piccolo ricovero di fortuna.

Il dottore tonò a posare il braccio del soldato a cui aveva tastato il polso e si girò a rivolgere lo sguardo grigio di stanchezza a Bulgaria. “Ha detto che il carico del treno era tutto congelato?”

“Sì,” annuì Bulgaria. “Sono arrivati dei pacchi di medicamenti ma...” Mostrò il fagotto che aveva ricevuto da Prussia. Lo picchiò sul muro e quello fece lo stesso rumore di un pezzo di legno che batte sul cemento. “Lo vede da lei, no?”

Il dottore sospirò, esasperato e distrutto come gli uomini che giacevano fra la paglia. “In queste condizioni, temo ci sia ben poco che possiamo fare. Non con questo freddo, non in queste condizioni igieniche, e non senza antibiotici.” Raccolse la sua valigetta, rigirò un paio di boccette. Erano tutte vuote. “Soffre molto?”

“Sì.” Bulgaria rispose senza esitare, senza nemmeno voler pensare alle condizioni in cui aveva lasciato Romania.

Il dottore annuì. “Allora provi a dargli questo.” Dal fondo della valigetta pescò una siringa già preparata e colma di una medicina che Bulgaria non riconobbe. La strofinò fra i palmi, alitò sulla punta scoperchiata per evitare che si congelasse, e la passò a Bulgaria tenendola per lo stantuffo. “Gli darà un po’ di sollievo.”

Bulgaria accettò la siringa e la rigirò fra le dita. “Cos’è?”

“Una miscela,” rispose il dottore. “Scopolamina, efetonina, ed Eukodal. Non lo guarirà, ma per lo meno dovrebbe alleviare i dolori più forti. È tutto quello che posso fare.”

Bulgaria annuì, strinse la siringa al petto, custodendola come la chiave di un tesoro. “Grazie.” Infilò il pugno in tasca senza rilasciare la presa sulla siringa, per evitare che la miscela congelasse, e uscì dall’isba. Attraversò le stradine innevate del villaggio sotto le luci delle lanterne e dei fari di qualche automezzo dentro il quale riposavano i soldati ancora in grado di resistere alle temperature esterne.

Bulgaria si strinse nella giacca, affondò una falcata dopo l’altra nella neve fresca e in quella congelata, mescolata alla terra e schiacciata da altre impronte di stivali incrostati di fango.

Attorno a lui si spostarono ombre tremanti, uomini avvolti nei pastrani, coperti fin sotto gli occhi, seguiti dal ritmico scricchiolare dei passi tatuati sul fondo di neve che ogni notte cresceva sempre più alto. Piccoli fuochi nati da lampade al cherosene rotte, alimentate da legno marcio e da paglia umida, bruciavano timidi e nebulosi fuori dalle isbe occupate dai tedeschi. I soldati vi si radunavano attorno, stendevano le braccia, strofinavano le mani vicino alle fiammelle, si scambiavano le gavette fumanti e le accostavano al fuoco per tenerle al caldo.

Altri medici passarono da un’isba all’altra. I corpi di soldati erano distesi, alcuni coperti fino alle spalle e altri fin sopra la testa, già morti. I loro lamenti erano echi di ululati che spezzavano il silenzio catacombale di quel villaggio sommerso dal bianco sudario di neve.

Bulgaria rabbrividì. Accelerò il passo per raggiungere il piccolo granaio dove si erano sistemati lui e Romania, quello dove era conservata una vecchia stia per polli da cui avevano estratto la paglia per il fondo. Spinse la porticina di legno cigolante ed entrò.

Per primo lo raggiunse l’odore pungente della paglia vecchia e umida, lo stesso che aveva sentito anche nell’isba usata come rifugio medico. Un odore di ferite purulente, di abiti sporchi e pregni di sangue rappreso dal freddo, di un caldo e affannato respiro febbricitante che tremolava in quell’aria malsana e sospesa.

Bulgaria richiuse la porticina del granaio, spinse la neve fresca contro una crepa del muro, per tappare uno spiffero, e soffiò un sussurro bianco che rimbalzò fra le pareti di pietra. “Rom?” Avanzò di un passo senza aspettare risposta, fece scricchiolare la paglia, e urtò la lanterna che aveva lasciato lì per non abbandonare Romania nel buio. La raccolse, indirizzò il fascio sul pavimento di paglia. La gavetta con la zuppa di farina era intoccata, con ancora il cucchiaio dentro. Le ombre si allungarono e toccarono il corpo di Romania, disteso con la schiena contro la parete di pietra, lontano dallo spazio più centrale dove si accumulavano i pidocchi, avvolto nel fagotto di stracci, vestiti e pellicce che erano riusciti a rimediare. Il viso affondato nell’incavo del braccio disteso, i capelli sugli occhi, e solo qualche tremore a scuoterlo. Bulgaria compì un altro passo, sollevò un altro scricchiolio. “Rom, sei sveglio?”

Un affanno più breve da parte di Romania, un lieve mugugno, e i tremori si arrestarono. Romania raccolse il braccio più vicino a sé, spostò il capo, e i capelli gli ricaddero dalla guancia, scoprirono gli occhi socchiusi, luccicanti e umidi di febbre. Tornò ad abbassare le palpebre, a raggomitolarsi, e a tremolare nel suo silenzio interrotto solo dal respiro affannato.

Bulgaria si chinò a raccogliere anche la gavetta. “Non hai mangiato un po’ di zuppa?” Scosse il recipiente di alluminio e la zuppa non si mosse. Pescò il cucchiaio e spaccò il sottile velo di ghiaccio che si era incrostato in superficie. “Si è congelata, ormai.”

Romania respirò a fondo e il fagotto di stoffa in cui era sepolto si mosse assieme a lui. “N-non...” Emise un rantolio sofferto. “Ho fa...” Chiuse e riaprì le labbra, impastando la lingua in quella bocca bianca e secca. “Non ho fame.”

Bulgaria gli rivolse un’occhiata di rimprovero. “E come pretendi di guarire se non mangi almeno un po’?” Andò a sedersi vicino a lui, sopra la paglia, e rimestò il cucchiaio, sbriciolando gli ultimi frammenti di ghiaccio. Per fortuna non si è del tutto congelata. “Su, coraggio.” Sollevò Romania dal pavimento, lo raccolse fra le gambe, gli circondò il busto con un braccio, e lo spostò in modo da fargli riposare il capo su una sua spalla. “Almeno un paio di cucchiaiate,” lo incoraggiò, “solo per rimanere in forze. Non vorrai metterti a fare il bambino proprio ora, no?”

Romania tremò ancora, bianco più della neve che rivestiva il villaggio. Batté i denti fra le labbra ormai grigie, abbassò le palpebre gonfie e nere, le riaprì, non riuscì a tenerle nemmeno socchiuse, e accasciò la fronte contro il petto di Bulgaria. Scosse più volte il capo, emise il lamento triste e lungo di chi vuole solo ributtarsi a terra e crollare addormentato in uno spazio nero dove non esisteva alcun dolore.

“Solo un po’, dai.” Bulgaria raccolse una cucchiaiata dal fondo, dove la zuppa era ancora vagamente tiepida. “Solo un po’.” Accostò il cucchiaio alle sue labbra grigie e sottili, gli bagnò la bocca, riuscì a fargli tirare fuori la punta della lingua e a fargli buttar giù due bocconi.

Al terzo, sfilato il cucchiaio dalle labbra, Romania strinse gli occhi come se avesse appena ingoiato una sorsata di chiodi, e girò la testa, premendo la guancia contro il petto di Bulgaria. “Basta.”

Bulgaria gli diede una scossetta alle spalle. “Solo un altro cucchiaio, su.”

Romania tornò a scuotere la testa. “B-basta. Solo...” Esalò un respiro pesante e ricadde con la fronte sul braccio di Bulgaria. “Dormire.”

Bulgaria sentì un amaro sapore di paura risalirgli la bocca. Ma se ti addormenti poi rischi di non svegliarti più, stupido. Riappoggiò la gavetta fra la paglia. “Fammi dare un’occhiata alla ferita.”

Romania si lasciò distendere, voltare e spogliare delle coperte senza il minimo lamento. Bulgaria gli sbottonò la giacca, sollevò il lembo della camicia di cotone, spostò le bende vecchie di giorni, congelate dal freddo e dall’umidità, e impallidì per una seconda volta davanti alla ferita. Si era gonfiata ulteriormente. La bolla aveva riassorbito i punti, e dai labbri di quel taglio irregolare continuava a spurgare materia infetta che si congelava all’istante a contatto con la stoffa degli abiti, rendendola una seconda pelle.

La mano di Bulgaria tremò. Merda. Lui riprese a respirare per soffiare via la sensazione della testa che aveva preso a girare. Continua a peggiorare. Gli riabbassò gli abiti e strinse i denti per contenere un ringhio. Maledì Germania, il suo Paese, la sua guerra, e tutta la situazione in cui li aveva trascinati e imprigionati. E non possiamo nemmeno portarlo nelle retrovie, dato che i mezzi di trasporto non funzionano. Siamo bloccati in questo dannato inferno di ghiaccio.

“Guarda.” Bulgaria frugò nella tasca dove conservava la siringa già pronta con la miscela di Eukodal. “Il dottore mi ha dato questa.” La sfilò dalla giacca e la mostrò a Romania. L’ago sottile e lucente sotto il riverbero della lampada. “Ti aiuterà a stare un pochino meglio.”

Romania ruotò lo sguardo, posò gli occhi annebbiati sulla siringa adagiata sul palmo aperto di Bulgaria. Le sue pupille strette e umide di febbre si allargarono, brillarono di una fiamma più viva e speranzosa. “M-morfina?”

Bulgaria scosse il capo. “Scopolamina, efetonina, ed Eukodal. Non ti guarirà l’infezione, ma allevierà almeno un po’ il dolore.” Gli abbassò la giacca, questa volta all’altezza della spalla, e indirizzò la punta dell’ago nel muscolo. “Magari potrai dormire un po’, e così recupererai le forze.” Affondò l’ago, spinse il pollice sullo stantuffo fino a raggiungere il fondo, sfilò la siringa facendo uscire solo una gocciolina di sangue, e gli massaggiò la spalla con lenti affondi circolari. “Sentito qualcosa?”

Romania scosse il capo contro il fagotto di stoffa che faceva da cuscino. “N-niente.”

Bulgaria sorrise. Fu un sorriso un po’ disperato. “Visto che bravo che sono? Dovevo fare il medico anziché la nazione.” Si rimise la siringa vuota in tasca e tornò a infagottare Romania nell’ammasso di stoffa, sacchi di tela, brandelli di pellicce e vecchie giacche. “Ora cerca solo di riposare almeno un po’.” Si sdraiò accanto a lui, sulla paglia umida, senza coprirsi, e gli diede una strofinata al braccio. “Sto qua con te, va bene?”

Romania posò la mano sulla sua, strinse le dita e annuì debolmente, senza nemmeno riaprire gli occhi.

Bulgaria gli fece passare il braccio sopra il fianco, senza premere sulla ferita, si schiacciò alla sua schiena, intrecciò le mani alla sua, poggiò la fronte sulla sua spalla, intiepidendolo col suo respiro, e chiuse gli occhi. Si addormentò stretto ai tremori di Romania, ai suoi sibili sofferenti, alla sua febbre, al suo dolore, e sognò di trovarsi in un posto migliore, lontano dall’inganno di quella guerra che ormai aveva affondato le zanne su di loro e che non avrebbe lasciato la presa prima di saziarsi.

 

.

 

Un lieve solleticare attraversò la guancia che Bulgaria teneva premuta sul giaciglio di paglia. Quel prurito risalì il viso, s’infilò fra i suoi capelli, e discese dietro l’arco dell’orecchio, giungendo fino al lobo.

Bulgaria strinse le palpebre, arricciò un broncio infastidito, sfilò un braccio dal fianco di Romania e si diede una grattata senza però riaprire gli occhi. Si rimise a dormire con un sospiro. Il torso schiacciato alla schiena di Romania, le braccia fasciate ai suoi fianchi, il naso premuto sulla sua nuca, e le ginocchia rannicchiate fra le sue gambe.

Un altro prurito si arrampicò dalla paglia su cui teneva premuto l’orecchio. Di nuovo s’infilò fra i capelli e di nuovo risalì la nuca, solleticandolo come la camminata di una serie di piccole zampette.

Bulgaria strinse i denti e grugnì. Rimbalzò a sedere, affondò entrambe le mani fra le ciocche, grattò più a fondo, con più forza, e seguì il prurito che era tornato a scendere lungo il collo, fin sotto il bavero della giacca. Ma che diavolo... Sfilò la mano dal colletto e la espose alla luce della lanterna in cui la fiamma era ancora alta e viva.

Tre pidocchi gli zampettarono fra le dita, due di loro incrociarono il passo all’altezza del palmo, uno proseguì verso il polso e l’altro s’infilò nello spazio fra le nocche, percorrendo il dorso e circumnavigando di nuovo la base del pollice.

Una scossa di ribrezzo fulminò lo stomaco di Bulgaria. “Ah!” Bulgaria sbatacchiò la mano, la strofinò prima sulla stoffa della giacca e poi grattò il palmo sulla superficie fredda e ruvida del muro di cemento. “Bestiacce.” Calciò via la paglia dove i pidocchi si annidavano e da cui erano risaliti. “Luride e schifose bestiacce, tornate nella fogna da cui venite.” Sollevò le mani, le rigirò sempre sotto le sfumature di luce della lampada, e si diede una grattata anche sotto le maniche. Pulito. Sistemò le coperte che si erano sgualcite attorno a Romania e gli scostò le ciocche di capelli per controllare che anche la sua nuca e il suo collo fossero puliti. Speriamo solo che non stiano tormentando anche lui. Gli strofinò la schiena per spazzolare via qualche filo di paglia. È l’ultima cosa che gli serve dopo che...

Fermò il tocco. Il rumore della sua mano sfregata sulle coperte e sulla giacca terminò e cadde il silenzio. Troppo silenzio. Nessun respiro affannato proveniente dalle labbra schiuse di Romania, nessun ritmico battere dei denti, nessun brivido a scuotergli la schiena, nemmeno uno spasmo ad attraversargli gambe e braccia. Bulgaria gli scostò una ciocca di capelli dal viso. Romania aveva le palpebre abbassate, gonfie di nero attorno all’orbita, le labbra grigie socchiuse ma senza alcun sospiro a farle vibrare.

La mano di Bulgaria tremò, lasciò andare la ciocca fulva che aveva sollevato. “E...” Bulgaria deglutì, si sentì gelare lo stomaco. “Ehi, Rom.” Calma, ripeté a se stesso. Stai calmo, non ti agitare, lui sta bene, sta solo dormendo, sta solo dormendo molto pesantemente, non c’è nessun motivo di farsi prendere dal panico. “Rom.” Gli strinse la spalla e gli diede una scossa. “Rom, sei sveglio?” Silenzio. Bulgaria gli raccolse il polso, lo mollò, e il braccio ricadde a peso morto sulla paglia. Lo fece di nuovo. E ancora una volta. Nemmeno un singhiozzo o un lamento da parte di Romania.

Bulgaria sbiancò fino alle punte dei capelli, e il pugno di gelo che gli aveva sfondato lo stomacò salì a ghiacciargli le guance. Si sentì sprofondare fra quelle pareti di cemento freddo che odoravano di marcio, di sangue infetto, di escrementi di gallina, e in quella paglia umida dove i pidocchi si annidavano con i loro dentini e le loro zampette infernali. Oh, cazzo.

“Rom!” Bulgaria si avventò su di lui, gli afferrò entrambe le spalle e lo scosse. “Rom, svegliati! Svegliati, per l’amor del Cielo, svegliati, apri gli occhi!”

Ma il volto di Romania ricadde di lato, bianchissimo, senza alcun brivido a scuoterlo. Era morto.

Un gelido schiaffo di panico si frantumò sul viso di Bulgaria. Lui ricominciò a tremare, gli girò la testa, vide sfocato. Le pareti trottolarono e lui non seppe più a cosa aggrapparsi. “No.” Compì uno scatto all’indietro e ricadde nella paglia. Spinse una scalciata che lo fece ricadere nello stesso punto, affondò le mani fra i capelli e si resse la testa per non sentirsi precipitare. “Oh, no, no, merda, no.” Non è vero, non è vero, non può essere vero, non può farmi questo, non sta succedendo, non sta succedendo!

“Medico!” Bulgaria si diede un’altra spinta di piedi e cadde sul fianco. Si tirò su, si appese alla porticina, la aprì frantumando lo strato di neve con cui aveva tappato gli spifferi, e si tuffò in una corsa disperata attraverso le stradine costeggiate dalle isbe.  “Medico, presto!” Le prime perle di lacrime si staccarono dalle palpebre, rotolarono fra le ciglia e si cristallizzarono agli angoli degli occhi su cui soffiava la spinta del vento. Bulgaria accostò la mano alla bocca e fece riecheggiare il suo grido d’aiuto su tutto il villaggio. “Mi serve un medico!”

 

.

 

Il dottore spostò il filtro dello stetoscopio sotto gli abiti di Romania. Lo premette sul suo torace, attese, lo spinse più in basso, all’altezza del costato, e aspettò ancora. Attorno a lui regnava un silenzio di piombo che nemmeno il frusciare della paglia o il fischio del vento fra gli spifferi dell’isba riuscì a disturbare. Il dottore corrugò la fronte e posò le nocche sulla guancia lattea ma bollente di Romania, affianco alle labbra da cui non soffiava nemmeno un sibilo. “Il battito c’è,” disse. “È molto debole ma c’è. In quanto alla febbre...” Gli sfilò il filtro dello stetoscopio dal torace, tornò a coprirlo adagiandogli vicino un paio di mattoni riscaldati e avvolti in panni di stoffa, e si tolse lo strumento dalle orecchie. “Non ho modo di misurargli la temperatura, dato che tutti i nostri termometri sono esplosi per le temperature troppo basse, ma è molto alta.” Il suo sguardo, accartocciato dalle rughe di stanchezza, scavalcò quello di Bulgaria e si sollevò verso quello di Germania che vegliava in piedi sul povero Romania. “È entrato in coma, temo. Non c’è altra spiegazione.”

Germania abbassò le palpebre, strinse la fronte in una ruga dura di cordoglio, e non proferì parola.

Bulgaria schiacciò i pugni sulle ginocchia che teneva piegate sul fondo di paglia. Amare e pesanti lacrime perlacee continuarono a gocciolare dai suoi occhi ristretti e a solcargli le guance bruciate dal gelo. Continuò a tremare, a soffrire davanti al corpo incosciente di Romania che gli giaceva davanti, sotto la luce della lanterna ma avvolto nell’oscurità di quel dolore che non era in grado di alleviare. “Non dovevo fargli l’iniezione.” Irrigidì le braccia, e il suo gomito urtò la tasca della giacca rigonfia per la maledetta siringa che gli aveva svuotato nel muscolo. Bulgaria scosse più volte il capo e si strofinò le guance su cui le lacrime si erano cristallizzate. “Non dovevo fargli l’iniezione, non dovevo permettergli di addormentarsi. Se fosse rimasto sveglio allora forse avrebbe resistito, non si sarebbe lasciato andare e ora sarebbe ancora cosciente.”

Il dottore richiuse la valigia, si sistemò la fascia con la croce rossa che pendeva attorno al braccio, e si rialzò dal pavimento dandosi la spinta col ginocchio. “Era inevitabile che accadesse,” provò a consolarlo. “La ferita era già molto grave e, senza antibiotici, senza un’igiene adeguata, senza nutrimento, e in un ambiente così freddo...” Si strinse nelle spalle. “Era solo questione di tempo prima che accadesse. Non se ne faccia una colpa.”

Bulgaria tirò su col naso, riassorbì le lacrime che gli stavano di nuovo congelando le ciglia, e si strofinò gli occhi gonfi e doloranti.

Germania tenne le braccia conserte, rigido come una roccia nella sua posa marziale, più freddo del muro di cemento a cui era accostato. “Cosa dobbiamo fare, ora?” Dal suo volto non trasparve alcuna emozione se non una pratica durezza. “Come possiamo fare per ristabilire le sue condizioni?”

Il dottore allargò le braccia, impotente e costernato. “Pregare.” Le lasciò ricadere sui fianchi. “Pregare e sperare. Non c’è altra soluzione, temo. Se lui...” Strinse le labbra, si rimangiò un sospiro, e forzò quelle parole così difficili da pronunciare, da comprendere. “Se il suo fisico fosse stato quello di un normale essere umano, a quest’ora sarebbe già morto. Forse possiamo ancora appenderci a questa speranza.” S’infilò il cappuccio della sua giacca e accennò un segno di riverenza col capo. “Ripasserò più tardi a controllare le sue condizioni, ma non posso fare di più, non avendo medicinali e bendaggi puliti.” Spinse la porticina del granaio, mosse un passo all’esterno, esitò, e il suo volto si fece più buio, il tono di voce fiaccato, “Mi rincresce”, quasi fosse invecchiato di colpo. Uscì e richiuse la porticina alle sue spalle. Lasciò Germania e Bulgaria da soli, nel silenzio interrotto solo dallo scricchiolare dei mattoni riscaldati che si stavano raffreddando.

Bulgaria si diede un’altra strofinata al naso e agli occhi che avevano smesso di lacrimare. Raccolse una mano di Romania che giaceva sopra una delle giacche con cui lo avevano coperto. Era fredda, sottile e callosa all’altezza delle nocche. La sfregò fra le sue, la accostò alla guancia, e riprese a singhiozzare a bocca chiusa, lasciando gocciolare qualche lacrima fra le sue dita.

Da dietro le sue spalle, un duro sospiro di Germania. “Non disperarti.”

Quella frase fu un dardo nel cuore. Bulgaria pianse più forte ma tenendo i denti serrati, e i singhiozzi gli rimbalzarono in gola uno dopo l’altro, incontrollabili come la caduta della neve sotto la quale erano sepolti.

Germania mosse un paio di passi dietro di lui, fece frusciare la paglia, e la sua larga ombra nera si spostò attraverso le pareti di cemento. “Non appena sarà possibile lo farò portare nelle retrovie,” disse. “Se non migliorerà sarò anche disposto a farlo tornare a casa, nel suo Paese. Mantenerlo qui al fronte in quelle condizioni sarebbe comunque inconcludente.”

Bulgaria ingollò un ultimo singhiozzo, si morsicò il labbro, e tutto il sangue tornò a salirgli alla testa, a picchiargli sulle tempie e a fargli vedere rosso. Inconcludente. “Tu...” Si rialzò da terra e si appese alla giacca di Germania. “Tu avresti dovuto farlo tornare indietro subito!” Pestò un passo fra i suoi piedi, grattò la suola sul pavimento, gli batté i pugni sul petto, ma fu come prendere a scazzottate una statua di granito. “Già dopo Borodino avresti dovuto capire che non sarebbe stato in grado di proseguire con quella ferita! Tu...” Le lacrime nei suoi occhi tornarono a sorgere, a traballare e a fiammeggiare di tutta la rabbia che gli ribolliva dentro. “Tu ci stai ammazzando tutti! Tu sai che siamo in una situazione disperata, sai che siamo con la merda fino al collo, e tutto perché non sai quello che vuoi!” Gli scaricò addosso un altro pugno. “Non hai mai saputo quello che volevi fin dall’inizio e ora tutta la tua stupida incompetenza si sta riversando su noi poveri cretini che non abbiamo avuto altra scelta se non quella di darti retta e di seguirti in questo suicidio! Tu non sei come Russia, tu sei peggio!” Sputò quelle sentenze come veleno, sentendo la bocca andare a fuoco per tutto l’odio acido che gli saliva dallo stomaco. “Fai finta di essere migliore di lui, ma anche tu ci tiranneggi. E noi siamo così idioti da darti retta! Da assecondare i tuoi stupidi complessi! In cosa sei diverso, eh?” I suoi pugni tremarono. Bulgaria gli mollò un colpo più debole sotto la spalla. “In cosa sei diverso da Russia? Romania sta morendo e a te non importa un cazzo di niente! L’unico motivo per il quale siamo qua a morire è per Italia! O non t’importa nemmeno di lui, eh?”

Il petto di Germania irrigidì sotto i suoi pugni.

“Dimmelo!” gridò ancora Bulgaria. “Dammi almeno un motivo! Dimmi una volta per tutte perché siamo qua a crepare come animali!” Levò il braccio, gonfiò le nocche serrate e spinse tutte le energie verso la mano serrata. Fece volare il cazzotto verso la guancia di Germania. “Dimmi perché dovremmo ancora fidarci di te!”

Germania gli agguantò il polso e arrestò il pugno prima che potesse sfiorargli il viso. Strinse la presa, si udì un leggero scricchiolio provenire dalle sue dita inguantate, e spinse il peso di Bulgaria indietro di un passo, schiacciandolo solo con la pressione sul braccio.

Fulminato da quella scossa di dolore improvviso, Bulgaria rabbrividì. Arretrò di un passo ma tenne la fronte alta e corrugata in quel broncio nero di rabbia. I suoi umidi e nervosi occhi verdi premuti su quelli glaciali di Germania. “Be’,” sbottò, “che intendi fare ora?” Tremò ancora sotto quella morsa, ma non di paura. “Vuoi picchiare anche me? È la tua nuova politica? Intendi vincere in questa maniera? Pestando i tuoi alleati?” Irrigidì il pugno che Germania gli aveva bloccato e tirò il braccio all’indietro, senza riuscire a liberare il polso. “Picchiami, allora, dai,” esclamò. “Picchiami a sangue e mettimi a tacere come hai fatto con Ucraina.”

Germania lo trafisse con una di quelle occhiate che sarebbe stata in grado di ammazzare Bulgaria con un solo battito di ciglia. L’aria attorno a loro si congelò e la luce della lampada si abbassò, facendo precipitare un’oscurità fremente di tensione.

Bulgaria ingoiò gli affanni di rabbia, sbiancò fino alle punte dei capelli, e si rimpicciolì di colpo davanti a quell’ondata di terrore che gli aveva gelato il sangue. Tornò al suo posto. No, no, okay, ho cambiato idea, non mi picchiare.

Germania allentò la presa, gli lasciò il polso, e gli sfilò affianco portandosi dietro l’oscuro e pressante peso della sua ombra. “Rimani con Romania.”

“C-cos...” Bulgaria scosse il capo, si riprese, e si strofinò il polso dolorante. “Cosa...”

Germania uscì, solcò l’oscurità del cielo annuvolato, affondò i suoi passi scricchiolanti nella neve già divisa da altre impronte, e si lasciò trascinare dalla spinta dell’aria.

Il vento gli fischiò nelle orecchie e gli soffiò addosso tutte quelle parole che Russia gli aveva rivolto e che lui sperava di aver dimenticato. E invece incombettero di nuovo, taglienti come quelle lame di neve e aria ghiacciata che gli sfregiavano le guance a ogni passo. “Il motivo per il quale stai soffrendo non è perché ti ho portato via Italia, ma perché il tuo animo ora non sa più quale lato assecondare, se quello umano o quello da nazione. Dovresti arrenderti all’evidenza che tu rinunceresti persino a Italia pur di ottenere quello che vuoi per il tuo paese, come hai fatto a Kiev.”

Rinunciare definitivamente a Italia. Quel pensiero gli dava la nausea.

“Se è solo di questo che si tratta,” esclamò anche il ricordo di Bulgaria, della sua sfuriata contro Romano. “Allora puoi anche prendere zaino e fucile, farti da solo la scarpinata fino a Mosca e andare a riprendertelo. Perché ormai è solo di questo che si tratta, no?”

“È inutile che provi a essere ciò che non sei, Germania,” si sovrappose di nuovo la voce di Russia, il ricordo dei suoi occhi tristi come quelli di Ucraina. “Ed è inutile che ti aggrappi a Italia sperando che sia lui a trasformarti in qualcosa che non riuscirai mai a diventare. Noi due siamo uguali. Tu, io, e anche tuo fratello. Siamo tutte nazioni potenti e dominatrici che abbiamo inconsciamente stretto un patto con il nostro destino per essere diventati ciò che siamo. Rinunciare alla nostra umanità è stato il prezzo che ci ha permesso di elevarci in cima al mondo.”

“E tutto perché non sai quello che vuoi!” Ancora la rabbia di Bulgaria. “Non hai mai saputo quello che volevi fin dall’inizio e ora tutta la tua stupida incompetenza si sta riversando su noi poveri cretini che non abbiamo avuto altra scelta se non quella di darti retta e di seguirti in questo suicidio!”

Germania strinse i pugni, resistette a quella raffica che gli stava lacerando il cuore. Non è vero. Io so cosa voglio. Proseguì a passo pesante, con quella camminata che avrebbe potuto squarciare la terra sotto i suoi piedi. La testa di nuovo alta, lo sguardo di nuovo duro, gli occhi di nuovo lucidi, privi di quell’ombra di confusione che lo aveva annebbiato. E so anche che c’è un’unica cosa da fare se voglio dimostrare che Russia si sbaglia. Un’unica cosa da fare per dimostrare che io sono diverso da lui, per dimostrargli che io non ho mai avuto intenzione di rinunciare alla mia umanità. Ora so...

Con un unico pensiero in testa, guardò oltre i nuvoloni da cui la neve aveva smesso di fioccare, oltre le nubi che lo separavano dal cielo di Mosca.

Qual è la mia priorità.

 

.

 

Gli occhi lucidi e attenti di Germania erano fermi sugli ultimi spostamenti che avevano segnato sulla carta topografica, su quelle linee curve che non erano riuscite a penetrare il semicerchio della difesa, che non erano riuscite ad accerchiare Mosca: una chiazza urbana ancora immacolata. Germania teneva le mani aperte sugli angoli stropicciati della mappa, con l’impressione di star impugnando quella situazione che si stava sbriciolando sotto le sue dita. Spostò l’indice sul braccio inferiore della tenaglia, quello a sud che non era riuscito a trafiggere Tula e che le armate russe stavano spingendo indietro. “Il secondo tentativo di accerchiare Tula, nel settore sud, è fallito di nuovo.” Spostò la mano sull’arco centrale, dove anche la loro divisione stazionava, oltre Klin, poco più a nord di Mosca. In quella posizione dove pareva bastasse tendere il braccio e bussare alla porta della capitale per potervi entrare. “Per quanto riguarda il resto del territorio, nonostante la vicinanza con Mosca, è comunque difficile valutare l’ipotesi di un nuovo attacco diretto. I russi...” Germania deglutì. Gli bruciò la bocca nell’ammetterlo. “I russi sono sempre più vicini, sempre più pressanti, e ormai riescono ad accerchiare qualsiasi nostra formazione, sia alle spalle sia sui fianchi. Potremmo tentare un altro attacco spingendo le armate contemporaneamente e sfondando le linee, ma ormai è chiaro che non disporremmo più della spinta sufficiente per una tale manovra. Il freddo, la fame e le condizioni pessime delle armi e dei mezzi ci hanno destabilizzato troppo.”

Spagna si soffermò sulla carta con occhi stanchi e umidi che rispecchiavano la stessa preoccupazione di Germania. Guardò Prussia, Prussia voltò la guancia e lo schivò, e allora si consolò con Romano che gli era affianco.

Romano gli annuì brevemente, assecondò quella triste complicità, e fu lui a parlare a Germania. “E allora come faremo? È davvero...” S’irrigidì per non tornare a crollare come era già successo quando se n’erano resi conto per la prima volta. “È davvero finita?”

“Sì.” Questa volta Germania rispose senza esitare. Spiazzò tutti e tre. Fu lapidare come una coltellata allo stomaco. “Mosca è persa.” Risollevò le spalle, sfilò le mani dalla carta e si mise a braccia conserte, freddo come lo era stato con Bulgaria. “È inutile mentire a noi stessi, è inutile continuare a ingannare i soldati e a soffrire inutilmente. Mieteremmo solo più vittime. Un altro attacco è fuori discussione.” Socchiuse le palpebre. Un breve sospiro. “La battaglia è persa.”

“Ma...” Su Romano tornò a precipitare il vuoto senso di sconfitta che gli era già caduto sulla testa durante la Campagna nei Balcani. Ma in quei mesi contavano ancora su una fiammella di speranza, su qualcuno che potesse accorrere a sconfiggere il nemico e a risolvere la situazione. Ora quel qualcuno era lì con lui. “E Veneziano?”

“Per questo ho convocato solo voi tre.” Il tono di Germania rimase grave e profondo, acquietò persino il vento di nevischio che strideva sulla finestrella dell’isba. “Intendo comunque andare a riprenderlo. Non è necessario smuovere un intero esercito per raggiungere Mosca da qui, e noi possiamo ancora farcela.”

A Spagna venne un colpo e il suo viso divenne cinereo, soffocato dal suo stesso fiato. “A-andare a Mosca?” Indicò se stesso, Romano e Prussia. “Solo noi quattro?”

“Non solo,” rispose Germania. “Anche Ucraina. Noi cinque scortati da un battaglione di uomini.”

“Un solo battaglione?” Romano sgranò gli occhi e rimase a bocca aperta, incredulo e allibito. “Tu vorresti assalire Mosca con un solo battaglione?”

“Non si tratterebbe di assalire Mosca,” precisò Germania. “Non più, ma solo di salvare Italia. Non posso più mentire a me stesso, non dopo tutto quello che stiamo subendo e che stiamo rischiando. Se in queste condizioni è ormai impossibile conquistare l’intera Unione Sovietica, non ho comunque intenzione di abbandonare Italia. E voglio salvarlo ora.” Fece scivolare lo sguardo di nuovo sulla mappa. Pregò che gli fosse concesso quell’ultimo sforzo. “Prima di essere costretto ad arretrare definitivamente.”

Spagna richiuse le labbra ancora traballanti. I suoi occhi si fecero più scuri. “Sei sicuro che Ita sia a Mosca?” mormorò. “E se si rivelasse lo stesso tutto inutile? Come possiamo essere certi che...”

“No.” Germania scosse il capo. “Non sono sicuro che Italia sia a Mosca. Non sono sicuro di nulla.” Anche i suoi occhi apparvero più stanchi. Due tristi e solitarie pozze di montagna in cui nessuno aveva coraggio di affacciarsi. “Ma che alternativa ho?”

Prussia rimase freddo e razionale, non si lasciò stravolgere. C’era ancora qualcosa da chiarire. “Perché vuoi portare dietro Ucraina, allora?”

“Come garanzia,” rispose Germania. “Se Russia intende sul serio effettuare lo scambio come prestabilito, allora avrò bisogno dell’ostaggio. Ma nel caso non dovesse succedere...” Si voltò di profilo, camminò di nuovo davanti al tavolo, e la sua ombra s’ingigantì, scura come la tempesta di nubi che li aveva assaliti. “Voglio per lo meno dare l’opportunità a Ucraina di morire nella sua terra e non fra le catene nemiche.”

Prussia fu scosso da un sussulto. Allora intende davvero ucciderla. “Come arriviamo a Mosca?” Non perse la calma. “Ci sono i fossati anticarro, ci sono le orde di soldati appostate nei boschi. Non passeremo mai con un battaglione solo.”

“Lo faremo sfruttando questa tratta qui.” Germania tornò a picchiare l’indice sulla cartina. Accerchiò una città poco più a sud di Krasnaya Polyana, sempre a nord della cinta di Mosca. “A sette chilometri da Mosca, nel canale che collega il Volga alla Moscova, c’è una piccola cittadina di operai e di contadini. Khimki. Al paese è collegata una linea di autobus e di filobus che conducono direttamente alla capitale. Faremo così: raggiungeremo la città assieme al battaglione di ricognizione del Duecentocinquantottesimo corpo di fanteria. Ci arriveremo tramite motociclette e carri leggeri, tutti quello che riusciremo a mettere in moto. Una volta lì, procederemo a piedi fino a Mosca.”

Romano strinse le braccia al petto, si diede una strofinata, e tremolò tenendo il muso duro per non rendere palese quel luccichio di terrore nei suoi occhi. “Sarà un suicidio.” Scosse la testa, non volle nemmeno pensarci. “Se Russia dovesse scoprirci...”

“Se Russia dovesse scoprirci, lo combatteremo.” Germania posò lo sguardo su tutti e tre. Tornò a essere il capo che li aveva guidati fin dall’inizio di quella campagna, di quella guerra. “Siete disposti a seguirmi ancora una volta?”

Prussia, Spagna e Romano si guardarono. Quella vicinanza li rafforzò, diede loro l’impressione di essere ancora in grado di seguire Germania fino alla morte.

Nell’isba cadde un concorde silenzio d’assenso e non ci fu bisogno di aggiungere altro.

 

.

 

I primi rombi si elevarono dalle motociclette e dai carri leggeri che i soldati del battaglione stavano cominciando a scaldare e a mettere in moto. Gli uomini sollevarono le giacche fin sotto il naso, indossarono i cappucci, calzarono i guanti, imbracciarono i fucili, e si spostarono attraverso la nebbiolina di gas di scarico che si stava dilatando attorno a loro.

Ungheria spinse il peso da un piede all’altro per tenersi al caldo, si guardò alle spalle e si mise in disparte per schivare un altro gruppetto di soldati che stavano andando a unirsi a quelli già in sella alle motociclette e alla guida dei carri, e squadrò Prussia con un’occhiata scettica. “Sei sicuro di quello che state facendo?” Gli passò il fucile che lui le aveva chiesto di reggergli mentre finiva di sistemarsi l’uniforme.

Prussia raccolse l’arma, passò la cinghia attorno al braccio, e scosse il capo. “Non sono sicuro di niente, ormai.”

“M-ma cosa...” Ungheria tornò a spostare lo sguardo in mezzo agli uomini che le camminavano attorno, sotto le fioche luci provenienti dalle isbe. Tutte facce scolpite dalla fatica e dal freddo, le stesse dei soldati che sarebbero rimasti al villaggio. Facce di uomini che avevano raggiunto il limite. “Cosa pretendete che facciamo noi mentre voi sarete via?” Ungheria strinse i pugni ai fianchi. Ricacciò indietro uno spasmo di paura. “Come pretendete che riusciamo a starcene tranquilli? E se dovesse capitare qualcosa? Se dovessero attaccarci?”

“Proprio per questo voi dovete rimanere qui.” Prussia inviò un cenno del capo ai fumi provenienti dai comignoli. “La principessa ha le mani indisposte, Romania è con un piede nella fossa, Bulgaria non si stacca da lui. Tu devi badare a loro e pensare a proteggerli nel caso vada storto qualcosa e nel caso noi rimanessimo bloccati troppo a lungo. Se non ci vedrete tornare indietro entro quarantottore...” Si pizzicò il labbro inferiore fra i denti, soffiò un breve sospiro, e pronunciò quella frase con il cuore in mano. “Allora arretrate. Non aspettateci, ma ripiegate nelle retrovie dove sarete al sicuro, dove i sovietici non potranno raggiungervi.” La guardò dritta negli occhi. “Promettimi che lo farai.”

“Solo...” Ungheria indurì i tratti del volto nella stessa espressione che sfoderava durante una litigata o una sfuriata. “Solo se tu mi prometti che tornerete. Che tornerete tutti e che tornerete anche con Ita.”

Prussia svelò un sorriso rassicurante. “Non ti preoccupare.” Alle sue spalle, Germania finì di prepararsi e marciò in testa al gruppo con Ucraina al suo fianco. Lei lo seguiva silenziosa, il viso chino, una garza incerottata sulla guancia che Germania aveva colpito e che si era gonfiata. Lo seguì senza proferire parola, consapevole che quella avrebbe potuto essere la sua ultima marcia prima di morire fra le braccia del fratello. Anche Prussia ne fu consapevole. Cercò di non pensarci. “Torneremo tutti.”

Un fischio si elevò sopra i rombi delle motociclette, e il braccio di Spagna richiamò Prussia da dentro la formazione. “Partiamo!”

Prussia impennò il pollice nella sua direzione, fronteggiò Ungheria per un ultimo saluto. “Fa’ la brava.” Le diede una strofinata ai capelli, una pacca dietro la nuca, e s’incamminò anche lui, inviandole un ultimo saluto. “Andrà tutto bene!”

Superò i motociclisti che viaggiavano ancora a passo d’uomo, per non sforzare i motori appena scaldati, si portò davanti a Spagna e a Romano, e raggiunse la cima del gruppo guidato dalla camminata di Germania e di Ucraina. “Be’,” le fece, “a quanto pare fra poco rivedrai il caro fratellone.” Le rivolse un’occhiata sbieca ma cauta, pronto a cogliere un suo minimo brivido. “Non sei contenta?”

Ucraina risollevò il capo ma tenne il viso voltato, lo sguardo distante da Prussia, lasciandosi circondare da quella dignitosa barriera di silenzio ancora più fredda dell’aria in cui stavano marciando.

Anche Germania si soffermò sui suoi occhi distanti ma forti, su quell’aura di solennità che le brillava attorno e che le donava un’espressione più coraggiosa, più combattiva. Provò un brivido, come se si fosse ritrovato affianco a Russia stesso.  Per la prima volta la riconobbe come sua sorella.

Germania tese la mano davanti alla fronte e reclinò il capo per osservare le nubi a cui stavano andando incontro e che si erano spalancate come un abbraccio pronto ad accoglierli. Sapeva che, oltre quella coltre di neve e gelo, oltre il respiro del Generale Inverno, il Cremlino li attendeva. E sapeva anche che lo attendeva un solo destino: o Italia o la sconfitta.

 


N.d.A.

E così i nostri eroi si avventurarono per lande desolate e sconosciute, marciando incontro al loro inesorabile destino, senza alcuna certezza di ritornare sani e salvi dai loro fidi e amati compagni d’armi. Ma siccome io sono una Brava Persona™ vado in pausa estiva e vi faccio aspettare ancora un po’ per sapere come andrà a finire. :P

L’aggiornamento del 21 salta in vista della pausa, quindi la ripresa degli aggiornamenti slitta fino al 4 di agosto. Quasi un mese, sigh. Ma considerando che sto alternando i capitoli del Miele con quelli di Walpurgisnacht non posso fare altrimenti, temo. Guarda caso, il periodo di questa pausa estiva copre proprio tutte le settimane in cui Mercurio sarà in retrogrado. Ogni volta che decido di andare in pausa Mercurio va in retrogrado, dannazione. Sarà per quello che sento il bisogno di andare in pausa...

Ne approfitterò per preparare per benino gli ultimi capitoli di questo giga arco narrativo e per lavorare al meglio sull’arco di Pearl Harbor che verrà subito dopo. Non vedo l’ora di cominciare a bastonare America! \(^-^)/

Approfitto per augurare a tutti voi lettori una fantastica estate ricca di sole, bagni e relax. Bevete tanta acqua, mettetevi la crema solare, non affaticatevi nelle ore più calde, non fate il bagno dopo mangiato, vestitevi comodi, e soprattutto divertitevi. Ci si ribecca ad agosto, ciurmaglia!

 

p.s. Per quelli che mi seguono anche con Walpurgisnacht... di là non farò nessuna pausa, quindi aggiornerò i capitoli normalmente. Di qua stiamo per terminare la tentata presa di Mosca e di là abbiamo appena cominciato a invadere la Polonia, lol. Direi che è ufficialmente cominciata la gara a quale delle due storie arriverà per prima alla fine della guerra. Ma le mie fatine vanno più veloci solo perché sono strafatte di anfetamine, mica per altro. Magari potessi usare il Pervitin anche sulle nazioni. O su me stessa.

Ed è incredibile il fatto che, poco prima di cominciare, avevo dichiarato come sarebbe stato facile per me scrivere due storie ambientate durante la Seconda Guerra Mondiale, perché il succo rimane quello e io non mi sarei sentita sballottata fra due universi troppo differenti. E invece lo sto trovando dannatamente difficile. Della serie... “Aspetta, in quale delle due storie li sto facendo avanzare nel Gruppo Armate Sud?”, “Aspetta, in quale delle due storie posso già usare un MP 40?”, “Aspetta, in quale delle due storie devo agganciare ai piloti gli aghi nei polsi e la valvola spinale per mettere in moto un panzer?”, “Aspetta, in quale delle due storie posso nominare le SS?”

Ma ce la farò. Giuro che ce la farò.

   
 
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