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Autore: _Lightning_    17/07/2019    5 recensioni
Thanos è stato sconfitto e la metà scomparsa dell'universo è tornata, andando a rioccupare i vuoti di cinque anni d'assenza. Anche Peter Parker è tornato, nonostante a volte si senta ancora su Titano e non sia certo che il costume di Spider-Man o le vesti di adolescente del Queens gli appartengano ancora. Ad aiutarlo sul suo nuovo cammino di supereroe c'è almeno Tony Stark - vivo per miracolo, anche se segnato da cicatrici insanabili.
Mentre il mondo tenta di rimettersi in marcia, coloro che lo hanno salvato vengono messi di fronte alle conseguenze delle proprie azioni: i superumani sono un aiuto o una minaccia? Non è forse vero che hanno contribuito a sconvolgere il mondo ben due volte?
Una nuova tempesta si addensa all'orizzonte, e Peter sembra destinato a trovarsi nell'occhio del ciclone...
Dal Capitolo IX: "Zona Negativa"«Parker, non te lo ripeterò: lascia perdere.»
«Altrimenti che fa? Mi toglie di nuovo il costume?» Peter allargò le braccia con aria di sfida.
«Non hai più quindici anni,» ribatté freddamente Tony. «Se non sei in grado di seguire le mie direttive, sei fuori.» Indurì le labbra in una piega severa. «E questo non è un bel momento per essere "fuori".»
Genere: Azione, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'As if it never happened'
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Ad Atlas, per questo giorno speciale, con l’augurio di raggiungere le stelle <3

Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo III

The itsy-bitsy spider...




“And I still feel that rush in my veins
It twists my head just a bit to think
All those people in those old photographs are dead
And in the end I’d do It all again
I think you’re my best friend
Oh, don’t you know that the kids aren’t al–
Kids aren’t alright

The Kids Aren’t Alright – Fall Out Boy]

 

   

 

15 Aprile, Queens
 

 

Era in ritardo, dannazione, era in dannatissimo ritardo.

Peter lanciò la ragnatela successiva, destreggiandosi nel vicolo tra due palazzi con una mano sola, mentre con l’altra pestava frenetico il pollice sul touchscreen del cellulare. Fece almeno sei o sette errori di battitura, ma inviò comunque il messaggio per sbaglio prima di poterlo correggere: “Scufsi ho avto un contratmpo sfo srirvandoù”.

Imprecò tra i denti e accorciò la ragnatela, appena in tempo per non schiantarsi addosso a un cartellone pubblicitario come una frittella sul soffitto.

«Ti ricordo che non hai ancora ventun anni e che sono solo le nove di sera, è troppo presto per i cocktail,» recitò la voce robotica di Karen, imitando in modo estremamente convincente e quasi inquietante quella di Tony nel leggere il suo messaggio, incluso il velato sarcasmo.

Peter sospirò tra sé e si decise a chiamarlo, cosa che aveva evitato di fare prima conoscendo la spiccata antipatia del suo mentore verso i telefoni.

«Ragazzino, spero per il mio bene che tu sia sobrio: non ho alcuna intenzione di beccarmi altre sfuriate di tua zia,» esordì lui, rispondendo a metà del primo squillo.

«Sono sobrio, signor Stark!» lo rassicurò subito, un po’ affannato. «Sono decisamente molto sobrio, ma…» s’interruppe per schivare un lampione e appigliarsi alle travi metalliche del Queensboro Bridge, continuando i suoi volteggi a pelo d’acqua sui flutti dell’East River, «… ho avuto qualche contrattempo e…»

«Sì, avevo decifrato il messaggio in codice,» lo prese in giro Tony, con uno sbuffo divertito. «Fa niente, Pete, la cena è pronta e noi non andiamo da nessuna parte… a parte la signorina, che adesso andrà a letto,» aggiunse, e dal suo tono d’un tratto severo capì che si stava rivolgendo direttamente a Morgan, impegnata con tutta probabilità a demolire da cima a fondo la Stark Tower.

Sentì una protesta da parte della bambina, tempestivamente messa a tacere dalla voce di Pepper. Peter, pur sorridendo tra sé, si sentì un po’ in colpa per aver fatto così tardi e aver deluso la bambina, che di sicuro lo stava aspettando con impazienza.

«Arrivo tra dieci minuti!» annunciò, facendo leva con più forza sull’estremità della ragnatela per superare la banchina del fiume e approdare a Manhattan.

«Arriva tra venti, ma arriva intero,» replicò Tony, prima di chiudere la chiamata e dedicarsi probabilmente all’inseguimento della figlia per i novantatré piani della torre.

Peter ignorò il consiglio e continuò la propria spericolata corsa aerea tra i grattacieli della metropoli, dando fondo a tutta la propria abilità nello schivare in velocità gabbiani, cartelli e lampioni sul suo percorso. Non era certo la prima volta che arrivava in ritardo a cena dagli Stark, ma quel giorno si sentì particolarmente in difetto.

Ripassò tra sé la propria scusa, se mai avesse avuto bisogno di metterla in scena, ovvero che aveva passato il pomeriggio con Ned e MJ per finire la relazione di fisica, e che mentre si avviava alla Tower nei panni di Spider-Man si era trovato a incappare in un paio di scippi che l’avevano rallentato. Una scusa molto blanda, lo sapeva, e ringraziò che Tony avesse disattivato del tutto il Protocollo Triciclo e potesse accedere alla sua posizione solo in caso d’emergenza.

Era abbastanza certo che il suo mentore non avrebbe apprezzato il suo nuovo interesse per gli affari loschi di Fisk e Osborn, né la sua ufficiale-ufficiosa collaborazione con Yuri. Soprattutto, non il giorno prima di una riunione decisiva per lui e i Vendicatori – motivo per cui quella sera, su insistenza di Tony, si sarebbe fermato a dormire alla Tower dopo quasi tre mesi dall’ultima volta, così da poter partire di buon’ora per l’Upstate.

Avrebbe tenuto scrupolosamente per sé il fatto di aver passato quel venerdì a ispezionare magazzini nel South Queens in cerca di merce di contrabbando targata Oscorp, anche se mentire gli lasciava sempre un retrogusto amaro in bocca, in particolare se era costretto a farlo con May e Tony.


Una parte di lui temeva in sordina di attirarsi un bis della doppia strigliata prima a Staten Island e poi a casa – un ricordo che anche dopo… dopo tutto quel tempo si palesava nella sua testa ogni volta che faceva qualcosa di azzardato – ma d’altro canto, non stava facendo altro che il suo lavoro di vigilante di quartiere. Non c’erano alieni, né gemme magiche, né armi chitauriane, né portali dimensionali: solo crimine vecchio stampo, fatto di pistole e ricatti e spaccio e corruzione. Non stava facendo nulla di davvero pericoloso, si ripeté, e quello era esattamente il tipo di missione per Spider-Man – una missione normale.

Tirò un grosso respiro attraverso la maschera e inalò la frizzante aria serale, avvicinandosi alla sagoma svettante della Tower col cuore un po’ più leggero.

 

 

 

 

15 Aprile, Stark Tower
 

 

Come sempre, entrò direttamente dal terrazzo. Si arrampicò a tempo record sulle pareti di vetro del grattacielo, che riflettevano le prime luci serali di New York dandogli la surreale impressione di avanzare su un tappeto di stelle elettriche. Troncò le contorte associazioni di pensieri che avevano fatto capolino nella sua mente e scavalcò agile il cornicione, per poi attraversare con passo elastico la pista d’atterraggio per il Quinjet, accostandosi infine alla spessa parete di vetro dell’attico.

Bussò delicatamente sulla porta-finestra e riconobbe i passi leggeri di Pepper che si avvicinavano rapidi, per poi vederla sbucare da dietro il divano. Gli aprì con un sorriso gentile, facendogli cenno di entrare; lui eseguì, e si tolse la maschera solo quando fu ben all’interno del salone. Si voltò verso di lei, come sempre un po’ impacciato:


«Scusi il ritardo, signorina Potts… uh, volevo dire Stark, ma ho avuto qualche…»

«Alt,» gli intimò subito lei, alzando una mano con fare deciso. «Cosa avevamo detto?»

Peter deglutì e sorrise imbarazzato, stringendo la maschera in una mano e pettinandosi i capelli scarmigliati con l’altra.

«Pepper,» disse quindi, ricevendo un cenno d’approvazione soddisfatto. «Scusa il ritardo,» concluse, e lei si limitò ad alzare le spalle, a indicare che non era un problema.

«Su, vai a cambiarti; starai morendo di fame.»

Peter non contestò quell’affermazione decisamente veritiera e dieci minuti dopo era in pigiama, seduto al tavolo della cucina e intento a spazzolare una porzione doppia di polpette. Intuì dal loro gusto opinabile che quel giorno fosse toccato a Tony cucinare, ma aveva troppa fame per farci davvero caso. Si trovò a parlare del più e del meno con Pepper, che si era seduta accanto a lui per fargli compagnia, e fu lieto che nessuna delle sue domande riguardasse l’università o Spider-Man, ma piuttosto il FEAST, sua zia e i suoi amici; lui replicò con domande altrettanto innocue, apprezzando quella rara parentesi di normalità in casa Stark.

«Tony dov’è?» si decise a chiedere mentre metteva il piatto nel lavandino, non vedendolo ancora comparire.

«In “missione”,» replicò lei, e nonostante il tono palesemente ironico Peter mancò comunque un battito, non riuscendo a mascherarlo del tutto. «Stasera Morgan è particolarmente iperattiva,» specificò Pepper, quasi gli avesse letto nel pensiero.

«Sì, certo, immagino,» replicò lui, annuendo e forzando un sorrisetto comprensivo, per poi sedersi di nuovo con fare un po’ nervoso.

Non era del tutto sicuro che Tony le avesse detto della sua intenzione di riprendere le vesti di Iron Man e l’ultima cosa che voleva fare era causare attriti di coppia tra loro, così si guardò bene dall’aggiungere altro.

«Sei preoccupato?» gli chiese lei d’un tratto, prendendolo alla sprovvista.

«Io?» bevve un sorso d’acqua per prendere tempo e si rigirò poi il bicchiere tra le mani. «No, non sono… perché dovrei essere…»

«Tony mi ha detto della vostra visita a Washington,» mise in chiaro Pepper, frenando con voce pacata i suoi sconclusionati tentativi di sviare il discorso. «Inclusa la faccenda di Iron Man,» specificò, stringendo le labbra ad esternare la sua contrarietà.

Peter abbassò gli occhi sulla tovaglia, ancora parzialmente stupito per il suo intuito, ma concluse che vivere con Tony Stark per quasi un quarto di secolo portasse a sviluppare una sorta di senso di ragno per quello che passava in testa alla gente.

«Quindi diceva sul serio,» constatò soltanto, facendo vibrare inconsciamente il ginocchio sotto al tavolo. «Sul fatto di voler… tornare.»

«Sì…» Pepper inclinò il capo con fare pensoso, e scostò le ciocche ramate che le scivolarono davanti al volto. «Anche se a detta sua sarà solo da dietro le quinte, un atto puramente formale. Per forza di cose,» specificò, con un misto incerto di tristezza e sollievo, picchiettando un paio di volte le unghie sul tavolo.

«È un bene, no?» tentò Peter, imbastendo un’espressione ottimista.

«Lo conosco,» puntualizzò lei, con un sorrisino ironico. «Per lui non esiste un “dietro le quinte”.»

Sospirò, ma non sembrava irritata, solo in lieve apprensione. Volle lasciarsi tranquillizzare dalla sua compostezza: sapeva che si era trovata ad affrontare situazioni ben più problematiche di un semplice “ritorno formale” di Iron Man. Batté un paio di volte le palpebre con un fremito trattenuto, sfocando la visione di lei di spalle, china tra le macerie e con una mano avvolta dall’armatura posata sulla luce traballante del reattore arc.

«Tony ha detto che sarà una “tutela” per me,» le rivelò deviando l’onda dei suoi pensieri, e assecondando l’idea di doverle quella sincerità.

«Lo so, e la penso come lui,» lo rassicurò prontamente con sguardo improvvisamente deciso, a troncare qualunque sua protesta.

«Non era mia intenzione causare problemi,» mormorò comunque lui, puntando di nuovo gli occhi verso il basso.

Pensare a Tony di nuovo nell’armatura per colpa sua gli causava un senso di nausea, soprattutto di fronte a una persona che aveva rischiato di perderlo innumerevoli volte in passato. Scacciò di nuovo il ricordo dell’ultima battaglia, contraendo teso la mandibola; sentì i denti che sembravano scricchiolare su una patina di cenere e si costrinse a deglutire nonostante la bocca secca.

Il breve sospiro di Pepper lo riscosse.

«Peter, non sei tu a causare problemi.»

Lui rialzò appena lo sguardo, vedendo che la sua postura era ancora rilassata, e il volto sereno, sebbene più serio, forse offuscato da ricordi non troppo dissimili dai propri.

«Non è la prima volta che il governo fa la voce grossa, e Tony ormai è abituato a gestire situazioni di questo tipo… sa come muoversi. E stavolta non ci sono fazioni: siete tutti dalla stessa parte e vi sosterrete a vicenda,» concluse con fermezza.

Peter la fissò, volendo crederci, ma non riuscì a dissipare la propria aria dubbiosa. Si reclinò sullo schienale, incrociando le dita davanti a sé per impedirsi di gesticolare.

«Tornare ad essere Iron Man mi sembra… insomma, il Dottor Strange ha detto che col fatto del… del coma e dei danni …» notò l’espressione corrucciata di Pepper e si frenò. «Mi… mi sembra azzardato,» tartagliò infine, lasciandosi sfuggire un piccolo scatto della mano.

«Forse, ma non riusciresti a dissuaderlo,» lo avvisò lei abbassando per un istante gli occhi chiari, con un’ombra fugace a scurirli. «È fatto così, se può fare qualcosa, la fa… e anche tu, da quanto mi dice,» aggiunse, ora con un lieve sorriso.

Peter contrasse le labbra in una smorfia impacciata.

«Sì, ma… ma si dà troppo da fare, per un supereroe di serie B,» si schermì in fretta, scrollando le spalle con noncuranza.

«Se ti sentisse parlare così, darebbe di matto,» lo rimbrottò lei tra il serio e il faceto, accigliandosi appena.

Sembrò sul punto di aggiungere altro, ma si frenò, limitandosi ad allungare una mano per scostargli la frangia dalla fronte in una carezza gentile.

«Non lo fa solo per Spider-Man,» concluse, con fare ovvio.

Lui non poté fare a meno di farsi scappare un timido sorriso, chinando appena il capo per nasconderlo, piacevolmente imbarazzato per quelle parole e quel gesto inaspettato.

Di quei cinque anni di vuoto, forse quello era uno degli aspetti che più lo disorientava: essere ormai parte integrante della famiglia di Tony, nonostante il tempo trascorso con loro fosse in realtà così poco. Non riusciva a capacitarsene: era come se qualcuno l’avesse intessuto nella loro vita mentre lui era addormentato, facendolo risvegliare con dei nuovi, saldi legami annodati alle corde del suo cuore, intrecciati a quelli già tesi tra lui e zia May e zio Ben.

Avrebbe voluto ribattere, trovare qualcosa da dire, dissimulare, e in quel momento vide di nuovo Pepper socchiudere le labbra e subito serrarle, come frenando il principio di una frase. Di nuovo, tacque, per poi distogliere rapida gli occhi e puntarli alle sue spalle, attratti da uno scalpiccio di passi.

«Comarelle, avete finito di sparlare di me?» li interruppe Tony dal corridoio, a voce abbastanza alta da preannunciare il suo arrivo.

Entrò in salone con fare gioviale, d’umore decisamente più allegro di quando l’aveva visto a Washington; l’impressione era accentuata dal fatto che non indossasse un completo formale, ma una maglia sbiadita degli AC/DC e dei pantaloni da casa sformati, dai quali sbucava l’estremità del tutore a cingergli la caviglia. Tony gli rivolse un cenno di saluto, e Peter ricambiò un po’ goffamente.

«Missione compiuta?» gli chiese Pepper, alzandosi per andargli incontro con una viva nota speranzosa.

«Profuma d’acqua di rose e dorme come l’angioletto che non è,» replicò Tony, intercettandola tra la cucina e il salone per lasciarle un bacio sulla guancia e appropriandosi poi della sedia libera accanto a Peter.

Avvicinò con un piede la sedia dal lato opposto per stendere la gamba sinistra, trattenendo una smorfia infastidita, per poi riprendere a parlare vivacemente:

«Ho dovuto fare gli straordinari, stasera: c’è voluta un’imitazione di Cap per farla entrare nella vasca e tre storie epiche per farla addormentare. E non sa che sei arrivato, altrimenti non sarei riuscito a farla rimanere a letto neanche con l’armatura,» sospirò poi, puntando l’indice contro Peter.

Lui sorrise sotto i baffi, gongolando per quell’apprezzamento indiretto, per poi arricciare le labbra un po’ contrito:

«Scusi il ritardo,» disse, senza troppi giri di parole, e quella laconicità attrasse l’attenzione di Tony.

«Cos’hai da dire a tua discolpa?» lo interrogò puntualmente, mettendo su un cipiglio intimidatorio che, Peter lo sapeva, era del tutto giocoso, ma bastò comunque a fargli attorcigliare lo stomaco per le bugie che vi svolazzavano dentro.

«Uh, ho avuto problemi da… da Spider-Man di quartiere,» rispose in fretta, pizzicandosi il dorso della mano e sforzandosi di sostenere il suo sguardo. «Mai incontrati tanti scippatori in vita mia, poi c’era una signora che aveva perso il cane e… e cose così,» svagò, stirando le labbra in una piega che doveva assomigliare a un sorriso.

«Immagino.»

Gli occhi nocciola di Tony si appuntarono con insistenza su di lui, improvvisamente acuti, per poi rasserenarsi quasi a comando.

«Sei pronto per domani?» cambiò argomento, in un modo brusco che allarmò Peter.

Tentennò in modo visibile, e si agitò sul bordo della sedia puntando i piedi contro il pavimento.

«Non lo so,» si lasciò sfuggire poi, in un eccesso di sincerità. «Nel senso, non ho mai… partecipato davvero a una riunione, e tecnicamente non sono un Vendicatore, quindi…»

«Sei un Vendicatore. L’hai detto anche tu e soprattutto lo dico io,» replicò schietto Tony, irremovibile su quel punto. «Comunque, non dovrai fare molto… solo ascoltare un paio d’ore di entusiasmanti recriminazioni e accuse reciproche che spero non sfoceranno in uno scontro su larga scala,» sciorinò, e Peter non riuscì a capire se fosse sarcastico o meno.

Probabilmente era in parte serio, considerando le accese discussioni di cui era stato suo malgrado testimone al Complesso di tanto in tanto. Colse di sfuggita Pepper, seduta a leggere sul divano, che si voltava verso di loro accigliata. Anche Tony intercettò il suo sguardo e sollevò gli occhi al cielo, a sottolineare che, , era sarcastico.

«L’unico pericolo è la noia, ragazzino, te l’assicuro.»

«Detta così, sembra facile,» replicò lui, intrecciando le dita davanti a sé e raddrizzando le spalle in uno sfoggio di sicurezza parzialmente fasullo.

«È facile,» confermò Tony, facendosi però più intento, con qualche ruga a solcargli la fronte. «Sarà solo una chiacchierata e parlerò principalmente io; tempo una settimana, e Ross e il Presidente Ellis si ritroveranno col nostro rifiuto in carta bollata sotto il naso,» lo rassicurò, con un gesto svogliato della mano.

Troppo svogliato per qualcuno di così apprensivo, considerò di sfuggita Peter, ma strinse le labbra e accettò quell’ottimismo gonfiato, di cui sentiva di aver bisogno. Voleva accantonare al più presto quella storia dell’Atto. Era una distrazione di fondo che lo pungolava in momenti inopportuni, quando si sarebbe dovuto concentrare sulla maturità, e su zia May, e sulle indagini con Yuri, e sull’università – o sul far finta che quest’ultima non esistesse. La sua vita era ormai permeata da una cacofonia di suoni di sottofondo che non gli dava tregua, e poterne silenziare anche solo uno era una prospettiva allettante.

«Lo spero.» Peter si alzò per riempire il bicchiere, così da voltare anche le spalle a Tony e nascondere il proprio scetticismo. «Chi ci sarà domani?» svagò poi, sorseggiando l’acqua.

Un brillio furbetto passò negli occhi di Tony, e il suo volto si distese del tutto in un’espressione sorniona.

«I soliti: il nonnetto rimbambito, quell’orso bisbetico di Rhodey, il dottor Jekyll verde, Katniss, il Lillipuziano…» alzò le spalle con studiata lentezza, fissandolo con vivo interesse. «E, visto che ci tieni tanto a saperlo… , ci sarà anche Shuri,» buttò lì, con la massima noncuranza e un’intonazione quasi cinguettante.

Peter rischiò contemporaneamente di strozzarsi con l’acqua, inciampare nei suoi stessi piedi e scaraventare per terra il bicchiere; il che risultò in un sonoro verso nasale, un colpo di tosse soffocato e una manovra da acrobata per scampare il disastro.

«Non… non…» cercò di articolare dopo aver tossito e preso fiato, sentendo le proprie guance che s’incendiavano.

«Non… cosa? Non vedi l’ora? Neanch’io,» sogghignò Tony, piantando i gomiti sul tavolo a sostenere il mento e divertendosi come un bambino dispettoso.

«Tesoro, so che per te è difficile, ma non essere molesto,» risuonò la voce di Pepper, solo apparentemente serafica e con un sottotono minaccioso molto marcato.

«Mi sto solo interessando…»

«Quello è essere molesti.»

«… della vita sentimentale del nostro ragnetto.»

«Io non ho una vita sentimentale!» protestò Peter, realizzando in ritardo che non fosse una cosa di cui vantarsi.

«Appunto!» esclamò Tony, indicandolo con ovvietà. «Potresti fare buon uso dei miei preziosi consigli…»

«“Playboy”, ti ricordo che tu ci hai messo dieci anni per dichiararti e altri dieci per sposarmi,» lo rimbeccò Pepper, sollevando la testa dal suo libro con un sorrisetto e facendo affievolire quello emerso sulla faccia di Tony. «Pete, non dargli retta.»

«Certo che no!» scosse energicamente la testa lui, cercando di contenere l’imbarazzo, già largamente manifesto sulle sue guance porpora.

Tony sbuffò contrariato, ma, con suo immenso sollievo, lasciò cadere l’argomento. Almeno per i successivi dieci secondi.

 

 

 

 

Dopo aver passato il dopocena a giocare a Triple Yahtzee e a schivare altre domande imbarazzanti di Tony, Peter coltivava la segreta speranza di poter andare subito a letto senza passare per il via, evitando qualsiasi altra discussione potenzialmente scomoda – ovvero la discussione che sentiva aleggiare nell’aria da giorni e che gli girava attorno come un avvoltoio affamato.

Per questo, non appena Pepper ebbe dato loro la buonanotte, fece per seguire prontamente il suo esempio… solo per sentire i suoi piani di fuga infranti da un secco colpetto di tosse alle sue spalle. 
Girò mollemente sui talloni con aria rassegnata, inquadrando Tony in una posa a dir poco sospetta, con le mani giunte davanti a sé e la testa reclinata all’indietro a scrutarlo di sottecchi.

«In realtà avevo intenzione di farti andare a letto presto, ma…» si bloccò, incrociò le braccia e si passò una mano sul pizzetto, osservandolo con attenzione. «Ma, come al solito, sei sfuggente e devo incastrarti e ricorrere all’inganno per riuscire a parlare con te cinque minuti,» concluse, con un lieve sbuffo.

Peter contò mentalmente fino a cinque, con la forte tentazione di girare di nuovo i tacchi: quindi era per quello che gli aveva proposto di dormire alla Tower. Altro che traffico newyorkese nel Queens alle sette di mattina.

«Non possiamo parlare domani?» sospirò, incrociando strettamente le braccia e ostentando una completa indifferenza all’argomento.

Lanciò un’occhiata implorante in direzione del corridoio. Tony scosse appena la testa, accigliandosi.

«Nossignore. Te la sei già cavata l’ultima volta.»

Sembrava realmente poco entusiasta di doverlo braccare a quel modo, ma anche esasperato e perplesso la sua strenua reticenza. Peter si impegnò a mostrarsi a sua volta più seccato che poté quando fece dietrofront strascicando i piedi, indirizzandogli un’occhiata un po’ risentita. Si lasciò cadere di peso sul divano, col collo gettato all’indietro contro lo schienale e lo sguardo vacuo al soffitto.

Tony si sedette con più cautela sull’altro sedile, incastrandosi nell’angolo tra schienale e bracciolo. Non lo perse di vista un istante, come se fosse intento a studiare il suo comportamento per agire di conseguenza.


«Non mi diverto a tormentarti, sai?» esordì infine, alzando appena le sopracciglia.

Peter scrollò le spalle, senza esprimersi. Non poteva comunque sottrarsi. O meglio, avrebbe potuto farlo senza alcuna difficoltà – d’altronde, se avesse deciso di fuggire dalla finestra Tony non avrebbe certo potuto fermarlo – ma non voleva neanche che quella discussione continuasse a pendere su di lui come una spada di Damocle. Sperò solo di riuscire a raccogliere le fila delle varie bugie, mezze verità e depistaggi che aveva imbastito con lui, Ned e May negli ultimi giorni, anche se si sentiva pericolosamente vicino a perderne il controllo.

«Non capisco tutta questa urgenza,» proferì infine, schiudendo appena la mandibola. «Ho ancora un mese per inviare le domande alle università, e so già di voler studiare biofisica, quindi la scelta si riduce al MIT, alla Berkeley, alla…»

«Pete,» lo bloccò subito Tony, scuotendo il capo, «per quanto mi riguarda potresti anche decidere di studiare teologia in Utah, e non avrei nulla da ridire,» lo interruppe Tony, stringendosi la radice del naso tra pollice e indice.

Peter voltò la testa verso di lui, in un moto d’incredulità.

«Va bene, in quel caso forse … ma non è questo il punto,» sospirò lui, lasciando ricadere la mano e trattenendo un accenno di sorriso un po’ forzato, in netto contrasto con gli occhi seri.

Non esplicitò quel “punto”, ma Peter poteva intuirlo benissimo, come l’aveva già intuito a Washington. Non stavano parlando dell’università, ma dell’Atto di Registrazione, così come non stavano parlando di Peter Parker, ma di Spider-Man. Il fatto che i contorni di quegli argomenti si sovrapponessero in modo quasi perfetto non faceva che aumentare la sua riluttanza ad affrontarli. E poi, gli sembrava di vederli aggirarsi concentricamente attorno al vero e proprio nucleo rovente, che gli si bloccava puntualmente in gola.

«Il punto è che non voglio decidere adesso

«So che non è una scelta facile per te, soprattutto viste le circostanze, e non voglio che tu ti senta in dovere di scegliere quello che preferirei io…» continuò Tony a ruota libera, come se non lo avesse sentito – o semplicemente senza averlo ascoltato, il che era più plausibile.

«Lei preferirebbe il MIT,» completò Peter, senza curarsi di farla suonare come una domanda e rassegnandosi ad assecondare il suo discorso.

«Beccato,» ammise lui, storcendo la bocca colpevole.

Peter soffiò aria dal naso, stringendo l’orlo della maglietta e chiedendosi se zia May avesse riferito a Tony della loro discussione al ristorante. Molto probabile.

«Lo preferisce perché ci si è laureato lei, perché è una buona università o perché così smetterei di essere Spider-Man?» indagò infine a bruciapelo, guardandolo negli occhi.

Tony ebbe una frazione di secondo d’esitazione che conteneva già di per sé la risposta.

«Non devi per forza smettere solo perché sei in “trasferta” in Massachusetts,» svicolò poi, alzando le spalle. «O dovunque tu vorrai andare.»

Peter aggrottò la fronte, scurendosi in volto e trattenendo un commento piccato: aveva decisamente parlato con zia May.

«Dovrò smettere per forza,» ribatté, senza scomporsi, ma stringendo con più forza la stoffa della maglietta sulle braccia. «Spider-Man è… è a New York, non posso semplicemente trasferirmi e poi tornare come se niente fosse,» disse, agitandosi un poco.

«Cos’è, non puoi “proteggere gli indifesi” e “rendere il mondo un posto migliore” da un campus universitario?» commentò Tony, con una nota di condiscendenza che lo punse sul vivo.

«Signor Stark, non posso passare da amichevole Spider-Man di quartiere a… a sfigato Spider-Man del campus,» s’impappinò con fastidio, visto che spesso si sentiva comunque abbastanza sfigato anche come supereroe.

«Non rimarresti con le mani in mano, da quel che ricordo il MIT pullula di teste di–»

«Non è quello che intendevo,» lo interruppe Peter, di getto, irritato da quell’ironia fuori luogo, e Tony sembrò irritarsi di rimando, con un lampo negli occhi scuri. «Io… io vorrei solo–»

«Senti, ragazzino, non importa cosa vuoi tu,» sbottò d’un tratto Tony, brusco, e Peter ammutolì altrettanto rapidamente, quasi l’avesse colpito in pieno volto. «Mi interessa Spider-Man e cosa vuoi farne, il resto per ora è irrilevante. Ed evitare il discorso non lo farà sparire magicamente.»

Per quanto il suo tono fosse rimasto piatto e asettico, lo vide incupirsi e inclinare la bocca verso il basso, come se fosse molto insoddisfatto delle parole che stava pronunciando, o forse solo irritato per le risposte che non stava riuscendo ad ottenere. 
Peter incespicò nell’aria che si rifiutava di uscirgli dalla bocca, preso alla sprovvista dal riemergere di quel modo di fare duro che Tony sembrava ormai aver abbandonato quasi del tutto con lui.

Contrasse la mascella, sostenendo però lo sguardo spigoloso, quasi tagliente del suo mentore. Adesso non gli si stava rivolgendo come un suo pari, come Tony a Peter, ma come Iron Man a Spider-Man, ed esigeva che lui si comportasse di conseguenza. Esigeva risposte.


Peccato che lui, in quel momento, si sentisse più Peter che Spider-Man; o forse nessuno dei due, che era la situazione ben peggiore, perché lo lasciava in bilico con se stesso. Non era in grado di formulare le risposte che voleva Tony, e ciò gli torse lo stomaco in una stringente rete di frustrazione, oltre che di subdola, pungente paura che parve intrappolargli le membra.

Distolse gli occhi e scosse soltanto la testa, serrando e rilassando ritmicamente la bocca nel tentativo di trovare una replica efficace, ma il pensiero di scatenare altre domande lo rese muto, lo bloccò sul posto. Bloccato, come sempre, come un ragno difettoso che s’impiglia nella sua stessa ragnatela.

Alzò il volto, incontrando di nuovo gli occhi di Tony. Realizzò che il suo sguardo si era intristito, smussando le sue iridi di solito calde, ora venate di ombre profonde. Peter si sforzò di ritrovare la voce, ma lui sospirò appena e staccò la schiena dal divano, spostandosi accanto a lui. Gli strinse la spalla, a frenarlo.

«Ammetto che sarei molto più tranquillo a saperti concentrato su un manuale di robotica, piuttosto che a dondolare dalle tue ragnatele nel Queens mentre prendi a pugni i cattivi,» buttò fuori d’un fiato, a bassa voce e precipitoso come ogni volta in cui socchiudeva la porta blindata dei suoi pensieri. «Ma non posso neanche impedirti di fare ciò che vuoi.»

La sua voce venne incrinata da una nota sofferente, e Peter deglutì a forza. La mano incollata alla sua spalla gli trasmise la parte del discorso che evitavano sempre di esternare a parole. Aveva la consistenza salda, eppure effimera, dei cinque anni svaniti in un soffio, di un abbraccio ripetuto al contempo a distanza di pochi istanti e di lunghi anni, di quel singolo battito di ciglia che lo aveva reso cenere trasmutando la realtà attorno a lui in modo irreversibile.

«Non ho ancora deciso, tutto qui,» gracidò infine, tenendo ostinatamente a distanza l’argomento nonostante lo stesse già corrodendo dall’interno.

Tony trattenne uno sbuffo e si passò una mano sul pizzetto, ricomponendo una facciata neutrale.

«Senti, ho voluto lasciarti i tuoi spazi in questi mesi, ma adesso…» fece un gesto vago, snervato, sollevando il palmo ferito verso l’alto, «… stanno succedendo troppe cose, e ne cambieranno altrettante. L’Atto è alle porte: voglio essere in grado di gestirlo e ho bisogno di te per farlo in modo efficace,» sottolineò, inclinandosi appena sulle ginocchia per cercare il suo sguardo, che lui tenne basso. «Non so perché l’università in particolare ti spaventi così tanto, ma…»

«Non mi spaventa,» replicò subito Peter, con un picco stridulo che esprimeva tutto il contrario.

Tony non proseguì, limitandosi a rimanere in attesa, quasi trattenendo il fiato. Peter si rese conto con orrore di avere la vista appannata, e si trovò a continuare senza quasi rendersene conto:

«È solo che… avrei dovuto finirla quest’anno,» gracchiò infine, stringendo di nascosto gli spara-ragnatele celati dalla maglietta a maniche lunghe.

Il peso di quell’affermazione gli rimbombò nel petto, in un’eco bloccata che non riusciva a propagarsi. Vide Tony sgranare impercettibilmente gli occhi, in un moto di addolorata comprensione che gli oscurò il volto. Ritrasse la mano e vi poggiò il mento, coprendosi la bocca e chinando il capo.

Rimase in ascolto, insolitamente silenzioso, con uno sguardo distante che gli richiamò quello che aveva avuto su Titano, pochi istanti prima che lui gli scomparisse davanti – era lo stesso, lo riconobbe, perché sapeva che quei cinque anni pesavano sulle spalle di entrambi con un senso di colpa complementare, di chi ha perso e di chi è venuto a mancare.


«E… e invece la sto per iniziare, e tutto questo… non ha senso, non riesco a capire come sia…» risucchiò un respiro, troncando quel flusso di parole. «Adesso vorrei solo…»

Peter provò di nuovo a riprendere il filo del discorso, facendo sobbalzare le mani in grembo a tirarsi fuori a forza le parole. Chiuse brevemente gli occhi, quasi potesse rimescolare le carte in tavola per riaprirli su una partita nuova, non una già iniziata e lasciata a metà in cui era stato gettato a forza.

«… continuare a fare ciò che ho sempre fatto,» esalò infine.

Espresse quel desiderio infantile guardando il cielo notturno fuori dalla vetrata, come se le stesse stelle che si erano dimostrate così ostili verso di loro potessero esaudirlo in un guizzo di compassione. Il resto della frase gli pendeva dalle labbra, tentatore, e gli si incuneò sotto la lingua premendo per fuoriuscire. La mano di Tony si adagiò di nuovo sulla sua spalla, più ferma. Peter sigillò la bocca e spostò lo sguardo in basso, per poi cedere e schiuderla appena:

«Ma non posso. Non posso perché… perché non posso fare quello che ho sempre fatto se niente è come prima,» sbottò, odiando il tremito nella sua voce nel trasporre in suoni stentati quel concetto opprimente.

Solo allora sembrò ergersi nella sua mente in tutta la sua imponenza, e il suo cervello fece una piroetta su se stesso, colto dalle vertigini.

Cinque anni.

Cercò di figurarseli come qualcosa di materiale, da poter contare con delle biglie su un abaco, ma sentì solo un trillo infastidito del senso di ragno. Presero la forma di un macchinario sterminato, piegato e deformato sotto il suo stesso, mastodontico peso; un ammasso contorto di ruote dentate, pistoni e leve che tritura ruggine per arrancare inutilmente e poi bloccarsi tra lamenti e urla di meccanismi rotti. E lui era ora un sassolino sul punto di sbriciolarsi, ora un componente in più, superfluo, che non trovava posto nel progetto di quella macchina infernale.

Fu scosso da un brivido, e Tony lo percepì, stringendo ancora la presa sulla sua spalla.

«Pete,» cominciò poi, bloccandosi subito per tirare un respiro e sfregarsi la tempia. «So come ci si sente ad essere… scollegati,» proferì poi, guardandolo lateralmente, ad osservare la sua reazione.

Peter deglutì e basta, non fidandosi abbastanza della propria voce per replicare in modo spigliato. Sapeva che le lacrime nei propri occhi erano inequivocabili, ma cercò in tutti i modi di trattenerle, sentendole aggrapparsi strenuamente alle ciglia per non scivolare via. Strinse le labbra fin quasi a farsi male per celare la smorfia istintiva e tremolante che gli deformò il viso.

«Anche adesso…» Tony esitò di nuovo, contraendo le dita sulla sua pelle. «A volte non riesco a credere che tu sia… realmente qui,» proseguì con suo profondo sconcerto, e un ulteriore strato liquido si unì a quello che già gli annacquava gli occhi. «Mi sento un folle. Guardo Morgan, Pepper, te, e mi convinco che mi risveglierò sulla Benatar in preda a un delirio per carenza d’ossigeno.»

Fece un brusco scatto col capo a scacciare il ricordo, e staccò infine la mano dalla sua spalla per stringere la propria, quella ferita, rigirandosi la fede nuziale al dito in un gesto calmante. Le piaghe sul suo volto sembrarono farsi più profonde, e la ciocca di capelli quasi bianchi sulla tempia era più evidente che mai nella luce soffusa del salone.

«Siamo qui grazie a lei, signor Stark,» gli ricordò Peter, ignorando la propria gola strozzata nel gettar fuori quelle parole. «Il resto non importa, ce… ce l’ha fatta,» concluse semplicemente, con un sorriso traballante come quella vittoria che non sembrava veramente tale.

Tony non rispose. Tenne lo sguardo puntato fuori dalla vetrata, divisa dallo skyline illuminato di New York, con pollice e indice a stringersi le tempie. Peter si chiese se non avesse detto qualcosa di sbagliato. Conosceva Tony, ma non così a fondo da capirlo davvero: c’erano ancora quelle volte in cui vedeva i suoi occhi diventare freddi, schivi, e non capiva perché; non riusciva a identificare quali ferite o tasti sensibili avesse inavvertitamente sfiorato. Si sentì la bocca secca e amara al pensiero.

«Signor Stark, non volevo farla preoccupare con… con quei discorsi. In fondo, ci stiamo passando tutti noi scomparsi. Sto bene, davvero,» mentì per spezzare il silenzio, con una tagliola che gli azzannava il cuore. «Ho solo bisogno di…» si rimangiò quella parola, quel “tempo” che sembrava perseguitarlo in ogni forma, viva, reale e strisciante.

Tony inspirò a fondo dal naso, come se avesse appena preso una decisione difficile. Si spianò le sopracciglia corrugate con le dita, senza riuscire a cancellare le linee contratte sulla fronte, e si sporse appena verso di lui. Gli bloccò un avambraccio con delicatezza e Peter si accigliò, più sorpreso che allarmato, almeno finché non gli tirò su la manica scoprendo a colpo sicuro uno dei due spara-ragnatele.

Peter smise di respirare. Si pietrificò sul posto, sbarrando gli occhi, coi muscoli rigidi e le pupille dilatate. Captò lo sguardo significativo di Tony, severo, ma animato da una punta di rammarico.

«Dormire con questi addosso lo chiami “stare bene”?» chiese retorico, lasciandolo andare, e Peter ritirò di scatto il braccio, circondandosi subito il polso con le dita per nascondere il congegno. «Potrei sprecare la nottata a dirti che non ne hai bisogno,» affermò, con un cenno del mento nella sua direzione, «ma ci sono passato, e so che sarebbe inutile.»

Peter si tirò giù di scatto la manica, sentendosi avvampare, in viso e dentro al petto, in una massa di vergogna che minacciava di bruciarlo vivo. La delusione nella voce di Tony era palpabile, e la sentì scavargli nei polmoni.

«Sono solo una… precauzione,» esalò, con un filo di voce sul punto di sfaldarsi.

«E riesci a dormire anche senza, giusto?» indagò Tony, con precisione chirurgica.

Peter rimase muto, con le labbra serrate, senza negare. Tony non commentò e si passò di nuovo una mano sul volto con fare stanco, nell’ennesimo tentativo di distenderlo.

«May lo sa?»

Peter scosse la testa, rischiando di far traboccare le lacrime, e si morse le labbra per impedirlo.

«Dovresti dirglielo.»

Peter annuì, ancora senza parlare, e sentì la mano di Tony che si posava a cingergli la nuca in un contatto rassicurante. Tirò piano su col naso, riuscendo a controllarsi, ma tenne lo sguardo piantato sul pavimento lucido, freddo sotto ai suoi piedi scalzi.

«Non le ho detto nulla. Né dell’Atto, né dell’università, né di… di tutto il resto,» confessò poi, deglutendo un groppo salato.

«Il resto?» indagò Tony, aumentando un poco la stretta. «C’è altro che dovrei sapere?»

Peter tornò a focalizzarsi su quella sorta di fioco “bip” di fondo che il suo senso di ragno emetteva ormai da sei mesi. Una cadenza regolare, snervante, un fischio all’orecchio che gli solleticava la coscienza senza per questo destarla del tutto, come una calamita attaccata al cervello che si divertiva a scombinargli i pensieri muovendosi di tanto in tanto. Adesso gli sembrò che persino Tony riuscisse a percepire quel sottofondo molesto, acuto e vivido quanto lo era per lui.

Nessuno sapeva del senso di ragno: era l’unica abilità che non aveva mai rivelato, proprio perché essa stessa sembrava volerlo dissuadere dal farlo; anche adesso gli mandò una tenue scossa di avvertimento che lo fece tendere sul posto. Non gli riuscì di scollare la lingua dal palato per mettere sul piatto dei suoi problemi anche quello, che incarnava al contempo la punta dell’iceberg e l’intera, gigantesca massa di ghiaccio sottostante celata anche ai suoi occhi.

«Dei cinque anni,» svicolò dopo qualche secondo, con voce un po’ roca. «Di quello che le ho appena detto.»

Tony lo fissò, con una netta ombra di dubbio nello sguardo, ma lasciò scivolar via la mano in una breve carezza, senza insistere.

«Ragazzino, non so se sono la persona più adatta con cui parlare. Sono un consulente, ma non quel tipo di consulente,» si espresse poi, scrollando il capo. «In compenso, sono il re del tempo perso e delle decisioni sbagliate, oltre che dei difetti caratteriali e dei traumi irrisolti,» storse la bocca, con amara ironia, e Peter ribatté d’istinto:

«Signor Stark, non penso che…»

«Non interrompermi, sto improvvisando.»

Tony alzò un indice, bloccandolo sul nascere, e Peter richiuse stolidamente la bocca.

«Ci ho messo vent’anni a capire che stavo sbagliando,» continuò poi, più piano, con una nota di rimorso ben palpabile. «Cap ne ha passati settanta nel ghiaccio. Bruce ne ha persi quasi dieci per colpa di Hulk. Nat ha passato mezza vita a fare ciò che non voleva,» si interruppe brevemente, tirando un rapido respiro e sfregandosi la radice del naso, «Thor… Thor non ha neanche un’età quantificabile, quanto tempo pensi che abbia perso, in millecinquecento anni?» sbuffò, con fare appena più leggero. «Abbiamo tutti deviato dal percorso. Abbiamo tutti perso tempo, rimandato occasioni, imboccato strade più lunghe o più corte, per scelta nostra o meno… il tempo è relativo, non devo spiegartelo io. Se pensi che ci si può anche viaggiare, lo è ancor di più… ma paradossalmente il nonnetto è più esperto di me su questo tema.»

Gli posò di nuovo una mano sulla nuca e gli arruffò i capelli con fare un po’ burbero.

«Tu però non ne hai bisogno. Sei nel tuo tempo,» concluse, indicandolo con sicurezza a ribadire il concetto. «E ho giurato che nessuno verrà più a rubartelo, né a te, né a Morgan, né a nessun altro,» aggiunse, con una nota dolceamara a tingere quelle parole.

Peter stava respirando appena, superficialmente, per non sconvolgere del tutto il proprio equilibrio emotivo traballante. Alle parole di Tony si sommavano quelle di May, simili e complementari. Erano concetti semplici, che si ripeteva lui stesso per tenere a bada i demoni. Sentirli pronunciare da loro sembrava renderli più veri, e al contempo più irraggiungibili. Più stringenti, come se tutti cercassero di indirizzarlo su una strada a lui invisibile, stretta e impervia, tendendogli però la mano per guidarlo.

Si chiese repentinamente se anche zio Ben gli avrebbe detto le stesse cose. Se gli avrebbe dato un’energica pacca sulla schiena, sorridendogli in quel suo modo un po’ enigmatico che gli accendeva gli occhi chiari e limpidi, incorniciati da rughe d’espressione. Se gli avrebbe ripetuto che quella era ancora l’età in cui avrebbe deciso chi essere per il resto della vita, e che sono anche le questioni irrisolte a determinarlo.

Evitò di guardare direttamente Tony, temendo le parole che gli sarebbero potute sfuggire di bocca se l’avesse fatto, temendo di assecondare l’istinto che gli suggeriva di contraddirlo, di spingerlo via, in un contorto meccanismo di autodifesa che si era già rivelato difettoso una volta.

Invece respirò a fondo, riprendendo a fatica il controllo. Cercò di spiegare davanti a sé in file parallele quei discorsi pronunciati da persone amate; cercò di seguirli fino al loro snodo comune, senza però trovarlo. Riuscì solo a percepire un groviglio caldo di protezione e orgoglio e affetto che intrecciava tutte le corde del suo cuore.

Forse, per adesso, era tutto ciò di cui aveva bisogno – come Peter, come adolescente liceale del Queens che vorrebbe guardare al futuro senza perdere la rotta. Quelle di Tony e May e Ben non erano coordinate precise. Lui non aveva neanche una mappa, ma poteva credere di avere almeno una bussola in mano, con il Nord ben visibile sul quadrante.


«Lo so,» riuscì a dire infine, con un sorriso un po’ stentato che pareva però trarre energia ciò che aveva appena sentito. «Ma…»

«Niente ma: io mantengo sempre le mie promesse,» ribadì Tony, scherzoso, ma non troppo. «E ti prometto che risolveremo tutto… tu però devi parlane anche con May,» insistette poi, scrutandolo con lieve severità.

Peter scrollò il capo, intrecciando nervosamente le dita.

«Non voglio farla preoccupare, e…»

«Quindi far preoccupare un cardiopatico è giustificabile?» lo interruppe lui, sollevando scandalizzato le sopracciglia e portandosi teatralmente una mano al cuore. «Hai una stramba scala di valori, Spider-Man.»

Peter incespicò a metà frase, sbarrando gli occhi ancora lucidi.

«Sì, cioè… no, assolutamente no, non volevo…» gesticolò, sotto il tiro dello sguardo inquisitore di Tony, che però sbotto in una risatina – una brezza fresca, carica d’ossigeno.

«Sto scherzando, ragnetto,» scosse la testa, dandogli una spallata con un mezzo sogghigno. «Frequentare Capitan Serietà ti sta facendo perdere il senso dell’umorismo,» commentò poi, mentre si alzava con lieve impaccio facendo leva sulle ginocchia.

Peter sbuffò appena in risposta, asciugandosi di nascosto gli occhi col polso, con Tony che gli dava sensibilmente la schiena.

«Adesso fila a letto,» gli intimò poi, in tono falsamente severo. «Domani ci aspetta una giornata impegnativa, ti voglio riposato,» concluse, soffocando uno sbadiglio che la diceva lunga su quanto poco quella prospettiva lo entusiasmasse.

Pete si trovò a imitarlo senza volerlo, suscitando un’espressione divertita sul suo volto. Lo seguì senza protestare fino alla porta della camera di Morgan, lieto che avesse voluto chiudere lì la discussione senza insistere sulle risposte ancora in sospeso. Sapeva che ne avrebbero parlato ancora – dei cinque anni, del futuro, di Spider-Man – era inevitabile, ma per ora voleva godersi la bolla di quiete che gli si era formata nel petto.

«Grazie, Tony,» disse a voce bassa, prima di scivolare oltre la soglia.

Lui non replicò, ma fece una buffa smorfia, alzando con fare indecifrabile le sopracciglia.

«’Notte, ragazzo,» gli augurò semplicemente, schiudendo piano la porta di Morgan per poi accostarla con delicatezza dietro di lui.

Nella lama di luce, Peter intravide per un attimo il suo sorriso pieno, non più trattenuto.

 

 

 

 

Avanzò nella stanza in punta di piedi, seguendo il ritmo delicato del respiro di Morgan, per poi raggiungere il letto superiore gattonando sul muro e poi sul soffitto. Si lasciò scivolare cautamente sul materasso, ma, proprio quando stava per tirare un sospiro di sollievo, una delle molle emise un lamento penetrante, facendogli stringere occhi e denti.

«Mamma?»

La voce assonnata e lievemente impaurita di Morgan si levò da sotto di lui, e si affrettò a rassicurarla.

«Ehi, Mo,» sussurrò, per poi sporgere la testa dal letto per sbirciare al piano inferiore. «Sono io. Non volevo svegliarti,» disse, osservando la bambina che sorrideva appena stropicciandosi gli occhi, cercando di abituarli al buio.

«Ciao, Peter,» sbadigliò, facendo sporgere una mano da sotto il lenzuolo per salutarlo. «Sei in ritardo,» dichiarò poi, immusonendosi un po’.

Peter piantò i piedi contro il muro, ancorandosi alla superficie liscia con la punta delle dita, e si sporse col busto oltre il bordo del letto rimanendo appeso a testa in giù.

«Scusa, ma stasera c’erano un sacco di cattivi in giro,» si difese, notando il broncio della bambina che si scioglieva in un sorriso divertito.

«Sei buffo,» disse indicando i suoi capelli dritti, vittime della gravità, e quell’affermazione suonò come un’accettazione di scuse. «E li hai presi tutti?» s’interessò poi, facendosi intenta.

«Certo che sì, sono Spider-Man, no?» si vantò lui, sentendosi più orgoglioso nel vedere lo sguardo ora sinceramente ammirato della bambina che nell’avere il proprio nome stampato sui giornali.

A quel punto Morgan si girò sulla pancia, puntando i gomiti sul cuscino a sorreggere il mento, e Peter capì che non sarebbe riuscito a farla riaddormentare così presto come sperava. Da quel punto di vista, aveva ereditato tutta la testardaggine del padre… già si immaginava le occhiate di brutale rimprovero che gli avrebbe rivolto Pepper il mattino dopo per non aver adempito ai doveri di bravo “fratello maggiore”.

«Anch’io voglio fare Spider-Man da grande,» dichiarò lei, con un guizzo determinato negli occhi scuri. «Ma mamma e papà non vogliono,» si lamentò poi, inclinando di lato la testa con fare contrariato.

«Beh, sei ancora piccola… magari quando sarai più grande cambieranno idea,» disse conciliante Peter, col vivo sospetto che Tony non avrebbe apprezzato la sua indulgenza riguardo a quel determinato argomento. «Non c’è altro che vorresti fare?» chiese in fretta, cercando di distoglierla.

«Mmm…» la bambina ci pensò su, con gli occhi rivolti alle doghe del letto superiore. «L’esploratrice, la meccanica, la pilota e l’astronauta,» elencò poi con aria sognante, contando via via sulle dita. «E papà ha detto che va bene tutto, tranne l’astronauta,» concluse, ripiegando l’ultimo dito contro il palmo e aggrottando le sopracciglia in un’espressione dubbiosa che gli ricordò enormemente Tony.

Peter strinse le labbra, incupendosi un poco e sentendo un rinnovato pizzicore allo stomaco.

«Già, non gli piace molto lo spazio,» considerò soltanto, con fare vago e sperando che la questione finisse lì.

«Perché?» indagò subito lei, assottigliando gli occhi.

Peter ragionò rapido, messo alle strette da uno dei fatidici “perché” che costellavano la vita di Morgan, e che riuscivano a mettere in difficoltà chiunque, che fosse uno scienziato con sette dottorati o un super soldato ultracentenario. Infine, decise di sfruttare l’occasione a proprio vantaggio:

«Se te lo dico, mi prometti che vai a dormire?»

«Promesso,» rispose pronta lei, e Peter quasi poté vederla incrociare le dita sotto le lenzuola con un sorrisino furbetto.

Sospirò tra sé, ma le diede il beneficio del dubbio e si ridistese sul proprio letto, nonostante rimanere a testa in giù non gli causasse alcun disturbo. Magari così Morgan avrebbe ceduto al sonno più facilmente.

Il suo sguardo si fissò sulle sagome puntute delle stelle contro il soffitto buio. Non sembravano poi così minacciose, appese lassù a portata di mano in quel gruppetto sparuto e aguzzo: poteva contarle – venticinque – poteva raggiungerle allungando un braccio, avrebbe anche potuto staccarle da lì, se avesse voluto. Gli sembrò un’illusione labile, un goffo tentativo di rendere innocuo il freddo manto stellato che occhieggiava su di loro oltre il soffitto.

So come ci si sente ad essere… scollegati.

Cercò di immaginarsi cosa si provasse a vagare per ventotto giorni in quella distesa priva di dimensioni, di tempo, di calore, ma ciò gli causò solo un vuoto allo stomaco che sembrò bloccargli il respiro. Sentì i propri pensieri cadere a spirale e perdersi nei miliardi di puntini luminosi dietro le sue retine, e il cicalio sommesso del senso di ragno ebbe un picco turbato che gli fece vibrare i timpani. Per un attimo quel vuoto gli sembrò familiare, anche se non ne capì il perché.

Deglutì a vuoto, sapendo che Morgan aspettava ancora una risposta.

«A tuo papà non piace lo spazio perché… perché è noiosissimo,» inventò poi sul momento, con le corde vocali che stridevano tra loro.

«Davvero?» chiese lei, suonando troppo scettica per la sua età.

«Sì, davvero,» replicò con convinzione assolutamente fasulla lui.

«Ma nello spazio ci sono un sacco di cose,» protestò lei, probabilmente con le pagine accattivanti di un libro illustrato davanti agli occhi.

Quelle parole prive di malizia si distorsero, evocando entità troppo spaventose per trovare posto in una favola della buonanotte. Come si spiegava a una bambina di sei anni che nello spazio, oltre alle nebulose, alle stelle, alle comete, si annidavano paure così grandi da aver rischiato di divorare l’universo intero? E che il brillio delle galassie lontane e delle polveri stellari tinte di colori fiabeschi non era abbastanza per colmare la solitudine di chi vi si era quasi perso?

«Lo spazio è…» cominciò, titubante, per poi forzarsi a continuare. «È troppo pieno, anche se dovrebbe essere completamente vuoto e… ed è troppo vuoto anche quando sembra pieno,» s’incartò nelle sue stesse parole, mordendosi la lingua per evitare di complicare ulteriormente la questione.

Quell’ultimo, convoluto ragionamento portò con sé il silenzio, tanto che Peter si sporse dal letto per verificare che non si fosse addormentata, ma Morgan sembrava intenta a rimuginarvi su, col lenzuolo a coprirla fino al naso e gli occhi socchiusi per la concentrazione.

«Ho capito,» annuì infine, quasi con solennità.

Peter si chiese cosa, esattamente, avesse capito, e se quelli fossero concetti adatti a una bambina di prima elementare – non voleva darle cattiva ispirazione per eventuali incubi. Comunque fosse, ciò sembrò almeno mettere un punto alla questione, inaugurando finalmente il momento di dormire. Le sue speranze furono infrante dalla voce di Morgan che risuonò ancora una volta nella stanza, quasi più energica di prima.

«E tu cosa vuoi fare da grande?»

Peter tartagliò, cercando di prenderla come un’altra domanda leggera, priva dei doppifondi che gli facevano perdere l’equilibrio ogni volta che gli sfrecciava in testa – l’innocente domanda di una bimba di sei anni che filtrava il mondo adulto attraverso occhi ancora limpidi.

«Uh… ancora non lo so,» confessò, mordicchiandosi l’interno della guancia, e pur fissando il soffitto poté quasi vedere l’espressione vagamente accusatoria della bambina per quella risposta deludente. «Magari lo scienziato,» buttò lì, passandosi pensoso una mano sulla fronte.

«Oh,» replicò seria lei, come se la ritenesse una questione di somma importanza. «Come papà,» concluse, e dal tono sembrò molto contenta di quella rivelazione.

«Sì, come papà,» confermò Peter.

Ripeterlo sembrò dare solidità alla cosa, come se per un istante fosse riuscito a intravedere dei contorni netti nella massa nebulosa che inghiottiva il suo futuro, permettendogli di fissarli nella mente e di tracciare una rotta frettolosa per raggiungerli. Fu un istante, poi la nebbia tornò ad ammantare quel percorso labile.

Proprio allora il suo senso di ragno pigolò blandamente, e subito dopo un bussare lieve ma deciso risuonò nella stanza, facendo trattenere il respiro a Morgan.

«Ragazzi, adesso a nanna,» intimò loro la voce di Pepper, e Peter colse Tony che dall’altra stanza brontolava qualcosa riguardo ai ragazzini troppo iperattivi, ma col sorriso nella voce. «E non fatemi entrare lì dentro,» aggiunse la donna, più minacciosa.

Entrambi tacquero in tacito accordo, fingendo di dormire. Quando i passi di Pepper si furono allontanati, Morgan si lasciò scappare un risolino soffocato, e Peter si sporse di nuovo dal letto intimandole ripetutamente il silenzio con l’indice davanti alla bocca, senza risultati evidenti. A quel punto decise che, a mali estremi, servivano estremi rimedi:

«Morgan,» la chiamò, nel tono più stentoreo che gli riuscì sottovoce. «Giuro che se non dormi ti faccio il solletico,» sentenziò, arricciando minacciosamente le dita nella sua direzione e facendole sgranare gli occhi come un coniglietto braccato.

Peter ridacchiò e lasciò ricadere le mani, sapendo di aver vinto a tavolino.

«Buonanotte, Peter,» si arrese infatti lei, raggomitolandosi con le ginocchia al mento.

«’Notte, Mo,» rispose piano, con un accenno di sorriso.

Si tirò su e si adagiò sul materasso fissando le stelline fosforescenti nel buio sopra di lui, che avevano ripreso i contorni di innocui, brillanti sogni infantili attaccati al soffitto.



 
Note Dell’Autrice:

Cari Lettori,
arrivo con un po’ di ritardo con questo capitolo, che ha subito un bel po’ di rimaneggiamenti in seguito alla visione di Far From Home. Non tanto perché volessi ispirarmi al film (che, anzi, ignorerò in toto), ma perché sentivo di dover "coprire dei buchi" che secondo me ha lasciato. Non mi dilungo per evitare di fare spoiler, ma chi l’ha visto credo abbia capito di cosa sto parlando... anche se ho scoperto di essere in minoranza nel dire che non l’ho apprezzato :’)

Comunque, sappiate che per tutta la scrittura mi prudevano le mani per non poter scrivere anche il PoV Tony: mi preme sottolineare che le sue azioni e parole rispecchiano come sempre la minima parte di ciò che gli passa per la testa, e spesso in modo molto costruito. E godetevi lo pseudo-fluff finale, perché questa è l’ultima parentesi di quiete: dal prossimo capitolo i famosi ingranaggi si metteranno davvero in movimento ;)

Grazie infinite ad _Atlas_ (<3), Miryel, shilyss e T612 per aver commentato gli scorsi capitoli, e a tutti coloro che seguono i nsilenzio e hanno aggiunto la storia tra le seguite/ricordate/preferite (venghino, signori, venghino!)
Al prossimo aggiornamento, 

-Light-

P.S. Il titolo cita una famosa filastrocca inglese, appunto "The itsy-bitsy spider" traducibile come "Il piccolo ragnetto", e i prossimo capitoli seguiranno appunto i successivi versi... con tutte le implicazioni del caso ;)






 
Avviso!

Cari Lettori,
Back in black è attualmente in pausa, ma non è abbandonata e verrà portata a compimento.
Attualmente mi divido tra il preparare l’ultimo esame e la stesura della tesi, quindi credo possiate immaginare quanto poco sia il tempo effettivo per scrivere. Oltretutto, ho avuto un calo d’ispirazione per quanto riguarda la Marvel, e sto cercando di aspettare tempi più rosei per riprendere questi personaggi.
Ciliegina sulla torta (in quanto fatto positivo): la storia ha preso una piega molto più complessa del previsto ed è raddoppiata nella sua lunghezza. L’ho divisa in due parti con due fulcri narrativi, ma devo ultimare di scrivere almeno la prima prima di pubblicare. Questo per evitare refusi, incoerenze e, soprattutto, per offrire a voi che leggete il massimo della qualità, senza dover molto poco elegantemente ricorrere a retcon o correzioni a posteriori. Ho visto che la storia è seguita da molti (grazie, davvero <3), ed è una ragione in più per curarla al massimo :)
La storia riprenderà, spero, entro fine settembre. Nel frattempo potrebbe spuntare qualche cosetta estemporanea sul mio account o su quello di traduzione (iron_spider).

STAY TUNED!

-Light-

 
 
©Marvel
 
   
 
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