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Autore: _Frame_    18/08/2019    3 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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203. Per amore e Per la nostra promessa

 

 

Il cenno di mano lanciato da Germania raggiunse lo sguardo di Prussia attraverso le raffiche di nevischio che li separavano. Era il segnale che intimava lui e Spagna a continuare a mitragliare Russia, nonostante la protezione del ghiaccio e nonostante la bufera di vento sempre più violenta.

Prussia rispose con un’alzata di mento – Ricevuto – e tornò a stringere la presa attorno al corpo fumante della sua mitragliatrice leggera. “Ancora!” Corse assieme a Spagna, lasciandosi guidare da una delle correnti d’aria, e risollevò la mira contro Russia. “Fuoco!” Entrambi schiacciarono i grilletti e le raffiche di lampi esplosero davanti ai loro occhi.

Spire di ghiaccio azzurrino crebbero attorno a Russia, innalzarono la barriera, e respinsero i proiettili che vi rimbalzarono addosso, ricadendo a terra, persi nella neve. Dietro di lui, riparato dalla sua stazza che lo proteggeva da quelle grida di vento e ghiaccio, Italia tremolava in mezzo al nevischio, piccolo e passivo, ogni volta in cui le raffiche di spari scrosciavano contro di loro come secchiate di grandine.

Prussia voltò lo sguardo, lanciò un’ultima occhiata a Germania da sopra la spalla, attraverso il velo di fumo sollevato dalle mitragliate.

Germania raccolse la schiena di Romano e lo spinse verso Italia, verso la breccia che si era aperta alle spalle di Russia. “Vai, corri!”

Romano scattò come una lepre. In tre falcate raggiunse Italia, spalancò le braccia, lo travolse con la sua corsa, e lo spinse via, facendo cadere entrambi nella neve, nascosti dal candore della nebbia che galleggiava rasoterra.

Lo sguardo di Russia intercettò quel movimento che gli era saettato dietro la spalla. Russia si voltò di profilo, acquietando il vortice di ghiaccio, e i suoi occhi sprofondarono nel panico, andarono in cerca di Italia, di quella presenza che gli era stata sottratta. “Italia?”

Prussia colse quella sua esitazione, notò la nebbia che si era abbassata, il vento che si era acquietato, e il ghiaccio che si era sbriciolato lasciandosi trascinare via dal turbine. Ci siamo! Risollevò la mitragliatrice leggera, socchiuse un occhio e prese la mira puntando alla testa di Russia. Ora o mai più! Fece fuoco e scaricò un’altra grandinata di proiettili.

Uno dei proiettili spezzò una debole spira di ghiaccio, schizzò come una lama contro la guancia di Russia, e gli sfregiò la pelle schizzando uno spruzzo di sangue.

Russia sobbalzò in uno scatto di dolore, si prese la guancia ferita chinando il capo fra le spalle, e rabbrividì.

Prussia calò la sua arma ed esibì un sorriso vittorioso. Grande! Dio, mi bacerei da solo. “Presa, fatina delle nevi.”

Russia si tolse la mano dal viso, e posò gli occhi sulle dita insanguinate, sulla manica della giacca su cui era rimasta una sbavatura rossa. Una riga scarlatta discese la sua guancia, colò fino al mento e piovve a terra, accanto ai suoi piedi. Strizzò il pugno. Una bianca e violenta fiammata di gelo gli arse attorno, rievocò le sferzate di vento e di lame di neve ancora più rapide e letali, e gonfiò la foschia che inglobò al suo interno sia Germania che Ucraina sia Italia che Romano.

Prussia si riparò gli occhi con un braccio e compì un passo all’indietro per sottrarsi alla spinta del vento. Il profilo di Germania scomparve in un battito di ciglia, divenne un’ombra nel bianco e poi si dissolse, trascinato via come quei fiocchi di neve senza pace. Va’, West. Prussia visualizzò la scena dentro di sé: Romano e Germania che recuperavano Italia, che lo strappavano alla morsa di Russia, e loro tutti che se ne andavano da Khimki assieme. Vai e salvalo.

Spagna si spinse al fianco di Prussia per sfuggire a sua volta ai morsi del ghiaccio e alla neve sempre più abbondante che gli aveva già imbiancato i capelli e congelato guance e bocca. Guadagnò un respiro fra i denti e gonfiò una bolla di fiato bianco fra le labbra. “M-mi sa c-che l’hai fatto inf-f-uriare ancora di più.”

“Era quello che volevo.” Prussia soffiò a sua volta un alito di condensa e serrò la mandibola per non battere i denti. “Così ora sarà talmente impegnato a massacrare noi due che non baderà a West o a Romano, e allora loro potranno...”

Massacrarci?” Spagna si aggrappò alla sua manica e gli diede un soffice pugnetto sul braccio. “Io non voglio finire massacrato!”

“Rilassati,” gli disse Prussia. “Te l’ho detto che se sei con me non devi avere paura di niente.” Il vento fischiò fra le loro gambe, artigli di ghiaccio si arrampicarono lungo i loro corpi, unghiate d’aria li graffiarono sotto le giacche, attraverso le guance, agli angoli delle palpebre e fra i capelli, spingendoli ad arretrare ancora. Russia, scuro e minaccioso, si fece sempre più vicino a loro due, guidando le spirali di tempesta attraverso la scia dei suoi passi. Prussia deglutì e passò la punta della lingua all’angolo della bocca. Non si sentiva più le labbra. “Ascolta,” disse ancora, rivolto a Spagna. “Ora la faccenda è semplice. Non dobbiamo ammazzarlo. Nemmeno io sono così ingenuo da credere che potremmo riuscirci.” Forse. “Dobbiamo solo tenerlo impegnato e distratto intanto che West e Romano recuperano Ita.”

Spagna sgranò le palpebre incrostate di ghiaccio e lo fulminò di traverso. “E la chiami una cosa semplice?”

“Lo sarà,” confermò Prussia. “Madre Russia è disarmato, quindi basterà solo sparargli addosso e impedirgli di avvicinarsi troppo a noi.”

Spagna inarcò un sopracciglio, volse gli occhi al cielo grigio dove la tempesta ribolliva attorno a quegli occhi letali e violacei che vegliavano sulla battaglia. Un brivido di autentico terrore gli ghiacciò le ossa. “No, non è disarmato. Tutto...” Il sapore del ghiaccio gli entrò in bocca, lo costrinse a rintanare le labbra sotto il bavero. “Tutto questo freddo è una sua arma. Finché lo combatteremo in inverno e nella sua terra, lui sarà sempre in vantaggio su di noi.”

Prussia spostò il peso della mitragliatrice fra le mani, sgranchì le dita per non far congelare le falangi, e sguainò un ghigno da sbruffone. “Questo è tutto da vedere.” Diede a Spagna una spallata d’incoraggiamento e scattò a correre. “Seguimi!” Entrambi si tuffarono nuovamente in quella battaglia senza tregua.

Prussia ricominciò a sparare.

La barriera di gelo tornò a innalzarsi davanti a Russia, lo protesse respingendo le scintille bianche nate dallo stridere dei proiettili contro il ghiaccio, mentre i suoi passi continuavano ad avanzare, a frantumare la neve, e i suoi occhi contratti da ombre di rabbia si facevano sempre più tetri e simili a quelli che li osservavano dall’alto.

Una raffica di ghiaccio si abbatté sul viso di Prussia, le schegge gelate gli graffiarono gli zigomi, dandogli l’impressione di scorticargli via la pelle dalle guance, e lui dovette di nuovo smettere di sparare per coprirsi. Merda, ringhiò a denti stretti. Si sta incazzando sul serio. Scosse il capo, si tolse dalla faccia la manica chiazzata di sangue, rimpugnò la mitragliatrice, schiacciò il grilletto per rigettare un’altra raffica, ma il percussore sbatté a vuoto. Il gelo gli penetrò fin nel cervello. Cos... Prussia diede una scossa alla sua arma, tornò a premere più volte il grilletto, con più foga, ma dalla bocca di fuoco non uscì neanche uno sparo. Finì soffocato da un gemito, si sentì sprofondare nella neve. Ho di nuovo finito i proiettili?

Spagna smise di sparare e si girò verso Prussia, verso quella sua esitazione. “Prussia?”

Prussia palpeggiò il corpo congelato della sua mitragliatrice, raggiunse il caricatore, lo sganciò lasciandolo cadere a terra, sfilò un altro serbatoio di cartucce dalla tasca della giacca, lo spinse alla base dell’aggancio ma la mano paralizzata dal gelo tremolò e lui picchiò più volte nel punto sbagliato. Merda, merda. Perle di sudore gelato si congelarono sulla sua fronte. Proprio adesso doveva finire?

Poco distante da lui, separato solo dal muro di foschia, Russia sollevò la mano sporca del sangue che si era asciugato dal viso, flesse il braccio contro il petto, e lasciò che il vortice di ghiaccio si condensasse fra le sue dita contratte, turbinando sempre più velocemente. Le spire si schiusero come fauci e sfrecciarono attraverso la foschia. Tante bocche aguzze stavano per schiantarsi contro Prussia che aveva ancora lo sguardo basso sulla mitragliatrice.

Quella visione colpì Spagna come uno schiaffo, e la scossa di paura e adrenalina gli elettrificò il sangue, sciogliendo la sensazione di gelo in cui era imprigionato. “Prussia!” Gli saltò addosso e lo spinse via con una gomitata. L’azzannata di ghiaccio precipitò su di lui, trafiggendolo come un fulmine e strappandogli i battiti dal petto, dandogli l’impressione di essere diventato un inerte pezzo di neve.

Prussia lasciò cadere la mitragliatrice e prese Spagna al volo. Lo strinse a sé ingoiando quel singhiozzo di spavento e di colpevolezza. “No, merda.” Il vento li circondò, latteo, e addensò la nebbia di ghiaccio che li divise di nuovo da Russia, facendo scomparire il suo sguardo dietro la foschia.

Prussia avvolse un braccio attorno ai fianchi di Spagna e uno attorno alle spalle, se lo tenne stretto al petto, e trascinò i passi nella neve fresca per raggiungere l’isba più vicina e ripararsi sotto la spiovenza del tetto. “Forza.” Lo fece sedere contro il muro, vicino alla fontanella con il tubo d’acqua congelato piantato nella base di cemento. Il capo di Spagna ricadde ciondolando contro la spalla, e Prussia gli diede un paio di schiaffetti sul viso sbiancato e sporco di neve. “Forza, riprenditi, non mi crepare adesso.” Un altro schiaffo più forte. “Non mi mollare anche tu.”

Spagna strinse il viso in una smorfia. Mosse le ciglia su cui il ghiaccio si era cristallizzato, socchiuse gli occhi, batté un paio di volte le palpebre diventate bluastre, e trasse un breve respiro bianco fra le labbra. “Urgh...” Fece scivolare gli occhi su Prussia, ricominciò a tremare e a battere i denti. “P-Prussia?”

Prussia si concesse un sospiro di sollievo. “Ci sei?” gli fece. “Come ti senti?”

“F...” Spagna schiacciò le spalle contro la parete dell’isba, raccolse le gambe al petto e strinse le braccia senza riuscire a muovere le mani diventate rachitiche. “F-fred-d-do.” Un velo di ghiaccio, simile a una spolverata di neve sottilissima e farinosa, risalì da sotto il colletto della giacca e da sotto le maniche, si arrampicò attraverso la sua pelle, s’infilò negli spazi fra le dita, gli carezzò le guance, e crebbe fino a toccargli gli angoli delle palpebre socchiuse e bluastre.

Prussia non ci pensò due volte. Si slacciò la sua giacca, fece per sfilarsela e per coprire Spagna, per evitare che congelasse.

Una presenza ostile sorse alle sue spalle, la sua ombra si spalancò fino a inghiottirlo, e una larga mano spalancata emerse dalla nebbia per calare su di lui.

Prussia, ingoiato da quel gelido spazio nero, si girò di scatto e sgranò lo sguardo davanti alla mano di Russia che stava per afferrargli la testa. “Ah!” Saltò addosso a Spagna, rotolò via assieme a lui, schivando il crash! di qualcosa che sbatteva sulla parete di legno e che andava in frantumi, e scaraventò entrambi sulla neve. Risollevò il capo dandogli una scrollata, ridestandosi dalla botta che si era preso sul fianco e su un gomito, e girò lo sguardo. 

Russia compì un passo all’indietro e, con un altro scricchiolio di legno spezzato, strappò il braccio dalla parete che aveva appena sfondato nel punto dove prima c’era la testa di Prussia, facendo cadere a terra qualche scheggia foderata di ghiaccio.

Prussia digrignò i denti, represse un brivido sorto nonostante il sollievo di avere ancora la testa fra le spalle, e gli saltò addosso senza alcuna arma. “Fottuto mostro!”

Russia si fece scudo con il braccio, raccolse lo slancio di Prussia e tornò a scagliarlo a terra, con la facilità con un cui la zampata di un orso respinge l’assalto del lupo balzato alla sua gola.

Prussia ricadde di schiena, “Ghn!”, batté la nuca e sollevò una doppia ala di schizzi di neve.

Russia sgranchì la mano su cui era rimasta incollata qualche scheggia di legno, calò il braccio, e tornò a sorridere davanti alla visione del suo nemico riverso a terra. “All’arma bianca, Prussia? Come preferisci.” Tornò ad affondare il braccio nella parete sfondata, raggiunse il tubo della fontanella, lo strattonò due volte, lo sradicò dalla base di cemento, e lo rigirò davanti al viso esponendo l’estremità acuminata a cui era ancora incollato qualche frammento di pietra. Rinnovò il sorriso. I suoi occhi brillarono di una gioia perversa. “Mi piace questo gioco.”

Prussia si lasciò ricadere sui gomiti, boccheggiò per riprendere fiato dopo la botta alla schiena, e spalancò gli occhi davanti alla visione dell’estremità di ferro acuminato puntata verso di lui e specchiata nel lucido delle sue iridi. Il vento lo attraversò, gli fece venire la pelle d’oca, ed evocò in lui un bruciante sentimento di eccitazione che soppresse il freddo nato dalla paura. Sorrise a sua volta. “Psicopatico del cazzo.” Si massaggiò un polso, serrò il pugno facendo schioccare le nocche, e tornò a buttarsi contro Russia.

Russia lo schivò, gli rifilò una gomitata sul fianco e lo fece di nuovo ruzzolare a terra. Il suo sorriso cadde. “Cosa credi di fare?” Ora lo guardava con compassione. “Di uccidermi riempiendomi di botte?”

Prussia sollevò la faccia dalla neve su cui era caduto, tossì, spinse un ginocchio al suolo per ridarsi la spinta, e lo aggredì con un altro slancio. “Ci puoi giura...” Su di lui precipitò ed esplose un lampo d’argento che gli ribaltò la faccia, facendogli vedere le stelle.

Si schiantò di nuovo a terra, con il viso affondato in una seconda botta di neve, ed emise un rantolio tremante. Scintille di luce gli scoppiettarono davanti alla vista, la guancia colpita cominciò a pulsare, il dolore a ramificare dallo zigomo alla mascella, fino all’orecchio, e la neve sotto di lui si fece tiepida e cedevole, cominciò a odorare di sangue. Si rotolò supino, accompagnato dalla sensazione di dolore e stordimento che continuava a ronzargli attorno alla testa, e batté le palpebre per dissolvere le luci traballanti. Il bianco si tinse di rosso. Prussia si premette la mano sulla guancia dolorante, e un’altra scossa saettò dalla palpebra fino all’orecchio, ingabbiandogli il cranio in una morsa. “Ghnn~” Si diede una strofinata. Era ferito. Il sangue sgorgò in abbondanza e gli bagnò l’orecchio, i capelli, la spalla, dilatando una chiazza rossa sotto la sua testa.

I passi di Russia frantumarono la neve, lenti ma sempre più vicini, e lo raggiunsero assieme alla sua stazza scura che si perdeva contro il grigiore del cielo. “Hai già finito di abbaiarmi addosso?” disse lui, deluso. “Che peccato.” Sollevò il tubo congelato che aveva sradicato dalla parete dell’isba e lo picchiò sul palmo. Gocce di sangue gocciolarono non dall’estremità acuminata, ma da quella ricurva del sifone. La scintilla rossa si mescolò a quella argentata del ferro, lo stesso lampo di luce che si era schiantato sul viso di Prussia, scorticandolo dalla palpebra alla guancia e sbattendolo a terra, sulla neve dura. Russia gli diede le spalle, e il suo sguardo sorvolò la barriera di foschia che Germania e Romano avevano attraversato per raggiungere Italia. “Ma io invece ho appena cominciato.” Lasciò ricadere a terra il sifone insanguinato e si addentrò anche lui nella nebbia solcando dietro di sé una scia rossa.

Prussia soffiò un altro gemito di dolore, batté le palpebre bagnate di neve sciolta, e la sua vista tornò a perdersi in uno sfocato vortice di bianco e rosso. Raccolse da terra un pugno di neve e lo spremette sulla ferita aperta. L’improvvisa botta di freddo bruciò fino alla radice dei denti ma rallentò lo scorrere del sangue e gli rischiarì la vista. Prussia affondò le dita nella pelle umida e slabbrata, percorse il profilo del lacero, da sotto il lobo dell’orecchio alla palpebra inferiore dell’occhio sinistro. Non andava oltre. C’è mancato un soffio, pensò, sollevato. Per poco non ci rimettevo l’occhio.

Qualcosa si spostò, muovendosi nel campo visivo dell’occhio che non era sporco di schizzi di sangue.

Prussia si girò, intercettò quel movimento.

Ucraina, ancora china con ginocchia e gomiti affondati nella neve, spinse una mano aperta contro le raffiche di neve e vento che la inchiodavano a terra, strinse gli occhi per resistere al ghiaccio che la bufera le sputava negli occhi, si trascinò di un passo in avanti, inseguendo l’avanzata di Russia, e tornò a cadere, a tremare in mezzo alle intemperie che non stavano risparmiando nemmeno lei.

Prussia si voltò dall’altra parte, verso l’isba dalla parete sfondata.

Spagna se ne stava ancora rannicchiato in disparte, dove Prussia lo aveva spinto quando si erano rotolati per schivare l’attacco di Russia. Tremava anche lui, soggiogato dalle spire di neve ululanti, ma almeno era vivo. Schiuse le palpebre sempre più livide, incrociò lo sguardo di Prussia da sotto le ciocche di capelli sporchi di ghiaccio, e compì un piccolo scatto con le estremità delle sopracciglia, lanciandogli una scintilla d’incitamento. Trascinò un braccio davanti a sé, sollevò la mano da terra e gli fece cenno di andare avanti, di inseguire Russia e di raggiungere Germania e Romano.

Prussia si ridestò, come fulminato dallo schianto di un’altra botta in pieno viso. West! realizzò di soprassalto. West e Romano sono ancora intrappolati. “West!” Strusciò le suole nella neve, si rialzò reggendosi la guancia ferita e sanguinante, affondò un paio di falcate, ma la testa tornò a girargli, ancora frastornata dal dolore della botta che gli lampeggiò di nuovo davanti agli occhi. Ricadde di pancia. Ci vide doppio. Davanti a lui, la sagoma di Russia vacillò in mezzo alla nebbia, sempre più piccola e sempre più distante. Prussia scagliò il braccio contro di lui come per afferrarlo e a tirarlo indietro. “West, scappa!”

Davanti alla camminata di Russia, la coltre di nevischio si diradò e spalancò la visuale su tutt’altra scena. Germania chino a terra, Italia caduto sulle ginocchia affianco a lui ma con un braccio sollevato per ripararsi e un’espressione ostile a ingrigirgli il volto, e Romano steso poco distante, con i pugni strizzati nella neve e lo sguardo sbiancato di paura rivolto a Russia appena comparso davanti a loro.

Russia compì l’ultimo pesante passo davanti a Germania, serrò la presa sul tubo congelato che si trascinava dietro, e alzò il ferro da terra.

La visione di quello che stava per succedere colpì Prussia come un’altra mazzata sul cranio, “No!”, lo fece scattare di nuovo e ricadere nello stesso punto.

Russia scaraventò il sifone addosso a Germania. Germania spostò la testa e lo schivò, prendendosi una schizzata di neve in faccia, ma perse l’equilibrio e cadde sul fianco. Russia gli premette un piede sul petto, lo spinse all’indietro facendogli battere la schiena, gli cadde addosso per tenerlo immobile, rigirò il tubo dalla parte dell’estremità aguzza e lo innalzò davanti ai suoi occhi.

Nemmeno il grido straziato di Ucraina riuscì a fermarlo. “Russia, non farlo!”

Il ferro affondò nello stomaco di Germania, gli contrasse il torso in uno spasmo secco e violento, e spruzzò un primo rigetto di sangue che piovve fra la neve.

Romano si portò il palmo alla bocca, gemette per lo spavento e ricadde all’indietro. Italia emise solo un breve sussulto ma non batté nemmeno le palpebre, quasi non si fosse accorto di quel che era successo.

Russia sorrise a Germania, mentre il ghiaccio tempestava anche nei suoi occhi violacei che avevano assunto le livide sfumature di quel cielo burrascoso. Uno stomachevole odore di sangue e di neve sciolta fumò davanti al suo sguardo, rendendolo ancora più tetro e nebbioso. “Come ci si sente, Germania?” Spinse il tubo più a fondo e più in alto, sotto il costato, fino a che non si udì il cri-crack! di un osso spezzato. Usò la stessa violenza che Germania aveva riversato su di lui a Borodino, quando lo aveva inchiodato a terra con l’affondo di baionetta.

Germania strinse gli occhi, torse il capo di lato, impallidì, e represse un primo rauco gemito di dolore.

Il viso di Russia, livido di rabbia, si rivestì di un’espressione triste, la stessa che aveva mostrato quando era stata Ucraina a rimanere ferita in quella maniera, cadendo dal tetto. “Come ci si sente nel patire un dolore del genere? Te l’avevo detto o no?” Strinse maggiormente la presa, mentre la chiazza di sangue continuava a espandersi, a sciogliere la neve fumante attorno a loro. “Ti avevo giurato che avresti pagato con ogni goccia del tuo sangue per quello che hai fatto a me, alla mia nazione, e alla mia famiglia.”

Germania riaprì gli occhi senza il timore di affrontare quelli di Russia che parevano inghiottirlo nel loro gelo. Si appese con le mani alle sue, fece resistenza indurendo il ventre ma il dolore gli indebolì i muscoli tremanti, risucchiando ogni sua forza. I palmi unti di sangue sdrucciolarono lungo il corpo ghiacciato del tubo affondato nel suo corpo, una mano perse la presa e ricadde sbattendo il dorso sulla neve.

Quella visione – il tunf! della mano che batteva a terra, l’immagine del palmo ritorto e insanguinato rivolto verso l’alto, la percezione di quell’ultimo spasmo che scuoteva le dita – trapassò il cuore di Prussia e gli fu dentro l’anima come una scossa, come una lama che squarcia una ferita vecchia di secoli. Scomparve il pulsare della guancia ferita, il dolore delle sferzate di vento, la sensazione stroncante della prigione di gelo, e la vista sporcata di rosso si strinse solo su quell’immagine, sulla mano di Germania caduta inerte su un campo di battaglia già macchiato del suo stesso sangue.

Con il cuore caduto in fondo allo stomaco, gli uscì solo un mormorio strozzato. “No.” Prussia strisciò in avanti con i gomiti, ricadde di faccia contro un braccio, seminò una striscia di sangue dietro il suo arrancare, e riprese a spingere con suole e ginocchia per alzarsi e raggiungere suo fratello. No, no, non sta succedendo, non sta succedendo. In mezzo a quel nevischio che offuscava i sensi e che evocava le nebbie di un passato lontano, riemersero i ricordi. Ricordi di quando lui stesso aveva raccolto quella mano insanguinata da terra seppur molto più piccola; ricordi del giorno in cui l’aveva stretta trovandola fredda e senza alcun palpito di vita; ricordi della prima volta in cui l’aveva avvolta dopo che il cuore era tornato a battere fra quelle piccole dita; ricordi del giorno in cui era sbocciato quell’inaspettato amore fraterno che lui aveva onorato giurando a se stesso di proteggere per sempre quel bambino che la Storia aveva affidato fra le sue braccia e che ora giaceva sanguinante davanti ai suoi occhi. La paura e il senso di colpevolezza sorsero a gonfiargli il cuore, a renderlo un macigno fra le costole. Non è vero, non è vero! Non sta succedendo!

Russia si voltò verso il povero disperato che stava strisciando loro incontro, arrancando sulle ginocchia e cadendo sui gomiti a ogni piccola spinta. Distese il sorriso che si fece ancora più crudele e tagliente. “Cosa vuoi fare, Prussia? Salvarlo? Proteggerlo da me?” Allentò la presa sul ferro conficcato dentro Germania e compì un passo indietro. “Guardalo bene, allora.” Premette un piede sulla guancia di Germania e gli fece voltare il viso. “Guarda tuo fratello. Sei tu che lo hai ridotto così, sai, non io. Sei tu che gli hai scavato questa strada di ferro e sangue, sei tu che l’hai spinto ad arrivare fino a questo punto.”

Germania si riaggrappò al tubo congelato, stropicciò un grugnito di protesta sotto la suola di Russia, fece forza con le spalle, sollevando la schiena, ma tornò a scivolare nel suo stesso sangue e a cadere sul tappeto di neve.

Russia gli picchiò la punta del piede sul viso. Lo sguardo placido ma crudele ancora rivolto a Prussia. “Non sei felice che tuo fratello morirà su un campo di battaglia? Non sei orgoglioso di lui? Diglielo, dai.” Spremette il piede più a fondo. Una scintilla di gioia balenò attraverso i suoi occhi, ma la sua voce s’incattivì. “Digli quanto sei orgoglioso di lui!”

Davanti allo sguardo allucinato di Prussia le immagini continuavano a scorrere come una condanna. Germania rinato dal corpo di Sacro Romano Impero, il primo momento in cui lo aveva raccolto fra le braccia mentre era avvolto nella veste bianca e pura come la sua resurrezione invece che nella mantella nera come lo era stato il suo tragico destino, quell’attimo in cui lo aveva riconosciuto come un fratello e non come una nazione da combattere e da temere.

Prussia stritolò i pugni nella neve, si lasciò infiammare da una rabbia viscerale, rossa e bruciante come il sangue sciolto sulla sua guancia. Al diavolo l’onore, ringhiò dentro di sé. Al diavolo la battaglia, al diavolo la guerra, al diavolo tutte quelle stupide promesse, al diavolo tutto. Anche a costo di morire qui, non gli permetterò mai di ammazzare mio fratello!

Germania reagì per primo e spinse via Russia con una scalciata in pieno ventre.

Russia barcollò, colto di sorpresa, mollò la presa dal ferro e cadde sul fianco, facendo saltare attorno a sé uno schizzo di neve. La bufera si acquietò, le grida del vento tacquero, e la foschia si diradò, tornando a scoprire i profili di Romano e Italia ancora a terra in mezzo alla neve, immobili.

Prussia schiacciò di nuovo la mano contro la guancia insanguinata, affondando le dita fra i capelli fradici per tenere fermo il giramento di testa, e invocò ogni briciolo di energia per un ultimo slancio verso Russia. Devo raggiungerlo. Cadde di nuovo ma questa volta si tenne in equilibrio su un ginocchio tremante. Devo raggiungerlo e...

Un fischio lo raggiunse, seguito da un grido di Romano. “Ohi, crucco!” Romano sollevò un braccio sopra la testa. Impugnava la sua pistola, quella che si era conteso con Italia, quella che si era ritrovato puntata addosso e che poi era caduta quando Germania li aveva separati. “Al volo!” Gliela scagliò contro.

Prussia seguì il movimento ad arco di quella scintilla roteante, levò anche lui entrambe le braccia, nell’ampio gesto di chi invoca la divina provvidenza, e acchiappò l’arma fra le mani. Le labbra s’incurvarono in un raggiante sorriso di vittoria. Grande, Roma. Raddrizzò la pistola, la impugnò salda lasciandosi irradiare dalla sua forza, dal suo respiro di fuoco, balzò in piedi e avanzò a pesanti e furenti falcate verso Russia che era ancora chino sui gomiti, perso nel suo stordimento. “Ora né la neve né il ghiaccio potranno salvarti.” Gliela puntò alla testa e spinse l’indice sul grilletto.

Russia sollevò lo sguardo di colpo, e lo scoppio gli esplose in testa, rovesciandogli la faccia con quel lampo improvviso e doloroso come uno schiaffo. Ricadde a peso morto sulla neve. Un braccio piegato sopra la spalla e l’altro disteso sul fianco, una guancia girata, e i capelli davanti agli occhi, a nascondere l’ultimo brivido di vita passato attraverso il suo viso. Una chiazza rossa fiorì sotto la sua testa, sciolse la neve e sollevò una leggera condensa che odorava di ferro.

Un urlo straziante lacerò il silenzio ovattato dalla nebbia. “Nooo!” Ucraina, libera dal ghiaccio che la tratteneva a terra, ritirò il braccio con cui si era protesa verso Russia, si tappò la bocca per contenere un gemito di disperazione, e versò una prima ondata di lacrime che rotolò giù dalle palpebre, scivolando sulle guance congelate e fra le dita rese violacee dal freddo. “No.” Corse da lui, si gettò sulla neve sporca di sangue, rintanò il viso nel petto del fratello, e versò tutte le lacrime che aveva in corpo, lacerata dal dolore di chi avrebbe preferito ricevere il proiettile piuttosto che subire quella condanna.

Solo un ultimo e basso ruggito di vento rotolò in mezzo a loro e spirò, lasciando che si ricreasse quell’atmosfera densa e stagnante in cui un respiro era faticoso quanto una boccata sott’acqua.

Romano deglutì, ricacciando indietro il groppo di nausea sorto dallo stomaco. Si rialzò da terra, e il rumore dei suoi passi attraversò il silenzio. “È...” Il suo sguardo si posò sui petali di sangue sempre più larghi attorno al corpo di Russia, si spostò andando in cerca di un’altra presenza di cui non riusciva a percepire il battito vitale, e cadde sul corpo rannicchiato di Spagna che stava ancora tremando e respirando ad affanni, schiacciato contro la parete sfondata dell’isba. Romano si sentì ghiacciare a sua volta. Oh, no. Allungò un passo, ma la presenza di Italia lo trattenne. Guardò dietro di sé, verso suo fratello che ancora giaceva sulle ginocchia, con quello sguardo estraneo perso nel vuoto e sempre contratto dalla ruga di rabbia che prima aveva rivolto contro di lui. Romano strizzò i pugni, scosse la testa disfandosi del bisogno di rimanere con lui, e corse da Spagna.

Si lasciò cadere sulle ginocchia come Ucraina aveva fatto con Russia, lo rialzò da terra, se lo strinse al petto, “Forza, forza, non mi mollare anche tu”, e cominciò a strofinargli la schiena e le spalle per placare quel tormento di brividi ghiacciati che facevano male pure a lui.  

Attorno a loro, il pianto continuo di Ucraina riempiva il silenzio, ed era ancora più tremendo e inesorabile delle grida del vento sotto il quale erano quasi rimasti uccisi.

Prussia riprese fiato a boccate pesanti. Dopo quello slancio disumano con cui si era rialzato solo per far fuoco sul nemico, dopo tutta la rabbia e la paura che si erano combattute nel suo cuore, e dopo la soddisfazione di aver sparato a Russia, il senso di spossatezza tornò a risucchiargli le energie dai muscoli, a fargli giare la testa e a farlo annegare in uno sciame di stelle scoppiettanti. Nonostante il pugno di neve che si era spremuto sulla ferita alla guancia, il sangue ricominciò a colare dalla palpebra fino al mento, il viso si gonfiò, e il respiro si trascinò attraverso le labbra, sempre più lento ed esausto.

Prussia gettò la pistola. Ruzzolò di due passi all’indietro e cadde a sedere sulla neve, senza sentirsi più le gambe. È finita. Batté gli occhi, aveva la vista sfocata. Oltre la coltre di foschia che si era abbassata e diradata, le guglie del Cremlino tornarono a comparire come fantasmi, più vicine e meno irraggiungibili rispetto a come le avevano percepite quando erano entrati a Khimki. Prussia esalò un altro soffio di fiato bianco. Fu liberatorio. “È finita,” rantolò ancora. “West...”

Germania si girò sul fianco e si alzò sulle ginocchia, tenne salde le mani attorno al corpo di ferro aguzzo che Russia gli aveva conficcato sotto il costato, lo sradicò sopprimendo solo un breve lamento, versò altro sangue che andò ad allargare la chiazza scarlatta di cui era impregnata la neve, e gettò via il tubo che rimbalzò due volte per poi giacere immobile. Anche Germania respirò ad affanni, madido di sudore, ma il suo viso sbiancò di colpo e la luce nei suoi occhi sbiadì, assorbendo tutto il pallore della nebbia che ancora gli galleggiava attorno. Si portò una mano alla ferita, strinse la stoffa lacerata da cui sgorgò altro sangue perché la costola rotta gli premeva sul polmone a ogni affanno, dandogli l’impressione di star respirando cocci di vetro. Si arrese a una botta di stordimento che lo fece cadere proprio davanti a Italia.

Italia compì un breve scatto con il capo, frastornato come se si fosse accorto di Germania per la prima volta da quando si erano rincontrati. “Germania?”

Germania batté una volta le palpebre, senza riuscire a guardarlo in volto, e anche lui diede l’impressione di non sapere dove si trovasse. “Italia.” Affondò la mano nella ferita sanguinante, di nuovo preda del velo di ghiaccio risalito attraverso il suo corpo, e soffiò condensa bianca. “Italia.” Si sporse, gli sfiorò la spalla, ma la mano scivolò giù. “Non...” Gli cadde in grembo, abbandonandosi, senza più le forze per risollevarsi.

Italia rinnovò quell’espressione di stupore, nonostante gli occhi ancora freddi e distanti. “Germania.” Gli avvolse le braccia attorno alle spalle, si bagnò del sangue sgorgato sia dalla ferita al costato sia dai laceri con cui le raffiche di ghiaccio lo avevano tagliato durante la bufera, e indugiò con la mano sul suo petto. Quei tremiti scossero anche lui, gli entrarono nel cuore aprendo una minuscola breccia nello strato di ghiaccio che lo rivestiva e rendendo la sua vista più limpida. “Sei ferito.” La sua mano si bagnò, divenne calda. Italia sfilò il braccio dal fianco di Germania e rivolse il palmo verso l’alto. Lo trovò rosso e lucido.

Un rivolo di sangue attraversò la curva del pollice, scese fino al polso e gocciolò a terra aprendo una piccola chiazza nella neve. Italia si affacciò alla sua mano sporca di sangue e fu come affacciarsi a un triste e lontano ricordo del passato. Un ricordo fatto delle lacrime che versava quando era Nonno Roma a tornare a casa ricoperto di ferite del genere, dell’odore delle sue bende macchiate di rosso, dei segni sulla pelle che non se ne sarebbero mai andati, di quel dolore che riusciva a scalfire anche il suo corpo statuario. E della paura che quello stesso dolore si potesse riversare anche su qualcun altro. “Io non voglio vederti stare male come il nonno, non voglio che tu torni a casa ricoperto di ferite come lui”

Quei pensieri gli corsero attraverso come un flusso di acqua tiepida. Sciolsero un primo strato di ghiaccio, frantumarono quella sottile barriera scricchiolante dietro la quale si era nascosto, e lo liberarono da una parte del peso che gli gravava sull’anima, sostituendolo con una sensazione di solitudine e di abbandono, la stessa che Italia aveva provato quando due fra le persone più importanti della sua vita se n’erano andate per non tornare mai più. Quando era stata la guerra a portargliele via.

Italia strinse la mano sul petto e soffocò, morsicato da un crampo di dolore. “Oh...” Le prime lacrime scesero dai suoi occhi di ghiaccio senza che lui nemmeno se ne accorgesse. Questa volta non erano lacrime di rabbia. Oh, no. La sensazione bollente e umida della sua mano bagnata del sangue di Germania riaccese quei ricordi che con tanta fatica teneva sepolti ogni giorno nello scrigno del suo cuore e che ora stavano traboccando come quel pianto incontrollabile. Oh, no, non di nuovo, ti prego. Non portarmi via anche lui.

“Germania!” Italia lo strinse più forte. “Germania!” Gli posò una mano sul viso pallido e rivestito da un velo di ghiaccio sottile come zucchero, gli scostò più volte i capelli dalla fronte. “Germania, ti prego, guardami!” Le lacrime continuavano a correre e a sovrapporsi, nonostante la fredda scheggia di ghiaccio che permaneva nei suoi occhi. “Guardami, ti prego, non andare via.”

Germania fu scosso da un tremore, aggrottò la fronte e fece scivolare la mano che non reggeva la ferita sul braccio di Italia, lasciando un’impronta sulla manica. Era ancora cosciente. “Italia,” ansimò. “Tu...” Si spinse più in avanti con un ginocchio, forzò le spalle doloranti a risollevarsi, andò in cerca del suo sguardo. “Tu devi...” Gli toccò una guancia bagnata di lacrime, sporcandola con una sbavatura di sangue, e ma il braccio tornò a cadere e ad accasciarsi sulla spalla di Italia, privo di forze. Germania esalò un ultimo sospiro, un’ultima scossetta di dolore e fatica che abbandonò il suo corpo martoriato, e lasciò giacere la fronte contro il petto di Italia, chiudendo gli occhi.

Il sangue rimasto sulla guancia di Italia rotolò attraverso la pelle assieme alle lacrime, percorrendo la curva smagrita del viso. Italia si toccò lo zigomo, tornò a portare le dita sporche di sangue davanti allo sguardo, sgranò gli occhi vacillanti, scossi da un’improvvisa ondata di panico, e indurì la stretta delle braccia attorno al corpo inerte di Germania.

Ma Germania era ormai stato risucchiato nell’oscurità del suo tiepido sogno senza ghiaccio e senza dolore. Nemmeno il grido di Italia riuscì a destarlo. “Germania!” Si lasciò invece richiamare da una voce lontana. Una voce che non aveva mai udito ma che gli sembrava più vicina che mai, familiare come se fosse stata la sua.

 

♦♦♦

 

Inizi del 1800

Territori del Sacro Romano Impero

 

Affacciato alla vetrata del palazzo, Sacro Romano Impero fissava il suo pallido riflesso attraversato dalla luce del giorno che stava ingrigendosi su tutto il podere. Sinistri fischi di vento stridettero sul vetro come unghiate, trascinando sul prato le nubi sempre più gonfie e vicine che erano sorte da dietro la corona di abeti piantati sulla curva d’orizzonte, dove cominciava la foresta. I fili d’erba scossi dalle manate d’aria assunsero sfumature più chiare, quasi argentee, che percorsero il giardino in una serie di onde sovrapposte, come la risacca di un mare in burrasca.

I primi rombi di tuono già brontolarono dietro il boschetto dove erano allestite le scuderie. Prima di rientrare in casa, Sacro Romano Impero aveva inspirato a lungo l’odore della pioggia in arrivo, trattenuta dai nuvoloni. Un odore trasportato dal vento che gli aveva scosso il mantello durante la corsa nel prato e che gli era soffiato in faccia, dispettoso, asciugandogli le lacrime prima ancora che lui avesse avuto la possibilità di cominciare a piangere.

Italia invece aveva pianto. Aveva pianto circondata dai colori dei fiori primaverili che di solito raccoglieva per comporre mazzi da portare o in tavola o nelle camere, aveva pianto strofinandosi gli occhietti umidi e singhiozzando di dolore. Quel pomeriggio non aveva più colto neanche una margherita, né da infilare in un vaso né da pinzare fra i capelli castani, sotto la bandana. Italia aveva pianto di nuovo e quelle lacrime erano cadute dure sul cuore di Sacro Romano Impero, ancora più tristi della pioggia che le nuvole stavano per strizzare su tutta la foresta.

Sacro Romano Impero posò la mano sulla vetrata, coprì l’immagine della chiazza di fiori su cui era rimasto il segno delle sue impronte e anche di quelle di Italia. Ogni oscillazione dei fili d’erba sotto la spinta del vento era un affondo nel cuore. E così, è successo di nuovo. Deglutì per ricacciare indietro l’aspro sapore di quel suo pianto represso. Ho fatto di nuovo piangere Italia. Se n’è andata piangendo e io sono stato per l’ennesima volta la causa del suo dolore. Sospirò e chinò lo sguardo, accostò la fronte al vetro e tenne gli occhi socchiusi, rivolti distrattamente al maltempo, ai fiori che si stavano richiudendo, a quella primavera che già sapeva si sarebbe rivelata la più miserabile della sua vita. Si diede coraggio. Ma questa volta è diverso, questa volta va bene così. Non sarà stato un dolore inutile, né quello che ha provato lei né quello che sto provando io, perché ora so davvero cosa fare perché Italia non soffra mai più. Strinse il pugno, aggrottò la fronte, e quella forza appena sorta dal suo cuore ferito gli rischiarì l’azzurro delle iridi. So cosa fare per non rendermi mai più la causa del suo dolore, ma solo della sua felicità.

I corti e cadenzati passi di Austria lo raggiunsero alle sue spalle, varcarono la porta della camera che Sacro Romano Impero aveva lasciato aperta. “Le hai parlato?” La porta si richiuse solo con un lieve cigolio, con un accostamento della serratura che produsse uno schiocco ovattato. Austria attraversò la camera – Sacro Romano Impero lo spiò attraverso il suo riflesso sul vetro – e spinse gli occhiali all’indietro, gettando sul suo viso un’ombra di preoccupazione. “Ti ho visto correre da lei, poco fa. E Italia non è ancora rientrata in casa, Ungheria non è riuscita a trovarla nemmeno nelle cucine. Immagino...” Fece scivolare la mano dalla montatura, si mise a braccia conserte in quella sua posa austera, ma i suoi occhi si ammorbidirono. Il tono di voce stranamente comprensivo. “Immagino che tu alla fine glielo abbia chiesto.”

Il dolore di quel ricordo affondò nel petto di Sacro Romano Impero come un pugno fra le costole. Il braccio che lui aveva teso verso Italia, la mano aperta che lei non aveva voluto stringere, la sua testolina che faceva no, e gli occhi che si erano subito inumiditi di lacrime, evitando il suo sguardo speranzoso che alla fine aveva respinto. Sacro Romano Impero sospirò. “Italia ha rifiutato. Non mi seguirà in battaglia, non si alleerà con me. Non ci sarà alcun tentativo di ricreare le fondamenta dell’Impero Romano.” Lasciò scivolare la mano giù dal vetro, e fronteggiò di nuovo il suo riflesso, quell’espressione già plasmata dalla malinconia e dal dolore della distanza. “Non con uno sforzo comune fra noi due, per lo meno.”

Austria socchiuse le palpebre, ridivenne scostante. “Immagino sarai addolorato.” Raggiunse la parete opposta alla vetrata che dava sul giardino, riannodò il laccio di una tenda di velluto e sistemò la grata del camino che ormai non accendevano da settimane. “Per lo meno deluso.”

Sacro Romano Impero annuì. “All’inizio lo ero. Profondamente.” Un altro fischio di vento stridette e scricchiolò sulla vetrata. Fu lo stesso doloroso suono che aveva frantumato il suo cuore davanti al rifiuto di Italia. “Poi però ho riflettuto.” Di nuovo il suo sguardo volse all’orizzonte macchiato dal maltempo, al bosco che avrebbe attraversato assieme al suo esercito, alle terre su cui avrebbe combattuto, spanto sangue e seminato cadaveri. Non ne ebbe paura. “La guerra che sto per intraprendere porterà cambiamenti enormi. Per raggiungere questi cambiamenti, dovrò pagare col mio stesso sangue, con la mia stessa sofferenza, e con infiniti sacrifici. Io so di possedere ancora molte debolezze, e non voglio che queste mie fragilità si riversino su Italia, soprattutto ora che l’Europa si sta trasformando in un panorama sempre più ostile, popolato da potenze sempre più aggressive e avide di conquiste e prestigio. Me ne rendo conto...” Strinse i pugni contro i fianchi. Solo un brivido discese la nuca, freddo come un bacio di neve. “Perché anche io sono uno di loro.”

Austria aggrottò le sopracciglia, ma non disse nulla.

Sacro Romano Impero si voltò a fronteggiarlo. Circondato dalla luce della vetrata, in piedi davanti al cielo annuvolato, con i pugni ancora stretti ai fianchi, un’aura di forza a brillargli attorno, e quell’espressione nobile a plasmargli i tratti del volto ancora candido e fragile, da bambino, apparve più adulto di quanto non lo fosse mai stato. “Ho deciso che andrò in guerra da solo, qualunque conseguenza dovesse comportare la mia decisione. Il mio sarà l’unico sangue a scorrere, la mia sarà l’unica vita a rischiare di spegnersi. Non sarò io a coinvolgere Italia, se non è questo quello che lei desidera. Italia non dovrà mai più soffrire per causa mia. ”

Sul volto di Austria rimase a traballare quella ruga d’incertezza, quel palpito d’incomprensione. “Perché?” gli domandò. “Perché stai rischiando tutto questo? Perché stai accettando di affrontare una guerra da solo?” Compì un passo più vicino a lui, abbassò il tono. “Una guerra che per di più potrebbe potenzialmente ucciderti.”

Fuori dalla finestra il vento s’innalzò con un altro grido stridente, e il fruscio degli abeti frustati dall’aria della sera riempì il silenzio della stanza.

Lo sguardo di Sacro Romano Impero si rasserenò. Le labbra s’incurvarono in uno dei suoi rari sorrisi. “Perché io amo Italia.” Ma fu un sorriso dolce e sincero che seppe sciogliergli il cuore e riempirgli l’animo. La amo, ripeté a se stesso. Io ora so di per certo di amare Italia, so che non ho mai provato un sentimento tanto puro nei confronti di qualcun altro. Per questo so di star intraprendendo la strada giusta. “Io ho sempre combattuto per me stesso,” disse ancora, rivolto ad Austria, “per gli ideali e i valori attraverso cui i miei comandanti mi hanno guidato, per seguire le volontà dei miei sovrani, per il bene del Paese che sto cercando di ampliare e consolidare, per tutte le terre che ho conquistato e che ora sto mantenendo.” Sciolse un pugno e si posò la mano sul petto. Per la prima volta, sentì il cuore battere anche per qualcun altro. “Ma per la prima volta in tutta la mia vita ora però sento di voler combattere per qualcosa che va oltre la guerra stessa, oltre il mio istinto da nazione, oltre gli ordini di chi mi governa. Sento di voler combattere per qualcuno. Italia mi ha donato una nuova motivazione non solo per combattere e per sopravvivere, ma anche per vivere.” Tornò ad affacciarsi alla vetrata, a scrutare la chiazza di fiori nel giardino, a cercare la sua ombra, il suo sorriso. “Le sarò eternamente grato di questo,” confessò, “perché ora sono consapevole che non ci sarà nulla che potrà uccidere la mia anima, anche se il mio corpo non dovesse farcela. Qualsiasi sorte dovrò affrontare durante queste battaglie, so che avrò vissuto per una buona causa. Forse per la causa più nobile per la quale io abbia mai combattuto, perché ora so.”

Austria inarcò un sopracciglio. “Sai che cosa?”

Sacro Romano Impero chiuse gli occhi, rinnovò il sorriso, e impresse dentro di sé il ricordo di Italia, quelle parole che si erano scambiati poco prima e che gli avrebbero donato la forza di combattere per il resto dei suoi giorni. “So che anche Italia mi ama.”

Italia aveva pianto, “Io non voglio vederti stare male come il nonno, non voglio che tu torni a casa ricoperto di ferite come lui”, aveva raccolto le piccole mani di Sacro Romano Impero fra le sue, come per non farlo fuggire, e gli aveva scaldato il cuore con quel sorriso ancora bagnato di lacrime, “Io non voglio che tu diventi più forte, tu mi piaci già così come sei”. Quel tepore formicolava ancora fra le mani di Sacro Romano Impero, vivo come il senso di sollievo e leggerezza che aveva provato nel tenere le mani fra le sue, nel rendersi conto di non volerla abbandonare, di volerla vedere sempre sorridente, lontana da tutto quello che avrebbe potuto farle del male.

Sacro Romano Impero inspirò a fondo, strinse di nuovo la mano sul petto. “Il pensiero di vedere Italia ricoperta di ferite, di vederla sanguinare, di vederla piangere e di non poter far nulla per proteggerla, fa molto più male rispetto all’idea di dovermi separare da lei, anche se per poco. Per questo preferisco che rimanga qui al sicuro piuttosto che corra pericoli. Voglio che rimanga lontana dai campi di battaglia, perché non è quello il suo ambiente.” Non era ai campi di battaglia che pensava quando le teneva la mano, quando la spiava dipingere da dietro le porte del palazzo, quando la vedeva sorridere in mezzo al prato soleggiato reggendo un mazzo di fiori fra le piccole braccia. Sacro Romano Impero scosse il capo. “Non è su un suolo di guerra che il suo animo può risplendere. E io sono disposto persino a rinunciare a lei se questo significa salvarla.”

Austria corrugò la fronte in una severa espressione di disappunto. “Non potrai proteggerla per sempre.”

“Ma voglio comunque proteggerla sia dalle crudeltà del mondo che da me stesso,” rispose Sacro Romano Impero. “Questo è l’unico modo che conosco per esprimere il mio amore nei suoi confronti. Perché anche io...” Schiuse la mano, distese le dita ed espose il palmo alla grigia luce del giorno. Immaginò la pelle gocciolante di sangue, del suo e di quello dei suoi nemici. Un altro brivido discese la schiena, annodandosi nello stomaco e rendendo il suo sguardo più buio, gli occhi più freddi. “Anche io sento di racchiudere dentro di me quelle crudeltà da cui voglio proteggerla.”

“E come speri che Italia possa rimanere al sicuro anche da te, allora?”

“Io...” Uno spasmo d’incertezza punse il cuore di Sacro Romano Impero, lo fece ritornare piccolo e vulnerabile. Lui chinò lo sguardo, tornò a serrare i pugni, a stringersi nelle spalle. “Io non ne sono sicuro. Ma so che Italia ha acceso dentro di me la capacità di amare, una capacità che nemmeno io credevo di possedere.” Scosse il capo, rifiutando quel triste senso di colpa che pesava come un macigno. “Non mi importa se è proibito o immorale, non mi importa se non dovrebbe succedere fra nazioni. Io la amo, e non può esserci nulla di sbagliato in un sentimento del genere.”

“Italia è una nazione.” Austria tenne le braccia conserte, la postura rigida. Da dietro le lenti, gli rivolse un’occhiata austera, seppur comprensiva. Dura come la realtà che un giorno avrebbe dovuto affrontare. “È una nazione come te. Non potrai tenerla al sicuro per sempre, non potrai impedire che la guerra raggiunga anche il suo paese, nulla potrà impedire che ciò accada. Il conflitto, il dolore, e l’evoluzione che ne deriva... tutto questo parte della nostra natura, è inevitabile.” Anche lui si portò davanti alla vetrata, affacciandosi al prato sferzato dalle folate di vento. “La tua è una mera utopia. Per quanto tu possa crescere ed espanderti, questa è una legge a cui nemmeno il più forte può sottrarsi.”

“Può darsi.” Fra le labbra di Sacro Romano Impero sbocciò un piccolo sorriso speranzoso. Lui risollevò lo sguardo, e i suoi occhi tornarono a brillare come specchi d’acqua. “O può darsi di no. Se io diventassi davvero il più forte, potrei costruire un mondo dove non è più necessario scatenare delle guerre per poter mantenere la pace, un mondo dove io e Italia potremo vivere assieme, dove lei non piangerà più, dove non dovrà spandere nemmeno una goccia di sangue, dove potrà sempre sorridere ed essere felice.” Si allontanò dalla vetrata, seguito dalla sua ombra che s’ingigantì fino a toccare il soffitto. “Se prima volevo ricreare l’Impero Romano solo per compiacere la mia avidità, il mio desiderio di espansione, e la mia volontà di potenza, ora invece lo desidero anche per lei. E sento che questo renderà più nobile il mio intento.” Accostò di nuovo una mano al petto e la strinse, siglò quel giuramento sul suo stesso cuore. “Lo giuro sul mio onore.” Raddrizzò il capo e allargò le spalle, circondandosi di un’aura solenne. “Giuro sul mio onore che Italia non soffrirà mai più a causa mia, che non verserà mai più lacrime per i miei errori. Io sopravvivrò alla guerra, a qualunque costo. E giuro che tornerò. Tornerò a casa, tornerò da lei, e allora troverò il coraggio di chiederglielo di nuovo. Le chiederò di unirsi a me e di fondare un Impero ancora più vasto e potente dell’Antica Roma. Un Impero che saprà regnare sugli altri paesi senza guerre, senza odio, ma che invece saprà riunire popoli dominando con giustizia e pace. Un definitivo impero millenario che vivrà in eterno.” Si voltò a rivolgere ad Austria uno sguardo illuminato dalla speranza. “Quando tornerò dalla guerra sarò diventato più forte. E allora potrò considerarmi degno di stringere la mano di Italia, di tenerla fra le mie braccia senza la paura di farle del male.”

Austria sgranò gli occhi e si soffermò sul suo profilo, su quell’energia che era irradiata fino a lui, lasciandolo a labbra socchiuse, senza fiato. Sacro Romano Impero apparve più adulto davanti al suo sguardo, già cresciuto. Il viso intagliato da lineamenti nobili e teutonici, simili a quelli di Prussia, i capelli dorati e radiosi come la ricchezza dell’impero che incarnava, gli occhi azzurri rischiariti dal coraggio che li faceva apparire più brillanti, senza alcuna ombra di conflitto a intaccarne la purezza.

Quel pensiero intristì Austria ancora di più. No, ti sbagli. Non trovò il coraggio di dirglielo ad alta voce. Tu sei un impero che è stato forgiato grazie alle guerre, per mano di un popolo che non desidera altro che combattere e affermare la sua identità soggiogando una terra dietro l’altra. Tu hai sangue prussiano nelle vene, non sei fatto per l’amore ma per i conflitti, e scegliendo una strada che va contro la tua stessa natura non farai altro che portarti da solo alla rovina. Si ritrovò a sospirare per lo sconforto. Tuttavia... “E se non dovessi più tornare?” Austria si lasciò comunque toccare da un moto di compassione nei suoi confronti, nei confronti di un fato così avverso. “Se la guerra finisse per ucciderti?”

Sacro Romano Impero svelò un sorriso triste per nascondere la paura celata nei suoi occhi. “Allora lo saprò di per certo.” Un singhiozzo di temporale tambureggiò fuori dal palazzo, seguito da uno scroscio di vento che fece traballare le vetrate. Sacro Romano Impero trasse un sospiro che acquietò il battito del suo cuore, e si lasciò abbracciare da un sentimento di pace e rassegnazione. “Saprò che il mio destino non è mai stato quello di intrecciarsi alla vita di Italia. Saprò che i nostri destini appartengono a due strade differenti, che io non merito di averla affianco, e che una nazione non può permettersi di vivere guidata da sentimenti umani. E allora la lascerò andare.”

Si accostò alla parete, aprì la mano sotto la cornice di uno dei quadri appesi affianco al caminetto – paesaggi di boschi bavaresi, tramonti su montagne innevate, e contadini che aravano campi – e strofinò una carezza sulla pietra.  Impresse dentro di sé il ricordo di quel luogo, i colori scarlatti della tappezzeria, il profumo di velluto, dei mobili di legno, della cera delle candele, della vernice dei dipinti, della cenere del camino, e quello più fresco dei fiori appena colti. Si domandò quanto tempo sarebbe passato prima di potervi far ritorno.

“Tuttavia,” disse Sacro Romano Impero, “anche se dovesse succedere, anche se dovessi accettare di separarmi da Italia per il suo bene, anche se le nostre due nazioni un giorno si ritroveranno a essere nemiche, e anche se dovessi morire...” Scosse il capo. Ritrovò una pace che lo avrebbe guidato in tutte le guerre avvenire. “Non smetterò mai di amarla. Anche oltre la morte.”

 

♦♦♦

 

Furono le lacrime di Italia a risvegliarlo. Il lento e caldo picchiettare di quel pianto sul suo viso congelato, un lamento singhiozzante che aveva già udito e che pareva provenire da un luogo lontano, come un eco. “... Germania.” Italia gli strinse le braccia attorno, sporcandosi di tutto il suo sangue e bagnandolo a sua volta con le sue lacrime che non smettevano di gocciolare.

Il tepore dell’abbraccio di Italia riportò Germania a galla. Il tepore delle sue lacrime che scorrevano fra i loro volti uniti, quello del suo corpo che lo teneva stretto, e quello della sua voce triste e singhiozzante che pareva averlo inseguito nell’Aldilà solo per riportarlo indietro. “Germania.” Altri singhiozzi soffocarono fra le labbra tremolanti e altre lacrime vennero giù abbondanti e pesanti come ghiaccio sciolto. “Germania, apri gli occhi,” pigolò Italia. “Apri gli occhi, ti prego. Torna.” Gli strinse una mano fra i capelli, giunse la guancia alla sua, più fredda, gli carezzò più volte la nuca e continuò a piangere, a scuoterlo con i suoi singhiozzi. “Torna.”

Rianimato da una scossa di vita, Germania schiuse le palpebre e fece ritorno. “I-Italia.” Nonostante il pallore grigiastro del viso che soffriva per il gelo, per il dolore e per la perdita di sangue, i suoi occhi si aggrapparono alla luce, andarono in cerca di Italia. “Sei...” Fece scivolare la fronte dalla sua spalla, sfiorandogli il respiro con il suo.  “Stai bene?”

Italia sussultò. “Germania!” Gli gettò le braccia al collo, e lo strinse forte, quasi per paura che potesse tornare a perdersi, per paura di non essere più in grado di farlo tornare.

Germania gemette – il dolore della ferita era ancora affondato dentro di lui come la lama di un pugnale –, ma la tensione dei suoi muscoli si rilassò. Lui tornò a chiudere gli occhi e si arrese con un sospiro, stringendo a sua volta un braccio attorno a Italia e abbandonandosi al calore di quel legame e a quella struggente e inspiegabile sensazione di nostalgia che lo aveva accompagnato anche dopo essere svenuto. Una sensazione sfuggevole come il sogno che aveva fatto e nel quale si sentiva ancora galleggiare, come in un limbo.

“West.”

Germania fece solo in tempo a voltare lo sguardo verso il richiamo di Prussia che anche le braccia di suo fratello gli furono subito attorno alle spalle, più salde di quelle di Italia ma altrettanto calde. La guancia ferita e insanguinata toccò la sua, trasmettendogli la cedevole e scivolosa sensazione di umido, e il suo respiro rauco gli soffiò nell’orecchio. “Grazie al cielo.” Gli diede due pacche fra le scapole. “Grazie al cielo, grazie al cielo.”

“Ma cosa...” Germania inspirò dalle labbra, soffocato dalle due paia di braccia che se lo stavano contendendo. “Cos’è successo?” Risollevò le spalle, nonostante la scossa di dolore al torso, e si guardò attorno. “Dov’è...”

“Russia!”

Di nuovo tutti si voltarono, richiamati dalla voce di Ucraina ancora spezzata dal pianto.

Russia rinvenne fra le braccia della sorella. Riaprì gli occhi nella maschera di sangue spurgata dalla ferita alla testa – i capelli fradici, diventati color del rame, incollati alla fronte e alle tempie, due fiochi spicchi di luce a traballare fra le palpebre, e la neve sciolta a gocciolare dalle guance e dalle ciocche. Si portò una mano alla testa, gemette e ritirò il tocco, come se si fosse punto, e si massaggiò sull’altro lato, dove il sangue era meno abbondante. Mugugnò un lamento trascinato. “La testa.” Scosse il capo, batté una palpebra alla volta, ancora stordito, e la nebbia di dolore di cui erano velati i suoi occhi cominciò a dissolversi.

Prussia spalancò la bocca in un muto ansito d’incredulità che gli fece cadere il cuore nello stomaco. Si sentì sprofondare nella neve, in quella tomba di freddo e una spina di ghiaccio gli penetrò la nuca, facendogli salire la pelle d’oca. Non ci capì nulla. Come... Strinse i pugni, soppresse un altro brivido, si costrinse a ricominciare a respirare per non sentire i polmoni andare a fuoco, ma non riuscì a scollare lo sguardo sgranato da Russia, dai suoi occhi di nuovo aperti. No, impossibile, non può essere ancora vivo, gli ho piantato una pallottola nel cranio, dovrebbe essere stecchito, come può...

L’istante in cui aveva fatto fuoco tornò a sfrecciargli davanti in una serie di immagini lampeggianti. Le sue mani spalancate verso la pistola lanciata da Romano, la presa serrata sull’arma che gli aveva dato la carica per rimettersi in piedi, i pochi passi con cui si era portato davanti a Russia, il gesto con cui gli aveva puntato la canna alla testa, e l’attimo in cui Russia aveva voltato il viso poco prima che lui premesse il grilletto. Il lampo esploso davanti agli occhi, la mira spostata sulla tempia, e il contraccolpo che aveva spinto Russia a cadere di schiena. Non l’ho colpito, realizzò Prussia. L’ho solo preso di striscio. Si lasciò cadere seduto, di nuovo svuotato. Strizzò i pugni nel ghiaccio, e un fuoco di rabbia e frustrazione gli sfrigolò attraverso il sangue, sciolse la vampata di gelo che lo aveva schiaffeggiato quando Russia era rinvenuto, e gli arse attorno, tanto rovente da poter friggere tutta la neve caduta sul villaggio. Non è possibile, era a un millimetro da me e l’ho mancato, porca...

“Prussia!” La voce di Romano tornò a chiamarlo come quando era successo prima che gli lanciasse la pistola.

Romano si strinse un braccio di Spagna attorno al collo, lo sorresse per un fianco dopo averlo fatto alzare da terra, arretrò per appoggiarsi allo spigolo dell’isba e non perdere l’equilibrio, e inviò più volte un cenno di mento a Prussia, indicando l’uscita del villaggio e incitandolo a raggiungerli. I suoi occhi ardevano d’impazienza.

Prussia annuì. Messaggio ricevuto. “West.” Ignorò Russia, ingoiò il senso di sconfitta che avrebbe potuto compensare provando ad ammazzarlo in una seconda occasione, in un’altra battaglia, e si girò a strattonare una manica di Germania. “Svelto, andiamocene da qui.” Si rialzò. La presa scivolò dalla giacca di Germania, lasciandolo a terra assieme a Italia, e Prussia dovette tornare a chinarsi per scuotergli una spalla. “Andiamocene finché siamo in tempo. Prendi Ita e...”

“No.” Germania non si lasciò trascinare. Rimase a terra, aggrappato alle braccia di Italia che ancora gli tremavano attorno alle spalle, legato a quel senso di completezza e di tepore che provava nel percepirlo di nuovo al suo fianco. Il gelo attorno a loro tornò ad abbassarsi, l’aria si condensò, si fece densa e silenziosa, isolandoli nuovamente in un luogo dove esistevano solo loro due. “Italia.” Germania dovette fare ancora pressione sulla ferita che non la smetteva di sanguinare e di affondare dentro di lui a ogni respiro trascinato. Ricominciò a girargli la testa, a farsi ovattata e pesante, a risucchiarlo dall’altra parte. Non voleva che ricapitasse, non voleva di nuovo lasciare Italia, non prima di avergli parlato.

Germania toccò il viso di Italia, gli sfiorò le ciocche di capelli, aggrappandosi ancora una volta al sollievo di essere lì con lui. “Se tu non vuoi tornare indietro...” Inspirò a fondo ma il dolore della costola spezzata gli affondò nel fianco. Dovette ingoiare un groppo di sangue. “Io non ti costringerò,” disse sforzandosi di mantenere ferma la voce. “Perché io non sono stato in grado di proteggerti e non ho...” Un altro fremito affondò nel suo ventre ferito. “Non ho mantenuto la promessa che ti avevo fatto quando abbiamo siglato l’alleanza. Se... se separarti da me significa la tua salvezza, allora non mi opporrò, ma voglio...” Un’altra botta di vertigini lo fece vacillare. Il suo viso divenne freddo e formicolante, la vista chiazzata di nero, e il corpo molle. Germania dovette guadagnare un profondo respiro dalle narici per non sentirsi mancare. “Ma voglio che tu almeno sappia...” Un’azzannata di dolore affondò nella ferita. Dovette tornare a stringerla. “Che tu sappia perché ho tentato di salvarti fino... fino a questo punto.” La mano accostata al viso di Italia distese la carezza attraverso la guancia, passò attraverso i capelli e gli sorresse la nuca.

Nello sguardo di Italia permase quella scintilla di stordimento che lo faceva apparire distante, ma anche lui toccò la mano tremante di Germania, non gli permise di separarla dal suo viso ancora umido di lacrime e sangue. Se la tenne stretta. “Germania.”

Un altro brivido di Germania. Un’altra profonda espressione di dolore a segnargli il volto. Germania sollevò i suoi limpidi occhi azzurri e incontrò lo sguardo di Italia, abbandonandosi. I visi vicinissimi. “Italia.” Strinse la mano avvolta attorno alla sua nuca, chiuse l’abbraccio attorno al suo corpo tremolante, premette il viso contro la sua spalla, e si appese a quel legame che, in quel momento, era l’unica cosa al mondo che contasse. “Io ho bisogno di te.” La voce ferma ma guidata dai profondi e sinceri battiti del suo cuore. “Ma non per vincere la guerra, non per rendere la mia nazione più forte, non per sfruttare il tuo paese per le mie conquiste. Io ho bisogno di te perché tu possiedi una forza che io non ho, che nessuno di noi ha. E quando affronto una guerra, quando rischio la vita sui campi di battaglia, sei tu che mi dai la forza di sopravvivere. Tu non sei uno strumento.” Lo strinse più forte, toccandogli di nuovo la guancia con la sua, non per trasmettergli coraggio ma per aggrapparsi a una forza che lui sapeva di non possedere. “Tu non sei una nazione debole.” Scosse il capo. Il viso di nuovo contratto dal dolore del rimorso. “Non sei una nazione codarda, non sei solo una consolazione, tu non sei inferiore a nessuno. Per questo il tuo paese ha bisogno di te, tuo fratello ha bisogno di te, tutta la tua gente ha bisogno di te. E dopo tutto quello che ci siamo ripromessi...” Lasciò scivolare una mano tremante in tasca, sporcando anche quella di sangue, e si appese al piccolo oggetto che custodiva al suo interno. “Dopo tutti gli errori del passato che abbiamo giurato di non ricommettere mai più, dopo tutte le promesse su cui abbiamo fondato la nostra alleanza...” Estrasse la mano aggrappata a un sottile filo d’argento che pendeva fra le dita. “Non lasciare che sia proprio una guerra a dividerci.” Accostò il pugno alla mano di Italia, lo schiuse, e fece cadere l’oggetto tintinnante all’interno del suo palmo.

Italia abbassò lo sguardo, andando incontro alla scintilla che era brillata sulla sua mano. I suoi occhi si spalancarono, un battito venne meno, e lo stupore fu tale da fargli credere che dentro di lui si fosse accesa una luce di cui non conosceva l’esistenza. “La mia...” Strinse la mano, riconobbe la sensazione familiare dei bracci della croce di ferro che gli pungevano le dita, quella più sottile e fredda della catenina, il peso che di solito teneva appeso al collo. “La mia croce.” Un altro incontrollabile velo di lacrime pungenti salì a bagnargli gli occhi.

Germania lasciò cadere il capo in avanti. Un gesto di sconfitta. “Non sono stato in grado di proteggerti,” mormorò con fiato corto. “Ti hanno rapito, avrebbero potuto farti del male, avrebbero potuto ucciderti, e io non sono stato in grado di fare nulla per salvarti. Se decidessi di separarti da me, lo capirei.” Batté le palpebre su cui era rimasto cristallizzato un sottile strato di ghiaccio. I suoi occhi si bagnarono di colpevolezza. “Perdonami, Italia.” Si abbandonò di nuovo con la fronte contro il suo petto. Non provò alcun desiderio di tirarsi su. “Perdonami.”

La mano di Italia, quella che impugnava la croce di ferro, tremò come se stesse reggendo un intero mondo fra le dita. Un mondo che ora gli veniva restituito. “I-io...” Il ghiaccio si sciolse dal suo cuore, facendolo tornare alla luce. Italia dovette prendersi il petto, stritolare quel dolore, “Aah!”, e fu lui ad accasciarsi fra le braccia di Germania.

“Italia!” Germania lo sostenne, lo strinse forte dimenticandosi di qualsiasi dolore, di qualsiasi ferita.

Italia riaprì gli occhi, e la vista annacquata dal pianto si affacciò di nuovo alla croce di ferro ancora racchiusa fra le sue mani, a quel piccolo oggetto che aveva scatenato dentro di lui una bufera di sentimenti contrastanti, caldi e freddi, dolci e amari, gioiosi e disperati. Pianse per tutto quello che aveva fatto e che stava per fare, per tutto quello che aveva detto nei confronti del suo paese, di suo fratello, dei suoi alleati, e di Germania. Per aver dubitato anche solo per un istante dell’affetto nei suoi confronti. Per aver quasi commesso quello che si sarebbe rivelato come l’errore più grande della sua vita. “Germania...” Serrò il pugno sulla croce di ferro che era tornata a essere l’oggetto più prezioso del mondo. C’era solo una cosa che sentiva di volergli dire. “Voglio andare a casa.” Per la prima volta dopo mesi, respirò a pieni polmoni, annegando nel profumo di Germania che persisteva nonostante i vestiti sporchi di sangue e bagnati di neve. Inspirò un profumo fresco di una nostalgia tale da straziargli l’anima. Inspirò il profumo della libertà. “Andiamo via.” Singhiozzò ancora, gli strinse le braccia attorno alle spalle. Espresse solo un desiderio. “Portami a casa.”

Quella frase fu un pugno di tristezza affondato nella pancia di Germania. Germania si girò a incrociare lo sguardo con Prussia. Prussia annuì, sollevò gli occhi e attraversò la foschia per raggiungere Romano e Spagna. Ricevette un altro cenno d’assenso da parte di entrambi. Non c’era altro da fare.

Prussia si rialzò per primo. Lui e Italia sorressero Germania un braccio ciascuno, lo fecero alzare senza che lui sforzasse troppo i muscoli addominali – Italia lo aiutò a tenere tappata la ferita – e tutti e tre si lasciarono guidare dallo sguardo di Romano che li aspettava assieme a Spagna sotto la parete dell’isba.

Camminarono davanti a Ucraina e Russia, impressero le loro impronte nella neve sporca di sangue. Germania rivolse a Ucraina un’espressione così fredda che avrebbe potuto congelarle il cuore. “Tornatene a casa, se è questo che desideri.” Il suo ultimo sguardo andò alle guglie del Cremlino che foravano le nuvole. S’impresse quella visione nell’anima, dove un brivido di amarezza si era fossilizzato e ora rodeva facendo ancora più male della costola rotta che spingeva sul torso. Non gli era stato concesso di toccare quelle guglie, di pestare i suoi passi sulle strade innevate di Mosca, di guidare i suoi panzer e i suoi soldati fin dentro la Piazza Rossa, di ergersi vittorioso sulla capitale sovietica e di portare la sua nazione alla gloria definitiva. Ma Italia era di nuovo al suo fianco, entrambi si sorreggevano a vicenda, sarebbero tornati indietro assieme, e quello straziante senso di vuoto che aveva provato nel vederselo strappare via dalle braccia era stato colmato. “Io ho ottenuto quello che volevo.” Attraversarono la nebbia, il silenzio di quel piccolo campo di battaglia macchiato di lacrime e sangue, e incalzarono la marcia verso casa.

Ucraina si appese a Russia, spinse il viso contro il suo petto, inspirò dalla sua sciarpa macchiata di sangue, gli strinse forte le braccia strofinandogli energiche e disperate carezze lungo la schiena, e sospirò un ultimo singhiozzo che le incurvò le labbra in un sorriso di sollievo.

Russia non reagì, non la abbracciò, non la guardava nemmeno. Guardava Germania attraverso la patina umida e scarlatta che gli bagnava gli occhi; guardava il suo profilo che si allontanava, ancora in piedi nonostante la scia di sangue seminata dai suoi passi; guardava lui e Prussia e Italia che raggiungevano Romano e Spagna; guardava il sollievo dipinto nelle loro espressioni di nuovo distese nonostante la sconfitta; guardava gli abbracci e le piccole pacche sulla schiena che si scambiavano per incoraggiarsi ad andare avanti nonostante tutto; guardava Romano mentre si strofinava gli occhi umidi di lacrime che a stento aveva trattenuto dopo aver stretto suo fratello fra le braccia; guardava tutto quell’amore espresso attraverso piccoli gesti. Guardava tutto quello che lui non avrebbe mai avuto, tutto quello che più gli faceva male.

Ho vinto la battaglia, si disse, incapace di reprimere quel conato di odio e di tristezza. Ma non ho sconfitto Germania. La guerra non è ancora finita.

“Russia.” Ucraina sciolse l’abbraccio e gli raccolse una mano, spingendosi sulle ginocchia per rialzarsi. “Russia, andiamo,” lo incitò. “Torniamo a casa, ormai è finita.”

L’espressione di Russia non mutò, vacua come quella di un sonnambulo. I suoi occhi sporchi di sangue si posarono sul viso di Ucraina, si soffermarono sulla guancia leggermente più gonfia protetta da un bendaggio. Le sue palpebre compirono uno scatto, riaccesero una minuscola scintilla nel suo sguardo. “Sei ferita.” Distese il braccio e le toccò la guancia, lasciando un’impronta rossa sulla garza. “Ti hanno fatto del male.”

Ucraina lo rassicurò con un sorriso sincero. Scosse il capo. “Non importa.” Gli raccolse la mano che lui aveva posato sulla sua guancia e la baciò. “Ora non importa, non importa più. Dobbiamo solo...”

“Ti hanno fatto del male.” Il vuoto negli occhi di Russia si riempì di angoscia. “Ed è tutta colpa mia.”

Scricchiolii sinistri attraversarono il fondo di ghiaccio che rivestiva il suolo, spaccarono larghe venature grigie che diedero alla neve solidificata un aspetto marmoreo, e ramificarono tutt’attorno a Russia, crescendo di nuovo in quel respiro di bufera che si fece sempre più freddo e sempre più denso attorno al suo dolore.

Ucraina rabbrividì di nuovo com’era successo durante la prima raffica di ghiaccio e neve che aveva travolto anche lei. “No.” Si strinse a Russia prima che lui potesse tornare a perdersi nel suo gelo. “No, non è vero. Separarmi da voi è stata una mia scelta, tu non hai colpe, ma adesso è tutto finito. Ora siamo di nuovo assieme e conta solo questo.” Tutta la gioia che le aveva infiammato le guance e il cuore nel rivedere Russia sbiadì, soffiata via da una nuova zaffata di terrore. Non doveva riaccadere, non doveva. “Torniamo a casa, ti prego.”

“No.” Russia scosse il capo. Gli occhi sempre più smarriti e vacillanti in quella maschera di sangue che si era sciolta attraverso la fronte e lungo le guance, il fiato bianco a tremare fra le labbra, e un’ombra nera sempre più larga e soffocante a incombere su di lui. “No, non posso tornare a casa, non posso continuare la guerra. Non...” Si strinse nelle spalle. “Non voglio più combattere.”

Ucraina sollevò lo sguardo su di lui. Non capiva. “Cosa...”

“Fa troppo male.” Russia si guardò le mani tremanti. Quelle mani che, per quanto larghe e forti, non riuscivano più a impugnare quel dolore incontrollabile. “Fa tutto troppo male. E io...” Tuffò il viso fra i palmi. Si nascose dal mondo. “Io non voglio più soffrire così!”

La tempesta insonnolita si risvegliò, tornò a spalancare le braccia di vento e neve, a proteggere Russia dentro quel mondo di ghiaccio dove nulla poteva entrare e fargli del male, dove avrebbe potuto rinchiudersi per sempre e rimanervi fino al termine della guerra e anche oltre.

La battaglia non era ancora conclusa.

   
 
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