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Autore: steffirah    05/09/2019    2 recensioni
A causa del lavoro del padre Sakura verrà ospitata a casa di una sua cugina, in una cittadina dal nome mai sentito prima, nell'estremo nord del Paese. Qui farà nuovi incontri, alcuni dei quali andranno oltre la sua stessa comprensione, mettendo a dura prova le sue più grandi paure. Le affronterà con coraggio o le lascerà vincere?
Una storia d'amore e di sangue, di destino e legami, avvolta nel gelo di un cielo plumbeo, cinta dalle braccia di una foresta, cullata dalla voce di un lupo.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Eriol Hiiragizawa, Sakura, Sakura Kinomoto, Syaoran Li, Tomoyo Daidouji | Coppie: Shaoran/Sakura
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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NdA: Vi ricordo che questo capitolo è dal POV di Syaoran, ed è una ricapitolazione di quello che è successo finora.

 
 







Colei che rappresentò la sua rovina



 
Il giorno in cui conobbi Kinomoto Sakura mi dissi: “È fatta. Lei sarà la mia rovina.”
Temevo che con un solo sguardo potesse mandarmi alla deriva. Temevo che con la sua mera esistenza potesse tirare fuori quel mostro sopito dentro di me. Perché sapevo che c’era; sapevo che un essere implacabile riposava sotto la superficie, stando in agguato, pazientemente in attesa di un passo falso con cui palesarsi. Quella era la consapevolezza, la certezza, con cui ero cresciuto. Che io fossi un abominio. Che il mio corpo non fosse altro che il contenitore di un demone assetato di sangue. E da sempre, ciò mi faceva paura. Da sempre, ciò mi teneva lontano dagli altri, impedendomi di mostrarmi in alcun modo socievole. Ma non volevo neppure essere socievole, se ogni volta dovevo vivere col terrore di poter distruggere nel giro di un battito di ciglia tutto quello che con tanta fatica sarei stato capace di costruire.
Mi sentivo fiero, orgoglioso di me stesso: per diciassette lunghi anni ero riuscito a domarlo. Per diciassette lunghi anni ero riuscito a mostrare una parvenza di normalità, di umanità, apparendo simile agli altri nella mia diversità. Avevo sempre mantenuto la calma e le distanze, in qualunque situazione – talvolta anche incutendo timore, ma era necessario: non era sano che gli umani facessero amicizia con me, soprattutto se per qualche errore avrebbero finito col diventare il mio pranzo. Non sarei mai riuscito a perdonarmelo, e per essere impeccabile mi educai ad essere realmente freddo, impassibile, incurante, noioso, sprezzante.
Cercavo, soprattutto, di non affezionarmi. Io avrei vissuto a lungo, troppo a lungo, loro sarebbero morti ben presto. “Non ne vale la pena”, mi dicevo. Come avrebbe potuto giovarmi legarmi a qualcuno che dopo nemmeno un secolo sarebbe divenuto polvere? E di conseguenza impedivo a chiunque di approcciarmisi, a meno che non fosse un mio simile – sebbene ci fossero momenti in cui neppure da essi mi sentissi pienamente compreso, semplicemente perché io ero diverso. Una novità, un frutto del caos, uno sbaglio fatto per amore. Un qualcosa di sconosciuto e temibile, che per questo andava celato agli occhi del mondo. Agli occhi del nostro mondo.
Ma poi, in quel normalissimo giorno d’autunno, furono i suoi occhi ad entrare nel mio mondo. Lo trafissero, lo penetrarono, con fin troppa facilità. Io e Kinomoto Sakura ci guardammo, e fui sopraffatto da un’insolita e oscura angoscia. Lei era come un vortice che mi risucchiava, contro cui dovevo lottare con tutte le mie forze. Lei aveva un potere tale da indebolirmi, sconfiggermi, farmi desiderare l’indesiderabile. Lei mi inibiva, mi rammolliva, portandomi a lottare contro il vero me stesso.
Il suo odore. Tutto era cominciato dall’odore del suo sangue, che segnò per me un cammino verso gli abissi della disperazione e della repulsione. Pur non essendo affamato quel giorno, restavo sempre reduce da una sete incontenibile. Quando mi accadeva in passato sceglievo con cura le mie prede, in modo tale da ripulire il mondo dal male. Non che io rientrassi nella categoria del “bene”, ma almeno così mi sembrava di avere un ruolo onorevole cui rispondere, un etico dovere da eseguire. Un chiaro senso per esistere. Ciononostante mi sforzavo di attenermi alla “speciale dieta” di Hiiragizawa – essendo state quelle le condizioni per farci rimanere. Dovevamo rispettare le sue scelte, per dimostrargli la nostra gratitudine, e per quanto inizialmente l’idea non mi andasse a genio sapevo che non avevo pretesti per oppormi. D’altronde, non era molto dissimile dal come mi comportavo da lupo.
Pertanto quel giorno ero sazio. Ero solo un po’ seccato da Meiling, che per tutta la mattinata mi aveva assillato, lamentandosi di una preda che le era sfuggita e di un’unghia che le si era spezzata nella futile impresa. Ma l’odore della gente a malapena lo percepivo e riuscivo a restare placido e indifferente, dinanzi a chiunque. Eccetto che con la nuova arrivata: come un’onda anomala, il suo delizioso profumo, dolce, floreale, invitante, mi aveva travolto, facendomi annegare.
La odiavo. Per quella ragione, la odiavo. Come poteva distruggere la parte che stavo interpretando, proprio quando finalmente stava divenendo realtà? Come poteva indurmi a fare quasi una strage, rendendomi gelido, algido, senza scrupoli, assegnandomi nuovamente il ruolo di assassino?
La odiavo, per quei pensieri che il suo sangue aveva risvegliato. La odiavo, per quell’abbagliante viso luminoso. La odiavo, per quei limpidi e candidi occhioni verdi. La odiavo, per quegli accecanti e folgoranti sorrisi. Era come se lei fosse una personificazione del sole, il mio peggiore nemico.
Non mi rimaneva far altro che scappare, per non rimanere bruciato, per non ardere vivo, e una volta al sicuro, nel confortevole buio della mia casa, tentai di cancellare quei pensieri immondi. Erano così insistenti, quasi mi parve di impazzire pur di metterli a tacere. Meditai di abbandonare tutto e tutti, sentendomi immeritevole di restare lì, ma per questo fui severamente ripreso da mia madre: mi rimproverò, poi mi incoraggiò, invitandomi a combatterla e sconfiggerla, vivendo come avevo sempre fatto, senza comportarmi da vile. Non importava quanto fosse insopportabile o asfissiante, dovevo vincere. Non c’era altra scelta, e per aiutarmi chiese anche a Meiling e alle mie sorelle di tenermela alla larga.
Esse approfittarono del festival d’autunno per osservarla, non trovando nulla di particolarmente attraente in lei. Anche quando successivamente Meiling le si avvicinò in maniera diretta per metterla in guardia dai pericoli che correva standomi accanto, il suo odore non la investì. Disse semplicemente: «È buono, certo, ed è stranamente calmante. Lo si può tollerare.»
“Calmante. Lo si può tollerare.” Mi ripetei infinite volte quelle parole in testa, cercando di convincermi che fosse realmente così. Che potesse esserlo anche per me. E intanto c’era quella parte miserevole di me che si convinse che il problema fossi io: ero sbagliato, in tutto e per tutto, e la mia rigida formazione non era servita a niente se alla minima novità crollavo in quel modo.
Non potevo accettarlo. Non potevo essere debole, non potevo essere schiavo delle mie paure e da esse lasciarmi sopraffare; per questo tornai a scuola – dopo essermi nutrito più del solito, per sicurezza. Mi sarebbe bastato comportarmi con lei come facevo con tutti, ignorandola e mantenendo le distanze, ma a quanto pareva lei non era dello stesso avviso. Neppure i docenti mi rendevano il compito facile, mettendoci insieme durante le pulizie e i progetti. E ogni volta lei era lì, pronta ad accogliermi e avvicinarsi, nonostante la mia riluttanza. Speravo che, come tutti, si sarebbe rassegnata e stancata di comunicare con me, invece proprio il mio tormento doveva essere l’umana più testarda, ficcanaso, apprensiva che avessi mai conosciuto, devastante e disarmante con la dolcezza che senza remora, giorno dopo giorno, mi serbava.
Non ebbi più alternativa se non tenerla d’occhio, guardandola con attenzione e perplessità per minuti, ore, giorni interi, spingendomi senza neppure accorgermene ad indagare sempre più a fondo in lei. Divenni presente, anche nei momenti in cui non sapeva che io fossi lì a proteggerla con lo sguardo, pronto ad intervenire ogni qualvolta ce ne fosse stato bisogno. E in quel poco tempo capii che era troppo candida, troppo genuina, troppo onesta, non del tutto sveglia ma parecchio istintiva, imbranata e goffa seppure mostrasse doti atletiche, un impiastro in certe materie e un asso in altre. Era delicata, frangibile, allegra, solare, spontanea, amichevole. Faceva amicizia con chiunque e riceveva affetto e amore, ma era anche una calamita di pericoli. Cominciando da me.
Era incomprensibile come potesse circondarsi di così tanta malvagità, quando irradiava una luce tanto buona. Forse il punto era proprio quello: la bellezza della luce attraeva il buio più profondo che avvolgeva noi esseri avidi ed egoisti. Ero io che avevo quasi ceduto, quando cominciò a sanguinare durante la lezione di inglese. Avevo dovuto necessariamente allontanarmi, per prendere una boccata d’aria pulita. E lì fuori mi accorsi che, stranamente, non era doloroso quanto mi aspettassi. Era come se, piano piano, mi stessi abituando. Non era più tragico come all’inizio, per cui riuscii a tornare da lei, seppure mi mantenessi sulle mie, meditando. Perso nei miei ragionamenti, mentre continuavo a chiedermi cosa fosse cambiato nella mia percezione di lei, vagai senza meta, finché Hiiragizawa non ci lanciò un avvertimento: uno sconosciuto era entrato in città. Ogni volta che un vampiro “di nessuno” entrava nel nostro territorio lui ci avvisava, permettendoci di ucciderlo come desideravamo se non avesse rispettato le sue regole. Erano rozzi vampiri trasformati, esseri inferiori e deplorevoli, privi di formazione, che prediligevano il sangue di giovani donne e bambini. Erano indisciplinati, volgari, brutali. Daidouji non rientrava in quella categoria perché lei era “dei Reed” - naturalmente, quando noi trasformavamo qualcuno lo facevamo solo per inserirlo nella nostra famiglia, in situazioni di estrema solitudine.
Risposi a quel segnale, capendo che fossi il più vicino, e ne cercai la disgustosa scia. Fu in quel momento che, per un istante, mi paralizzai. C’era un’altra presenza, accanto ad essa. Una presenza familiare, divenuta effettivamente rassicurante, avvolta da sgomento e paura. Mi affrettai a raggiungerla, e quando vidi il panico riflettersi nei suoi occhi, sull’orlo delle lacrime, fui sorpreso da una rabbia accecante, mai provata prima. Mi avventai su quell’essere, lo feci a pezzi, e senza dargli possibilità di reagire in alcun modo lo disintegrai, cancellandolo dalla faccia della Terra. Eppure, anche quando di lui non rimase che cenere, non riuscivo a calmarmi. Le mie mani e il mio corpo continuavano a tremare in maniera incontrollabile, il mondo attorno a me sembrava essersi tinto di vermiglio. Corsi nella foresta, arrivando in mezzo ai lupini, cercando conforto in essi accovacciandomi tra i loro steli. Presi respiri profondi, abbracciando me stesso, quasi infilandomi le unghie nelle braccia. Dovevo ritrovarmi, prima di perdermi del tutto.
Fortunatamente intervenne Hiiragizawa e, su mia disperata richiesta, mi feci legare da quelle catene incantate che usava su di me ogni volta che perdevo il controllo. Mi lasciai lenire dalla loro fredda costrizione, tornando gradualmente al me di sempre. Lo ringraziai per il suo aiuto e con lui tornai a casa, dove spiegò la situazione alla mia famiglia, facendo notare che troppi vampiri non appartenenti a nessuno stavano entrando in città, senza rispettarne le regole. Se la situazione già mi preoccupava, si aggiunse la dichiarazione di mia madre: «In questi giorni sto praticando la divinazione per interpretare un sogno frequente, in cui compare un ciliegio insanguinato. Purtroppo, non ho avuto alcun responso certo sul cosa possa significare.» Ne fui atterrito. Che il ciliegio rappresentasse Sakura? Che fosse ancora in pericolo?
Dopo tale rivelazione decidemmo di tenerla d’occhio più del solito, e dovevo ammettere che mi rincuorò vedere che, nonostante le brutture che viveva, non si lasciava abbattere: continuava a sorridere ed essere se stessa, andando oltre, dimostrandosi persino più forte e decisa di me. Fu tale risolutezza ad attirarmi maggiormente, al punto tale da sostenerla e inconsciamente proteggerla ogni volta che mi si presentava una possibilità di farlo. Una sera, ad esempio, mi ritrovai a passare davanti ad un café sorprendendomi di trovarla lì, ma poi mi dissi che, probabilmente, avevo istintivamente seguito il suo odore. Mi capitava di farlo spesso da lupo, quindi non mi stupiva se avessi cominciato a comportarmi in quel modo anche da vampiro. Era da quando le riportai la sciarpa che mensilmente cominciai a fermarmi al limitare del bosco, protetto dalla notte e dall’ombra degli alberi, fissando gli occhi sulla finestra che sapevo essere della stanza in cui dormiva. Non la vedevo, ma la percepivo. Sentivo i battiti del suo cuore, sentivo lo scorrere del suo sangue, sentivo la sua voce cristallina, le sue gioviali risate e i suoi placidi respiri. E io mi interrogavo su come fosse possibile che non avesse avuto paura di me, neppure come animale, quasi mi accettasse non solo nella vita giornaliera, ma anche in quella notturna. “Lei mi accetta, per quello che sono”, mi ripetei più volte, capacitandomene a mano a mano, per quanto mi sembrasse assurdo ed incredibile. E quando ci pensavo mi sembrava di sentire le mie labbra piegarsi verso l’alto, in un sorriso che mai aveva trovato la forza di nascermi sul viso. E il mio cuore, solitamente spento, si illuminava di lei, come fece anche quella notte dinanzi al suo riso ilare, mentre si divertiva con quegli amici che aveva trovato in un tempo umanamente impossibile. Era più radiosa che mai, bella come una di quelle primavere viste soltanto tra le figure dei libri, che lei mi stava dando la possibilità di ammirare in prima persona. Quando uscì di lì ero un po’ indeciso se rivelarmi o meno, finché quasi non cadde inciampando e dovetti necessariamente palesarmi. La accompagnai fino a casa, scoprendo così che il suo interesse nei miei confronti fosse decisamente eccessivo e Hiiragizawa non mi aiutava affatto a mantenere la mia facciata. Ma effettivamente, chi ero io per criticarla, quando il mio interesse per lei era comparabile – se non superiore – al suo?
In tale occasione compii anche un’azione che spiazzò persino me stesso: per la prima volta, in maniera incontrollabile, allungai una mano verso di lei. Non l’avevo propriamente toccata, ma in parte era come se lo avessi fatto. Perché la toccavo sempre con gli occhi, memorizzando ogni suo singolo particolare, dai suoi colori alle fossette che comparivano ad ogni sorriso al luccichio nelle sue iridi in situazioni felici alle nuvolette di vapore generate dal suo respiro. Quella sera le stavo solamente sollevando la sciarpa, la mia mente si convinse che fosse per zittirla, il mio cuore suggerì che fosse per non rischiare che prendesse freddo. Anche perché, effettivamente, si beccò un raffreddore. Gli umani erano così deboli, così esposti alle intemperie, impotenti dinanzi ai disastri, e per questo detestavo quella mia stessa condizione – seppure avrei dovuto essere grato alla mia piccola percentuale umana, visto che era essa ad impedirmi di perire dinanzi alla luce lunare. Ma pure con quella consapevolezza, non ero in grado di amare me stesso. Forse non ero in grado di amare e basta, escludendo l’affetto che arrivavo a provare per gli altri, facendo sì che mi prendessi cura di loro. Come facevo con la mia famiglia. Come stavo cominciando a fare con lei. Ed infatti, notando l’abito scoperto che Daidouji le aveva cucito per Halloween, la coprii per preservare la sua salute. Forse lo feci anche per allontanare da me e dai miei istinti la sua cute esposta, che con quell’apparente morbidezza, con quell’invitante profumo, con quel confortante calore mi faceva girare la testa. Ero così tentato a farmi più vicino, ma non avevo lo stesso autocontrollo delle mie sorelle, avrei potuto farle involontariamente del male e allora non me lo sarei mai perdonato.
Poi accadde un’altra cosa imprevedibile: lei prese le mie gelide mani, avvolgendomi nel suo fuoco, e per quanto la facessi tremare continuò a cercare un contatto; lei si preoccupò della mia salute, quando era la sua ad essere a rischio, tanto da mostrarmi per la prima volta un’indicibile paura. Non paura di me, paura per me. C’era mai stato qualcuno che si era curato tanto di me? E io, l’avevo mai permesso? Perché era così in pensiero? Perché mi stava vicino? Perché non rinunciava a me, come facevano tutti? Per un attimo misi a tacere la mia mente, cancellando tutte quelle domande, perdendomi nel “qui ed ora”. In lei che si preoccupava, in lei che, improvvisamente, era totalmente a mia portata. Avrei potuto avvolgerla tra le mie braccia come facevano le mie sorelle, avrei potuto avvicinare l’orecchio alla sua voce, avrei potuto rubare il suo respiro e riempirmene. Le sue verdi iridi riflettevano me, in esse riuscivo a vedermi, ma non ero ancora certo di potermi accettare; per cui chiusi le palpebre, e dietro di esse prese vita un nuovo desiderio: il desiderio di ridurre qualsiasi distanza tra noi, di baciarla, di morderla, di assaggiarla e abbeverarmi della sua anima. Il desiderio di farla mia. Immediatamente mi riscossi da esso, temendolo. Come avevo osato pensare di macchiarla con la mia impurità? Sicuramente di conseguenza mi avrebbe odiato, ma sorprendentemente mi riafferrò la mano e ad essa si appigliò ogni volta che poteva, quasi io fossi un’ancora con cui potesse salvarsi. Ma se c’era qualcuno bisognoso di salvezza, di un porto sicuro, ero io, e non potevo permettere a lei di assumersi quel ruolo; pertanto mi allontanai di nuovo da lei, arrivando persino ad avvicinarmi ad altre persone, tra cui Yamazaki – che non era affatto difficile da approcciare. D’altronde, quello difficile ero sempre stato io, solamente io.
Ero anche giunto ad un punto in cui non mi apportava più disagio la vicinanza di Sakura, né il suo entusiasmo, né le sue domande, quanto i suoi elogi, che cominciarono a diventare piuttosto imbarazzanti e spiazzanti, soprattutto quando disse che mi vedeva pieno di emozioni. Mi ero da sempre sentito spento e vuoto, incompleto perché troppo, diviso in tanti esseri senza essere realmente niente e nessuno. Per questo non ero neppure in grado di dare quel che le persone meritavano. Eppure, nel momento in cui mi disse di vedermi, smisi di dubitarne: lei mi vedeva perché io glielo permettevo. Perché con lei, solo con lei, mi mostravo me stesso, come ciò che neppure io sapevo di essere. Poteva quindi lei completarmi, attraverso la sua visione? E potevo io consentirglielo?
Mi dicevo di no, mi imponevo di starle lontano, ma stavolta fu più difficile. Forse perché ormai mi ero avvicinato troppo. Forse perché mi ero abituato a lei, alla sua presenza. Forse perché, semplicemente, davo tutto per scontato, e nel creare distanza tra di noi sentivo un dolore indescrivibile, che non riuscivo neppure più a capire se fosse un male fisico o emotivo. Dovevo sapere che fosse tutto vano. Era inutile tentare di tornare indietro, a ciò che ero prima, perché la mia voce aveva ammesso qualcosa che la mia mente negava. Avevo paura di perderla. Quella era la cosa peggiore che mi potesse capitare: che io mi affezionassi tanto ad una creatura così effimera da desiderare di mettere me stesso dinanzi a lei, per proteggerla da qualsiasi pericolo. E se quel pericolo fosse stato rappresentato da me, allora avrei distrutto me stesso pur di salvarla.
Il peggio, tuttavia, doveva ancora arrivare. Accadde durante la gita in montagna. Inspiegabilmente la vedevo impaurita, per questo chiesi a Meiling – che sembrava aver cominciato a prenderla a cuore e considerarla una grande amica – di indagare al posto mio. Anche perché per quanto mi riguardava in quelle notti non sarei stato molto attivo. Eppure, qualcosa era cambiato: pur sentendo l’influenza della luna, ne risentivo di meno. Solitamente la sofferenza durava all’incirca tre giorni, ma da quando avevo conosciuto Sakura pareva essere radicalmente diminuita. Che mi lenisse e alleviasse il mio dolore con la sua mera presenza?
Quando mia cugina tornò per darmi il suo responso mi spiegò della sua paura del soprannaturale, che già avevo supposto durante il video di letteratura inglese; ma poi mi disse anche qualcos’altro che mi impensierì, ossia che nei suoi sogni ci fosse una voce che le parlasse. Non mi piaceva per niente, mi domandavo cosa potesse dirle, volevo saperne di più ma al contempo non potevo interrogarla a riguardo, avrei destato troppi sospetti se lo avessi fatto. Si sarebbe senz’altro domandata come facessi ad esserne a conoscenza e dirle che Meiling veniva a riferirmi tutto non era il caso. Anche perché non volevo sembrare più ossessionato da lei di quanto già fossi. Poteva sembrare esagerata la mia apprensione, tuttavia era sensata visto che potevano esserci vampiri con quel potere: il potere di attraversare i sogni, raggiungere tramite essi le loro vittime. Speravo di sbagliarmi, ma quel grande timore si rivelò presto reale.
Quella stessa notte, dopo esserci assicurati che tutti dormissero, io e mia cugina ne parlammo, finché non accadde l’imprevedibile. Entrambi ci accorgemmo che qualcosa non quadrava, qualcosa che riguardava lei. I suoi battiti cardiaci erano troppo deboli, il suo odore era flebile, il suo calore stava sparendo…. E al suo fianco c’era qualcuno. Mi mossi per primo e mi pietrificai, trovandola quasi del tutto sotterrata dalla neve; i suoi denti battevano, le sue labbra quasi violacee tremavano, le sue ciglia fremevano avvolte dalla brina, lottando per restare aperte. Il resto del suo corpo era immobile, come quello di un cadavere, e sembrava essere stato risucchiato di qualsiasi energia vitale. Un’ombra torreggiava sulla sua inerte figura e, non appena allungò una mano, mi avventai su di essa, gridando il suo nome. “Sakura. Sakura. Sakura!” Non la vedevo più. Non vedevo più nulla, accecato da una rabbia incontenibile. Sentivo solo il suo nome tra i miei pensieri, ma era tutto buio. Tutto nero, tutto scarlatto. Non provavo niente, eccetto un incontrollabile desiderio di uccidere, di distruggere.
Tornai in me solo nell’udire la distante voce di Meiling, che mi richiamò a sé. Corsi da lei, vedendo che aveva portato Sakura in casa, l’aveva cambiata e avvolta in numerose coperte, lasciandola riposarsi accanto al camino scoppiettante. Crollai in ginocchio dinanzi a lei, controllando il suo colorito: le sue labbra stavano ritornando di un caldo rosa, scacciando via quel pallore bluastro, e il suo viso stava riacquisendo vitalità. Chiusi gli occhi, focalizzandomi sul suo respiro e i suoi battiti cardiaci tornati stabili, regolarizzandomi ad essi, finché Meiling non si schiarì la voce. Quando la guardai la vidi con le mani sugli occhi e l’aria imbarazzata, mentre mi chiedeva: «Non pensi che dovresti vestirti?» Solo allora mi accorsi di essere completamente nudo, per quanto non me lo spiegassi. Mi ero trasformato, senza accorgermene? Perché? Come era successo? Filai subito a rivestirmi prima di rioccupare il precedente posto, chiedendo il parere di mia cugina. Dopotutto, la luna ancora non aveva raggiunto il massimo splendore, sarebbe accaduto il giorno seguente. Lei ne era confusa quanto me, ma sembrava essersene fatta una mezza idea, rispondendomi: «Perché non lo chiedi a te stesso?» Mi mise dinanzi alla situazione e presunsi che potesse essere stato un risultato di rabbia e preoccupazione, ma secondo lei era qualcosa che trascendeva persino questo. «Penso che l’origine stia nel sentimento alla base di esse, ma non posso dirtelo Xiaolang. Lo devi capire da solo.» Dopo di ciò non aggiunse altro, semplicemente preparò una camomilla e si allontanò per contattare nostra madre e Hiiragizawa e vedere cosa farne della carcassa. Non sapevo in che condizioni la avesse trovata, ma neppure mi importava.
Mi concentrai su Sakura e ripensai alla mia reazione, domandandomi cosa avrebbe potuto spingermi a tanto e come mai, stavolta, fossi riuscito a calmarmi da solo. Qualcosa stava drasticamente cambiando in me, ma cosa di preciso? E da cosa era scaturito? Tali domande sfumarono nel momento in cui lei si riprese. Cercai di dedicarle tutte le mie attenzioni, ma senza neppure accorgermene finii col rimproverarla e manifestare, così, quella grande paura che avevo di perderla. Di perderla per sempre. E per un terribile attimo, lo avevo temuto davvero: che fosse troppo tardi, che lei stava per lasciarmi senza poterle dire che io… che io…. Io, cosa? Cos’era che sembravo anelare così tanto dirle? Cos’era quel sentimento che mi scaldava il petto e mi attraversava le vene insieme a tante scariche elettriche ogni volta che stavamo insieme? E continuava ad esserci anche un’altra cosa che mi frustrava: perché, tra tanti umani, continuavano a colpire lei? Perché tutti volevano lei? Non poteva essere per il suo sangue, visto che ero l’unico che ne subiva quello straziante effetto, quindi… che fosse soltanto un mezzo per arrivare a noi? I D. ci avevano trovati? Qualunque fosse la risposta, ero stato uno sconsiderato: sapevo che dovevamo essere all’erta, ma non pensavo che ci avrebbero seguiti fin qui. Ed era tutto troppo strano, né io né Meiling avevamo percepito nulla, quasi come se… come se quell’essere si fosse materializzato direttamente dai sogni di Sakura. Ma proprio perché mia cugina mi aveva avvisato di quei sogni, dovevo essere ancora più prudente. E invece, ancora una volta, Sakura aveva dovuto vivere una brutta esperienza. Ancora una volta, aveva dovuto soffrire.
Era tutta colpa mia. Io non riuscivo a proteggerla quanto volevo. Io la stavo mettendo in pericolo, sin dal primo giorno. E forse perché volevano me, lei stava diventando vittima di un conflitto che andava avanti da decenni. Mi chiusi nella mia bolla d’inchiostro, finché Sakura non la fece esplodere, chiamandomi per nome. Chiamando me, il mio nome. Quel nome di cui mia madre mi aveva fatto dono, per poter tenere in vita mio padre. Quel nome che parlava di me, come il suo parlava di lei. Quel nome che, attraverso le sue labbra, assumeva una cadenza giovale, candida, bambinesca. Assecondai così la sua richiesta di lasciar perdere le formalità, riconoscendo che per quanto mi ingannassi, per quanto mentissi a me stesso, vi avevamo detto addio da un po’, e pronunciai il suo nome. Non più soltanto nei miei pensieri, ma ad alta voce, e le tre more che lo componevano parvero sciogliersi sulla mia lingua, riempiendomi di un sapore che aveva un che di dolce, troppo dolce, scivolandomi nell’anima, avvolgendomela. E quando lei mi sorrise, chiamandomi di nuovo, mi parve che il mio debole cuore saltasse un battito, smarrendosi in lei. Pensai con diletto che se fossi stato totalmente umano probabilmente sarei arrossito all’inverosimile e avrei avuto un costante batticuore, ogni volta che mi parlava, ogni volta che mi guardava. Cos’era tutto quello?
Dal giorno successivo mi dissi che, definitivamente, avrei cercato di restarle il più accanto possibile. Ecco perché, nonostante mi sentissi febbricitante, non mi allontanai. Nonostante l’influenza della luna, riuscivo a sopportarlo – tranne quando scese il tramonto. Allora, non dopo essermi subito diverse lavate di capo da Meiling per la mia sconsideratezza, uscii all’esterno, sperando vanamente che la neve potesse essere un conforto contro quel bruciore sulla pelle, quel ribollire e scorrere frenetico del mio sangue, quella pesantezza asfissiante. Mi rintanai sotto un albero, distanziandomi dallo chalet in cui erano tutti, e mi appigliai a me stesso, affondando i denti nel mio labbro. Per quanto fossi lontano, non potevo farmi sentire. Non potevo farmi scoprire. E soprattutto, non volevo spaventare nessuno. Più di chiunque altro, non volevo spaventare Sakura, considerando le sue fobie.
Invece, proprio lei doveva trovarmi. Proprio lei doveva venire da me, restare al mio fianco, in un momento in cui non avevo mai permesso a nessuno di presenziare. Un momento di cui mi vergognavo, di cui al contempo andavo fiero ma che soffrivo, perché era per tenere me nascosto che mia madre aveva dovuto rinunciare al suo lignaggio e ad una permanente dimora. Mi aspettavo pertanto che, vedendomi, Sakura fuggisse terrorizzata, mentre un’altra parte di me ormai aveva capito che, per come era fatta, per quanto era buona, sarebbe rimasta. Lei non mi avrebbe mai guardato come un mostro. Lei non mi avrebbe abbandonato. E infatti rimase lì, come la prima volta. Come la prima volta mi invitò ad avvicinarmi, come la prima volta toccò il me lupo e tutto il mio corpo vibrò, tutta la mia anima fu attraversata da un formicolio. Stavolta non la allontanai. Sapevo di volerla con me, sapevo di aver bisogno di lei perché lei, con quella mano ora tiepida posata tra la mia pelliccia, riusciva in qualche modo a curarmi. Le permisi di avvicinarsi, di abbracciarmi, di rubare il mio calore, senza temere neppure per un istante di poterle fare del male. Era buffo come da vampiro quasi avessi paura di lei, mentre da lupo, da animale, mi sentivo più vicino a lei. Mi sentivo, in quel momento, più umano che mai.
Dopo quella consapevolezza, decisi di mostrarmi a lei per ciò che ero, capendo che più a nulla serviva celarglielo, e le raccontai tutta la mia storia. Le raccontai i miei segreti, le rivelai i miei aspetti più immondi, ma lei accettò ogni singola cosa, mostrandosi comprensiva e partecipe. La portai nel mio mondo, e subito lei parve confondersi in esso, prendere parte di esso. Cosa che non avevo previsto, era che potesse angustiarsi per il suo stesso odore. Non poteva farci nulla se era nata così, e in ogni caso…. In ogni caso, stavo cominciando a farci l’abitudine. Stava diventando sopportabile. Riuscivo a stare al suo fianco, a rimuovere le distanze, ad annusarla e controllarmi. E forse, come lei supponeva, la risposta a tutto questo stava nel cuore. Forse aveva ragione, i nostri organi vitali erano collegati, portandoci inevitabilmente l’uno dall’altro. Anche perché, facendola entrare nel mio mondo, lei mi aveva permesso di entrare nel suo. Mi avvolse nella sua gaiezza, facendomi sorridere spontaneamente, facendomi ridere apertamente, di un riso che mi nasceva dal cuore. Nulla di finto, nulla di costruito, nulla di forzato.
Ogni singola cosa che vivevo insieme a Sakura era vera. Poteva essere veramente distruttiva, poteva essere veramente rincuorante. Ma era tutto vero. E prima che io stesso potessi prevederlo, la mia rovina divenne per me una mano che mi conduceva in un mondo migliore, pieno di gioia e letizia, che rischiarava le mie grigie, monotone giornate con la sua luce multicolore.










 
Spiegazione: le "more" sono le sillabe giapponesi.
  
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