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Autore: NPC_Stories    16/10/2019    2 recensioni
Collezione di oneshot fantasy a tema "fairy", come indicato nella lista di Inktober che io e la mia affezionata illustratrice Erika abbiamo scelto (no, non Erika la webmaster, un'altra Erika). Io scrivo, lei disegna... speriamo di tenere il passo!
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Alcune di queste storie saranno ambientate nel nostro mondo, alcune altre nell'ambientazione del fandom in cui sono più attiva, Forgotten Realms, e altre ancora saranno ambientate in mondi di mia creazione o di fantasy generico, o parodistico.
Alcune di queste storie vi faranno ridere (spero), altre vi faranno piangere (mh, forse sto esagerando), ma in ogni caso mi auguro che tutte vi piacciano.
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Che la vostra vita possa essere piena di momenti di piccola meraviglia!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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16. Dark


Sotto-genere: introspettivo
Ambientazione: Forgotten Realms
Nota: sequel del capitolo 8. Waterlilies


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1290 DR, cittadina di Thassalen, tharch di Priador, Thay meridionale

Da mezzo ciclo di luna l’autunno era ufficialmente calato sulla regione del Thay e su tutta la fascia settentrionale del Faerûn, e il tramonto era ogni giorno più ansioso di fagocitare il sole. Quel pomeriggio la cittadina di Thassalen allungava le sue ombre sulle acque sempre più scure della baia, mentre una nave di modeste dimensioni, la Carezza del mare, trovava la sua rotta nel porto ancora fervente di attività.
Il piccolo mercantile aveva attraccato al molo di Thassalen per un semplice motivo: il capitano non voleva pagare le tasse sul commercio, ben più onerose, nella grande città portuale di Bezantur. Lo straordinario fervore religioso di Bezantur, un fenomeno strano per il Thay, faceva in modo che i numerosi templi della città necessitassero sempre di nuovi fondi per migliorie e manutenzione... ed ecco che quelle spese si riversavano sulle spalle dei mercanti.
A Thassalen era comunque possibile fare discreti affari, se si sapeva sfruttare i canali giusti.
I marinai cominciarono a scaricare le merci dedicate al mercato serale, quelle che non potevano essere vendute di giorno.

Poche ore dopo, il capitano Agaros se ne stava appoggiato al parapetto della sua nave, osservando le luci della città. Prese una lunga boccata dalla sua amata pipa, poi sbuffò il fumo dal naso, ben deciso a gustarsi l’aroma affumicato di quella miscela preziosa. Sì, quello era stato un affare. Si facevano buoni commerci a Thassalen... non come nelle grandi città dell’altopiano, ma il Thay centrale non era posto per un piccolo mercante come lui.
Restò ancora un po’ in contemplazione, perso nei suoi pensieri; la sua mente oscillava fra considerazioni di carattere pratico - economico - e il desiderio di dare ascolto ai suoi impulsi animali.
Aveva una schiava da vendere. Era ancora giù nella sua gabbia, sottocoperta, e avrebbe dovuto portarla al mercato serale. Non l’aveva ancora fatto.
Era un donnino da niente, una fanciulla pallida come il latte, bionda, con occhi violetti e una corporatura minuta e delicata. Avrebbe potuto diventare una cameriera, un grazioso ornamento nella casa di qualche riccone, oppure una schiava di piacere. Sapeva anche leggere e scrivere, e parlava più di una lingua, cosa che l’avrebbe qualificata anche come educatrice per qualche nobile rampollo, oppure come serva in un tempio. Perdipiù aveva sangue fatato nelle vene, non esattamente una rarità nel Thay, ma comunque una cosa inusuale e curiosa. Tutti sapevano dell’esistenza della gente della sua stirpe, gli spiritidi, creature simili agli umani che vivevano in armonia con la natura… ma non era facile catturarli. Decisamente un valore aggiunto.
Agaros non pensava che avrebbe avuto problemi a trovare mercato per lei; era davvero una cosetta deliziosa, fresca e giovane. Il problema era un altro: il capitano era un amante delle cose belle e dei piaceri. Commerciava in spezie, oppiacei, tessuti pregiati e schiavi per potersi pagare i suoi vizi, come i cibi più pregiati, le migliori miscele di caffè e di tabacco da pipa.
E le ragazze. Quando si fermava in un porto, non lesinava sulle spese per trovare le ragazze più belle e sane.
La sua schiava era molto bella, con un volto virginale e un atteggiamento fanciullesco. Lui sapeva che era ancora illibata, il cacciatore che gliel’aveva venduta l’aveva attratta a sé con la seduzione, ma non l’aveva mai toccata in quel modo. Aveva più a cuore il guadagno.
La verginità della ragazza infatti costituiva una buona parte del suo valore come schiava, ma Agaros stava cominciando a pensare che forse non aveva senso dar via una simile perla per avere in cambio dei soldi, per poi comprarsi una notte con ragazze di seconda mano.
Forse, dopotutto, avrebbe preferito tenerla per sé. Almeno per un po’. La vita su una nave poteva sciupare in fretta una donna. Poi l’avrebbe venduta, a un prezzo inferiore certo, ma che senso aveva anteporre il denaro al piacere, se per lui il denaro era solo un mezzo per arrivare al piacere?
Il capitano era sempre stato incerto fino a quel momento, ma adesso stava giungendo a una decisione. Chissà… forse quella miscela di tabacco aiutava a mettere in chiaro le proprie priorità, o forse aiutava a superare le proprie inibizioni?
Agaros guardò la sua pipa, con fare pensieroso. Forse avrebbe avuto bisogno di ben altro per superare le sue inibizioni.
C’era un motivo se fino a quel momento si era servito solo dei bordelli, e non aveva mai comprato una schiava da tenere sulla sua barca.
C’erano cose particolari che gli piaceva fare… cose di cui la mattina dopo si vergognava sempre. Non credeva che sarebbe riuscito a sostenere una convivenza con una donna, nemmeno una schiava, perché avrebbe sentito il peso del suo giudizio giorno dopo giorno.
Ma con questa qui sarebbe stato diverso. Lei non aveva esperienza, non sapeva come venisse fatto di solito.
Doveva solo fare in modo che restasse sempre nella sua cabina, in modo che non parlasse con il resto della ciurma…
La sua testa ciondolò verso il basso, come se fosse appesantita da tutti quei pensieri. Fino a un momento prima, l’idea di tenere la schiava per sé sembrava eccitante, ma ora lo stava riempiendo di preoccupazioni. C’erano dei lati oscuri in lui che non avrebbe voluto lasciar vedere a nessuno, tantomeno a una ragazzina con gli occhi da cerbiatta. Forse lei non era la persona giusta. I suoi occhi innocenti e sconcertati l’avrebbero tormentato per mesi, e allora avrebbe dovuto ucciderla, dicendo addio al potenziale guadagno. Forse era meglio venderla e continuare a rivolgersi alle puttane. Agaros chiuse gli occhi, sentendo anche le palpebre sempre più pesanti. Magari avrebbe fatto meglio a dormirci su. Il nuovo tabacco lo stava rendendo più insonnolito del previsto.

Il vecchio lupo di mare non si rese conto che stava perdendo l’equilibrio. Non si accorse che si era sbilanciato in avanti. Il parapetto della nave era basso, pensato apposta per permettere una rapida fuga in caso di abbordaggio, per cui quando l’omaccione si piegò in avanti cadde fuori bordo con una goffa capriola.
Il tuffo nell’acqua salata del Mare di Alamber sollevò uno spruzzo notevole, ma neanche questo fu sufficiente a svegliarlo, perché ormai non c’era più nulla che potesse farlo.
Un uomo ammantato e incappucciato, che fino a quel momento era rimasto nell’ombra dietro l’albero maestro, camminò silenziosamente sul ponte della nave fino ad arrivare al punto in cui si trovava il capitano poco prima. Il misterioso infiltrato guardò in basso; il corpo di quell’uomo disgustoso galleggiava a faccia in giù, i polmoni ancora pieni d’aria, perché era morto avvelenato prima di toccare l’acqua.
L’incappucciato ricordava ancora una cosa o due, sui veleni. Abbastanza da sapere cosa mescolare a una miscela pensata per essere bruciata e respirata.
Tirò fuori dalla tasca il sacchetto di monete d’oro con cui il marinaio aveva pagato quella preziosa merce d’importazione, e lo lasciò sul parapetto. Non gli importava dei soldi.

I suoi passi avrebbero dovuto essere leggeri come quelli di un gatto, ma la nave era quello che era, e il legno scricchiolava per sua natura. Scendere sottocoperta non fu il lavoro pulito e silenzioso che sperava, ma tanto non c'era nessun altro sulla barca a parte lei.
La gabbia era stata sistemata nella stiva, e la ragazza se ne stava rannicchiata in un angolo, abbracciandosi le ginocchia come se volesse proteggersi dal mondo.
L’ometto furtivo si avvicinò alla gabbia, ma lei non alzò lo sguardo anche se i suoi passi avevano fatto scricchiolare le assi di legno. Sembrava persa nei suoi pensieri.
“Ragazzina bionda” l’apostrofò lui, richiamando la sua attenzione.

La fanciulla sentì un timbro di voce che non conosceva e alzò la testa di riflesso.
Questo non era uno dei soliti marinai. Si chiese chi potesse essere. Era troppo smilzo per essere qualcuno che lavorava su una nave. Forse… un acquirente? Il laido capitano della nave aveva promesso di venderla al miglior offerente.
Guardò quell’uomo, cercando di cogliere un accenno della sua espressione e delle sue intenzioni, ma lui aveva un cappuccio sul volto e la stiva era già molto buia di suo.

L’uomo prese in mano il lucchetto che chiudeva la gabbia. Era un bell’oggetto solido e probabilmente la chiave era affondata con il capitano. Non si lasciò scoraggiare. La gabbia era un cubo quasi perfetto, di cui un’intera parete si apriva come una porta. I cardini erano vecchi, ed erano molto meno resistenti del lucchetto. Erano solo due, entrambi a una spanna dal bordo inferiore e dal bordo superiore della gabbia, proprio sullo spigolo del cubo di sbarre. L’uomo afferrò la porta della gabbia nel punto più lontano dal lucchetto e tirò con un forte strattone. I due cardini saltarono via come bottoni. La porta si aprì, penzolando obliquamente dal punto in cui era agganciata al resto della gabbia con il lucchetto.
“Fuori, ragazzina bionda. Te ne torni nel mare di Meth.”

La donna sgranò gli occhi, stupefatta. L’avevano trascinata attraverso il mare interno solo per poi riportarla indietro? Ma no, quest’uomo non poteva essere il suo nuovo padrone, altrimenti non avrebbe spezzato la gabbia. Avrebbe avuto le chiavi.
“Mi state facendo scappare?” azzardò lei, per esserne sicura.
L’uomo ammantato non fece una piega.
“Ma… e il capitano della nave? L’equipaggio?”
“I marinai sono in città a divertirsi” fu la stringata spiegazione. “Il vecchio bastardo è morto.”
Lei sussultò, colta nel vivo. Questo di sicuro non se l’aspettava.
“Morto? Come, è morto? Stava bene qualche ora fa!”
“Morto” confermò lo sconosciuto, con voce affilata. “Avvelenato.”
“Ma…” la prigioniera boccheggiò, non trovando le parole. “Come?”
“Io l’ho ucciso” spiegò lui, con tutta calma.
Seguì un silenzio pesante, teso, immobile.
“Era un rifiuto umano, progettava di farti del male, e l’ho ucciso.” Approfondì.
Contro ogni sua previsione, la ragazza si mise una mano sulla bocca e i suoi occhi si riempirono di lacrime.
“Oh, per il cielo!” Sbottò l’incappucciato, e nella rabbia la voce gli uscì più sussurrata, quasi sibilata. “Non può dispiacerti per lui! Ti avrebbe stuprata e venduta… o uccisa.”
“Non… non mi dispiace per lui…” riuscì a dire lei, ma le sue fragili spalle erano scosse dai tremori, come se fosse sconvolta e sul punto di piangere. “Ma è un’altra persona che è morta per colpa mia. Mi dispiace di questo.”
L’uomo si avvicinò a lei, in modo che potesse vederlo un po’ meglio nella debole luce lunare che filtrava dall’unico oblò. Si portò entrambe le mani alla testa e spostò all’indietro il cappuccio, in modo che scivolasse sulle spalle.

La giovane fece un passo indietro, colpita e spaventata dall’aspetto mostruoso del forestiero.
La sua testa calva era coperta di squame, e sarebbe apparsa perfettamente liscia se non avesse avuto due piccole corna ai lati della fronte. Le orecchie erano solo due fori ai lati della testa. I suoi denti erano aguzzi, in particolare i canini che ricordavano quelli di un vampiro. Ma la cosa più sconcertante erano gli occhi: infossati, circondati da un alone scuro come occhiaie di chi non conosce il riposo, eppure brillavano nella notte catturando la poca luce della luna… ed erano color giallo acido, non l'iride, ma proprio tutto il bulbo oculare, ad eccezione della pupilla sottile e verticale.
Lui lasciò che lo guardasse per bene, poi rimise a posto il cappuccio. Le persone non riuscivano mai a smettere di fissarlo, perché lo identificavano come un predatore.
"Che cosa sei?" La domanda sfuggì alle labbra della donna prima che lei potesse controllarsi. Poi si mise di nuovo una mano davanti alla bocca. "Oh! Perdonami… chi sei?"
L'uomo, sempre che fosse un uomo, rimase colpito dalla sua rapida rettifica.
"Hai appena visto un mostro e ti preoccupi di essere stata scortese?"
La ragazza ciondolò sui piedi, a disagio, come se non sapesse cosa farsene di quella domanda.
"È stato molto indelicato da parte mia… chiederti cosa sei. Non sei una cosa. Non è solo scortesia, per un momento ti ho tolto la dignità che si deve a una persona." Cercò di spiegare.
"Ma non sono una persona" la corresse il mostro. "Sono quello che viene chiamato una prole infernale. Un'anima dannata che ha già sprecato la sua occasione per essere una persona."
Lei fece un passo avanti verso di lui, recuperando il coraggio.
"Ma allora perché mi vuoi aiutare a tornare a casa?"
L'incappucciato non mosse un muscolo. Il suo linguaggio del corpo era quasi inesistente. Quando parlò, la voce uscì a fatica, come se non volesse toccare quel discorso.
"Una prole infernale è un'anima che ha avuto una seconda occasione per tornare nel suo mondo e riparare a qualche torto."
Lei sussultò per quell'inaspettata rivelazione. Questo di sicuro cambiava le carte in tavola. L'uomo non era un demone o un diavolo, ne aveva solo l'aspetto...
"Ma perché io?" Chiese, incapace di trattenersi. "In una regione piena di schiavi, perché non hai aiutato qualcuno che lo meritasse più di me?"

Questa domanda affondò nella coscienza dell'assassino e andò a posarsi proprio accanto al ricordo di lei che diceva "è un'altra persona che è morta per colpa mia".
Doveva essere successo qualcosa di traumatico nel suo passato recente, perché dai pochissimi ricordi che aveva di lei, gli aveva dato l'impressione di essere una fanciulla innocente e spensierata.
"Fai domande sul merito a qualcuno che dovrebbe essere all'inferno? Chi sono io per giudicarti poco meritevole, ragazzina?"
"Enbilulu" lo corresse lei. "Mi chiamo Enbilulu, e non sono una ragazzina. Ho trent'anni tondi tondi. E tu non mi hai ancora detto chi sei."
Il misterioso straniero le voltò le spalle, incamminandosi verso le scale.
"Andiamo, ragazzina, prima che torni qualcuno."
Lei capì che per ora non avrebbe cavato un ragno dal buco. Doveva solo fare una scelta: fidarsi del fatto che lui l'avrebbe riportata a casa, oppure non fidarsi.
Nonostante il suo aspetto mostruoso, c'era qualcosa nel suo modo di parlare che le ispirava pietà, e lei non riusciva ad avere paura di qualcuno per cui provasse pietà.
Lo seguì su per le scale.

Enbilulu non aveva bagagli da recuperare, possedeva solo gli abiti che indossava, ma l'uomo la convinse a prendere dei vestiti da uomo dalla cabina del capitano. Le stavano enormi, specialmente i pantaloni che stavano su solo grazie alla cintura, ma con abiti maschili e i suoi capelli corti avrebbe potuto passare per un ragazzino. Per sua fortuna aveva una corporatura minuta e un corpo ancora abbastanza androgino, perché nonostante le sue proteste, a trent'anni era appena adolescente secondo gli standard della sua razza.
Aveva appena finito di cambiarsi quando sentì dei rumori di colluttazione da fuori. La cabina del capitano era sul ponte, accanto alla stanza dove tenevano le mappe, non sottocoperta. Qualcuno doveva essere salito sulla nave e di sicuro il suo oscuro compagno si stava occupando della cosa.
La giovane corse fuori, per capire cosa stesse succedendo.
Il nostromo era tornato sulla nave e l'uomo-diavolo aveva deciso di prendersi cura dell'imprevisto in modo violento. Stava soffocando il marinaio tenendogli la gola nella stretta ferrea di una mano. L'uomo annaspava e si agitava per liberarsi, cercava di colpire il suo aggressore, ma l'altro sembrava insensibile ai suoi pugni disperati, se ne stava lì immobile e riusciva a tenere fermo il nostromo con quella mano soltanto.
"Basta!" Sussurrò Enbilulu, in tono di comando. "Non lo uccidere!"
"È un immondo schiavista" rispose con tono rigido. "Quelli come lui non meritano di vivere."
"È un marinaio!" Enbilulu si lanciò in avanti e quasi si appese al braccio dell'assassino, per fargli lasciare la presa, ma senza ottenere grandi risultati. Sembrava fatto d'acciaio. "Eseguiva solo gli ordini, e poi è un uomo del Thay, la schiavitù è normale per la sua cultura. Non capisce che è sbagliato!"
Finalmente l'uomo dall'aspetto diabolico lasciò la presa sulla gola del nostromo, che cadde a terra annaspando aria come un disperato.
"Il fatto che non capisca non è una scusa."
Enbilulu si frappose in mezzo fra i due, prima che al suo nuovo amico venissero altre idee.
"Non è una scusa, però lascia spazio alla speranza."
Questa obiezione spinse davvero quell'uomo uscito dall'inferno a fermarsi e a riflettere. Forse non era del tutto falso. Forse il fatto che molte persone non capissero la crudeltà delle loro azioni, lasciava sperare nel fatto che se l'avessero capito si sarebbero comportate meglio.
"Non ti sto dicendo che le azioni della ciurma della Carezza del mare siano giustificabili. Ti sto solo chiedendo di avere pietà. Molti di loro sono persone normali, nel cuore non sono malvagi, sono solo abituati ad un mondo malvagio. Il nostromo ha una famiglia, ho sentito che ne parlava una volta. Non resterò a guardare mentre spezzi un'altra vita. Come hai detto tu stesso, non sei nessuno per giudicare se gli altri siano meritevoli."
"Hai carattere, bambina" affermò l'incappucciato, adesso con voce acida. Qualcosa nel discorso della fanciulla doveva aver toccato la corda sbagliata. "Ma io sono perfettamente qualificato per giudicare persone che compiono volontariamente azioni malvagie. Ho detto che non avrei giudicato te, soltanto perché ti considero incapace di fare del male. Se le tue azioni passate hanno portato a conseguenze negative, deve essere stato per errore o per ignoranza. Non ha niente a che fare con la situazione di questi marinai. Sono già abbastanza magnanimo a lasciar vivere quelli che sono scesi a terra. Questo qui ci è capitato fra i piedi e sta ostacolando la nostra fuga…"
"E tu non ucciderai una persona solo perché si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato" Enbilulu non cedette di un palmo.
"Potete fuggire! Non mi metterò in mezzo!" Supplicò il nostromo, ancora seduto a terra. “Signorina, io non volevo che vi accadesse qualcosa di male. Ero tornato per convincere il capitano Agaros a… vendervi a una buona padrona, che cerca una dama di compagnia per sua figlia. Sapevo che Agaros vi avrebbe venduta al miglior offerente, ma non volevo che cadeste in mano a qualche… pervertito, o peggio.” Si fregò le mani, un tic nervoso che lasciava intendere quanto fosse spaventato. “Non è… essere schiavi è un modo di essere. Non è strano. Uno schiavo abbandona la sua vita di prima, nessuno pensa mai a tornare libero. Ma alcuni schiavi hanno una bella vita, e pensavo che questo fosse il massimo… il massimo che potevo fare per voi. Però se volete scappare e cercare di tornare a casa vostra, io mi toglierò dai piedi. Non lo dirò a nessuno!”
“Non lo dirà a nessuno” ripeté la ragazza, guardando l’uomo che si era definito prole infernale. Dai suoi pochi studi sulle credenze religiose, le sembrava di ricordare che i diavoli fossero molto poco elastici, e pregava che questo non fosse anche il suo caso.
“Non so perché ci tieni tanto” cedette lui, alla fine. “Ma va bene, facciamo a modo tuo.”
“Vi consiglio di andare subito, prima che il capitano ritorni” li invitò il nostromo, ansioso di mostrarsi utile. Il suo collo si stava colorando di lividi e non voleva fare il bis.
“Non tornerà, a meno che non possa tornare dal regno dei morti” promise lo sconosciuto, senza la minima traccia di rimorso.
Il nostromo sbiancò ancora di più. La sua faccia ormai era così smorta che poteva rivaleggiare con la pallida luna.
“Agaros è morto?” L’espressione nei suoi occhi diceva chiaramente Non voglio che succeda anche a me. “Ma… ma allora questo cambia tutto.” Balbettò, pensando velocemente a qualcosa. “Se un capitano muore senza eredi, secondo la legge è il secondo in comando a ereditare la sua nave, a meno che non sia… ehm… coinvolto nella sua morte. Questo significa che la Carezza del mare è mia, e posso riportarvi nell’Unther via mare, senza che dobbiate fuggire rischiando la cattura come schiava ribelle.”
Enbilulu e l’uomo incappucciato si guardarono a vicenda, incerti. L’offerta era buona… fare il viaggio via mare avrebbe fatto risparmiare loro molte settimane di cammino.
Alla fine lui sospirò e fece un gesto conciliante con la mano.
“Anche se quest’uomo stesse mentendo, gestire la ciurma di una nave sarà più facile che combattere contro tutte le guardie che ci darebbero la caccia se fuggissimo.” Ammise controvoglia.
Enbilulu gli rivolse un sorriso entusiasta, un sorriso che l’uomo non pensava di meritare. Si girò, usando la scusa di volersi recare al parapetto della nave per guardare verso la città.
“Partiremo domattina. Non mi interessa se la nave ha altri affari qui. Mi sono spiegato… capitano?”
L’ex-nostromo deglutì rumorosamente e annuì, poi si rese conto che il pericoloso straniero non poteva vederlo. “S-sì. Partiremo appena gli uomini saranno tornati alla nave.”
“Bene. Viaggeremo fino al mare di Meth. Poi…” la sua voce si spense nell’aria notturna, perché non sapeva veramente cosa avrebbe fatto dopo.
“Poi mi aspetterai sulle rive mentre saluto mia madre e il mio villaggio” s’intromise la giovane donna. “E quando sarò pronta a partire, mi accompagnerai all’avventura.”
Lui si staccò dal parapetto e si girò a guardarla, stranito.
“Prego?”
“Non sei obbligato a pregare, ma se ti fa piacere...” scherzò lei, cercando di riportare la conversazione su un tono più leggero. “Dai, pensaci. Io voglio girare il mondo e portare aiuto a chi ne ha bisogno, ma mi occorre una guardia del corpo. A te, invece, serve chiaramente una bussola morale. Hai detto che vuoi riparare a qualche torto, forse desideri anche essere buono, ma ti comporti come un intransigente fanatico portatore di morte. Hai bisogno di me per capire dove finisce la giustizia e comincia il buonsenso!”
“Parla di buonsenso una che si è fatta catturare…”
“Ho già ammesso di aver bisogno di una guardia del corpo.” Lo interruppe la donnina. “Io imparo dai miei errori.”

I due rimasero a fissarsi in silenzio per alcuni lunghi secondi, mentre nella mente di ciascuno si svolgeva una battaglia dialettica immaginando potenziali risposte dell’altro.
L’argomentazione dello sconosciuto però non fu quella che Enbilulu si aspettava.
“Non posso viaggiare con te. Non sopporto la tua vista.”
La spiritide rimase a bocca aperta. Non avrebbe mai potuto prevedere una risposta così villana.
“Ah perché tu credi di essere una gioia per gli occhi?”
“Io sono un mostro” ammise lui. “E tu somigli così tanto all’ultima persona buona che ho ucciso. Non riesco a sopportare di guardarti.” Si passò una mano sul volto e si sedette a terra, appoggiando le spalle contro la balaustra. “Ho passato gli ultimi dodici anni in un monastero, per addestrarmi ad imbrigliare i miei ricordi frammentati e le mie emozioni, per imparare a non soccombere al senso di colpa che minaccia di paralizzarmi. Una prole infernale dovrebbe desiderare di portare il bene nel mondo, per bilanciare il male che ha fatto in vita. Per questo veniamo ricreati senza più ricordi. Io invece ho voluto trovare il modo di rammentare tutto, ho insistito e ho tentato finché non ho recuperato molte delle memorie della mia vita passata. Non sopportavo l’idea di dover basare la mia esistenza sul porre rimedio a crimini che nemmeno ricordavo.” Fece una pausa, prese un profondo respiro e quasi gli scappò un risolino amaro.
La fanciulla rimase in religioso silenzio, perché forse stava iniziando a capire. L’aspetto di lui, quasi serpentino. La somiglianza con la sua ultima vittima buona…
“Quello che non avevo considerato è… c’è un motivo se quelli come me vengono privati della memoria.” Continuò lui. “Non è una punizione, è una benedizione. Abbiamo tutti commesso crimini che sono troppo orribili da sopportare, con la nostra nuova moralità. Azioni immonde che potevamo capire e apprezzare quando eravamo malvagi, ma che diventano inaccettabili adesso che abbiamo capito i nostri errori. Realizzare la portata del miei misfatti all’inizio mi ha paralizzato. Il senso di colpa era così schiacciante da lasciare solo una vuota depressione. Ma alla fine mi sono risollevato, perché ho smesso di credere di poter fare abbastanza buone azioni da bilanciare la mia vita precedente. Non è possibile riuscirci. Come per molti della mia risma, non esiste per me alcuna possibilità di redenzione. Però mi era stata data una seconda possibilità, e dovevo quantomeno sfruttarla per fare tutto il bene che mi fosse riuscito di fare. Questo è il pensiero che mi ha fatto risollevare e cercare aiuto.”
“Il monastero” tirò le fila Enbilulu. “Dove hai imparato a controllare le tue emozioni e a strangolare la gente con una mano sola.”
“Tu non approvi.” Indovinò lui.
La ragazza fece qualcosa di inaspettato: si sedette accanto a lui.
“Non approvo che tu abbia ucciso mia nonna.” Affermò. Lui sussultò, come se il fatto che lei l’avesse capito fosse una coltellata al petto. “Mio padre non si è mai ripreso dalla sua morte. E no, non approvo che tu abbia voluto recuperare i tuoi ricordi. Se tu non l’avessi fatto, ora potrei pensare che tu sia una persona diversa. Non potrei incolparti per qualcosa che ha fatto qualcun altro. Invece tu sei tu, e ne sei consapevole, e io non ho nessuna scusa per non odiarti. Devo solo… accettare questa realtà così com’è, e decidere se posso perdonare o no la persona che ha distrutto la mia famiglia.” Chinò la testa in avanti, guardando con ostinazione il ponte della nave. “Anzi, io… non ho il diritto di approvare o disapprovare che tu abbia recuperato i ricordi. Quella è una decisione tua. Mi hai privato di una facile scappatoia, ma la vita non è fatta di scappatoie.”
Enbilulu si voltò di scatto verso l’ex yuan-ti, con gli occhi velati di lacrime.
“Lei com’era? Ha lasciato il villaggio per andare in guerra contro di voi, quando io avevo dodici anni. Non la ricordo molto bene. Vorrei ricordarla meglio.”
“Ah, lei… tu le assomigli molto.” Tornò a ripetere. “Nell’aspetto e nel carattere. Lei era un po’ più intransigente di te, ma forse perché aveva combattuto molte battaglie. Fino all’ultimo però voleva solo tornare a casa. Sei stata l’ultimo dei suoi pensieri. Tu, e il vostro villaggio fra le ninfee. Voleva tornare da te, ma io… gliel’ho impedito. È stato un gesto ignobile, insensato e crudele. Tua nonna ti voleva molto bene, e sarebbe qui adesso se non fosse stato per me.”
La giovane aspirante avventuriera rimase in silenzio per un lungo momento, cercando di trattenere le lacrime.
“Capisco…” si passò una mano sugli occhi, in un gesto quasi rabbioso. “Sei tornato perché in qualche modo ucciderla ti ha aperto gli occhi sulla tua crudeltà?”
Lui annuì cautamente, senza sapere cosa aspettarsi.
“Allora posso pensare che la sua morte non sia stata vana, dopotutto.” Decise Enbilulu, prendendo un altro profondo respiro. “Lei sarebbe contenta di sapere che ha lasciato un’impronta nel mondo.”
La creatura che un tempo si faceva chiamare Sszarek Ivanissu spalancò gli occhi come se la ragazza avesse appena detto una cosa inconcepibile, fuori dal mondo.
“Devi essere all’altezza di lei, però” continuò la biondina con voce rotta, fissando un punto in lontananza davanti a sé, senza sbattere le palpebre. “Dovrai fare del bene come l’avrebbe fatto lei… e… voglio ancora che mi aiuti nella mia missione. Ho qualche nozione di erboristeria e guarigione, vorrei trovare un tempio per migliorare. Magari diventare una sacerdotessa, non lo so. Voglio apprendere quello che mi serve per aiutare il mio prossimo. Mia nonna mi avrebbe insegnato come si va all’avventura, perché avrebbe approvato il mio progetto. Ma me l’hai portata via, quindi dovrai insegnarmi tu.”
“Tu” balbettò, con la gola secca “tu vuoi ancora che ti accompagni?”
“Non me ne frega niente se non puoi tollerare la mia vista!” Scattò lei. “Perché non ti togli il cappuccio, così potremo guardarci con orrore a vicenda?”
“Non mi fai orrore” la corresse lui. “Ma mi costringi a guardare nella mia stessa oscurità.”
“Guarderemo insieme nella tua oscurità” propose la ragazza. “In due dovrebbe fare meno paura.”

   
 
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