Crossover
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Autore: Registe    28/10/2019    4 recensioni
Tredici guardiani. Tredici custodi del sapere.
Da sempre lo scopo dell'Organizzazione è proteggere e difendere il Castello dell'Oblio ed i suoi segreti dalle minacce di chi vorrebbe impadronirsene. Ma il Superiore ignora che il pericolo più grande si annida proprio tra quelle mura immacolate.
Questa storia può essere letta come un racconto autonomo o come prologo della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
[fandom principale Kingdom Hearts; nelle storie successive lo spettro si allargherà notevolmente]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Anime/Manga, Videogiochi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 33 - Vexen (XI)







Zexion





Registe: “Bene, siamo davvero soddisfatte! Forse con il nuovo anno riusciremo a finire la nostra puntata speciale. Adesso dobbiamo solo scrivere l’ending e potremmo permetterci il lusso di segnare questo nuovo traguardo”
Narratore: “Ehm … adorate Registe …”
Registe: “Cosa vuoi, Narratore? Non vedi che siamo impegnate a festeggiare?”
Narratore: “Non state dimenticato un piccolo piccolo quanto cruciale dettaglino?”
Registe: “Noi non dimentichiamo mai nulla”
Narratore: “Lo so che voi non dimenticate nulla. Voi omettete, che è diverso. E lo so che c’è quella pagina del copione che avete strappato e nascosto sotto il cuscino, vi ho viste”
Registe: “Suvvia, Narratore, era una scena noiosa e superflua, avrebbe annoiato i nostri lettori e, come dici sempre tu, non possiamo rompere le scatole al pubblico, no? Dunque converrai anche tu che sia il caso di passare direttamente ai titoli di coda e …”
Narratore: “Registe, datemi quella pagina. The Show Must Go On, è il vostro motto, giusto?”
Registe: “Ma noi non …”
Narratore: “ADESSO”
 

Non era così che Vexen aveva immaginato il loro trionfo.
Aveva pregustato a lungo l’euforia, assaporato nella sua fantasia la sensazione di libertà improvvisa, così potente da far girare la testa. Aveva immaginato di sentirsi almeno vent’anni scivolare via dalle spalle come un mantello logoro. Di ritrovare, bruciante nelle vene, l’entusiasmo che lo animava quando si era lasciato alle spalle la porta di casa tanto tempo prima, pieno di fiducia e amore per il mondo.
Invece si aggirava come uno spettro tra le rovine del suo laboratorio, e gli sembrava di contemplare la devastazione da una distanza di miliardi di anni luce, con l’occhio spassionato ed efficiente di una macchina che si limita a calcolare danni e tempi di ricostruzione, senza fastidiose implicazioni emotive.
E non provava assolutamente niente.
Aveva riempito il silenzio successivo alla battaglia di una lunga lista di cose da fare, com’era suo solito. Le sue ferite non erano troppo gravi, lividi che sarebbero guariti da soli e che non gli avevano impedito di prestare cure mediche agli altri tre complici al meglio delle sue abilità.
Larxen era il caso più critico. Gli era bastato uno sguardo rapido per capire che senza i poteri del Castello non ce l’avrebbe mai fatta. Aveva dato fondo alle ultime, preziose riserve di fluido bacta, immergendo la n. XII in una capsula di sospensione che l’avrebbe aiutata, in combinazione con i poteri del Castello, a rigenerare i tessuti danneggiati dall’attacco suicida sferrato per distruggere Lexaeus.
Osservandola fluttuare nella sostanza gelatinosa, con un respiratore calato sul viso, si chiese oziosamente se non fosse il caso di spegnere la macchina e lasciarla semplicemente crepare. Scoprì che, in fin dei conti, per lui non cambiava niente che la n. XII vivesse oppure no. Se non altro occuparsi di lei serviva a tenere il cervello occupato.
Con un po’ di fortuna avrebbe almeno perso la vista.
Marluxia era stato liquidato con una semplice prescrizione di antidolorifici e unguenti per lividi e ferite superficiali.
“È la tua grafia o il disegno di una catena montuosa fatto da un ubriaco con tre dita amputate?” il n. XI si rigirava il foglietto tra le mani, gli angoli della bocca piegati in giù per il disgusto. A Vexen non era sfuggito il cambiamento radicale nell’atteggiamento dell’uomo più giovane. Appena ottenuta la vittoria tanto sospirata ogni traccia di rispettosa cortesia era svanita dai suoi modi, l’uso del “lei” subito abbandonato, rimpiazzato dal tono neutro e secco dell’uomo d’affari che ha poco tempo da sprecare e che si attende il massimo della produttività dal suo scienziato migliore.
Solo due giorni prima lo avrebbe assalito con una trafila di insulti per un affronto del genere. Ma adesso persino la sua ironia da due soldi sembrava farsi strada fino a lui da galassie lontane, stemperata dal gelo dello spazio profondo.
“Puoi vedere da te che le scorte del laboratorio sono andate distrutte” aveva risposto, senza alzare lo sguardo dal microscopio di cui stava cercando di salvare i pezzi ancora integri. “Troverai i farmaci che ti ho scritto in qualsiasi mondo con un minimo di evoluzione tecnologica.”
Axel aveva richiesto qualche sforzo in più. Aveva riportato un paio di fratture alle costole e avrebbe dovuto portare un gesso al braccio sinistro per una trentina di giorni. Ciò non gli aveva impedito di provare un notevole piacere nel dare fuoco ai cadaveri dei nemici, concentrando le fiamme fino a che di loro non erano rimasti che pochi brandelli di ceneri, finissimi e morbidi come sabbia.
Le ossa rotte del n. VIII sarebbero guarite in poco tempo. Quanto al lampo efferato che era balenato sul fondo dei suoi occhi mentre il corpo di Saïx si accartocciava tra le fiamme… quello era un tipo di ferita che nemmeno un medico eccezionale come lui avrebbe saputo curare. Aveva sempre considerato Axel un idiota con il quoziente intellettivo di un cercopiteco, ma fino a quel momento non lo avrebbe ritenuto il tipo da godere di uno spargimento di sangue.
Parte della responsabilità era certamente sua. Non aveva risparmiato odio e violenza nel dipingere il ricordo falso impiantato nel cervello del n. VIII grazie alle Stanze della Memoria. Si era assicurato che la “morte” di Roxas avvenisse tra fuoco, fiamme e urla disumane. Aveva conferito ad ogni parola pronunciata dai due ex amici la forma e l’acume di un dardo intriso di veleno. Non era questione di crudeltà o sadismo: semplicemente, un ricordo artificiale risultava più vivo e credibile se ancorato a emozioni potenti.
Ma il problema non era lo sguardo efferato nelle iridi di Axel, le parole taglienti del n. XI o la vita appesa ad un filo della n. XII.
Il vero problema era seduto in un angolo del laboratorio, con gli occhi bassi intenti ad avvolgersi un braccio nelle poche bende rimaste. Non emetteva alcun suono, a parte l’apertura di un’ampolla di cui versò un paio di gocce sul livido che gli correva dal gomito alla spalla sinistra. Probabilmente sentì i suoi occhi addosso, perché mormorò un “Tranquillo, faccio da solo”.
“Già. Tu fai sempre tutto da solo, giusto?”
A quelle parole Zexion alzò lentamente la testa. Non abbastanza da fissarlo negli occhi, ma a Vexen bastò.
Non aveva alcun senso rimandare quella discussione.
“Zio, io …”
“Mi avevi fatto una promessa … o sbaglio? Rinfrescami la memoria, per favore” disse “Perché ho il sospetto di non ricordarmi più di chi io mi possa fidare o meno”.
Sì, la cosa era davvero ironica. Se non si fossero trovati nel suo laboratorio, nel suo santuario ridotto a ceneri e strumenti inutilizzabili, avrebbe persino trovato la cosa divertente, di quell’ironia così amara da lasciarti sul fondo della gola la necessità di voler bere qualcosa di forte.
Non si era mai fidato di nessuno. Forse dei suoi genitori, un tempo.
Ma aveva trascorso abbastanza anni tra i paesi affamati e le città superstiziose da sapere con certezza che chiunque avrebbe potuto denunciare per eresia o blasfemia un medico girovago che guariva la gente senza professare alcuna fede verso le divinità. Se aveva accettato l’offerta del Superiore, quel giorno di tantissimi anni addietro, era stato anche per lasciarsi alle spalle per mondo disgustoso da cui doveva costantemente guardarsi alle spalle. Nonostante tutti i difetti dell’odioso Radigata e della sua banda di scimmie ammaestrate, almeno in quel Castello, nei suoi sotterranei, aveva potuto essere se stesso. E aveva cresciuto quel bambino dallo sguardo triste nella consapevolezza che con lui non avrebbe avuto bisogno di costruirsi una torre di segreti.
A conti fatti era stato davvero un imbecille.
Il ragazzo si ritirò contro la sedia su cui era appoggiato, chiaramente alla ricerca di qualcosa con cui controbattere.
Per una volta Vexen fu quasi felice che il n. VI potesse sentire i suoi pensieri. Gli avrebbe risparmiato parte della fatica. “Sei andato da Xemnas. Gli hai spifferato tutto. Ed io sono stato così idiota da coprirti davanti a Marluxia!”
“Credi che io non ti sia grato per questo? Lo so che hai fatto il nome di Roxas per …”
“E allora perché mi hai tradito?”
Dal fondo della sedia i capelli chiari ebbero un sussulto, e per la prima volta da quando era entrato nel laboratorio Zexion sollevò la testa, la pozione di guarigione ancora stretta tra le sue dita. “Perché non volevo che tu diventassi un assassino”.
“E così hai pensato bene di rivelare tutto al Superiore. Così non sarei mai diventato un assassino …” disse, costringendosi ad appoggiare sul tavolo il contenitore di bacta prima di congelarlo per la furia “… perché sarei morto giustiziato da Xigbar, vero?”
“Io ho detto loro che tu eri innocente. Che ti avevano ricattato. Ma Xemnas non mi ha creduto e …”
“E lo sai perché non ti ha creduto? Lo sai perché? Perché non sai nemmeno mentire!”
Gli sembrò di rivedere ancora le sguardo senza pupille di Saïx in pieno stadio Berserk riverse su di lui mentre distruggeva il cerchio alchemico, e l’istante dopo i fucili del n. II contro il proprio petto, con il click che stava pronunciando la sentenza di morte. In pochissime ore aveva rischiato la propria vita per colpa di quel ragazzino che, anche dopo essere stato travolto dalla furia omicida del n. VII, non sembrava intenzionato a capire la portata della sua idiozia. “Dannazione a me ed a quando ti ho insegnato a parlare! SAREBBE STATO MEGLIO PER TUTTI SE FOSSI RIMASTO MUTO!”
Sì, Zexion doveva capirlo. Doveva sentirlo con gli occhi, con le orecchie, con tutti i suoi sensi da fenomeno da baraccone.
Doveva sentire la paura di morire che gli aveva attraversato lo stomaco. Ascoltò il silenzio che arrivò dopo le sue parole, e con calma lo riempì di ogni cosa che gli era rimasta aggrappata al corpo durante tutta la battaglia. Rivide davanti agli occhi le Stanze della Memoria che aveva finalmente aperto, il mondo promesso degli uomini che vi dormiva cristallizzato, ed il potere che aveva ricevuto. La conoscenza che dormiva dentro al Castello in attesa che lui allungasse la mano per prenderla.
Fissò il tavolo quasi carbonizzato, l’armadio in frantumi, le tracce nere sul pavimento. Pensò ad Axel, ed a cosa fosse riuscito a fare nella sua testa.
Marluxia era un nobile insolente, un serpente che nemmeno dava mostra di volersi nascondere, ma Vexen da giorni si era già reso conto che, senza quel complotto, sarebbe ancora stato bloccato al punto di partenza. Nel suo laboratorio, tra le pagine, gli alambicchi e gli strumenti rubati da qualche pianeta, incatenato nel mausoleo personale del Superiore in attesa che anche il suo cervello si coprisse di polvere e le giornate si cristallizzassero in battiti di pendola sempre uguali.
Adesso, finalmente, era libero.
“No, non lo sei!”
La voce del ragazzo, di solito nulla più di un sussurro, riempì da sola il vuoto che Vexen era riuscito a creare. Si accorse, appoggiando una mano contro l’estremità del suo vecchio letto chirurgico, di non averla mai sentita così netta. “Non sei libero, zio. La tua Scienza, la tua dea, non ti lascerà mai libero”.
“Novità dell’ultimo minuto, Zexion: io sono uno scienziato. La ricerca del sapere è la mia vita. E preferisco passare venti volte sul corpo del Superiore piuttosto che marcire qui dentro”.
“Beh, se questa è la tua vita …”
In un unico gesto, fin troppo veloce per un ragazzo così minuto, la provetta che Zexion stringeva tra le mani finì a terra in un’esplosione di vetri. Il liquido verdastro schizzò sugli stivali di entrambi e per qualche istante si riflesse nell’occhio del ragazzo. “…allora tienitela!”
Si riempì, ancora una volta. Vexen lo aveva sempre voluto, il silenzio, ma stavolta probabilmente lo avrebbero sentito tutti, anche ai piani più alti.
Il suono secco attraversò la stanza da parte a parte, e nemmeno avrebbe saputo dire se fosse partito dalla sua mano o da qualsiasi altra parte del laboratorio. Si accorse di star trattenendo il fiato quando il suono finì, ed i suoi occhi incontrarono il punto in cui le proprie dita avevano incontrato la guancia di Zexion. Sotto il guanto il palmo della mano iniziò a bruciare.
Il ragazzo aprì la bocca un paio di volte, ma ne uscirono solo una dozzina di suoni senza forma. L’ultimo, però, sarebbe riuscito chiunque a comprenderlo “IO TI ODIO!”
In fondo anche quello era un prezzo da pagare per la propria libertà. Un prezzo accresciuto dalla sensazione di essere stato tradito dall’unica persona a cui avesse mai avuto il coraggio di lasciare le spalle.
“Bene, adesso che hai pronunciato la tua ultima e tragica battuta … QUELLA È LA PORTA!”
Rimase ad ascoltare la magia degli strali oscuri del Portale di teletrasporto ancora per qualche magnifico istante. E sì, altro silenzio. Eterno, ma vero.
Il silenzio, in fondo, non poteva pugnalarti alle spalle.
 
 
Narratore: Registe? Registe? Cielo, sembrate Vossler e Gabranth dopo il megaprocesso … oddio, e adesso quando la smettono di piangere … forse non avrei dovuto mettere la scena dello schiaffo … Registe, serve un fazzoletto? Vi supplico, dite qualcosa …”
  
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