CAPITOLO QUARANTACINQUE
Credevo che la mia vita fosse giunta a un deciso punto di
svolta.
Il matrimonio imminente, con solo la data da fissare. Il mio
compagno che aveva occhi solo per me. La mia datrice di lavoro, che mi trattava
come una figlia. Mia madre che stava finalmente bene. Potevano esserci altre
difficoltà?
Certo, i brutti ricordi riguardanti Marco, Irene, Ilenia e
tutti coloro che mi avevano ferito di recente restavano inalterati nella mia
mente, però almeno potevo dire che la mia esistenza aveva avuto anche un lato
dolce e soddisfatto.
Sicuramente il momento che più mi è rimasto impresso è stato
quando, nel bagno della casa in cui convivevo, ho fatto il delicato test di
gravidanza. Ne avevo acquistati ben tre di quegli oggettini così carini alla
vista. Volevo esserne certa del mio stato.
Quello era il momento che segnava la strada della mia
esistenza; se sul piccolo display sarebbe comparsa la scritta incinta, presto
sarei diventata mamma. Ogni altra scritta avrebbe significato solo una cosa
triste. Sarei presto dovuta andare a fare delle visite, poiché il regolare
ciclo ormai non si presentava da oltre un paio di mesi.
Ero tuttavia positiva, mi sentivo ebbra di vita. Dentro di me
qualcosa di buono si stava sviluppando, ne ero sempre più certa.
Il risultato fu chiaro per tutti e tre i tentativi.
Aspettavo davvero un bambino! Ma come dirlo a Piergiorgio,
che non mi era mai apparso troppo felice di ciò? Terribile da pensare, eppure
così mi era sembrato. Tuttavia quando gliel’avevo sussurrato all’orecchio, la
sera stessa in cui avevo avuto la certezza, mi aveva stretto forte e mi aveva
mormorato a sua volta che lo immaginava. Ed io che avevo avuto timore a dargli
la più bella notizia del mondo!
In qualche giorno poi era cambiato tutto, con Irina che fu
allontanata bruscamente dal mio compagno, che la fece assumere presso un suo
collega di Rimini, e Ilenia che era stata licenziata da Virginia.
Tra casa e lavoro, insomma, qualcosa stava cambiando e anche
in fretta. Non sapevo cosa aspettarmi.
Di certo non furono semplici, i primi giorni senza la
domestica straniera. Tenere tutto in ordine, pulire, cucinare… stirare. Un
calvario. Ed io a testa china a sudare, per dimostrare che era valso a qualcosa
lo sforzo di George.
La mia convivenza con quella donna doveva cessare ed ero
stata categorica a riguardo, ma sapevo che questa decisione gli era costata molto.
Dovevo essere all’altezza.
Prendermi cura della casa era quindi un grande sforzo,
contando che lavoravo anche. Da quando Virginia aveva licenziato Ilenia, c’era
da fare il doppio. Almeno fintanto che non ci sarebbe stata una nuova assunzione.
I momenti più spensierati erano quelli che trascorrevo in
cortile, la sera, prima che George rincasasse. Amavo girovagare per il grande
giardino curato e lussureggiante, prendermi cura delle piante. Kira, fedele
compagna di passeggiata, mi inseguiva scodinzolando.
Una presenza costante in un verde altrimenti spoglio di
movimento.
Quando poi il mio compagno tornava a casa, mi faceva sempre i
complimenti per quello che preparavo per cena; che fosse un’insalata o un po’
di riso in bianco, a lui andava sempre bene. A me no. Dopo solo quattro o
cinque giorni senza Irina, mi sentivo completamente insoddisfatta da me stessa.
In un clima di tensione interiore, che stava emergendo
durante uno dei momenti più belli e intensi della mia vita, accadde però un
imprevisto.
Ero appena tornata a casa da lavoro. Erano le venti e trenta,
Piergiorgio sarebbe tornato a casa tra un’oretta circa.
Nonostante l’estate fosse praticamente giunta al termine
meteorologico, le giornate riservavano ancora quel po’ di piacevole afa serale
che sapeva tuttavia donare qualche gocciolina di sudore sulla fronte. E questo
lo sapevo bene, indaffarata com’ero sui fornelli. O, meglio, sulla verdura;
ormai di sera optavo per insalate miste o paste fredde, di solito ero molto
stanca e non mi andava di sfacchinare troppo.
Ebbene, suonò il telefono di casa. Non ricordavo che avesse
mai suonato così incessantemente durante il periodo in cui avevo vissuto in
quella grande casa. Piergiorgio aveva il suo cellulare personale e i pazienti e
l’ospedale lo contattavano lì, e il telefono fisso capitava di rado che
squillasse e solo per via dei call center, che dopo tre o quattro squilli
riagganciavano.
Quella sera invece il suo squillare era incessante,
pressante, ripetuto. Fino all’avvento della segreteria. Poi ricominciava. E
ricominciava ancora.
Avevo lasciato da parte il pomodoro che stavo affettando e mi
ero lavata le mani, tutto questo per perdere tempo. Dentro di me non avevo
voglia di rispondere. Se si fosse trattato di qualcuno che cercava il mio
compagno, cosa gli avrei detto? Uff, ecco che le mie solite paranoie inutili
riemergevano senza pietà.
Mi convinsi infine ad afferrare la cornetta e a dire pronto.
“Signorina Isabella?”.
Quella dannata voce. Riconobbi subito l’accento straniero di
Irina, che al di là dell’apparecchio ansimava e sembrava desiderosa di dire
altro.
“Sì”, mi limitai a dire, tra lo stupito e la certezza che
sapesse bene con chi stava parlando. E già mi aspettavo che avesse telefonato
per insultarmi, oppure per attaccarmi in qualche modo. Invece…
“Io… ecco… io… dovere
dire una cosa…”, borbottò in modo indistinto.
Mi feci coraggio, allora.
“Se hai qualcosa da dire, fallo subito, altrimenti buona
serata”, risposi con sgarbo. Già che mi stava trasmettendo nervosismo, temevo
di esagerare e di arrabbiarmi.
“Volevo solo avvisarla
che… padrone Giorgio no è come sembra. Lui cattivo, brutta persona”, buttò
lì, così, poi si stoppò come se stesse trattenendo il fiato. Mi venne quasi da
ridere, di riflesso.
“Se è cattivo perché ti ha licenziato, be’, credo che tu
debba dire a me che sono cattiva. Non è stata colpa sua. E poi ti ha trovato
subito un altro lavoro ben pagato, non dovresti lamentarti”, le spiegai così la
situazione, e fui sul punto di interrompere la telefonata. Quella manfrina mi
aveva già stufato.
“No, lui fa brutte
cose. Cose brutte che dovete sapere, se volete sposarlo”, aggiunse
frettolosamente, forzando la mia curiosità e a quel punto obbligandomi a
stringere tra le dita la cornetta.
“Cose brutte? Ma finiscila…”, sospirai, un po’ incredula. Non
nascondo che ero un minimo curiosa di scoprire che genere di fango aveva
intenzione di gettare sul mio compagno.
“Bruttissime”,
proseguì, “lui… lui… oh, Dio…!”.
Scoppiò a piangere in maniera confusa.
Aggrottai le sopracciglia, in bilico tra lo sgomento e la
voglia di infamarla. Piergiorgio le aveva dato da mangiare per anni,
accogliendola a casa sua e permettendole di vivere con uno stipendio davvero
elevato per una semplice domestica. Ora lei lo ripagava così, e non avevo
nemmeno idea di dove volesse andare a parare.
“Ohi, senti, sono stufa di questa messinscena! Vergognati”,
affermai quando non ne potei più di sentire quel singhiozzare caotico, che mi
stava alquanto infastidendo.
“No! Tu dovere sapere
che lui… lui mi faceva andare nel suo letto, capiscimi! Fare cose che non
dovevo… volevo fare!”.
Questo quasi mi gridò, quando stavo per riattaccare. Restai
basita e riavvicinai la cornetta al telefono.
“Che cosa stai dicendo?”, domandai nervosa. “Lui ti ha
trattato come un membro della famiglia e tu adesso mi telefoni per dirmi queste
cose che… oddio, vergognati! Io… io ti denuncio, guarda…”, proseguii, quasi
balbettando. Ero troppo agitata per ragionare.
“Io ho prove. Io
denuncerò, non tu. Ho prove”, ripeté meccanicamente. “Lui mostro, tu dovere lasciare”.
“Io…”, mormorai, poi riagganciai di colpo.
Rimasi ferma a fissare un punto indeterminato del corridoio,
con le braccia che mi scendevano lungo i fianchi, quasi fossero senza vita. Che
cosa stava succedendo? Perché quella chiamata, perché quelle cose atroci?
Perché?
Mi chiesi il motivo di quella mossa, e non seppi darmi
risposta. Avevo paura.
George, il medico cristallino che avevo conosciuto e che mi
aveva conquistato era davvero un essere così meschino? Aveva ragione il mio
cuore o quella megera? Presi fiato e andai in bagno a sciacquarmi il viso,
poiché quella telefonata imprevista mi aveva rovinato la giornata e mi aveva
scosso un sacco.
Stavo per piangere.
Quando Piergiorgio tornò a casa, non mi trovò ad attenderlo.
E nemmeno avevo finito di preparare la cena.
Non appena udii la chiave nella serratura della porta
d’ingresso, abbandonai a malincuore il bagno, chiedendomi come avrei dovuto
comportarmi. Assalirlo e chiedergli spiegazioni? Oppure attendere e provare,
dopo cena, a porre le domande delicate ma pressanti che mi assillavano a seguito
di quella dubbia telefonata?
Avevo molta paura di ferire il mio compagno.
Quella chiamata era giunta proprio un attimo prima dell’apice
della nostra storia, e poteva essere un’arma a doppio taglio. Non volevo
credere a Irina, eppure la donna non avrebbe avuto alcun motivo per lanciare
accuse così gravi. Il fatto che fosse stata mandata a lavorare altrove poteva
essere un movente, certo, ma di sicuro dire quelle cose tramite telefono alla
compagna dell’ex datore di lavoro non era come mandare giù una caramella.
Raggiunsi George in cucina, ancora in bilico sul da farsi, ma
per fortuna lui era già concentrato sul cibo e non mi guardò nemmeno.
“Uhm, insalata”, disse, sorridendo e osservando l’ampia
ciotola di terracotta in cui avevo messo metà delle verdure affettate. Afferrò
uno dei piatti puliti e iniziò a prendere con il cucchiaio diverse fette di
cetriolo e di pomodoro.
“Non è ancora pronta”, mormorai, la voce bassissima.
“Fa niente”, replicò lui, deciso e tranquillo come sempre.
Non perdeva mai la pazienza con me e sembrava costantemente felice a riguardo
di ogni cosa che facevo. Di certo ciò era gratificante per una compagna, ma io
continuavo comunque a sentirmi una delusione.
Iniziò a versare l’olio e poi un pizzico di sale, sempre
servendosi da solo e cercando il materiale sparso caoticamente per il tavolo.
“Tu non mangi? Avanti”, mi invitò, scostando una sedia, e
poi… mi guardò. Quando i suoi occhi incrociarono i miei, rimase per un attimo
immobile e interdetto, la bocca spalancata a metà.
“Tutto bene? Sembri sconvolta”, mi chiese, sinceramente
preoccupato. Non sospettava di nulla.
Ancora imbronciata e preoccupata, non riuscii a trattenermi
oltre.
“Ho appena ricevuto una telefonata”, gli risposi, senza la
forza necessaria per andare direttamente al punto.
“Una telefonata? E dai, basta con questi telefoni. Non
pensarci, sarà stato un call center…”, blaterò lui, sollevato.
“No, George. Era Irina”. Al solo sentir nominare l’ex
domestica, tornò a fissarmi.
“Irina? E come mai?”. Appariva stupito.
“Ha telefonato qui a casa per dirmi… che devo lasciarti
perché… sei una brutta persona, e…”. Scoppiai a piangere e non proseguii.
Piergiorgio fu subito da me e mi strinse forte tra le sue
braccia.
“Ma che dici, amore? Sai che voi due non vi siete mai sopportate,
probabilmente è uno scherzo o un modo per darti fastidio. Le parlerò io”, provò
a rassicurarmi, ma io mi divincolai dalla sua calda stretta.
"Sarà meglio che tu non ti faccia sentire, invece. Ha
detto che ha le prove per portare avanti una denuncia, a riguardo di… molestie
da te ricevute durante gli anni in cui ha lavorato qui”, mollai, quasi tutto
d’un fiato.
George lasciò cadere le braccia lungo i suoi fianchi con un
gesto pieno di impotenza e di sbigottimento.
“Ma… che… cosa stai dicendo, Isa, amore mio?”, chiese,
confuso.
“Quello che ti ho detto, di più non so. Quella donna ha
telefonato per dirmi che ti devo lasciare perché sei colpevole di queste brutte
cose, che sei una bruttissima persona…”, proseguii, a mia volta sempre più
agitata e caotica nello spiegare.
“Ehi”, tornò ad abbracciarmi, riprendendosi dallo
sbigottimento iniziale, “ti giuro sulla mia vita che non ho mai compiuto questi
gesti, e non ho mai fatto niente contro la sua persona. Non so perché si è
comportata così, ma ti prometto che faremo chiarezza e che sono innocente! Va
bene? Dimmi, ti fidi di me?”.
Annuii, sincera. Sì, George era decisamente sincero, lo
vedevo dai suoi occhi. Un uomo schietto, che non è mai stato in grado di dirmi
una sola bugia.
Un libro aperto. Gli credevo.
“Mi dispiace…”, continuai a mormorare a singhiozzo, “…non
avrei dovuto dirti queste cose, ma quella telefonata mi ha rovinato la serata…
sono ancora sconvolta…”.
“Immagino”, e così dicendo i suoi occhi profondi furono
attraversati da un raro guizzo vendicativo, “ti prometto che farò chiarezza a
riguardo della questione. Ma ora, per favore, non pensiamoci più. Ci stai?”.
Annuii. Si diresse di nuovo verso il tavolo e si sedette, ed
io mi misi a suo fianco, ma nessuno dei due ebbe la forza per toccare cibo.
Innervosito, George si limitò a far frullare per il piatto le
varie fettine di verdura, senza metterne in bocca manco una.
“Credo che dovremmo prendere qualche gallina, non pensi? Nel
nostro cortile starebbe bene, e inoltre mangerebbe anche ciò che resta in
tavola, dato che adesso ci piacciono tantissimo le verdure”, esordì dopo la
breve pausa di imbarazzato e pesante silenzio.
“Sì”, risposi distrattamente.
“Andrò a prenderle allora, uno di questi giorni. Potremmo
anche costruire un riparo di legno, che ne dici? Noi due assieme”, mi
incentivò.
Tornai ad annuire senza troppa convinzione, in realtà non
stavo dando troppo peso alle sue parole, ancora immersa com’ero nel pantano
generato da quella spiacevolissima telefonata.
“Bene. Tanto i prossimi giorni non dovrò andare in ospedale,
né in ambulatorio. Così passiamo un po’ di tempo assieme”.
“Oh, George, tu sei incredibile”, mi ritrovai a dire, “riesci
a pensare a delle galline anche quando qualcuno ci minaccia di denunce e di
crimini mai verificati”.
Lui sorrise a malincuore.
“Quella è una questione tra me e Irina, intesi? Dimentica”.
“Però ha telefonato a me, quella stronza”, aggiunsi, e lui
scosse il capo.
“Dovresti aver già capito tutto, allora. A quanto pare ha
deciso di rompere”.
“Non ti preoccupare, ci penso io”, aggiunse dopo una breve
pausa.
“Sarebbe bello anche fare un po’ d’orto, che ne pensi?”,
insistette al cospetto del mio silenzio. Mi venne spontaneo sorridere. Era un
uomo incredibile.
“Tutto quello che vuoi tu, sapendo però che io non ne so
nulla di piante e animali. Se sei esperto, ne sarò felice”.
“Mah, mia mamma aveva molti animali, sono cresciuto tra
polli, conigli e orto. Ricordo abbastanza come si fa, non è difficile”, volle
rassicurarmi di nuovo, sorridendo a sua volta.
“Va bene, se lo dici tu”.
“Ehi”, quasi mi riprese, afferrando il mio mento tra le sue
dita, “adesso sei tu che non sei partecipe. Cosa c’è che non va? Tra poco ci
sposeremo, manca solo l’ufficialità. Viviamo in una casa stupenda e grande.
Siamo assieme. Tua madre sta bene, inoltre abbiamo anche tanti bei progetti da
condividere, e siamo in attesa di un figlio! Cosa vuoi di più dalla vita?”.
Che domanda! In effetti, cosa avrei dovuto desiderare oltre a
tutto ciò? Era un sogno.
“Quella…”, stavo per tornare a riferirmi alla telefonata
minatoria, ma George lasciò bruscamente il mio mento e s’incattivì.
“Ma tu pensi troppo a quelle cattiverie! La gente è così, è
bastarda. Odia la felicità degli altri, e quando nota soddisfazione è la volta
che ti fa del male. Non puoi basarti su tutto quello che ti diranno. Devi
basarti su ciò che ti dico io, se mi ami davvero. Oppure non ti fidi di me, e
preferisci dare ascolto a una poveretta inacidita? È questo il problema? Non ti
fidi delle mie parole?”, tornò a incalzarmi molto serenamente. No, mi fidavo.
Se me lo diceva così mi fidavo.
“Mi fido di te”, capitolai, “so che solo di te posso fidarmi.
So che non avresti mai compiuto tali gesti”.
Sospirò.
“Ecco, così ti voglio. E non pensarci più”. Si alzò da tavola
e cominciò a sparecchiare, prima che le mie mani giungessero a interrompere le
gesta delle sue.
“No, faccio io”.
“Faccio io, per favore”, affermò.
“Tu sei stanco, hai lavorato tutto oggi”, insistetti.
“E tu no?”.
“Non è la stessa cosa. Io porto via tazzine sporche di fondi
di caffè, tu salvi delle vite. Faccio io, te ne prego”. George mi abbracciò
fortissimo.
“Quando la smetterai di sminuirti? Ricorda che sei e sarai
per sempre il mio Sole, il centro della mia esistenza. Essere ciò che dona vita
e speranza a un uomo ti pare qualcosa da poco?”, mi interpellò tra il serio e
lo scherzoso.
“Puoi dire quello che vuoi, George, ma resterai sempre
migliore di me”.
Lo baciai sulle labbra. La telefonata di poco prima sembrava
già lontana anni luce da noi. Non mi rispose, ma sciolse il contatto e si
rimise a sparecchiare come se niente fosse. Era sempre così testardo.
“Allora lo facciamo assieme”, acconsentii, cedendo alla fine.
Mi misi a lavare le stoviglie e a mettere in frigo l’insalata
rimasta, mentre lui poi asciugava i piatti e le posate. Era così bello
condividere quei piccoli momento quotidiani, che senza amore sarebbero stati
una vera noia.
Concluse le solite incombenze serali, andammo a lavarci e poi
a dormire, cercando di non rievocare le fresche tensioni che si erano create.
Io volevo fidarmi. Anzi, dovevo.
Non affrontammo più l’argomento. Non avevo idea di come il
mio compagno avesse intenzione di affrontarlo, tuttavia continuavo a ripetermi
che dovevo fidarmi e che anche i suoi silenzio valevano più di mille parole.
Il mattino successivo quindi giunsi a lavoro con numerosi
pensieri che mi frullavano per la mente, pochi di essi positivi. La signora
Virginia come al solito mi aspettava appollaiata dietro la cassa.
“Buongiorno, Isabella”, mi salutò come di consueto.
“Buongiorno a lei”, replicai meccanicamente.
Andai a cambiarmi subito e in fretta, onde evitare possibili
sgridate, anche se ormai vedevo la mia datrice di lavoro più come un’amica che
come una terribile e spietata arpia. Da quando Ilenia era stata licenziata, non
avevo più subìto attacchi di nessun genere, anche se le carte in tavola erano
leggermente cambiate.
Oltre a esserci più lavoro per tutti, gli altri colleghi non
mi vedevano più di buon occhio, compreso il cuoco. Le urla della ragazza erano
entrate nella memoria collettiva e nessuno pareva voler metterci una pietra
sopra. Il risultato era che ricevevo molte occhiatacce e nessuno a parte
Virginia mi rivolgeva la parola.
Avevo come l’impressione che la giovane ed ex collega avesse
spettegolato abbastanza su di me, mi ritenevano una sorta di spia della datrice
di lavoro. Una brutta persona che aveva fatto perdere il posto a un’altra sua
pari.
A volte avrei tanto voluto parlare con gli altri, magari
prenderli a uno a una e spiegare loro che non avevo causa di quel
licenziamento, d’altronde Ilenia si era esaurita e stancata, al massimo ero
stata solo un pretesto che l’aveva aiutata a esplodere in modo esagerato. Non
riuscivo comunque a trovare più alcun punto di dialogo e mi ritrovavo a essere
una emarginata.
Il tempo scorreva lento e con tanto da fare, mai un sorriso o
una battuta, niente di niente.
Più i giorni passavano e più desideravo di licenziarmi.
Ancora funestata dai loschi pensieri mi misi a lavorare alacremente e a servire
caffè a tutto spiano, riponendo speranze nella nuova imminente assunzione.
Giunta alla fatidica pausa pranzo, ero sfinita.
Mi diressi verso il solito tavolino appartato e solitario,
per poi sedermi. Di tornare a casa non ne avevo voglia, tanto George non
sarebbe rientrato per pranzo e non mi andava di stare da sola.
All’improvviso iniziò a squillarmi il cellulare; mi affrettai
a rispondere, senza nemmeno notare che il numero sul display era sconosciuto,
dal tanto che ero convinta che si trattasse di George o di mia mamma.
“Ehi, pronto”, risposi con dolcezza e con uno strano sorriso
sulle labbra, che si raggelò non appena ebbi modo di udire la voce della mia
interlocutrice.
“Signora Isabela sono
io, Irina”, si presentò con quel suo solito vocione irritante.
“Come fai ad avere il mio numero di cellulare?!”, esclamai,
dopo un primo momento di confuso silenzio.
“Non importa. Io
chiamare perché voglio giustizia”, sentenziò con decisione la donna.
“Se cerchi giustizia recati da chi di dovere, non rompere
l’animo a me. Arrivederci”, risposi con rabbia, allontanandomi poi il cellulare
dall’orecchio destro e cercando di riagganciare il più in fretta possibile.
“Lui mostro, lui mi ha…”.
Il suo discorso fu interrotto così, mentre poi mi affrettavo a bloccare il
numero molesto. Mi accorsi così che era privato.
Lui cosa? Lui cosa le aveva fatto? Davvero le aveva fatto
violenza? Non potevo crederci, e non riuscivo a razionalizzare quella
telefonata al mio numero personale, che sicuramente la domestica non poteva
avere. Che l’avesse estrapolato a George in qualche modo a me ignoto? Oppure
c’era qualcos’altro dietro, di più losco?
Maledizione, avevo la testa in tilt.
Ancora una volta mi veniva da piangere, dopo lo stupore
iniziale, e avrei di sicuro dovuto parlarne di nuovo con il mio compagno.
“Tutto bene?”, mi chiese Virginia, venendo a sedersi a mio
fianco. Forse aveva origliato qualcosa, avendo parlato a voce un po’ alta,
poiché non avevo saputo controllarmi troppo.
Mi sforzai di sorridere, anche se i miei occhi rossi dovevano
lasciar carpire altro.
“Soliti problemini che si conta di poter risolvere”, risposi,
un po’ emblematica.
“Piergiorgio è un grande uomo, saprà aiutarti. Siete una
bella coppia e non dovete temere niente”, mi spiegò sorridendo. Amavo
profondamente la sua positività, in fondo lei davvero credeva in noi e riponeva
molta fiducia nel nostro rapporto, anche quando sembrava che il mondo ce
l’avesse con noi.
Io e George ci amavamo e stavamo vivendo uno dei periodi più
belli della nostra vita di coppia, eppure qualcosa andava sempre storto.
Virginia invece era la costante che credeva in noi due.
“Lo so. Infatti risolveremo tutto quanto”.
Le sorrisi, questa volta in modo vero e sentito. Notando il
mio positivo cambiamento, anche la signora parve maggiormente soddisfatta.
“Sì, ne sono convinta. E qui come ti trovi, Isabella cara?”,
m’interpellò.
“Come sempre”, la rassicurai.
“La prossima settimana entrerà in servizio la ragazza che ho
assunto. Spero si possa rivelare una brava persona, mi sembra in gamba ed ha un
ottimo curriculum, e mi è parsa anche di buon carattere. L’ho scelta ieri”, mi
informò gentilmente.
“Mi fa molto piacere”, tornai a rispondere passivamente. Mi
faceva davvero piacere, ma di sicuro quello non era il primo dei miei tormenti.
“Mi dispiace che tu abbia dovuto subire pressioni anche qui,
sei una ragazza così cara. Starò attentissima e ciò non accadrà mai più”.
Annuii piano. Come potevo spiegarle che invece qualcosa si
era rotto, non c’era più sintonia tra me e i colleghi e non me la sentivo più
di lavorare lì? Lei di certo non si era accorta di niente, i ragazzi erano
bravi a fare i lecchini e a mostrarsi disponibili nei miei confronti in sua
presenza, ma quando era distante ecco che mostravano in modo chiaro come la
pensavano. Non me la sentivo di dirle che tutti ormai mi guardavano male e che
non ce la facevo più a sopportarli, e viceversa.
Di certo se l’avessi specificato la signora sarebbe corsa
subito ai ripari, ma allora avrei dato la certezza di essere una spia e una
poco di buono. Io non ero così. Io ero innocente, in quel caso.
“Se vuoi qualcosa, offre la casa. Vuoi un trancio di pizza?”,
tornò a chiedermi con gentilezza.
“Oh, sì, grazie”. Avevo accettato solo perché la fame mi
straziava, e mi era venuto spontaneo farlo. Forse non avrei dovuto.
Mi sentivo sempre più in colpa e a riguardo di tutto, forse a
causa della confusione che avevo in testa.
Ringraziai la signora Virginia per la cortesia riservatami e
le chiesi di lasciare il mio pranzo sul tavolino, poiché dovevo fare una
telefonata urgente. Al mio George, naturalmente. Era giusto che fosse informato
a riguardo del fatto che la megera era tornata di nuovo alla carica.
Uscii dal locale e pigiai sullo schermo il numero salvato in
rubrica, facendolo squillare. Temevo di disturbarlo e mi ripresi più d’una
volta, tra uno squillo e l’altro, per il fatto di essermi lasciata andare di
nuovo alla mia impulsività.
Lui stava lavorando, non era in pausa come me. Ero sempre la
solita egoista, in fondo.
“Pronto?”, alla
fine mi rispose, tranquillo come al solito.
“George, ha telefonato ancora. Questa volta al mio
cellulare”, gli spiegai subito senza alcun preambolo. Rimase un attimo in
silenzio.
“Ci penso io, stai
tranquilla. Non pensarci più”, riuscì a dire.
“Non ne posso più, spero che non richiami”, proseguii,
nervosa.
“Stai tranquilla e
lavora serena. Ne parliamo poi questa sera, va bene? Perdonami ma qui ho dei
pazienti che aspettano…”.
“Lo so che stai lavorando, ti chiedo scusa per averti
disturbato”, andai subito sulla difensiva.
“Ehi, ma che dici”,
affermò, “solo che non c’è tempo per
parlare di una pazza, intesi? Mi ha fatto piacere che mi hai chiamato e
avvisato, ne terrò conto”.
“Grazie, amore. A questa sera”.
Lo salutai e riagganciai in fretta.
Misi a sopire il mio tumulto interiore pranzando a dovere, e
poi tornando a lavorare e a impegnarmi. Come sempre aveva ragione il mio
compagno; non dovevo lasciarmi plagiare da una folle. L’aver solo sentito la
sua voce mi aveva tranquillizzato un po’.
NOTA DELL’AUTORE
Non ve l’aspettavate, vero? Ed ecco la sorpresa di… ehm,
inizio novembre xD
Sappiate però che mi sono rimboccato le maniche ed ho
concluso il racconto, quindi con un aggiornamento settimanale conoscerete anche
il suo finale.
Grazie se siete ancora qui, e mi scuso tantissimo per l’immenso
ritardo. Ma adesso sono pronto a tirare le somme.