Vi auguro
una buona lettura,
H.
Aggiornato
il 03.09. 2021
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Capitolo Quarto
1 -2
settembre 1511
Per
questo tu correggi poco a poco quelli che
sbagliano
E
li ammonisci ricordando loro in che cosa
hanno peccato,
perché,
messa da parte ogni malizia, credano
in te,
Signore.
(Sapienza,
12,2)
Nella
solitudine degli appartamenti dell’ex-reggente di
Castelnuovo, Mercurio Bua osserva crucciato il fuoco scoppiettante nel
caminetto, una lettera stretta in mano e l’altra che
tamburellava impaziente le
dita sulla coscia.
Da Manoli
e Constatino Boccali niente buone, quei caparbi
linguacciuti dei suoi compatrioti non volevano cedergliela e dinanzi
alle sue
sacrosante insistenze per riaverla indietro, avevano osato
aggiungere: non
sperate in noi alcun appoggio né comprensione. Nessuno della
nostra famiglia
s’assocerà a voi, vendutosi ai Collegati. Non
riotterrete ciò che voi per primo
avete sacrificato per egoistica ambizione.
Suo
fratello Teodoro Bua e l’altro suo parente Alessio Bua
–
luridi pendagli da forca! - neppure
s’erano degnati di rispondergli;
suo nipote Andrea Bua era meglio se ne stesse a Mantova, inutile
com’era.
Oramai
troppo tempo era trascorso dall’ultimo soggiorno di
Mercurio a Venezia, le amicizie e le conoscenze decadute e pertanto
assai
difficile per lui poter agganciare qualcuno di fiducia onde appoggiarlo
nella
sua causa. Il che lo frustrava oltre ogni dire, ancor
più adesso che
possedeva un carta preziosissima quanto difficile da giocare, nutrendo
infatti
il capitano di ventura gravi dubbi sulla bontà
dell’impresa di Treviso ma
soprattutto sulla costanza dei suoi medesimi alleati, non ispirandogli
alcuna
fiducia: i francesi da una parte, altezzosi e moi-je-sais-tout (so-tutto-io,
ndr.), sempre pronti ad incolpare il prossimo in caso di sconfitta o a
prendersi il merito della
vittoria. Dall’altra parte i tedeschi,
ancor peggio, buoni solamente a rubare considerando tutto il porco
mondo loro
proprietà anche quando appartenente agli alleati. Mal in
arnese, disordinanti e
disobbedienti eppure mille volte Mercurio Bua aveva insistito col
maresciallo
La Palice ad usare i metodi forti, ovver prendere gli imperiali a calci
in culo
finché in quelle teste di stoppa non si scolpivano gli
ordini come fece Mosè
coi Dieci Comandamenti. I Tedeschi, gli
aveva spiegato il
greco-albanese al limite della pazienza, sono un popolo di
pecore, che non
pensa bensì agisce e se sente il latrato del can pastore,
ecco che saltella
belando in fila! Peccato che Vossignoria
dall’alto della sua saggezza
non si degnasse mai d’ascoltarlo. Puah!
Ad
arraffare però la sua roba - oh! - più lesto
d’un gatto!
Per un
soffio il Bua aveva evitato che il francese gli
sgraffignasse da sotto il naso il patrizio veneziano; ad aggiungere
l’insulto
all’ingiuria quei cretini dei suoi uomini, pur di non
rinunciare alla
consolidata tradizione di grattarsi la pancia e poltrire, poco ci
mancava che
non avessero offerto su di un piatto d’argento una
possibilità di fuga al
prigioniero, che per fortuna era troppo debilitato da tre giorni di
digiuno
forzato per attraversare la Piave a nuoto, ma non sufficientemente da
cambiare
i connotati ad alcuni suoi stradioti, i quali, a Dio piacendo, si
sarebbero ben
sovvenuti della lezione impartitali.
I bottini
erano poi scarsi e magri; dell’Imperatore neppure
l’ombra malgrado il capitano gli avesse concesso un giorno in
più d’attesa
oltre ai tre indicatigli da La Palice. Inutile quindi seppellire la
testa sotto
terra e ignorare la realtà, cioè che ben presto
quegli ingordi dei tedeschi
sarebbero venuti alle mani con quegli arroganti dei francesi, non per
l’onore
bensì per un pezzo di pane. Il che avrebbe potuto causare
spinosi grattacapi al
greco-albanese e alla sua compagnia.
No,
doveva assicurarsi che nessuno gli toccasse il suo castellano,
ché se fosse finito nelle mani dei tedeschi, quelli
avrebbero incassato
immediatamente il riscatto o scambiatolo con un prigioniero che
a loro interessava,
senza consultarlo; coi francesi, invece, impacchettato e spedito in
Francia
cogli altri prigionieri veneziani, di nuovo senza tenere in
considerazione il
vero merito nella cattura. Meno male che La Palice aveva avuto un
attimo di
lucidità mentale per concedergli di contrattare di persona
il riscatto dei due
capitani bellunesi, altrimenti il Bua sul serio l’avrebbe
affogato di sua mano
nella Piave.
Presa
dunque la sua decisione, il mercenario balzò in piedi e
gettò stizzito nel fuoco l’inutile missiva,
dirigendosi verso la porta là dove
stava di guardia un suo famiglio.
La notte
non era poi così lunga e c’era tanto da fare.
***
Magnifice
ac generose frater carissime,
Oggi
vi fu scritto brevemente dal mio segretario, poiché ancora
mi
trovavo fuori Padoa con all’incirca 300 stradioti (i nomi dei
capi già vi sono
stati da lui elencati) e altrettanti 300 balestrieri sotto il comando
del
domino Jannes da Campo Fregoso.
Avevamo
lasciato Padoa verso l’imbrunire del 30 agosto, cavalcando
tutta notte per giungere all’alba presso Santa Crose,
là dove ci appostammo per
coordinare il nostro agguato: 100 cavalli decisi d’inviarli
tra Bassam e Castel
Francho e altri 100 verso Marostega per sabotare il trasporto dei
rifornimenti;
quanto a noi, avevamo giudicato più prudente rimanere tra
Citadela e Bassam
pronti all’occorrenza a prestar
soccorso. Quand’ecco, nel bel mezzo
dell’attesa, un mio esploratore fece all’improvviso
ritorno dalla sua missione
d’avanscoperta e mi riferì concitatamente come 200
cavalli fossero partiti da
Vicensa e diretti a Marostega, là dove si stava preparando
il campo per il Duca
di Baviera.
Immediate,
cangiammo piano e piombammo inattesi addosso ai
nemici, sorprendendoli infatti a marciare a ranghi serrati ignari della
nostra
presenza e con violento impeto ci scontrammo contro i loro
cavalleggeri, il
magnifico conte Guido Rangon e il sottoscritto in prima linea volendo
infatti
essere tra i primi feritori. Purtroppo, per il gran numero
d’uomini d’arme, il
conte Guido venne sopraffatto e con tre lance disarcionato; a me
spezzarono una
lancia sulla targa [1] et immediate fummo
da tutti, stradioti
e balestrieri, abbandonati. Il sopracitato conte Guido cadde
prigioniero e poco
ci mancò ch’io ne condividessi la triste
sorte, tamen come
meglio potei riuscii a sfuggir loro e ad indietreggiare assieme al
signor
Jannes da Campo Fregoso con all’incirca XX cavalli, pur
tuttavia rimanendo
sufficientemente presso ai nemici da tallonarli ugualmente e tagliarli
ogni via
di fuga in attesa dei rinforzi, intanto che cercavamo di radunare 100
fino a
150 cavalli.
Questo
finché il nemico, esasperato, uscì dalla strada
maestra per
Marostega, ormai distante 3 miglia, e correva allo sbando per la
campagna
violentemente incalzati da noialtri, al punto che dalla fretta della
disperazione abbandonò tutti i suoi carri,
ch’erano in gran numero. Non potei
di conseguenza non cogliere quell’inaspettata ma propizia
occasione e così
reingaggiammo subito battaglia contro i nemici, disperdendoli e
trucidandoli.
In
totale, catturammo uomini d’arme dai 30 ai 40; il resto, 200
cavalli tra arcieri, stradioti e alcuni balestrieri; 400 guasconi con
molti
schioppi che ne facevano gran danno, tutti armati benissimo e in ordine
eccellente per recarsi all’accampamento. I prigionieri ci
riferirono come il
Roy di Franza non avrebbe più inviato ulteriori rinforzi a
Marostega e come le
artiglierie non fossero ancora state trasferite da Soave. In aggiunta,
facemmo
prigionieri anche tre capitani - due di fanterie, i Monsignori de
Richebourg e
Mongiron ed uno d’uomini d’arme, il signor Aloisio
Ferrer - i quali
ci confermarono che, non fosse calata la Cesarea Maestà da
Bolzano, non
avrebbero compiuto alcun’impresa bensì se ne
sarebbero ritornati alla
guarnigione loro.
Altro
non vi dico per ora: Iddio sia con voi!
Paduae,
die primo septembris 1511, horre 7 noctis.
Frater
Contarenus,
Stratiotarum
Provisor
Sier
Ferigo Contarini soffiò via la polvere dalla pagina della
lettera,
richiudendola con movimenti lenti e accorti a causa della stanchezza,
ponendo
ben attenzione a non ustionarsi con la ceralacca al momento di
sigillarla. Ad
operazione terminata si stropicciò gli occhi arrossati,
sbadigliando sfinito e
anelante alla sola consolazione del letto; prese la missiva e
l’affidò al suo
servitore, acciocché la consegnasse alla prima staffetta
disponibile.
Malgrado
il suo ingresso trionfale al crepuscolo alla Porta
Codalunga, dove al lume delle torce avevano fatto sfilare in camicia e
catene i
prigionieri per lo più francesi ma con anche qualche
tedesco, dai capitani fino
alle loro puttane nonché i 200 carri per un valore di oltre
20.000 ducati di
bottino, il Contarini purtroppo per lui non era riuscito a svignarsela
prima di
notte fonda, avendolo infatti ghermito il provveditore generale sier
Polo
Capello, cognato della Regina di Cipro, giunto appositamente dal
bastione di
Portello dove stava supervisionando i lavori di rafforzamento, euforico
di
quella schiacciante vittoria e avido di particolari da riferire sia
alla
Signoria Loro sia ai suoi colleghi ammalati (a sier Christofal
Moro et a
sier Andrea Griti zoverà pì de tutti i intruji
ch’i gh’han fatto bevar
fin’horra!).
Divincolatosi
abilmente, sier Ferigo gli aveva promesso colloquio
come primo impegno della giornata, barcollando quasi verso i suoi
alloggi
eppure il sangue che ancora gli pompava furiosamente nelle vene,
animandolo di
febbrile energia. Il tempo poi di concedere al suo valletto
d’arme di
spogliarlo dalla corazza e di lavarsi mani e viso, che rimasto nei
più comodi
camicia e zipone s’era messo a scrivere quella lettera tanto
promessa a suo
fratello Marco Antonio, nella speranza che non gli avesse serbato
rancore se il
suo segretario gli aveva fatto di recente le veci per tenerlo informato
circa
gli ultimi avvenimenti.
Il
giovane provveditore s’abbandonò sfinito sullo
schienale della
sedia, tirandogli i muscoli indolenziti del collo piegato
all’indietro e le
tempie pulsanti e infastidite perfino dalla flebile luce della candela.
Se la
sua natura non fosse stata coscienziosa e ordinata, si sarebbe gettato
in letto
così com’era. Pur avendolo la guerra abituato ad
ogni genere di disagio tra cui
anche dormire all’occasione a cavallo, egli ci teneva quanto
più possibile di
mantenere una parvenza di civili maniere, perlomeno negli alloggi
cittadini e
d’altronde rovinare quelle belle lenzuola calde e pulite
equivaleva ad un
sacrilegio. Inoltre, prima di coricarsi doveva preparare uno straccio
di
discorso per sier Polo Capelo: ogni sua parola sarebbe stata riferita
verbatim
alla Signoria e al Consiglio, pertanto doveva sceglierle accorto specie
per
giustificare la seccante cattura del conte Guido Rangoni e non tanto
per il
riscatto di per sé, bensì per la malcelata
insistenza di suo zio Annibale
Bentivoglio e del fratello minore Annibale Rangoni a rivoler indietro
tra le
loro file quel ribelle e recalcitrante figliol affatto prodigo e ora
che
l’avevano in pugno, di sicuro l’avrebbero rinchiuso
sottochiave fin in cima
alla Garisenda[2] pur d’impedirgli di riunirsi alle truppe
veneziane. Il che scocciava il Contarini fino al suo
limite, sia per
aver perso un valido condottiero sia colui che stava incominciando ad
apprezzare anche come amico. Senza contare poi che a lui sarebbe
toccato
l’ingrato compito d’informare il giovanissimo
Francesco Rangoni, l’altro
fratello minore, in apparenza per rassicurarlo ma in realtà
per saggiarne la
fedeltà e la prontezza ad assumere eventualmente la condotta
al posto di Guido.
Quella
cattura bruciava beffarda al giovane provveditore,
imporporandogli le gote di stizza e colpevolizzandosi impietoso per non
aver
pianificato con sufficienza cura l’attacco, lasciandosi
guidare dalla smania di
sorprendere l’avversario ad ogni costo e
l’arroganza di averlo avuto già in
pugno. Non avesse posseduto il pronto riflesso di conficcare
ciò che rimaneva
della targa nella gola dell’avversario, usandola praticamente
alla stregua di
una mannaia e non fosse comparso Giano di Campofregoso a coprirgli le
spalle, a
quell’ora sier Ferigo Contarini si sarebbe trovato in
compagnia del Rangoni
diretto in catene a Marostica o peggio ancora a Vicenza e stavolta
nulla
l’avrebbe salvato dal finire prigioniero dei Gonzaga, i quali
ancora
arrossivano sia per la sconfitta a Casaloldo sia per
quell’insolente sua fuga
due anni addietro, specie la Marchesa Isabella d’Este che
vittima dell’astuto
inganno di Ferigo aveva firmato ignara il suo lasciapassare, credendolo
un
fedele suddito che trasportava la farina per le truppe del marito. Uno
bello
smacco per l’altera e gelida Estense ognora credutasi al di
sopra di ogni umano
sbaglio.
E mentre
l’uomo si crogiolava in questi poco lieti pensieri, il
sonno lo colse traditore e di conseguenza sobbalzò
buffamente all’irruzione di
uno suo stradiota, il quale senza neanche concedere al suo provveditore
il
tempo di dargli della canaglia per quella sua cafoneria
d’entrar senza bussare,
esclamò questi concitato: “Signore, dovete venire!
Oh, dovete proprio venire!”
e batteva il piede per terra impaziente, trattenendosi
dall’afferrare il
Contarini per una manica e trascinarlo via con sé.
Sbiascicando
un inintelligibile improperio e allacciandosi alla
bell’e meglio il zipone, il patrizio
s’augurò per lo stradiota che la notizia
valesse la pena di quel disturbo, o l’indomani
l’avrebbe fatto fustigare a
Piazze delle Erbe finché manco sua madre sarebbe stata
capace di riconoscerlo.
Arrivati
dunque all’entrata di Codalunga e trovandola stranamente
per l’ora tarda in giovale subbuglio, Ferigo
s’arrestò bruscamente, impietrito,
per poi piegarsi all’improvviso in due e, reggendosi la
pancia, si sganasciò
dalle risate come non faceva dai tempi delle sconcissime momarie e
commedie
scritte e rappresentate coi suoi amici per le feste organizzate dalla
Compagnia
degli Immortali. [3]
“Corpo
dil diavol!”, ansimò ilare, mancandogli il fiato e
asciugandosi le lacrime versate per il gran ridere. “Che gran
fio de …”
…
Bianca Bentivoglio, sorella di Annibale Bentivoglio, al secolo
conte Guido Rangoni che rientrava a Padova sornionamente trionfo in
groppa a
cavallo assieme a don Garcia, il cavaliere spagnolo che
l’aveva catturato. Il
modenese appariva talmente in disordine da sembrare un vagabondo,
inzaccherato
com’era dalla testa ai piedi di fango e il viso ridotto ad
una maschera di
terra, sudore e sangue su cui però s’allargava
raggiante un soddisfatto e
felino sorrisone.
“Fascio
humilissima riveronza a
tutti lor monseigneurs!”,
si esibì il giovane condottiero in un appositamente
esagerato inchino pomposo,
svolazzando e ondulando il braccio a scherno del
saluto alla
francese, imitandone poi beffardamente l’accento e gli uomini
lì presenti
rincararono le dosi di grasse e sfottitrici risate
di sottofondo.
“Hé, che poca creanza, signori miei! Ma come! Non
mi s’aspetta per festeggiare?
Ché siete stati tutti contagiati dalla zoticaggine francese?”,
inquisì falsamente scandalizzato, nel frattempo che alcuni
soldati lo aiutavano
solerti a scendere da cavallo, avendo infatti notato la ferita alla
coscia
fasciata da una benda di fortuna.
“Conte
Guido … noi vi abbiamo dato per prigioniero … ad
un certo
punto v’abbiamo perfino perso di vista!”, fece
incredulo sier Ferigo, offrendo
il suo braccio a mo’ di sostegno per il lievemente zoppicante
nobile modenese.
“Anche el
caballero qui presente mi aveva dato
per prigioniero: peccato che dalla fretta di catturarmi si sia scordato
come
vanno stretti i nodi e di conseguenza, lungo la strada per Marostica,
abbiamo
invertito le sorti!”, spiegò concisamente il
Rangoni al giovane provveditore,
il quale seguitava a sorridere un po’ demente,
nell’intimo orante mille grazie
alla Madonna per quell’inaspettata giravolta
d’eventi.
I due
s’incamminarono allora lentamente verso gli alloggi del
condottiero, quest’ultimo d’un tratto fermatosi,
rimbeccando a gran voce gli
stradioti che già agguantavano lo spagnolo poco
delicatamente, trascinandolo
quasi giù da cavallo: “No, trattate don Garcia con
rispetto: questi è un uomo
dabbene, mi ha curato malgrado fossi suo prigioniero. Fino al suo
riscatto, che
stia qui a Padova a suo agio e di buon cuore: tanto, paga tutto il
Gonzaga!”
A quelle
ilari parole, il livello d’allegria
schizzò
alle stelle come le scintille dei falò d’Epifania
e tutti gli uomini lì
presenti, dai soldati marciani agli stradioti, in coro gridarono
euforici,
agitando ben in alto le braccia:
“Viva!
Viva! Viva el Gonzaga che paga!”
Non fosse
stata notte fonda e non avessero avuto due giorni di
sonno arretrato, certamente essi avrebbero festeggiato quella loro
vittoria con
grandi bisbocce, avendo tutti la saccoccia e la pancia piena: infatti,
dopo
aver sequestrato i carri con l’oro destinato alla Signoria,
sier Ferigo aveva
nominato Giovanni Forti di Orte e il greco Teodoro Frasina responsabili
dell’equa distribuzione tra i soldati delle catene
d’oro, degli abiti di seta,
delle armi, delle armature e perfino dei guadagni strappati da sotto le
sottane
alle prostitute; alle prime luci dell’alba avrebbero poi
venduto i cavalli e se
tutto andava bene 24 ducati a testa non glieli levava nessuno. Perfino
i
contadini scesi appositamente dai monti per ammazzare i francesi
avevano
guadagnato la giornata, spogliando i nemici delle armi e delle corazze
di cui i
marciani già non se n’erano serviti, lasciando
letteralmente in camicia sia i
vivi che i morti.
Ci si
coricò quindi assai contenti, vittoriosi e senza
casualità
tra i loro, grati inoltre d’aver ottenuto sveglia
libera l’indomani.
***
Hironimo
avrebbe infranto l’ottavo comandamento affermando di non
aver provato una paura fottuta, quando uno stradiota venne a prelevarlo
di peso
dalla sua cella, strappandolo dal primo sonno decente in seguito alla
caduta di
Castelnuovo di Quero. Il silenzio inquietante dei soldati, unito
all’ora tarda
e al fatto che l’avessero separato a furia di manrovesci da
Thomà (che se ne
beccò la più parte perché no, non
voleva lasciare la sua presa alla camicia del
patrizio) l’avevano indotto a giungere alla tremenda
conclusione che il Bua
aveva intenzione tramite la tortura di interrogarlo, forse per supplire
a
quelle informazioni che il giovane Miani aveva precedentemente bruciato
onde
impedire finissero nelle mani dei franco-imperiali.
Si
stupì grandemente di conseguenza alla vista del capitano di
ventura seduto tranquillo e disarmato, anzi, palesemente divertito
davanti al
suo stupore e alla frenetica ricerca con lo sguardo degli strumenti del
supplizio, non trovandone però nessuno a meno che Mercurio
Bua Spata non avesse
intenzione di ricorrere ai più tradizionali pugni in faccia
e allo stomaco,
magari col guanto di ferro.
Invece,
congedato il famiglio, l’uomo gli ordinò in greco
con un
sorrisetto sfottitore sulla faccia: “Avanti, spogliati e
lavati; là c’è il
catino. Puzzi da nausearmi!”
Hironimo
si sentì avvampare di collera. “Grazie a chi
questo?”, fu
più veloce la lingua, incrociando le braccia al petto in
inconscia difesa.
Purtroppo per lui, il greco-albanese aveva ragione, il giovane patrizio
stesso
non sopportava più quell’odore rancido che si
portava addosso da quattro giorni
nonché il continuo prurito ai capelli e alla barba ormai
cresciutagli incolta.
Tuttavia, la soddisfazione di convenire con quel gaglioffo da morto
gliel’avrebbe concessa.
Mercurio
gettò indietro il capo, ridendosela alla grossa: gli
piaceva quella puerile sfrontatezza, avrebbe reso la loro convivenza
meno
noiosa. “Suvvia, niente capricci. Levati quello straccio di
dosso e datti una
bella strigliata, fra poco voglio coricarmi e non ho tutta la notte a
disposizione per farti da balia!”
Il
giovane Miani studiò dubbioso l’acqua, saggiandone
la temperatura
con un dito: immediatamente avvertì il gelo fino alle ossa e
oltre. “Mi vuoi
ammazzare? È gelida!”
“Prima
ti lavi, prima ti asciughi.”
“Girati
almanco!”
Il
condottiero allargò le braccia falsamente stupito.
“Siamo tra
uomini, ergo non hai niente da esibire ch’io stesso non
possegga già. Cos’è
questo tuo pudore da donzella?”, lo punzecchiò
impietoso, specie quando
Hironimo, rifilandogli un’occhiataccia velenosa, si
voltò dandogli le spalle.
Non si
trattava di verecondia, bensì di fastidio per
quell’umiliante
situazione, sentendosi infatti alla stregua di una bambolina nelle
capricciose
mani di quel masnadiere, del cui sguardo beffardo e scrutatore
percepiva il
peso sulla schiena ora denudata dalla sottile barriera della lercia
camicia. Prendendo un profondo respiro, Hironimo la
piegò a lato e
prese a slacciarsi le brache mentre cercava di scindere la sua mente
dal
presente, rifugiandosi in un altro contesto e in un altro luogo.
Quanto lo
odiava, quel cialtrone pervertito.
Terminata
la mortificante spoliazione, subito Hironimo entrò
dentro il catino di fortuna e, acquattatosi onde nascondere il suo
corpo quanto
più possibile all’indesiderato spettatore, molto
lentamente si versò addosso la
brocca d’acqua, rabbrividendo ad ogni goccia, stringendo i
denti che avevano
incominciato a battere per il freddo.
Tale era
la sua concentrazione da non accorgersi che il Bua s’era
nel frattempo alzato, pigliando una seconda brocca più larga
che gli rovesciò
all’improvviso in testa, innaffiandolo in una dolorosa
cascata ghiacciata al
punto che per un folle istante Hironimo vide chiazze gialle e nere,
urlando
all’assassino e così ingoiando acqua che gli
andò prontamente di traverso,
alternando a colpi di tosse e soffiate di naso dei coloriti epiteti e
severi
commenti sulla razza del Bua e sulla professione di sua madre. Al che
il greco-
albanese replicò sornione con una terza e una quarta
secchiata d’acqua, finché
la pelle di Hironimo assunse un colorito bluastro.
“Toh”,
gli calò di malagrazia un pesante telo, sollevandolo poi di
peso fuori il catino e trascinandoselo seco, lo lasciò
cadere sulla sedia
davanti al caminetto. Portando le ginocchia al
petto, Hironimo
s’avvolse velocemente nel ruvido panno, in sospettosa attesa.
I suoi
occhi neri s’ingrandirono al luccichio di una lama.
“Sta
fermo! O ti sbrego questo bel visetto!”, gli
intimò Mercurio,
tirandogli i capelli a mo’ di monito. Sconfitto, il giovane
Miani annuì a
malincuore, irrigidendosi ad ogni raschiare del rasoio improvvisato
sulla sua
pelle, in particolare sotto il mento. “Ti voglio in ordine
per quando
arriveremo a Montebelluna. O i Venedik, la tua gente,
m’abbasserà il prezzo
vedendoti più morto che vivo.”
Hironimo
aprì un occhio. “Ci spostiamo a Montebelluna? Ma
l’Imperatore?”, inquisì con nonchalance,
sibilando all’ennesima tirata di
capelli, segno che la sua intromissione non era la
benvenuta.
“Non
t’impicciare”, l’ammonì
infatti il Bua.
Testardo,
il patrizio replicò: “M’impiccio eccome
del mio
riscatto!” e massaggiandosi la guancia arrossata.
“E comunque come barbiere fai
proprio schifo!”
Il
capitano di ventura ridacchiò furbescamente, dirigendosi
verso
una cassapanca e, apertala, estrasse un indumento che gli
gettò contro. “Era
tua?”, cinguettò canzonatorio, gettandogli
effettivamente una delle sue camice
pulite, adesso requisite a mo’ di bottino di guerra.
“Ma
certo! L’unica preda che un condottiero della vostra sorte
riesce a conquistarsi!”
Mercurio
Bua smise immediatamente di ridere.
“D’altronde,
vi compatisco: tanti sforzi per conquistare una
fortezza di seconda categoria, per accontentarsi di briciole. Non che a
Feltre
vi andrà meglio, a meno che, dopo due incendi e saccheggi,
non v’accontentiate
di pietre annerite dal fumo. Quanto a Cividal di Belluno, quelli
là vi daranno
qualche spiccio per salvarsi la pelle, per poi aprirci di nascosto le
porte
alla prima occasione e venderci la vostra, di pelle”,
infierì il patrizio.
“Il
maresciallo non punta né a Feltre né a Cividal di
Belluno”,
strisciò lentamente le parole Mercurio, stringendo tuttavia
sospettoso gli
occhi.
“Oh,
e tu gli credi in tutto e per tutto?”
Voleva
menarlo – oh!, se il capo degli stradioti voleva menarlo!
–
tuttavia, Hironimo ben si figurava quale furioso meccanismo di pensieri
stesse
lavorando alacremente dentro il cranio del greco-albanese, conscio che
se
presentava ai negoziatori del suo riscatto un giovane Miani tumefatto
di
cazzotti, quelli con la scusa di sevizie e maltrattamenti poco degni ad
un
patrizio non solo non avrebbero pagato prezzo pieno, ma avrebbero
preteso anche
una sorta d’indennizzo. Scaltri mercanti, questo erano i
veneziani, maestri
indiscussi.
“Poche
storie”, ribadì seccamente il Bua, strattonando
via il telo
così da invogliarlo a vestirsi. Non ottenendo il risultato
desiderato, di malagrazia
afferrò la camicia e arrotolatala tentò
d’infilarvi dentro la testa di
Hironimo, che prontamente si ribellò in un gran sbracciare,
berciando mezzo
soffocato dalla stoffa:
“Non
mi toccare, mi vesto da solo!”
“Sai
quanto me n’importa?”, riuscì infine il
capitano
nell’impresa, sbuffando. Indietreggiando un poco,
osservò soddisfatto il suo
personale capolavoro, ovvero un livido Hironimo ancora mezzo bagnato,
la
camicia semitrasparente che gli delineava il petto ansante di collera
nera. “E ti sta anche bene, va’
che signorino!”, commentò sardonico.
“Mi ricordi quelle prostitute alle Carampane, che
s’affacciano col petto in
fuori alla finestra!”
“Turco
depravato!”, gli sputò di rimando il furente
patrizio e in
un battibaleno Mercurio gli fu addosso, costringendolo a retrocedere
fino al
tavolo, infelice mossa giacché proprio là lo
voleva, dove infatti afferratolo
rapidissimo per le caviglie lo issò sopra di esso,
schiacciandolo a sua volta
col suo corpo.
“Se
davvero fossi un turco”, gli spiegò dolcemente
velenoso
l’uomo, “bello come sei a quest’ora ti
ritrovavi senza palle e con le gambe
aperte a prendertelo dentro come una femmina. Dunque, carino, vuoi
ancora darmi
del turco?” e mica scherzava, non disdegnando infatti gli
Ottomani anche la
carne maschile e il condottiero, tenendo fermo il giovane per la gola,
ammise
una certa sua avvenenza. Ondulati capelli scuri fino alle spalle
s’accompagnavano perfettamente al suo incarnato olivastro,
incorniciando un
viso regolare dagli zigomi marcati, la fronte alta e il naso forse un
po’
grosso, mitigato però da un paio d’occhi molto
grandi, nerissimi, e una bocca
sottile e larga da sfoggiare il più radioso dei sorrisi. Non
come adesso, che
sembravano le fauci di un leone a furia d’imprecargli contro.
Hironimo,
trovandosi guarda caso esattamente nella posizione
descrittagli prosaicamente dall’avventuriero e percependo
pressioni sospette,
cremisi in volto sbrodolò un flebile: “No, no, per
carità … non dico più niente
…”
“Ecco
bravo e fossi in te seguiterei su questa linea, a meno che
tu non voglia divenire la puttana del campo e si sa, in tempi di
carestia …”
L’indignazione
per la minaccia di costringerlo a quel turpe
negozio soppiantò il timore di divenire eunuco.
“Sì, ma … non è che dopo
t’ingelosisci?”, domandò cinguettando un
falsamente innocentino Hironimo, ché
se l’altro voleva la guerra, l’avrebbe ottenuta.
“Ti ho visto, sai, come ti sei
scaldato quando La Palice mi voleva a Montebelluna tutto per
sé … Mi son
sentito la Briseide della situazione”, e sforzandosi con
tutta l’immaginazione
a lui disponibile in modo da evocare le fattezze generosamente morbide
e
femminee della sue passate ganze, gli zampettò le dita sul
polso risalendo fin
quasi al gomito e Mercurio Bua, neanche l’avesse pizzicato un
granchio, si
staccò bruscamente da lui con un’espressione
schifata in volto. Afferrato un
sogghignante Miani, lo tirò giù dal tavolo e lo
ributtò malamente sulla sedia.
“Taci
e mangia!”, gli ordinò perentorio, schiaffandogli
sotto il
naso la scodella fumante di minestra e lo stomaco del giovane patrizio
si
contorse voglioso al solo odore.
Ma
Hironimo, ignorandolo e ribollendo di bile nera, col Bua aveva
appena incominciato.
“No.”
“Come
no?”
“Non
mi va.”
Il
greco-albanese lo fissò stralunato, come se si trovasse
dinanzi
ad un pazzo furioso. “Tre giorni di digiuno e ieri un pezzo
di pane e tu mi
dici che non hai fame?”, gli chiese sarcasticamente incredulo.
Hironimo
fece spallucce, incurante.
Le dita
del mercenario si contrassero rabbiose. “Mangia!”,
sibilò.
“Ho
detto di no!”, sbottò il giovane Miani e, al
minaccioso
appropinquarsi del Bua, aggiunse in fretta: “Non posso
mangiare a cuor leggero,
sapendo che in quell’orrida stinca un bambino di dieci anni
languisce mezzo
morto d’inedia. Se lo porterai qui e anche a lui offrirai del
cibo e lo
tratterrai da cristiano, solo allora mangerò.”
Sorprendentemente
Mercurio si rilassò, la sua espressione scevra
della recente irritazione, anzi, quasi gli pareva contento, annuendo in
approvazione. “Mi par giusto”,
sentenziò, gridando qualcosa in albanese, molto
probabilmente al famiglio dietro la porta.
Poco
tempo dopo, infatti, la porta si apriva di nuovo e un
insonnolito Thomà venne spintonato verso Hironimo, che alla
luce del caminetto
storse la bocca alla vista dello zigomo nuovamente gonfio e delle
croste di
sangue dalle narici a causa dell’ultimo manrovescio ricevuto.
“Ecco,
volevi il moccioso? Pigliatelo e lavalo, che anche questo
qua puzza peggio d’un topo morto.”
Il
patrizio roteò gli occhi snervato, allungando invece il
braccio
verso il fantolino. “Vien qua, Thomà, vien che te
lavo.”
Thomà,
sospettoso, piantò i piedi ben per terra.
Allora,
spezzando un pezzo di pane, Hironimo ripeté,
porgendoglielo: “Mo via, vien qua, che te spuzi da
cagnon!”
Sniffando
a momenti il cibo, il bambino si lasciò persuadere ad
avvicinarsi al giovane Miani, strappandogli di mano il pane e mentre se
lo
masticava vorace, il più anziano gli toglieva i vestiti,
premurandosi di
schermarlo col suo corpo. Fortunatamente, Mercurio Bua non sembrava
interessato, al contrario, con la punta dell’attizzatoio
prendeva gli indumenti
unti del piccino e li gettava nel fuoco a far compagnia a quelli di
Hironimo.
“Scoltame
ben, horra: sta bon, non criar se l’aqua la xé un
fià
freda; ti te gh’ha d’armarti de corajo,
ché ti sè zà un ometo” e
così
incoraggiatolo, lo mise dentro il catino con Thomà sempre
intento a mangiare,
non smettendo neppure quando l’acqua gli toccò la
pelle. Meglio così, l’avrebbe
tenuto distratto da quell’immeritato supplizio.
Ingoiato
simil serpente l’ultimo boccone, il fantolino
esclamò
deliziato: “Oh, patron! Ma vui seti un gran buziardo:
l’aqua la xé bea calda,
mancho un potacchio (zuppa, ndr.)!”
Hironimo
strabuzzò gli occhi e Mercurio Bua si voltò di
scatto e
quasi in comica sincronia ambedue gli uomini infilarono la mano
nell’acqua
rimanente nella secchia, appurando sconcertati come sì, essa
si presentasse
calda, piacevole come quella termale di Abano. Prima però
che il capitano di ventura
potesse anche solo aprire bocca, Hironimo versò tutta
l’acqua addosso al
bambino, finendo di lavarlo e lo avvolse in fretta nel telo,
tirandoselo su in
braccio e portandolo al tavolo, dove un greco-albanese ancora confuso
porse in
silenzio una seconda scodella di minestra. Thomà,
ghermitala, si mise a berla
rumorosamente, dimentico del cucchiaio e delle buone maniere. Non che
servissero considerata la natura del loro
anfitrione.
Nel
frattanto che Thomà metteva a dura prova la
flessibilità e
resistenza del suo esofago, il giovane Miani domandò a
Mercurio Bua, che dal
canto suo osservava un poco affascinato la prodezza mangiatoria del
bambino ora
intento a leccare il piatto: “Perché avete
impedito di seppellire i cadaveri?
Non avete rispetto per i morti?”e intinse di sprezzante
veleno l’ultima parola.
Il
condottiero grugnì. “Avresti preferito che li
dessi in pasto ai
cani come fecero due anni fa i Francesi cogli abitanti di Castelbaldo?
Il
vostro è un popolo dal cuore marinaro: le tombe
d’acqua non dovrebbero
spaventarvi …” Notando però lo scettico
sopracciglio inarcato sulla fronte del
suo prigioniero, l’uomo continuò, stranamente
sulla difensiva: “Contrariamente
ai francesi e ai tedeschi, non sono stupidamente crudele.
Eppoi, a che servono i cadaveri in un castello, se non a far venire
topi e
peste? Prima ce li leviamo dai piedi, meglio è”,
sentenziò, fissando poi
significativamente il patrizio veneziano. “Io tenni la
promessa. Adesso
mangia.”
A onor
del vero, Hironimo avvertiva una leggera nausea, la gola
serrata. Ciononostante, doveva ammettere la sorprendente correttezza
del
greco-albanese - costui continuava a scrutarlo con la medesima
fissità
predatoria di un felino - e giudicando pertanto controproducente da
parte sua
infrangere i patti, si risolse ad onorare la parola data. Aveva udito
certe
dicerie all'inizio del mese di agosto, su come Mercurio Bua, a Verona,
avesse
catturato Jacomo da Malnisio (o Jacomo Mamalucho com'era conosciuto da
tutti) e
lo avesse rilasciato sulla parola, acciocché egli potesse
riscuotere da sé la
sua taglia. Sennonché, il capitano era rientrato a mani
vuote, ma rientrato
come solennemente promesso ed ecco che il condottiero tra lo stupore
generale
l’aveva rivestito di seta, asserendo: “Tu
è valente homo et di fede!” E Jacomo
Mamalucho fu libero.
Deglutendo
indietro la saliva acida, Hironimo portò quindi il
cucchiaio ripieno di zuppa alla bocca, sorbendola titubante. Un
secondo, un
terzo, un quarto cucchiaio e il suo stomaco traditore già si
rincuorava, sotto
lo sguardo compiaciuto del Bua che si pose in piedi, trafficando con
qualcosa
dal sinistro rumore metallico.
Catene,
tra cui una attaccata ad una palla di cannone.
Il
cucchiaio cadde pesantemente di mano ad Hironimo macchiando il
tavolo di minestra, subito raccolta dall’avida scarpetta che
Thomà fece col
pezzo di pane; intuendo poi questi come il patrizio, sconvolto, non
avesse
intenzione di continuare a mangiare, lentamente e di nascosto
attirò a sé la
scodella mezza piena, sostituendola con quella vuota.
“Hai
le mani leste, lo ammetto, non mi sono sfuggiti i ricordini
che hai lasciato – meritatamente – in faccia ai
miei uomini. Per questo motivo
e soprattutto perché tu ti levi dalla testa ogni piano di
fuga, mi vedo
costretto a mettertele. Non temere, ti ci abituerai presto!”,
gl’illustrò il
condottiero la situazione, ghermendogli la caviglia.
Immediatamente,
Hironimo gli elargì di riflesso un calcio in pieno
petto e il Bua barcollò all’indietro
più per la sorpresa che il dolore vero e
proprio; infatti, ripresosi, martoriò lo zigomo del giovane
con un possente
manrovescio da sbilanciarlo verso il tavolo sul cui bordo
sbatté dolorosamente
la fronte, cadendo in un sordo tonfo per terra.
Mezzo
stordito, il Miani avvertì qualcosa rigirarlo e stringergli
le mandibole. “Smettila d’atteggiarti come se fossi
tu a dettar legge e bada di
rigare dritto! Tu sei il mio prigioniero e di te posso fare quello che
mi pare
e piace e al diavolo se i Venedik mi pagano meno, almeno lo sfizio di
tormentare un patrizio veneziano me lo sarò
levato!”
“Sì,
così il ricordo di come leccavi i piedi al Doge per una
condotta ti brucerà di meno!”, soffiò
aspro Hironimo, incassando un secondo
pugno stavolta tra le scapole che lo indusse definitivamente a
più miti
consigli.
“Te
ne vol ancha ti?”, berciò il capitano di ventura a
Thomà,
levando minaccioso il braccio. Ficcandosi in testa la scodella eletta
ad elmo
di fortuna, il bambino scosse vigorosamente il capo in diniego.
Grugnendo
soddisfatto, Mercurio riprese il suo lavoro interrotto,
fissando bene i ceppi alle caviglie e ai polsi di un semi-incosciente
Hironimo,
al cui collo egli serrò una sorta di collare di ferro da cui
pendeva la piccola
ma pensante palla di cannone, la quale, cadendo e non trovando mani
pronte a
sorreggerla, trascinò rumorosamente seco il giovane
veneziano che per sua
fortuna si trovava già mezzo inginocchiato per terra, non
soffrendo pertanto
eccessivamente dell’impatto della sua faccia col pavimento.
Alla
stregua dei cani li costrinse il Bua a dormire quella notte,
per terra dinanzi al caminetto e meno male che Hironimo dava le spalle
sia
all’avventuriero che a Thomà, gli occhi arrossati
di lacrime di stizza e
vergogna dietro gli arruffati capelli e il respiro ridotto a soffocati
singulti.
***
Numero
di zente è in Trevixo soto il capetanio di le fantarie:
3.520
fanti soto 17 capi.
449
fanti soto 20 zentilomeni.
46
bombardieri.
Stradioti
- numero 228.
Maestranze
- numero 140.
Vitello
Vitelli, homeni d’arme 50, balestrieri a cavallo 25.
Orsino
Orsini homeni d’arme 40.
Batagin
Bataja, balestrieri 130 a cavalo, e fanti 70.
Sier Zuam
Paulo Gradenigo si prese la testa tra le mani, leggendo
sconsolato quei numeri poco rassicuranti: per quanto si lavorasse senza
sosta
alla fortificazione di Treviso e malgrado lo spirito generalmente
ottimista
degli soldati e dei civili volontari, il provveditore non scorgeva
vittoria
certa con sì inferiore numero di uomini. La città
stessa non contava più di
14.000 abitanti, molti dei quali avevano già riparato nella
capitale sin
dall'inizio del conflitto. E come ogni giorno, alla richiesta a Venezia
di
portare almeno oltre 5.000 i difensori, nisba, neanche un sol motto a
riguardo.
L’unica
sua consolazione risiedeva negli scatenati stradioti, i
quali compivano miracoli, portando dalle loro quotidiane perlustrazioni
ricco
bottino di prigionieri e cavalli, 30 il giorno
prima, tra cui un
famiglio di Mercurio Bua che confermava come il suo capitano avesse
intenzione
di abbandonare tra la notte del 1 e 2 settembre Castelnuovo di Quero
alla volta
del campo di Montebelluna, ergo sfatando la diceria della presenza del
Re dei
Romani in Italia. Inoltre, se non era per
quell’intraprendente anima pia del
comandante Dimitri Megaduca di Costantinopoli, che gli riconquistava
Conegliano
in testa a 20 suoi stradioti e 100 balestrieri a cavallo prestatigli da
Renzo
di Ceri, aveva voglia ad attendere i porci comodi di
quell’inutile impiastro
del Bataja e dei suoi uomini, all’unanime rifiutatisi di
partire per
quell’impresa e il Gradenigo incominciò sul serio
a questionare la bontà della
sua scelta di non aver concesso a sier Marco Miani l’immenso
piacere di
squartar vivo quel codardo. (Sier Nicolò Balbi,
podestò di Cividal di Belluno,
gli aveva confermato la responsabilità della perdita di
Castelnuovo, disertando
il castellano di cui ancora si ignorava la sorte)
A sier
Zuam Paulo si era poi formato un groppo in gola dalla
commozione quando, mentre stava sigillando i rapporti per la Signoria,
sier
Lunardo Zustignan entrando in Cancelleria euforico da far spavento gli
aveva
raccontato del fortunato rientro degli stradioti con un bottino di
8.000 ducati
in contanti.
Un
po’ meno contento lo rendeva invece il costante malumore dei
molti civili “volontari” per la repulisti delle
macerie della chiesa monastero
di Santa Maria Maggiore e delle case attorno, i quali mal sopportavano
sia il
capitano Orsini degli Anguillara e i suoi soldati sia
l’incessante pioggia,
sostenendo quanto fosse ingiusto dover faticare come bestie al mero
scopo di
morire di catarro verde o cagando acqua.
Sulla
scrivania del provveditore, oltre alle lettere per e dal
Collegio, si trovavano lette e commentate anche quelle da parte dei
suoi
colleghi i quali non se la passavano certo meglio di lui.
Da Roma,
scrivevano l’oratore sier Hironimo Donado “dalle
Rose” e
il protonotaro sier Nicolò Lipomano, gran moria di gente: il
Papa aveva
contagiato indiscriminatamente servi e cardinali, tra cui il cardinale
Argentino che rendeva l’anima a Dio e con lui
s’ammalavano pure i cardinali
inglesi e svizzeri; avevano trovato un morto sottocasa e infine si
pensava di
spedire il della Rovere ad Ostia per non crear ulteriori danni. Il
cardinale
Giovanni de’ Medici gufava imbizzarrito quanto Giulio II
fosse assolutamente
spacciato, mentre quest’ultimo esigeva a furia di strepiti e
scenate la sola
compagnia fidata del parente Bartolomeo della Rovere, della sua cognata
veggente e della nipote madonna Felice sposata a Gian Giordano Orsini.
Tanto il
Papa era moribondo, che trascorreva intere giornate a sbraitare contro
i suoi
stessi medici, Marco Arcangelo in primis, subissandoli di tali
ingiuriose
villanie che mai si sarebbero dovute sentire uscir di bocca da un
pontefice
consacrato. Giulio II contro ogni consiglio pretendeva di bere
vino e
mangiar pernici e non quelle immonde zuppe cui lo costringevano; aveva
perfino
fatto rinchiudere in carcere i medici, per poi perdonarli quando questi
un poco
cedettero, concedendogli del pesce persico. Il cardinal Domenego
Grimani
commentava che, per uno con un piede nella fossa, di sicuro
aveva molte
energie da spendere.
In
verità al Pontefice più che il vino non giovavano
alla sua
salute i litigi crescenti sulla questione della legge salica aragonese
che
avrebbe lasciato Saragozza e Napoli senza eredi maschi, al che Louis di
Francia
già allungava cupido le manine, sennonché
Fernando El Católico gli ricordava
seccamente che un erede esisteva, soltanto qualche generazione
più in là e che
comunque, virile com’era, senz'ombra di dubbio un maschio
dalla seconda moglie
Germaine de Foix ce l’avrebbe tirato fuori. [4]
L’Inghilterra, come sempre,
parlava e nulla concludeva. In ogni modo, Roma restava sottosopra e in
arme,
tumulti all’ordine del giorno coi Colonna e gli Orsini
sospettosi dei fanti
stranieri e sier Nicolò Lipomano protonotaro concludeva le
sue missive
raccomandandosi a Dio ogni ora per arrivare vivo l’indomani.
Da
Padova, grande allegrezza e lodi al provveditore degli
stradioti sier Ferigo Contarini; il provveditore generale sier Polo
Capello
aveva poi aggiunto altri eventi quali il rimpatrio di sier Andrea Griti
a
Venezia per burchio; di come suo cognato sier Christofal Moro si fosse
un poco
ripreso, sebbene il dolore alla gamba gli impedisse di montare a
cavallo ed infine
di come il domino Lucio Malvezzi oramai si trovasse
all’estremo passo, vinto
dalla febbre e dal malfrancese.
E tante
altre cose.
“Ah,
mojer!”, sospirò affranto sier Zuam Paulo
Gradenigo,
rivolgendosi alla moglie Maria, la quale lo guardava assai accigliata
dal letto
poco distante: i due a seguito di un veemente litigio avevano raggiunto
un
compromesso, ovvero che se la donna non poteva costringere il suo
consorte a
ridurre le ore a Palazzo dei Trecento, che almeno lavorasse nei suoi
appartamenti là dove lei poteva assicurarsi che il marito
mangiasse almeno due
pasti al giorno e anche per poco tempo si concedesse qualche pausa, non
piacendole l’eccessivo zelo con cui il provveditore stava
organizzando la
difesa di Treviso, specie se detto zelo voleva in cambio la sua salute.
“Se
sopravvivremo a questa guerra, mi dovranno beatificare per non aver
strangolati
‘sti scarcavali!” (petardi, intesi come
scassapalle, ndr.)
Tirando
via le coperte battagliera e alzandosi snervata dal letto,
Maria Malipiero Gradenigo avanzò verso la scrivania e ivi
catturò per un
braccio il marito, trascinandolo seco e spogliandolo accigliata della
vesta.
“Puoah”, commentò dura, spingendo il suo
uomo in letto e non per motivi
lascivi. “A mi me gh’han da far santa, per avervi
sopportato per trentadue anni
senza affogarvi in canal! Dormite, strambazzo, almanco fino
all’alba!”
“Burleu,
femena? Gh’ho da scrivar le lettare et
…!”
“Seu
sordo o sempio? A Trevixo, comandate voi, ma qui in casa
comando mi! Donca, usate il vostro buonsenso e dormite, ché
la stanchezza è la
peggior consigliera!”
Continua
…
****************************************************************************************************************
Sia ben
chiaro: Mercurio Bua non attenterà mai più alla
“virtù”
del Nostro, né appartiene a quella sponda. Semplicemente,
voleva fare il
gradasso ma come dicono gli inglesi ha morso più di quanto
potesse masticare,
ché il Nostro aveva la linguetta assai lunga.
Siamo
dunque ai primi giorni della prigionia, il Nostro ancora
resiste, sebbene ora sia in catene non più figurativamente.
La
lettera di Federico Contarini è stata
“parafrasata” per via
della lingua e struttura molto telegrafica, quasi lista della spesa,
come se
appunto fosse stata scritta di gran fretta.
La
presenza di Maria Malipiero Gradenigo a Treviso è una mia
arbitraria decisione, giacché non si sa se effettivamente
lei seguì il marito;
tuttavia, non era improbabile che gli ufficiali di stato venissero
accompagnati
dalle loro consorti e dai figli più grandicelli.
Spero che
questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!
Un
po’ di noticine:
[1]
targa =
piccolo scudo di legno piegato e
ricoperto di cuoio, di forma quadrata o trapezoidale che si regge con
la mano
sinistra.
[2] Garisenda =
la Torre della
Garisenda assieme alla Torre degli Asinelli sono i due edifici simbolo
di
Bologna, di cui i Bentivoglio furono signori.
[3]
Compagnia degli Immortali, una
delle varie Compagnia della
Calza, era una sorta di club in cui i giovani patrizi si prodigavano a
creare
svaghi per ogni occasione, intrattenendo anche ospiti che venivano in
visita a
Venezia. Apprezzati erano gli spettacoli delle momarie e le commedie,
talvolta
scritte e interpretate dagli stessi membri della Compagnia.
[4] contrariamente a Castiglia, dove una donna
(pur come ultima spes) poteva regnare come sovrana proprietaria del
regno, in
Aragona vigeva la legge salica che aveva creato non poche
difficoltà ai sovrani
Cattolici, specie dopo la morte del figlio Don Giovanni Principe delle
Asturie,
l’unico erede maschio. Morta la Principessa delle Asturie e
Regina di
Portogallo Isabella d’Aragona e il di lei figlio Don Miguel
de la Paz, l’erede
era divenuta Giovanna di Castiglia (più nota come Giovanna
la Pazza), sposata
con Filippo il Bello figlio di Massimiliano d’Asburgo.
Purtroppo, il genero era
politicamente filo-francese, aspetto che non garbava a Ferdinando, da
sempre in
conflitto con la Francia per via di Napoli, del Rossiglione e della
Navarra. Il
timore quindi, che il genero potesse regnare tramite la figlia o il
nipote
Carlo, spinse Ferdinando a sposare in seconde nozze Germaine de Foix
sia come
segno di “benevolenza” verso la Francia ma
soprattutto per aver quell’erede al
trono aragonese che avrebbe scalzato ogni pretesa di Giovanna, Filippo
e Carlo.
Purtroppo, Germaine non riuscì ad avere figli che
sopravvissero e dunque
ambedue le corone le ereditò Carlo, visto che Filippo era
curiosamente morto di
uno “strano” malanno allo stomaco nel 1506. Le
teorie del complotto indicano
veneficio da parte di Ferdinando e noi conoscendo l’uomo, il
primo a dichiarare
pazza la figlia pur di assumere la reggenza di Castiglia, ci crediamo.
Comunque, la tensione del 1511 tra Francia e Spagna non
sfuggì a Venezia, con
conseguenze che ben si vedranno fra poco.