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Autore: Hoel    13/11/2019    4 recensioni
Nell’agosto del 1511, gli esploratori veneziani intercettano una lettera scritta dal governatore di Milano Gaston de Foix-Nemours e indirizzata al maresciallo Jacques de Chabannes de La Palice, in cui l’informa di come il Re di Francia Louis XII stia inviando rinforzi per aiutare l’Imperatore Maximilian I. von Habsburg nella sua “impresa di Treviso”, ovvero la conquista dell’ultimo ostinato baluardo veneto che separa la Lega di Cambrai dalla laguna di Venezia. Da ben due anni Treviso resiste irriducibile, così come la Serenissima, ripresasi in fretta dallo shock di Agnadello, ha ben dimostrato il suo fermo proposito di non lasciarsi cancellare tanto facilmente dalle pagine della Storia, rivelandosi un avversario più tenace di quanto prefiguratosi dai Collegati.
Su questo sfondo dell’assedio di Treviso si snoderanno le vicende di un giovane e misconosciuto patrizio veneziano, destinato però a diventare più grande di re e imperatori, di valenti condottieri e del Papa stesso.
[Vietati la riproduzione e il plagio; questa storia è tutelata]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Epoca moderna (1492/1789), Rinascimento
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Vi auguro una buona lettura,

H.

Aggiornato il 03.09. 2021

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Capitolo Quarto

1 -2 settembre 1511

 

 

 

 

Per questo tu correggi poco a poco quelli che sbagliano

E li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato,

perché, messa da parte ogni malizia, credano in te,

Signore.

 

(Sapienza, 12,2)

 

 

 

 

 

Nella solitudine degli appartamenti dell’ex-reggente di Castelnuovo, Mercurio Bua osserva crucciato il fuoco scoppiettante nel caminetto, una lettera stretta in mano e l’altra che tamburellava impaziente le dita sulla coscia.

Da Manoli e Constatino Boccali niente buone, quei caparbi linguacciuti dei suoi compatrioti non volevano cedergliela e dinanzi alle sue sacrosante insistenze per riaverla indietro, avevano osato aggiungere: non sperate in noi alcun appoggio né comprensione. Nessuno della nostra famiglia s’assocerà a voi, vendutosi ai Collegati. Non riotterrete ciò che voi per primo avete sacrificato per egoistica ambizione.

Suo fratello Teodoro Bua e l’altro suo parente Alessio Bua – luridi pendagli da forca! -  neppure s’erano degnati di rispondergli; suo nipote Andrea Bua era meglio se ne stesse a Mantova, inutile com’era.

Oramai troppo tempo era trascorso dall’ultimo soggiorno di Mercurio a Venezia, le amicizie e le conoscenze decadute e pertanto assai difficile per lui poter agganciare qualcuno di fiducia onde appoggiarlo nella sua causa. Il che lo frustrava oltre ogni dire, ancor più adesso che possedeva un carta preziosissima quanto difficile da giocare, nutrendo infatti il capitano di ventura gravi dubbi sulla bontà dell’impresa di Treviso ma soprattutto sulla costanza dei suoi medesimi alleati, non ispirandogli alcuna fiducia: i francesi da una parte, altezzosi e moi-je-sais-tout  (so-tutto-io, ndr.), sempre pronti ad incolpare il prossimo in caso di sconfitta o a prendersi il merito della vittoria.  Dall’altra parte i tedeschi, ancor peggio, buoni solamente a rubare considerando tutto il porco mondo loro proprietà anche quando appartenente agli alleati. Mal in arnese, disordinanti e disobbedienti eppure mille volte Mercurio Bua aveva insistito col maresciallo La Palice ad usare i metodi forti, ovver prendere gli imperiali a calci in culo finché in quelle teste di stoppa non si scolpivano gli ordini come fece Mosè coi Dieci Comandamenti. I Tedeschi, gli aveva spiegato il greco-albanese al limite della pazienza, sono un popolo di pecore, che non pensa bensì agisce e se sente il latrato del can pastore, ecco che saltella belando in fila! Peccato che Vossignoria dall’alto della sua saggezza non si degnasse mai d’ascoltarlo. Puah!

Ad arraffare però la sua roba - oh! - più lesto d’un gatto!

Per un soffio il Bua aveva evitato che il francese gli sgraffignasse da sotto il naso il patrizio veneziano; ad aggiungere l’insulto all’ingiuria quei cretini dei suoi uomini, pur di non rinunciare alla consolidata tradizione di grattarsi la pancia e poltrire, poco ci mancava che non avessero offerto su di un piatto d’argento una possibilità di fuga al prigioniero, che per fortuna era troppo debilitato da tre giorni di digiuno forzato per attraversare la Piave a nuoto, ma non sufficientemente da cambiare i connotati ad alcuni suoi stradioti, i quali, a Dio piacendo, si sarebbero ben sovvenuti della lezione impartitali.  

I bottini erano poi scarsi e magri; dell’Imperatore neppure l’ombra malgrado il capitano gli avesse concesso un giorno in più d’attesa oltre ai tre indicatigli da La Palice. Inutile quindi seppellire la testa sotto terra e ignorare la realtà, cioè che ben presto quegli ingordi dei tedeschi sarebbero venuti alle mani con quegli arroganti dei francesi, non per l’onore bensì per un pezzo di pane. Il che avrebbe potuto causare spinosi grattacapi al greco-albanese e alla sua compagnia.

No, doveva assicurarsi che nessuno gli toccasse il suo castellano, ché se fosse finito nelle mani dei tedeschi, quelli avrebbero incassato immediatamente il riscatto o scambiatolo con un prigioniero che a loro interessava, senza consultarlo; coi francesi, invece, impacchettato e spedito in Francia cogli altri prigionieri veneziani, di nuovo senza tenere in considerazione il vero merito nella cattura. Meno male che La Palice aveva avuto un attimo di lucidità mentale per concedergli di contrattare di persona il riscatto dei due capitani bellunesi, altrimenti il Bua sul serio l’avrebbe affogato di sua mano nella Piave. 

Presa dunque la sua decisione, il mercenario balzò in piedi e gettò stizzito nel fuoco l’inutile missiva, dirigendosi verso la porta là dove stava di guardia un suo famiglio.

La notte non era poi così lunga e c’era tanto da fare.

 

***

 

 

Magnifice ac generose frater carissime,

 

Oggi vi fu scritto brevemente dal mio segretario, poiché ancora mi trovavo fuori Padoa con all’incirca 300 stradioti (i nomi dei capi già vi sono stati da lui elencati) e altrettanti 300 balestrieri sotto il comando del domino Jannes da Campo Fregoso.

Avevamo lasciato Padoa verso l’imbrunire del 30 agosto, cavalcando tutta notte per giungere all’alba presso Santa Crose, là dove ci appostammo per coordinare il nostro agguato: 100 cavalli decisi d’inviarli tra Bassam e Castel Francho e altri 100 verso Marostega per sabotare il trasporto dei rifornimenti; quanto a noi, avevamo giudicato più prudente rimanere tra Citadela e Bassam pronti all’occorrenza a prestar soccorso. Quand’ecco, nel bel mezzo dell’attesa, un mio esploratore fece all’improvviso ritorno dalla sua missione d’avanscoperta e mi riferì concitatamente come 200 cavalli fossero partiti da Vicensa e diretti a Marostega, là dove si stava preparando il campo per il Duca di Baviera.

Immediate, cangiammo piano e piombammo inattesi addosso ai nemici, sorprendendoli infatti a marciare a ranghi serrati ignari della nostra presenza e con violento impeto ci scontrammo contro i loro cavalleggeri, il magnifico conte Guido Rangon e il sottoscritto in prima linea volendo infatti essere tra i primi feritori. Purtroppo, per il gran numero d’uomini d’arme, il conte Guido venne sopraffatto e con tre lance disarcionato; a me spezzarono una lancia sulla targa [1] et immediate fummo da tutti, stradioti e balestrieri, abbandonati. Il sopracitato conte Guido cadde prigioniero e poco ci mancò ch’io ne condividessi la triste sorte, tamen come meglio potei riuscii a sfuggir loro e ad indietreggiare assieme al signor Jannes da Campo Fregoso con all’incirca XX cavalli, pur tuttavia rimanendo sufficientemente presso ai nemici da tallonarli ugualmente e tagliarli ogni via di fuga in attesa dei rinforzi, intanto che cercavamo di radunare 100 fino a 150 cavalli.

Questo finché il nemico, esasperato, uscì dalla strada maestra per Marostega, ormai distante 3 miglia, e correva allo sbando per la campagna violentemente incalzati da noialtri, al punto che dalla fretta della disperazione abbandonò tutti i suoi carri, ch’erano in gran numero. Non potei di conseguenza non cogliere quell’inaspettata ma propizia occasione e così reingaggiammo subito battaglia contro i nemici, disperdendoli e trucidandoli.

In totale, catturammo uomini d’arme dai 30 ai 40; il resto, 200 cavalli tra arcieri, stradioti e alcuni balestrieri; 400 guasconi con molti schioppi che ne facevano gran danno, tutti armati benissimo e in ordine eccellente per recarsi all’accampamento. I prigionieri ci riferirono come il Roy di Franza non avrebbe più inviato ulteriori rinforzi a Marostega e come le artiglierie non fossero ancora state trasferite da Soave. In aggiunta, facemmo prigionieri anche tre capitani - due di fanterie, i Monsignori de Richebourg e Mongiron ed uno d’uomini d’arme, il signor Aloisio Ferrer -  i quali ci confermarono che, non fosse calata la Cesarea Maestà da Bolzano, non avrebbero compiuto alcun’impresa bensì se ne sarebbero ritornati alla guarnigione loro.

Altro non vi dico per ora: Iddio sia con voi!

 

Paduae, die primo septembris 1511, horre 7 noctis.

Frater Contarenus,

Stratiotarum Provisor

 

 

Sier Ferigo Contarini soffiò via la polvere dalla pagina della lettera, richiudendola con movimenti lenti e accorti a causa della stanchezza, ponendo ben attenzione a non ustionarsi con la ceralacca al momento di sigillarla. Ad operazione terminata si stropicciò gli occhi arrossati, sbadigliando sfinito e anelante alla sola consolazione del letto; prese la missiva e l’affidò al suo servitore, acciocché la consegnasse alla prima staffetta disponibile.

Malgrado il suo ingresso trionfale al crepuscolo alla Porta Codalunga, dove al lume delle torce avevano fatto sfilare in camicia e catene i prigionieri per lo più francesi ma con anche qualche tedesco, dai capitani fino alle loro puttane nonché i 200 carri per un valore di oltre 20.000 ducati di bottino, il Contarini purtroppo per lui non era riuscito a svignarsela prima di notte fonda, avendolo infatti ghermito il provveditore generale sier Polo Capello, cognato della Regina di Cipro, giunto appositamente dal bastione di Portello dove stava supervisionando i lavori di rafforzamento, euforico di quella schiacciante vittoria e avido di particolari da riferire sia alla Signoria Loro sia ai suoi colleghi ammalati (a sier Christofal Moro et a sier Andrea Griti zoverà pì de tutti i intruji ch’i gh’han fatto bevar fin’horra!).

Divincolatosi abilmente, sier Ferigo gli aveva promesso colloquio come primo impegno della giornata, barcollando quasi verso i suoi alloggi eppure il sangue che ancora gli pompava furiosamente nelle vene, animandolo di febbrile energia. Il tempo poi di concedere al suo valletto d’arme di spogliarlo dalla corazza e di lavarsi mani e viso, che rimasto nei più comodi camicia e zipone s’era messo a scrivere quella lettera tanto promessa a suo fratello Marco Antonio, nella speranza che non gli avesse serbato rancore se il suo segretario gli aveva fatto di recente le veci per tenerlo informato circa gli ultimi avvenimenti. 

Il giovane provveditore s’abbandonò sfinito sullo schienale della sedia, tirandogli i muscoli indolenziti del collo piegato all’indietro e le tempie pulsanti e infastidite perfino dalla flebile luce della candela. Se la sua natura non fosse stata coscienziosa e ordinata, si sarebbe gettato in letto così com’era. Pur avendolo la guerra abituato ad ogni genere di disagio tra cui anche dormire all’occasione a cavallo, egli ci teneva quanto più possibile di mantenere una parvenza di civili maniere, perlomeno negli alloggi cittadini e d’altronde rovinare quelle belle lenzuola calde e pulite equivaleva ad un sacrilegio. Inoltre, prima di coricarsi doveva preparare uno straccio di discorso per sier Polo Capelo: ogni sua parola sarebbe stata riferita verbatim alla Signoria e al Consiglio, pertanto doveva sceglierle accorto specie per giustificare la seccante cattura del conte Guido Rangoni e non tanto per il riscatto di per sé, bensì per la malcelata insistenza di suo zio Annibale Bentivoglio e del fratello minore Annibale Rangoni a rivoler indietro tra le loro file quel ribelle e recalcitrante figliol affatto prodigo e ora che l’avevano in pugno, di sicuro l’avrebbero rinchiuso sottochiave fin in cima alla Garisenda[2] pur d’impedirgli di riunirsi alle truppe veneziane.  Il che scocciava il Contarini fino al suo limite, sia per aver perso un valido condottiero sia colui che stava incominciando ad apprezzare anche come amico. Senza contare poi che a lui sarebbe toccato l’ingrato compito d’informare il giovanissimo Francesco Rangoni, l’altro fratello minore, in apparenza per rassicurarlo ma in realtà per saggiarne la fedeltà e la prontezza ad assumere eventualmente la condotta al posto di Guido.

Quella cattura bruciava beffarda al giovane provveditore, imporporandogli le gote di stizza e colpevolizzandosi impietoso per non aver pianificato con sufficienza cura l’attacco, lasciandosi guidare dalla smania di sorprendere l’avversario ad ogni costo e l’arroganza di averlo avuto già in pugno. Non avesse posseduto il pronto riflesso di conficcare ciò che rimaneva della targa nella gola dell’avversario, usandola praticamente alla stregua di una mannaia e non fosse comparso Giano di Campofregoso a coprirgli le spalle, a quell’ora sier Ferigo Contarini si sarebbe trovato in compagnia del Rangoni diretto in catene a Marostica o peggio ancora a Vicenza e stavolta nulla l’avrebbe salvato dal finire prigioniero dei Gonzaga, i quali ancora arrossivano sia per la sconfitta a Casaloldo sia per quell’insolente sua fuga due anni addietro, specie la Marchesa Isabella d’Este che vittima dell’astuto inganno di Ferigo aveva firmato ignara il suo lasciapassare, credendolo un fedele suddito che trasportava la farina per le truppe del marito. Uno bello smacco per l’altera e gelida Estense ognora credutasi al di sopra di ogni umano sbaglio.

E mentre l’uomo si crogiolava in questi poco lieti pensieri, il sonno lo colse traditore e di conseguenza sobbalzò buffamente all’irruzione di uno suo stradiota, il quale senza neanche concedere al suo provveditore il tempo di dargli della canaglia per quella sua cafoneria d’entrar senza bussare, esclamò questi concitato: “Signore, dovete venire! Oh, dovete proprio venire!” e batteva il piede per terra impaziente, trattenendosi dall’afferrare il Contarini per una manica e trascinarlo via con sé.

Sbiascicando un inintelligibile improperio e allacciandosi alla bell’e meglio il zipone, il patrizio s’augurò per lo stradiota che la notizia valesse la pena di quel disturbo, o l’indomani l’avrebbe fatto fustigare a Piazze delle Erbe finché manco sua madre sarebbe stata capace di riconoscerlo.

Arrivati dunque all’entrata di Codalunga e trovandola stranamente per l’ora tarda in giovale subbuglio, Ferigo s’arrestò bruscamente, impietrito, per poi piegarsi all’improvviso in due e, reggendosi la pancia, si sganasciò dalle risate come non faceva dai tempi delle sconcissime momarie e commedie scritte e rappresentate coi suoi amici per le feste organizzate dalla Compagnia degli Immortali. [3]

“Corpo dil diavol!”, ansimò ilare, mancandogli il fiato e asciugandosi le lacrime versate per il gran ridere. “Che gran fio de …”

… Bianca Bentivoglio, sorella di Annibale Bentivoglio, al secolo conte Guido Rangoni che rientrava a Padova sornionamente trionfo in groppa a cavallo assieme a don Garcia, il cavaliere spagnolo che l’aveva catturato. Il modenese appariva talmente in disordine da sembrare un vagabondo, inzaccherato com’era dalla testa ai piedi di fango e il viso ridotto ad una maschera di terra, sudore e sangue su cui però s’allargava raggiante un soddisfatto e felino sorrisone.

“Fascio humilissima riveronza a tutti lor monseigneurs!”, si esibì il giovane condottiero in un appositamente esagerato inchino pomposo, svolazzando e ondulando il braccio  a scherno del saluto alla francese, imitandone poi beffardamente l’accento e gli uomini lì presenti rincararono le dosi di grasse  e sfottitrici risate di sottofondo. “Hé, che poca creanza, signori miei! Ma come! Non mi s’aspetta per festeggiare? Ché siete stati tutti contagiati dalla zoticaggine francese?”, inquisì falsamente scandalizzato, nel frattempo che alcuni soldati lo aiutavano solerti a scendere da cavallo, avendo infatti notato la ferita alla coscia fasciata da una benda di fortuna.

“Conte Guido … noi vi abbiamo dato per prigioniero … ad un certo punto v’abbiamo perfino perso di vista!”, fece incredulo sier Ferigo, offrendo il suo braccio a mo’ di sostegno per il lievemente zoppicante nobile modenese.

“Anche el caballero qui presente mi aveva dato per prigioniero: peccato che dalla fretta di catturarmi si sia scordato come vanno stretti i nodi e di conseguenza, lungo la strada per Marostica, abbiamo invertito le sorti!”, spiegò concisamente il Rangoni al giovane provveditore, il quale seguitava a sorridere un po’ demente, nell’intimo orante mille grazie alla Madonna per quell’inaspettata giravolta d’eventi.

I due s’incamminarono allora lentamente verso gli alloggi del condottiero, quest’ultimo d’un tratto fermatosi, rimbeccando a gran voce gli stradioti che già agguantavano lo spagnolo poco delicatamente, trascinandolo quasi giù da cavallo: “No, trattate don Garcia con rispetto: questi è un uomo dabbene, mi ha curato malgrado fossi suo prigioniero. Fino al suo riscatto, che stia qui a Padova a suo agio e di buon cuore: tanto, paga tutto il Gonzaga!”

A quelle ilari parole,  il livello d’allegria schizzò alle stelle come le scintille dei falò d’Epifania e tutti gli uomini lì presenti, dai soldati marciani agli stradioti, in coro gridarono euforici, agitando ben in alto le braccia:

“Viva! Viva! Viva el Gonzaga che paga!”

Non fosse stata notte fonda e non avessero avuto due giorni di sonno arretrato, certamente essi avrebbero festeggiato quella loro vittoria con grandi bisbocce, avendo tutti la saccoccia e la pancia piena: infatti, dopo aver sequestrato i carri con l’oro destinato alla Signoria, sier Ferigo aveva nominato Giovanni Forti di Orte e il greco Teodoro Frasina responsabili dell’equa distribuzione tra i soldati delle catene d’oro, degli abiti di seta, delle armi, delle armature e perfino dei guadagni strappati da sotto le sottane alle prostitute; alle prime luci dell’alba avrebbero poi venduto i cavalli e se tutto andava bene 24 ducati a testa non glieli levava nessuno. Perfino i contadini scesi appositamente dai monti per ammazzare i francesi avevano guadagnato la giornata, spogliando i nemici delle armi e delle corazze di cui i marciani già non se n’erano serviti, lasciando letteralmente in camicia sia i vivi che i morti.

Ci si coricò quindi assai contenti, vittoriosi e senza casualità tra i loro, grati inoltre d’aver ottenuto sveglia libera l’indomani.

 

***

 

Hironimo avrebbe infranto l’ottavo comandamento affermando di non aver provato una paura fottuta, quando uno stradiota venne a prelevarlo di peso dalla sua cella, strappandolo dal primo sonno decente in seguito alla caduta di Castelnuovo di Quero. Il silenzio inquietante dei soldati, unito all’ora tarda e al fatto che l’avessero separato a furia di manrovesci da Thomà (che se ne beccò la più parte perché no, non voleva lasciare la sua presa alla camicia del patrizio) l’avevano indotto a giungere alla tremenda conclusione che il Bua aveva intenzione tramite la tortura di interrogarlo, forse per supplire a quelle informazioni che il giovane Miani aveva precedentemente bruciato onde impedire finissero nelle mani dei franco-imperiali.

Si stupì grandemente di conseguenza alla vista del capitano di ventura seduto tranquillo e disarmato, anzi, palesemente divertito davanti al suo stupore e alla frenetica ricerca con lo sguardo degli strumenti del supplizio, non trovandone però nessuno a meno che Mercurio Bua Spata non avesse intenzione di ricorrere ai più tradizionali pugni in faccia e allo stomaco, magari col guanto di ferro.

Invece, congedato il famiglio, l’uomo gli ordinò in greco con un sorrisetto sfottitore sulla faccia: “Avanti, spogliati e lavati; là c’è il catino. Puzzi da nausearmi!”

Hironimo si sentì avvampare di collera. “Grazie a chi questo?”, fu più veloce la lingua, incrociando le braccia al petto in inconscia difesa. Purtroppo per lui, il greco-albanese aveva ragione, il giovane patrizio stesso non sopportava più quell’odore rancido che si portava addosso da quattro giorni nonché il continuo prurito ai capelli e alla barba ormai cresciutagli incolta. Tuttavia, la soddisfazione di convenire con quel gaglioffo da morto gliel’avrebbe concessa.

Mercurio gettò indietro il capo, ridendosela alla grossa: gli piaceva quella puerile sfrontatezza, avrebbe reso la loro convivenza meno noiosa. “Suvvia, niente capricci. Levati quello straccio di dosso e datti una bella strigliata, fra poco voglio coricarmi e non ho tutta la notte a disposizione per farti da balia!”

Il giovane Miani studiò dubbioso l’acqua, saggiandone la temperatura con un dito: immediatamente avvertì il gelo fino alle ossa e oltre. “Mi vuoi ammazzare? È gelida!”

“Prima ti lavi, prima ti asciughi.”

“Girati almanco!”

Il condottiero allargò le braccia falsamente stupito. “Siamo tra uomini, ergo non hai niente da esibire ch’io stesso non possegga già. Cos’è questo tuo pudore da donzella?”, lo punzecchiò impietoso, specie quando Hironimo, rifilandogli un’occhiataccia velenosa, si voltò dandogli le spalle.

Non si trattava di verecondia, bensì di fastidio per quell’umiliante situazione, sentendosi infatti alla stregua di una bambolina nelle capricciose mani di quel masnadiere, del cui sguardo beffardo e scrutatore percepiva il peso sulla schiena ora denudata dalla sottile barriera della lercia camicia.  Prendendo un profondo respiro, Hironimo la piegò a lato e prese a slacciarsi le brache mentre cercava di scindere la sua mente dal presente, rifugiandosi in un altro contesto e in un altro luogo.

Quanto lo odiava, quel cialtrone pervertito.

Terminata la mortificante spoliazione, subito Hironimo entrò dentro il catino di fortuna e, acquattatosi onde nascondere il suo corpo quanto più possibile all’indesiderato spettatore, molto lentamente si versò addosso la brocca d’acqua, rabbrividendo ad ogni goccia, stringendo i denti che avevano incominciato a battere per il freddo.

Tale era la sua concentrazione da non accorgersi che il Bua s’era nel frattempo alzato, pigliando una seconda brocca più larga che gli rovesciò all’improvviso in testa, innaffiandolo in una dolorosa cascata ghiacciata al punto che per un folle istante Hironimo vide chiazze gialle e nere, urlando all’assassino e così ingoiando acqua che gli andò prontamente di traverso, alternando a colpi di tosse e soffiate di naso dei coloriti epiteti e severi commenti sulla razza del Bua e sulla professione di sua madre. Al che il greco- albanese replicò sornione con una terza e una quarta secchiata d’acqua, finché la pelle di Hironimo assunse un colorito bluastro.

“Toh”, gli calò di malagrazia un pesante telo, sollevandolo poi di peso fuori il catino e trascinandoselo seco, lo lasciò cadere sulla sedia davanti al caminetto.  Portando le ginocchia al petto, Hironimo s’avvolse velocemente nel ruvido panno, in sospettosa attesa.

I suoi occhi neri s’ingrandirono al luccichio di una lama.

“Sta fermo! O ti sbrego questo bel visetto!”, gli intimò Mercurio, tirandogli i capelli a mo’ di monito. Sconfitto, il giovane Miani annuì a malincuore, irrigidendosi ad ogni raschiare del rasoio improvvisato sulla sua pelle, in particolare sotto il mento. “Ti voglio in ordine per quando arriveremo a Montebelluna. O i Venedik, la tua gente, m’abbasserà il prezzo vedendoti più morto che vivo.”

Hironimo aprì un occhio. “Ci spostiamo a Montebelluna? Ma l’Imperatore?”, inquisì con nonchalance, sibilando all’ennesima tirata di capelli, segno che la sua intromissione non era la benvenuta.  

“Non t’impicciare”, l’ammonì infatti il Bua.

Testardo, il patrizio replicò: “M’impiccio eccome del mio riscatto!” e massaggiandosi la guancia arrossata. “E comunque come barbiere fai proprio schifo!”

Il capitano di ventura ridacchiò furbescamente, dirigendosi verso una cassapanca e, apertala, estrasse un indumento che gli gettò contro. “Era tua?”, cinguettò canzonatorio, gettandogli effettivamente una delle sue camice pulite, adesso requisite a mo’ di bottino di guerra.

“Ma certo! L’unica preda che un condottiero della vostra sorte riesce a conquistarsi!”

Mercurio Bua smise immediatamente di ridere.

“D’altronde, vi compatisco: tanti sforzi per conquistare una fortezza di seconda categoria, per accontentarsi di briciole. Non che a Feltre vi andrà meglio, a meno che, dopo due incendi e saccheggi, non v’accontentiate di pietre annerite dal fumo. Quanto a Cividal di Belluno, quelli là vi daranno qualche spiccio per salvarsi la pelle, per poi aprirci di nascosto le porte alla prima occasione e venderci la vostra, di pelle”, infierì il patrizio.

“Il maresciallo non punta né a Feltre né a Cividal di Belluno”, strisciò lentamente le parole Mercurio, stringendo tuttavia sospettoso gli occhi.

“Oh, e tu gli credi in tutto e per tutto?”

Voleva menarlo – oh!, se il capo degli stradioti voleva menarlo! – tuttavia, Hironimo ben si figurava quale furioso meccanismo di pensieri stesse lavorando alacremente dentro il cranio del greco-albanese, conscio che se presentava ai negoziatori del suo riscatto un giovane Miani tumefatto di cazzotti, quelli con la scusa di sevizie e maltrattamenti poco degni ad un patrizio non solo non avrebbero pagato prezzo pieno, ma avrebbero preteso anche una sorta d’indennizzo. Scaltri mercanti, questo erano i veneziani, maestri indiscussi.

“Poche storie”, ribadì seccamente il Bua, strattonando via il telo così da invogliarlo a vestirsi. Non ottenendo il risultato desiderato, di malagrazia afferrò la camicia e arrotolatala tentò d’infilarvi dentro la testa di Hironimo, che prontamente si ribellò in un gran sbracciare, berciando mezzo soffocato dalla stoffa:

“Non mi toccare, mi vesto da solo!”

“Sai quanto me n’importa?”, riuscì infine il capitano nell’impresa, sbuffando. Indietreggiando un poco, osservò soddisfatto il suo personale capolavoro, ovvero un livido Hironimo ancora mezzo bagnato, la camicia semitrasparente che gli delineava il petto ansante di collera nera.  “E ti sta anche bene, va’ che signorino!”, commentò sardonico. “Mi ricordi quelle prostitute alle Carampane, che s’affacciano col petto in fuori alla finestra!”

“Turco depravato!”, gli sputò di rimando il furente patrizio e in un battibaleno Mercurio gli fu addosso, costringendolo a retrocedere fino al tavolo, infelice mossa giacché proprio là lo voleva, dove infatti afferratolo rapidissimo per le caviglie lo issò sopra di esso, schiacciandolo a sua volta col suo corpo.

“Se davvero fossi un turco”, gli spiegò dolcemente velenoso l’uomo, “bello come sei a quest’ora ti ritrovavi senza palle e con le gambe aperte a prendertelo dentro come una femmina. Dunque, carino, vuoi ancora darmi del turco?” e mica scherzava, non disdegnando infatti gli Ottomani anche la carne maschile e il condottiero, tenendo fermo il giovane per la gola, ammise una certa sua avvenenza. Ondulati capelli scuri fino alle spalle s’accompagnavano perfettamente al suo incarnato olivastro, incorniciando un viso regolare dagli zigomi marcati, la fronte alta e il naso forse un po’ grosso, mitigato però da un paio d’occhi molto grandi, nerissimi, e una bocca sottile e larga da sfoggiare il più radioso dei sorrisi. Non come adesso, che sembravano le fauci di un leone a furia d’imprecargli contro.

Hironimo, trovandosi guarda caso esattamente nella posizione descrittagli prosaicamente dall’avventuriero e percependo pressioni sospette, cremisi in volto sbrodolò un flebile: “No, no, per carità … non dico più niente …”

“Ecco bravo e fossi in te seguiterei su questa linea, a meno che tu non voglia divenire la puttana del campo e si sa, in tempi di carestia …”

L’indignazione per la minaccia di costringerlo a quel turpe negozio soppiantò il timore di divenire eunuco. “Sì, ma … non è che dopo t’ingelosisci?”, domandò cinguettando un falsamente innocentino Hironimo, ché se l’altro voleva la guerra, l’avrebbe ottenuta. “Ti ho visto, sai, come ti sei scaldato quando La Palice mi voleva a Montebelluna tutto per sé … Mi son sentito la Briseide della situazione”, e sforzandosi con tutta l’immaginazione a lui disponibile in modo da evocare le fattezze generosamente morbide e femminee della sue passate ganze, gli zampettò le dita sul polso risalendo fin quasi al gomito e Mercurio Bua, neanche l’avesse pizzicato un granchio, si staccò bruscamente da lui con un’espressione schifata in volto. Afferrato un sogghignante Miani, lo tirò giù dal tavolo e lo ributtò malamente sulla sedia.

“Taci e mangia!”, gli ordinò perentorio, schiaffandogli sotto il naso la scodella fumante di minestra e lo stomaco del giovane patrizio si contorse voglioso al solo odore.

Ma Hironimo, ignorandolo e ribollendo di bile nera, col Bua aveva appena incominciato.

“No.”

“Come no?”

“Non mi va.”

Il greco-albanese lo fissò stralunato, come se si trovasse dinanzi ad un pazzo furioso. “Tre giorni di digiuno e ieri un pezzo di pane e tu mi dici che non hai fame?”, gli chiese sarcasticamente incredulo.

Hironimo fece spallucce, incurante.

Le dita del mercenario si contrassero rabbiose. “Mangia!”, sibilò.

“Ho detto di no!”, sbottò il giovane Miani e, al minaccioso appropinquarsi del Bua, aggiunse in fretta: “Non posso mangiare a cuor leggero, sapendo che in quell’orrida stinca un bambino di dieci anni languisce mezzo morto d’inedia. Se lo porterai qui e anche a lui offrirai del cibo e lo tratterrai da cristiano, solo allora mangerò.”

Sorprendentemente Mercurio si rilassò, la sua espressione scevra della recente irritazione, anzi, quasi gli pareva contento, annuendo in approvazione. “Mi par giusto”, sentenziò, gridando qualcosa in albanese, molto probabilmente al famiglio dietro la porta.

Poco tempo dopo, infatti, la porta si apriva di nuovo e un insonnolito Thomà venne spintonato verso Hironimo, che alla luce del caminetto storse la bocca alla vista dello zigomo nuovamente gonfio e delle croste di sangue dalle narici a causa dell’ultimo manrovescio ricevuto.

“Ecco, volevi il moccioso? Pigliatelo e lavalo, che anche questo qua puzza peggio d’un topo morto.”

Il patrizio roteò gli occhi snervato, allungando invece il braccio verso il fantolino. “Vien qua, Thomà, vien che te lavo.”

Thomà, sospettoso, piantò i piedi ben per terra.

Allora, spezzando un pezzo di pane, Hironimo ripeté, porgendoglielo: “Mo via, vien qua, che te spuzi da cagnon!”

Sniffando a momenti il cibo, il bambino si lasciò persuadere ad avvicinarsi al giovane Miani, strappandogli di mano il pane e mentre se lo masticava vorace, il più anziano gli toglieva i vestiti, premurandosi di schermarlo col suo corpo. Fortunatamente, Mercurio Bua non sembrava interessato, al contrario, con la punta dell’attizzatoio prendeva gli indumenti unti del piccino e li gettava nel fuoco a far compagnia a quelli di Hironimo.

“Scoltame ben, horra: sta bon, non criar se l’aqua la xé un fià freda; ti te gh’ha d’armarti de corajo, ché ti sè zà un ometo” e così incoraggiatolo, lo mise dentro il catino con Thomà sempre intento a mangiare, non smettendo neppure quando l’acqua gli toccò la pelle. Meglio così, l’avrebbe tenuto distratto da quell’immeritato supplizio.

Ingoiato simil serpente l’ultimo boccone, il fantolino esclamò deliziato: “Oh, patron! Ma vui seti un gran buziardo: l’aqua la xé bea calda, mancho un potacchio (zuppa, ndr.)!”

Hironimo strabuzzò gli occhi e Mercurio Bua si voltò di scatto e quasi in comica sincronia ambedue gli uomini infilarono la mano nell’acqua rimanente nella secchia, appurando sconcertati come sì, essa si presentasse calda, piacevole come quella termale di Abano. Prima però che il capitano di ventura potesse anche solo aprire bocca, Hironimo versò tutta l’acqua addosso al bambino, finendo di lavarlo e lo avvolse in fretta nel telo, tirandoselo su in braccio e portandolo al tavolo, dove un greco-albanese ancora confuso porse in silenzio una seconda scodella di minestra. Thomà, ghermitala, si mise a berla rumorosamente, dimentico del cucchiaio e delle buone maniere. Non che servissero considerata la natura del loro anfitrione.  

Nel frattanto che Thomà metteva a dura prova la flessibilità e resistenza del suo esofago, il giovane Miani domandò a Mercurio Bua, che dal canto suo osservava un poco affascinato la prodezza mangiatoria del bambino ora intento a leccare il piatto: “Perché avete impedito di seppellire i cadaveri? Non avete rispetto per i morti?”e intinse di sprezzante veleno l’ultima parola.

Il condottiero grugnì. “Avresti preferito che li dessi in pasto ai cani come fecero due anni fa i Francesi cogli abitanti di Castelbaldo? Il vostro è un popolo dal cuore marinaro: le tombe d’acqua non dovrebbero spaventarvi …” Notando però lo scettico sopracciglio inarcato sulla fronte del suo prigioniero, l’uomo continuò, stranamente sulla difensiva: “Contrariamente ai francesi e ai tedeschi, non sono stupidamente crudele. Eppoi, a che servono i cadaveri in un castello, se non a far venire topi e peste? Prima ce li leviamo dai piedi, meglio è”, sentenziò, fissando poi significativamente il patrizio veneziano. “Io tenni la promessa. Adesso mangia.”

A onor del vero, Hironimo avvertiva una leggera nausea, la gola serrata. Ciononostante, doveva ammettere la sorprendente correttezza del greco-albanese - costui continuava a scrutarlo con la medesima fissità predatoria di un felino - e giudicando pertanto controproducente da parte sua infrangere i patti, si risolse ad onorare la parola data. Aveva udito certe dicerie all'inizio del mese di agosto, su come Mercurio Bua, a Verona, avesse catturato Jacomo da Malnisio (o Jacomo Mamalucho com'era conosciuto da tutti) e lo avesse rilasciato sulla parola, acciocché egli potesse riscuotere da sé la sua taglia. Sennonché, il capitano era rientrato a mani vuote, ma rientrato come solennemente promesso ed ecco che il condottiero tra lo stupore generale l’aveva rivestito di seta, asserendo: “Tu è valente homo et di fede!” E Jacomo Mamalucho fu libero.

Deglutendo indietro la saliva acida, Hironimo portò quindi il cucchiaio ripieno di zuppa alla bocca, sorbendola titubante. Un secondo, un terzo, un quarto cucchiaio e il suo stomaco traditore già si rincuorava, sotto lo sguardo compiaciuto del Bua che si pose in piedi, trafficando con qualcosa dal sinistro rumore metallico.

Catene, tra cui una attaccata ad una palla di cannone.

Il cucchiaio cadde pesantemente di mano ad Hironimo macchiando il tavolo di minestra, subito raccolta dall’avida scarpetta che Thomà fece col pezzo di pane; intuendo poi questi come il patrizio, sconvolto, non avesse intenzione di continuare a mangiare, lentamente e di nascosto attirò a sé la scodella mezza piena, sostituendola con quella vuota.

“Hai le mani leste, lo ammetto, non mi sono sfuggiti i ricordini che hai lasciato – meritatamente – in faccia ai miei uomini. Per questo motivo e soprattutto perché tu ti levi dalla testa ogni piano di fuga, mi vedo costretto a mettertele. Non temere, ti ci abituerai presto!”, gl’illustrò il condottiero la situazione, ghermendogli la caviglia.

Immediatamente, Hironimo gli elargì di riflesso un calcio in pieno petto e il Bua barcollò all’indietro più per la sorpresa che il dolore vero e proprio; infatti, ripresosi, martoriò lo zigomo del giovane con un possente manrovescio da sbilanciarlo verso il tavolo sul cui bordo sbatté dolorosamente la fronte, cadendo in un sordo tonfo per terra.

Mezzo stordito, il Miani avvertì qualcosa rigirarlo e stringergli le mandibole. “Smettila d’atteggiarti come se fossi tu a dettar legge e bada di rigare dritto! Tu sei il mio prigioniero e di te posso fare quello che mi pare e piace e al diavolo se i Venedik mi pagano meno, almeno lo sfizio di tormentare un patrizio veneziano me lo sarò levato!”

“Sì, così il ricordo di come leccavi i piedi al Doge per una condotta ti brucerà di meno!”, soffiò aspro Hironimo, incassando un secondo pugno stavolta tra le scapole che lo indusse definitivamente a più miti consigli.

“Te ne vol ancha ti?”, berciò il capitano di ventura a Thomà, levando minaccioso il braccio. Ficcandosi in testa la scodella eletta ad elmo di fortuna, il bambino scosse vigorosamente il capo in diniego.

Grugnendo soddisfatto, Mercurio riprese il suo lavoro interrotto, fissando bene i ceppi alle caviglie e ai polsi di un semi-incosciente Hironimo, al cui collo egli serrò una sorta di collare di ferro da cui pendeva la piccola ma pensante palla di cannone, la quale, cadendo e non trovando mani pronte a sorreggerla, trascinò rumorosamente seco il giovane veneziano che per sua fortuna si trovava già mezzo inginocchiato per terra, non soffrendo pertanto eccessivamente dell’impatto della sua faccia col pavimento.

Alla stregua dei cani li costrinse il Bua a dormire quella notte, per terra dinanzi al caminetto e meno male che Hironimo dava le spalle sia all’avventuriero che a Thomà, gli occhi arrossati di lacrime di stizza e vergogna dietro gli arruffati capelli e il respiro ridotto a soffocati singulti.

 

***

 

Numero di zente è in Trevixo soto il capetanio di le fantarie:

3.520 fanti soto 17 capi.

449 fanti soto 20 zentilomeni.

46 bombardieri.

Stradioti - numero 228.

Maestranze - numero 140.

 

Vitello Vitelli, homeni d’arme 50, balestrieri a cavallo 25.

Orsino Orsini homeni d’arme 40.

Batagin Bataja, balestrieri 130 a cavalo, e fanti 70.

 

Sier Zuam Paulo Gradenigo si prese la testa tra le mani, leggendo sconsolato quei numeri poco rassicuranti: per quanto si lavorasse senza sosta alla fortificazione di Treviso e malgrado lo spirito generalmente ottimista degli soldati e dei civili volontari, il provveditore non scorgeva vittoria certa con sì inferiore numero di uomini. La città stessa non contava più di 14.000 abitanti, molti dei quali avevano già riparato nella capitale sin dall'inizio del conflitto. E come ogni giorno, alla richiesta a Venezia di portare almeno oltre 5.000 i difensori, nisba, neanche un sol motto a riguardo.

L’unica sua consolazione risiedeva negli scatenati stradioti, i quali compivano miracoli, portando dalle loro quotidiane perlustrazioni ricco bottino di prigionieri e cavalli,  30 il giorno prima, tra cui un famiglio di Mercurio Bua che confermava come il suo capitano avesse intenzione di abbandonare tra la notte del 1 e 2 settembre Castelnuovo di Quero alla volta del campo di Montebelluna, ergo sfatando la diceria della presenza del Re dei Romani in Italia. Inoltre, se non era per quell’intraprendente anima pia del comandante Dimitri Megaduca di Costantinopoli, che gli riconquistava Conegliano in testa a 20 suoi stradioti e 100 balestrieri a cavallo prestatigli da Renzo di Ceri, aveva voglia ad attendere i porci comodi di quell’inutile impiastro del Bataja e dei suoi uomini, all’unanime rifiutatisi di partire per quell’impresa e il Gradenigo incominciò sul serio a questionare la bontà della sua scelta di non aver concesso a sier Marco Miani l’immenso piacere di squartar vivo quel codardo. (Sier Nicolò Balbi, podestò di Cividal di Belluno, gli aveva confermato la responsabilità della perdita di Castelnuovo, disertando il castellano di cui ancora si ignorava la sorte)

A sier Zuam Paulo si era poi formato un groppo in gola dalla commozione quando, mentre stava sigillando i rapporti per la Signoria, sier Lunardo Zustignan entrando in Cancelleria euforico da far spavento gli aveva raccontato del fortunato rientro degli stradioti con un bottino di 8.000 ducati in contanti.

Un po’ meno contento lo rendeva invece il costante malumore dei molti civili “volontari” per la repulisti delle macerie della chiesa monastero di Santa Maria Maggiore e delle case attorno, i quali mal sopportavano sia il capitano Orsini degli Anguillara e i suoi soldati sia l’incessante pioggia, sostenendo quanto fosse ingiusto dover faticare come bestie al mero scopo di morire di catarro verde o cagando acqua.

Sulla scrivania del provveditore, oltre alle lettere per e dal Collegio, si trovavano lette e commentate anche quelle da parte dei suoi colleghi i quali non se la passavano certo meglio di lui.

Da Roma, scrivevano l’oratore sier Hironimo Donado “dalle Rose” e il protonotaro sier Nicolò Lipomano, gran moria di gente: il Papa aveva contagiato indiscriminatamente servi e cardinali, tra cui il cardinale Argentino che rendeva l’anima a Dio e con lui s’ammalavano pure i cardinali inglesi e svizzeri; avevano trovato un morto sottocasa e infine si pensava di spedire il della Rovere ad Ostia per non crear ulteriori danni. Il cardinale Giovanni de’ Medici gufava imbizzarrito quanto Giulio II fosse assolutamente spacciato, mentre quest’ultimo esigeva a furia di strepiti e scenate la sola compagnia fidata del parente Bartolomeo della Rovere, della sua cognata veggente e della nipote madonna Felice sposata a Gian Giordano Orsini. Tanto il Papa era moribondo, che trascorreva intere giornate a sbraitare contro i suoi stessi medici, Marco Arcangelo in primis, subissandoli di tali ingiuriose villanie che mai si sarebbero dovute sentire uscir di bocca da un pontefice consacrato. Giulio II contro ogni consiglio pretendeva di bere vino e mangiar pernici e non quelle immonde zuppe cui lo costringevano; aveva perfino fatto rinchiudere in carcere i medici, per poi perdonarli quando questi un poco cedettero, concedendogli del pesce persico. Il cardinal Domenego Grimani commentava che, per uno con un piede nella fossa, di sicuro aveva molte energie da spendere.

In verità al Pontefice più che il vino non giovavano alla sua salute i litigi crescenti sulla questione della legge salica aragonese che avrebbe lasciato Saragozza e Napoli senza eredi maschi, al che Louis di Francia già allungava cupido le manine, sennonché Fernando El Católico gli ricordava seccamente che un erede esisteva, soltanto qualche generazione più in là e che comunque, virile com’era, senz'ombra di dubbio un maschio dalla seconda moglie Germaine de Foix ce l’avrebbe tirato fuori. [4] L’Inghilterra, come sempre, parlava e nulla concludeva. In ogni modo, Roma restava sottosopra e in arme, tumulti all’ordine del giorno coi Colonna e gli Orsini sospettosi dei fanti stranieri e sier Nicolò Lipomano protonotaro concludeva le sue missive raccomandandosi a Dio ogni ora per arrivare vivo l’indomani.

Da Padova, grande allegrezza e lodi al provveditore degli stradioti sier Ferigo Contarini; il provveditore generale sier Polo Capello aveva poi aggiunto altri eventi quali il rimpatrio di sier Andrea Griti a Venezia per burchio; di come suo cognato sier Christofal Moro si fosse un poco ripreso, sebbene il dolore alla gamba gli impedisse di montare a cavallo ed infine di come il domino Lucio Malvezzi oramai si trovasse all’estremo passo, vinto dalla febbre e dal malfrancese.

E tante altre cose.

“Ah, mojer!”, sospirò affranto sier Zuam Paulo Gradenigo, rivolgendosi alla moglie Maria, la quale lo guardava assai accigliata dal letto poco distante: i due a seguito di un veemente litigio avevano raggiunto un compromesso, ovvero che se la donna non poteva costringere il suo consorte a ridurre le ore a Palazzo dei Trecento, che almeno lavorasse nei suoi appartamenti là dove lei poteva assicurarsi che il marito mangiasse almeno due pasti al giorno e anche per poco tempo si concedesse qualche pausa, non piacendole l’eccessivo zelo con cui il provveditore stava organizzando la difesa di Treviso, specie se detto zelo voleva in cambio la sua salute. “Se sopravvivremo a questa guerra, mi dovranno beatificare per non aver strangolati ‘sti scarcavali!” (petardi, intesi come scassapalle, ndr.)

Tirando via le coperte battagliera e alzandosi snervata dal letto, Maria Malipiero Gradenigo avanzò verso la scrivania e ivi catturò per un braccio il marito, trascinandolo seco e spogliandolo accigliata della vesta. “Puoah”, commentò dura, spingendo il suo uomo in letto e non per motivi lascivi. “A mi me gh’han da far santa, per avervi sopportato per trentadue anni senza affogarvi in canal! Dormite, strambazzo, almanco fino all’alba!”

“Burleu, femena? Gh’ho da scrivar le lettare et …!”

“Seu sordo o sempio? A Trevixo, comandate voi, ma qui in casa comando mi! Donca, usate il vostro buonsenso e dormite, ché la stanchezza è la peggior consigliera!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Continua …

****************************************************************************************************************

Sia ben chiaro: Mercurio Bua non attenterà mai più alla “virtù” del Nostro, né appartiene a quella sponda. Semplicemente, voleva fare il gradasso ma come dicono gli inglesi ha morso più di quanto potesse masticare, ché il Nostro aveva la linguetta assai lunga.

Siamo dunque ai primi giorni della prigionia, il Nostro ancora resiste, sebbene ora sia in catene non più figurativamente.

La lettera di Federico Contarini è stata “parafrasata” per via della lingua e struttura molto telegrafica, quasi lista della spesa, come se appunto fosse stata scritta di gran fretta.

La presenza di Maria Malipiero Gradenigo a Treviso è una mia arbitraria decisione, giacché non si sa se effettivamente lei seguì il marito; tuttavia, non era improbabile che gli ufficiali di stato venissero accompagnati dalle loro consorti e dai figli più grandicelli.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, alla prossima!

 

 

Un po’ di noticine:

[1] targa = piccolo scudo di legno piegato e ricoperto di cuoio, di forma quadrata o trapezoidale che si regge con la mano sinistra.

[2] Garisenda = la Torre della Garisenda assieme alla Torre degli Asinelli sono i due edifici simbolo di Bologna, di cui i Bentivoglio furono signori.

[3] Compagnia degli Immortali, una delle varie Compagnia della Calza, era una sorta di club in cui i giovani patrizi si prodigavano a creare svaghi per ogni occasione, intrattenendo anche ospiti che venivano in visita a Venezia. Apprezzati erano gli spettacoli delle momarie e le commedie, talvolta scritte e interpretate dagli stessi membri della Compagnia.

[4] contrariamente a Castiglia, dove una donna (pur come ultima spes) poteva regnare come sovrana proprietaria del regno, in Aragona vigeva la legge salica che aveva creato non poche difficoltà ai sovrani Cattolici, specie dopo la morte del figlio Don Giovanni Principe delle Asturie, l’unico erede maschio. Morta la Principessa delle Asturie e Regina di Portogallo Isabella d’Aragona e il di lei figlio Don Miguel de la Paz, l’erede era divenuta Giovanna di Castiglia (più nota come Giovanna la Pazza), sposata con Filippo il Bello figlio di Massimiliano d’Asburgo. Purtroppo, il genero era politicamente filo-francese, aspetto che non garbava a Ferdinando, da sempre in conflitto con la Francia per via di Napoli, del Rossiglione e della Navarra. Il timore quindi, che il genero potesse regnare tramite la figlia o il nipote Carlo, spinse Ferdinando a sposare in seconde nozze Germaine de Foix sia come segno di “benevolenza” verso la Francia ma soprattutto per aver quell’erede al trono aragonese che avrebbe scalzato ogni pretesa di Giovanna, Filippo e Carlo. Purtroppo, Germaine non riuscì ad avere figli che sopravvissero e dunque ambedue le corone le ereditò Carlo, visto che Filippo era curiosamente morto di uno “strano” malanno allo stomaco nel 1506. Le teorie del complotto indicano veneficio da parte di Ferdinando e noi conoscendo l’uomo, il primo a dichiarare pazza la figlia pur di assumere la reggenza di Castiglia, ci crediamo. Comunque, la tensione del 1511 tra Francia e Spagna non sfuggì a Venezia, con conseguenze che ben si vedranno fra poco.

 

 

  
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