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Autore: Stellato    14/11/2019    11 recensioni
Siamo nel 1775, rispetto alla storia originale Rosalie manca (manca?), il conte di Fersen è ancora in Svezia e le giornate scorrono monotone in quel di Versailles tra un brutto tiro e l’altro della Polignac e i capricci di Maria Antonietta.
E se Oscar avesse avuto un’amica?
Questo, signori, è il folle tentativo di innestare un po’ di frivolezza nella stoica esistenza di madamigella Oscar.
Ad aiutarmi nell’impresa ci sarà una tizia bizzarra inventata di sana pianta, naturalmente André, un viaggio nella profumata Provenza, delle illustrazioni ad acquerello e probabilmente degli scivoloni fuori personaggio perché questa sarà una storia (insostenibilmente) leggera.
Forse.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Sonno e bordeaux
 
 
L’impresa poteva dirsi compiuta.
Oscar era a suo agio con quella strampalata versione di una signora.
Era un’evidenza che trascendeva la notevole quantità di alcool ingerito da tutti loro, qualcosa che - da maggiore esperto mondiale del carattere del colonnello biondo - ad André non poteva sfuggire.
Era silenziosamente naturale nelle pause della conversazione, sinceramente interessata ad ascoltare, ad esserci, pur nel suo modo riservato. Come avrebbe potuto essere con un membro della sua famiglia se avesse avuto una famiglia normale, come avrebbe potuto comportarsi con una sorellina minore se la sequela di fiocchi rosa avesse continuato a funestare casa Jarjayes.
Però Sabine non era una sorella, era una donna che era entrata a gamba tesa nella vita della giovane e stava riuscendo nel suo intento che era sembrato così bislacco, contro tutti i pronostici.
Non poté fare a meno di chiedersi se Oscar avesse desiderato fino a quel momento qualcuno che non fosse lui con cui confrontarsi, e qualcosa di simile alla gelosia, quella paura di perderla sempre in agguato, lo punzecchiò nell’animo.
Ma erano punture inoffensive, soverchiate dalla felicità di vedere sbucare i sorrisi di Oscar in un discorso in cui la vivacità di Sabine attaccava ogni forma di cupezza: quella donna era solare, inclusiva, spiazzante.
Con lei André aveva avuto un’intesa immediata, qualcosa di così forte e genuino da spazzar via ogni dubbio residuo su ipotesi paranoiche per cui aveva preso in giro Oscar, ma che l’avevano segretamente tenuto sulle spine fino a quella sera. No, Sabine era innocua, per quanto l’aggettivo stonasse con la carica del personaggio.
Ancora più sorprendentemente, gli era sembrato che quella donna facesse il tifo per lui.
La baronessa de Plantier se ne fregava bellamente dei titoli e ogni volta che Oscar si era lasciata andare a qualche comportamento più familiare con André, ne aveva colto lo sguardo sornione di chi la sa lunghissima. Sulle prime doveva essere arrossito; quegli occhi color di foglia sembravano andar diritti al punto, mai nessuno l’aveva fatto sentire così trasparente a riguardo.
Poi, quando Oscar aveva addirittura allungato distrattamente la forchetta nel suo piatto, si era emozionato.
Quel gesto da nulla e impulsivo ripetuto infinite volte tra loro due soli diventava qualcosa di completamente diverso davanti agli occhi di terzi.
Era stato come una cerimonia, una consacrazione pagana della solidità del suo rapporto unico con Oscar che trovò in Sabine la testimone compiacente e la tavola imbandita come altare, le dita di bordeaux nei bicchieri a benedire tutti loro negli attimi lunghissimi che ci vollero ad Oscar per realizzare ciò che aveva fatto e ritrovare compostezza, masticando ciò che aveva rubato in un mutismo imbarazzato e scontroso.
Sabine aveva capito anche quello.
Doveva esserle grato, pensò, ma i suoi buoni sentimenti perdevano di smalto adesso che ne trasportava la carcassa pesante e avvinazzata alla carrozza, nell’umidità della notte che avanzava.
 
“Tienile bene le gambe, guarda! Stai trascinando un piede!”
“È che è complicato con tutte queste gonne… sfuggono, pesano, mi domando come faccia a camminare trascinando questa roba. Non scherzavi riguardo i suoi gusti di vestiario…”
“È molto sobria stasera, rispetto al suo solito.” Puntualizzò Oscar.
“Ah… caspita… permettimi comunque di obiettare che sobria, al momento, non mi sembra la definizione adatta.”
“Smettila di cincischiare, aiutami a sistemarla dentro la carrozza… aspetta, entro prima io.”
 
Si inventarono un modo per farla stare più o meno seduta, la rigidità del corpetto aiutava per quanto scomodo dovesse essere. Era praticamente crollata sul tavolo in un sonno alcolico da cui non sembrava voler riemergere a breve, ma non sembrava nulla di grave. Dopotutto ci avevano dato dentro con le bottiglie, solo che negli anni Oscar e André avevano sviluppato una resistenza notevole all’ebbrezza e avevano finito col trascurare i limiti della dama che li aveva invitati.
“Cosa facciamo, la riaccompagniamo a casa?” chiese lui.
“Non conosco il suo indirizzo – rifletté lei ad alta voce - so solo dei suoi appartamenti a Versailles, ma non posso portarcela in queste condizioni… è una donna sposata, hai idea di quante se ne inventerebbero?”
“No, certo… ma allora che facciamo? Vogliamo portarla a casa da noi?”
Oscar sembrò valutare l’ipotesi mordicchiando le labbra scurite dal vino, poco convinta.
“Aspettiamo. Potrebbe riprendersi da un momento all’altro, ha solo alzato troppo il gomito, non c’è da preoccuparsi. Lasciamola riposare e sediamoci anche noi.” E prese posto sul sedile di fronte alla donna dormiente, lasciando ad André lo spazio per accomodarsi accanto.
 
“Un tipo particolare questa baronessa, non c’è che dire.”
“Già.”
“Ha perso punti con questa ubriacatura?”
“In che senso?” fece Oscar.
“Per entrare nelle tue grazie, no? Che conseguenze avrà il finale di questa uscita? Non era l’ultima?”
Lei mordicchiò ancora le labbra prima di rispondere. Stanca, rallentata dal vino e dal contatto con quegli argomenti, si prese un tempo lunghissimo a racimolare i pensieri fissando il buio e la figura scomposta di Sabine che ne emergeva.
“Mi vedi davvero così gelida, André?”
Il sospiro di lui riempì la carrozza. Ringraziò il cielo di non aver bevuto troppo, della moderazione di cui era ancora capace nonostante i denti di lei, le fantasticherie su quella bocca e sul loro fiato mescolato al sapore di bordeaux.
“Tutt’altro. Credimi. È che mi incuriosisce il tuo avvicinarti a una persona così caotica… non me l’aspettavo.”
“Perché è inaspettato. Anche per me.” Contemplò lei, col tono di chi scopre l’acqua calda, lasciando in sospeso qualsiasi altra considerazione.
 
Una pioggia leggera cominciò a picchiettare il tetto, a malapena udibile.
Le voci della strada e della taverna non troppo distante si erano ormai dissolte nella pace notturna, il respiro regolare di Sabine talvolta diventava un russare lievissimo, infantile. Non avevano ancora provato a svegliarla, ma dovevano essere lì da parecchio, semi-dormienti.
 
“Sai – sussurrò lui indicando Sabine con un gesto del mento – questo suono mi fa pensare che tutto sommato capisco le persone che amano circondarsi di animali domestici. È… tranquillizzante… tenero.”
Oscar provava la stessa cosa, ma sentì il bisogno di spoetizzare, pentendosi immediatamente della scelta delle sue parole.
“Alla tua età sarebbe naturale pensare a una moglie per sentire russare, non a un cane.”
E la sua risposta sembrò svegliare entrambi. André si risistemò, allontanando la spalla da quella di lei che avvertì il vuoto e l’errore, l’ennesimo presagio funesto.
“Sposarmi… - considerò lui curioso - l’idea non mi dispiacerebbe…”
“Hm.” Articolò lei d’istinto, ma senza riuscire ad aggiungere altro, rigida e persa nella realizzazione ghiacciata delle sue paure.
Lui invece sembrava divertito, come se l’argomento inaspettato gli risultasse particolarmente succoso. “Magari non subito, ma…”
“No… non… vi prego, non… andate via” lo interruppe la voce flebile di Sabine.
Le furono immediatamente accanto. Il viso truccato aveva una smorfia di pura sofferenza, mentre si agitava sul sedile e perdeva l’equilibrio.
“Sabine mi sentite?” chiese Oscar.
“Sta sognando” constatò André.
“Vi prego, ho sbagliato…” biascicò Sabine, la voce quasi rotta dal pianto. “La lettera…”
“Sabine aprite gli occhi, è solo un incubo.” Provò Oscar con dolcezza, ma quella non sembrava voler collaborare e la sua espressione tornò a distendersi, ancora cotta di sonno e bordeaux.
 
***
 
Il sogno di Sabine era lucidissimo; vedeva tutti assieme i suoi giorni da sposata, i suoi errori uno dopo l’altro spiegati a se stessa e ripetersi senza che potesse intervenire in un inquietante teatro d’ombre.
Prima di tutto, c’era stato l’orgoglio.
La prima notte e la supposta consumazione delle nozze che aveva visto lei offrirsi – preparata, vestita, profumata - e lui tirarsi indietro nel nome dei loro accordi di sincerità.
Non era anche quella una convenzione dei loro nuovi ruoli? L’ennesima forzatura a cui la società avrebbe voluto obbligarli, ma no: dove possibile loro avrebbero esercitato la propria volontà e basta, spiegò il marito nuovo di zecca.
“Sabine, l’intimità fisica arriverà solo se la desidereremo davvero, non sentitevi in dovere di nulla.” Aveva concluso in tono gentile prima di lasciarla sola nell’alcova.
Ma lei si era sentita rifiutata. Ancora oggi continuava a vedere nei discorsi razionali di lui una sorta di ripicca nei suoi confronti, per quello che era stato il suo mettere le mani avanti iniziale.
Divenne una sorta di confronto di calme apparenti, una gara a chi si dimostrava più distaccato, più moderno.
C’erano stati dei dispetti, ne era più che convinta.
Quello che sembrava un insipido consorte interessato solo ai libri e allo studio degli insetti, si rivelò un esperto conoscitore dell’equilibrio tra il detto e il non detto, l’allusione critica e la micidiale risposta a una domanda con un’altra domanda.
Anche lui, come lei, era abituato ad averla vinta.
In società sembravano più che affiatati, la loro messa in scena della coppia perfetta era un gioco privato e pubblico allo stesso tempo, forse l’unico momento in cui parlando per finta riuscivano davvero a dirsi qualcosa e ad avvicinarsi. Era passato quasi un anno dal giorno del loro matrimonio quando, dopo una di queste serate dove avevano entrambi bevuto molto più del dovuto, avevano consumato davvero quell’unione.
Ed era stato fantastico.
La passione, il modo in cui i battibecchi erano diventati baci, la fretta delle loro mani.
Ricordava i profumi speziati del sesso. Un bouquet esotico di terre sconosciute mescolato alla pelle agrumata di lui, il sapore di sale, l’odore di vino nell’aria inspessita della stanza che l’aveva vista sola per tanti mesi.
Poi avevano biascicato discorsi incoerenti per un tempo indefinito, forse cercando, senza trovarlo, un escamotage che salvasse capra e cavoli nella loro situazione di stallo infelice. Non era bastato l’amplesso, né il racconto di lui, che continuando a baciare la fronte di lei e ancora nelle sue braccia le aveva narrato del loro primo vero incontro, di quando una bambina con la testa rossa aveva trascorso una giornata nella sua proprietà in Provenza e insieme avevano catturato uno scarabeo iridescente nel giardino. Lei non ne aveva memoria, aveva creduto che sua madre farneticasse parlando di quelle visite all’immensa villa dei Plantier, a poca distanza dalla loro, ma quasi sempre disabitata.
Si era risvegliata sola e sfatta, trovando sullo scrittoio un biglietto di scuse da suo marito che partiva. Dopo aver a lungo rimandato l’aggregarsi a una spedizione, si era mosso a dir poco in fretta e in furia e si diceva mortificato della sua irruenza della notte: non aveva scuse se non quella dell’alcool, che pure non rendeva meno disonorevole i suoi gesti.
Sabine bruciò il biglietto nel camino, ma avrebbe potuto incendiarlo con la sua sola indignazione per la fuga di Raymond, che era sempre stato un avversario leale, fino a quel momento.
Cominciarono le lettere.
Lui scriveva abbastanza bene, e soprattutto era un assiduo corrispondente.
Più o meno ogni giorno faceva in modo di inviare sue notizie, che fossero solo dettagli di spostamento da un luogo a un altro o su aggiornamenti sui suoi studi che pure lei ignorava del tutto. Descriveva luoghi, scoperte e ipotesi con l’entusiasmo di un esploratore, ma lasciando trapelare la sua preoccupazione per come si erano separati.
 
E voi Sabine, perché non mi parlate mai di voi? Mi scrivete dei vitigni in Borgogna e ne sono estasiato, ma sarei mille volte più felice di sapere che siete serena e, magari, che attendete il mio ritorno.
 
Solo che in lei la rabbia non era cessata. E scrivere non le era mai piaciuto. Quando provava a stendere nero su bianco le emozioni che la tormentavano, queste le si affollavano nella penna e non ne usciva che un cespuglio arrabbiato di cancellature. Il calamaio era un pozzo nero e misterioso che avrebbe scaraventato volentieri contro il muro, persino l’odore di inchiostro prese a darle fastidio. Rispondeva, sì, ma solo il necessario per assicurare Raymond che le cose in sua assenza procedevano senza problemi.
Lui tornò e lei partì, inventando un’emergenza in quel di Grasse.
Lui si avvicinò alla Provenza per uno studio sulle cicale e lei fece rotta su Parigi, insistendo sull’importanza del trovarsi in città al più presto per un rendiconto falsato da uno dei negozi che riforniva Maison Florentin.
Lui tornò a Parigi ed ebbero la più orribile delle litigate, seguita da una nuova ubriacatura che ebbe lo stesso risultato della precedente e avrebbe potuto continuare a raccontare nel dettaglio della slavina di incomprensioni che sembrava essere diventata sempre più grande e travolgerli perché ricordava – anche nel sogno – quanto fosse riuscita ad essere tagliente, lei che alle parole aveva sempre ricorso con istinto, si era scoperta abile a scegliere e pescare quella che avrebbe fatto più male delle altre nel discorso diretto.
I domestici avevano iniziato a parlarne, le loro madri a indagare sull’assenza di nipoti e pur restando entrambi abbastanza vaghi, un infantile concorso di colpe li aveva visti scaricarsi addosso a vicenda le responsabilità per la loro situazione.
Erano distanti.
Nel mese di settembre le scrisse da Arles, dove conduceva delle ricerche sugli odonati della Camargue. Dalla busta cadde una pioggia di margheritine seccate.
 
Una per ogni volta che vi ho pensata ieri.
Il vostro ricordo mi assale e le ultime discussioni mi tormentano. Se come sperano le nostre madri e nonostante tutto desiderate un figlio, forse possiamo provarci.
Possiamo provare ad essere felici? Ricordo un tempo in cui mi avevate detto che era nelle nostre possibilità.
 
Non aveva risposto. Ma lui era tornato lo stesso e senza dirselo avevano fatto pace, avevano fatto l’amore in un modo sempre più bello, mettendo a tacere ogni litigio in sospeso.
Avevano giocato agli equilibristi dandosi la mano e quando al mese seguente un ritardo di lei fece pensare alla notizia che le loro famiglie attendevano da quasi quattro anni, i loro patti strampalati e tutto ciò che ne era seguito sembravano un lontano ricordo.
Forse, a saperlo ammettere, avevano iniziato ad amarsi.
Erano una coppia per davvero.
Ma lei non aspettava nulla, il flusso arrivò dopo qualche giorno, e lui a gennaio dovette partire per l’ennesima volta per qualcosa di importante per davvero. Più di loro, comunque.
L’ultima illusione si era infranta.
Le lettere dalla Svezia arrivavano alla spicciolata, a gruppi di due, tre, ma comunque era evidente che le scriveva meno. Per cosa, d’altronde? Lei non gli aveva mai risposto che con resoconti.
Fino al giorno in cui, la notte del loro anniversario nonché suo compleanno, aveva vomitato in una sola lettera tutta l’amarezza, la solitudine e le illusioni che l’avevano accompagnata in quel viaggio da ferma mentre lui era altrove. Non ricordava con esattezza il contenuto del suo sfogo, sapeva solo che si trattava di pagine e pagine di ripetizioni e macchie, non si era riletta nel suo delirio.
Ma da qualche parte era certa di aver scritto la parola divorzio.
 
***
 
Lottò contro il peso delle palpebre serrate, ignorando il sentore di mal di testa che inaugurava il risveglio scomodo e ogni altro segnale di protesta del suo corpo strapazzato, perché nulla l’avrebbe distratta dall’ammirare il quadro perfetto di André ed Oscar addormentati sull’altro sedile della carrozza, la luce dell’alba radente che entrava dall’unico finestrino non oscurato ad accarezzarne le figure.
Lei col capo abbandonato sulla sua spalla, lui che forse per sicurezza, forse approfittando della coscienza dei sogni, le aveva rapito una mano per stringerla delicatamente nella sua.
All’improvviso, la vita che li attendeva al di fuori di quella carrozza appariva prepotente e inutile e la bellezza di quelle mani congiunte struggente.
 
Forse ci aiuteremo a vicenda, Oscar.


  
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