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Autore: Duncneyforever    19/11/2019    0 recensioni
Estate, 1942.
Il mondo, da quasi tre anni, è precipitato nel terrore a causa dell'ennesima guerra, la più sanguinosa di cui l’uomo si sia mai reso partecipe.
Una ragazzina fuori dal comune, annoiata dalla vita di tutti i giorni e viziata dagli agi che l'era contemporanea le può offrire, si ritroverà catapultata in quel mondo, circondata da un male assoluto che metterà a dura prova le sue convinzioni.
Abbandonata la speranza, generatrice di nuovi dolori, combatterà per rimanere fedele a ciò in cui crede, sfidando la crudeltà dei suoi aguzzini per servire un ideale ormai estinto di giustizia. Fortunatamente o sfortunatamente non sarà sola e sarà proprio quella compagnia a metterla di fronte ad un nemico ben peggiore... Se stessa.
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali, Novecento/Dittature
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Mi lascio cadere sul pavimento, accanto ad Isaac, avvertendo subito il bisogno di picchiare la testa al muro.

Mi sento come una moribonda a cui è stato sottratto il pane da sotto il naso, ma non ho il segno d'una lacrima sul viso, né la rabbia necessaria per riprendermi Reiner con la forza. 

Ho chiesto così poco che mi sembra impossibile aver ottenuto un rifiuto così amaro; questo mi fa apparire frivola, ma non è vero... Non è vero che lui è niente per me. Sono solo stanca, di questa situazione e di questo mondo infinitamente più crudele del mio. 

Lui non è capriccio. Venera un credo che considero immorale, tuttavia, per certi aspetti, potrei persino ammirarlo. Non contraddice ciò in cui crede: è ateo e materialista e ripudia il Dio della tradizione ebraica a cui Rüdiger, invece, fa offerte in denaro, come se la Chiesa cattolica fosse paragonabile alla lampada magica di Aladino. 

Ma è pur sempre vero che Reiner ha subito una violenza da parte del regime a cui ha giurato fedeltà e, attraverso i suoi occhi, ho visto che lo ha maledetto, seppur passivamente. 

È stato allevato in grembo alla nobiltà guerriera, gli è stato insegnato a combattere e la sua testa è stata riempita di idee nazionaliste, di stampo prettamente romantico. Ciò lo rende un predestinato, volto ad immolarsi per un bene supremo, come un agnello sacrificale. Lo ha accettato, sa di dover rinunciare agli affetti che, per un uomo normale, sarebbero più cari ma, ultimamente, questa condizione inizia a stargli stretta.  

Non gli era mai pesato il non potersi costruire una famiglia sua come tutti gli altri, eppure, ora che si è innamorato, non riesce più a metabolizzarlo. 

Purtroppo per noi, siamo giovani, troppo egoisti per poter rinunciare l'uno all'altra e viceversa. 

Ora che siamo vivi, voglio sentirlo mio. 

" Non è giusto, non è giusto " continuo a ripeterlo come se le cose potessero cambiare, impazzendo nell'illusione. 

- Non dovevate... - Affondo gli incisivi nel labbro inferiore, accettando la vera natura della mia malinconia, che è dovuta ad un patimento amoroso e non ad un'afflizione generica di tipo morale. Lo guardo, faticando a focalizzarmi sul suo volto, che comunque più del mio esprime tutt'altro tipo di dolore. 

- Che colpa ne hai tu d'esser nato ebreo in questi anni di miseria? Non trattarti così, nemmeno in facciata. Non ne vale la pena. - 

- Andate via. Restare vi ucciderà. - Si passa la mano sul viso, rimuovendo parte della cipria che vi era stata applicata per nascondere il livido sotto l'occhio sinistro. 

- Non senza di te. Non lasciarmi sola. - Striscio verso di lui, appoggiandomi sulla sua spalla. Sac si irrigidisce e, guardandosi attorno, si accerta di non essere spiato da anima viva.

- Non ti lascio. - Mi punta addosso quei suoi occhi scuri, così scuri come ricordo di averli visti solo sul viso degli asiatici: iridi nere, anzi, nerissime, al punto da rendere indistinguibile la pupilla. 

Mi accorgo che sia bello, bello secondo i miei di gusti; mi ricordo adesso di aver sempre voluto capelli scuri e ricci nei quali affondare le dita e miriadi di lentiggini da contare, come stelle immerse in un cielo di latte. 

Ma egli, per quanto possa corrispondere al mio canone di bellezza, non è Reiner e qui mi vien voglia di piangere, perché non lo volevo. Ho combattuto tanto contro questo sentimento e, alla fine, mi vien persino difficile immaginarmi senza di lui. 

Mi sposto, dopodiché Sac, dopo essersi sgranchito la schiena, si alza, voltandosi addietro in un secondo momento. 

Sono così vicina a quella maledetta maniglia... Perché non me lo posso riprendere? Lui si è promesso a me, come posso accettare che venga meno alla sua promessa?

Zompetto fino alla porta, aderendo alla superficie. Dall'altra parte avverto dei movimenti, passi che mi corrono incontro: è lui, deve essere lui. È oltre la porta, mi sembra quasi di poterlo sentire. Quando Reiner, finalmente, sguscia fuori dalla stanza, mi devo astenere dal saltargli addosso. Lo trovo quasi del tutto svestito, tuttavia mi rincuoro, ipotizzando che non abbia avuto il tempo materiale per consumare. Si chiude la porta alle spalle e mi bacia per un lungo, lungo istante. Io, interiormente, gioisco nel non sentire il gusto pastoso del rossetto sulla sua bocca. 

- Ma che hai fatto? - Domando, dopo essermi staccata con uno schiocco rumoroso. 

- Vado a prendere altro champagne, devo rientrare. - Mi frena prima che possa incupirmi, chiedendomi di fidarmi di lui. 

" Ma certo che mi fido " eppure una strana curvatura delle labbra insorta involontariamente gli fa sospettare l'esatto contrario. 

- Ti giuro di sì - ribadisco, stringendomi a lui. - Ma mi fa schifo, mi fa schifo... - 

- Torna in camera, chiuditi dentro se può farti stare più tranquilla. Rilassati, meine Liebe. Sono tuo. - Dopo avervi riposto la chiave, mi lascia andare le mani, affrettandosi per le scale. - Portatelo dietro l'ungherese, confido che non ti tocchi. - Intercetto uno scambio di sguardi bestiali, che sa di morte e di paura. Isaac tenta di opporsi, ma Reiner, con un movimento sbrigativo della mano, gli ricorda quale sia il suo posto, rimarcando la differenza sostanziale che intercorre tra i due. 

Il suo parere non viene preso in considerazione perché lui, in quanto ebreo, non conta nulla. 

Assecondando la mia etica, lo compatisco, ma quello, abituato a subire senza poter controbattere, rialza la testa, più incattivito di prima, sebbene sia un segreto nascosto nell'espressione ancora docile, come quella di un vitello. 

Smetto di rodermi il fegato inutilmente, indicandogli la strada; lui entra in camera un po' spaesato, non sapendo bene dove mettersi, né come comportarsi. 

Io, per timore di Schneider o forse per precauzione, decido di sbarrare la porta, chiedendogli di aiutarmi a trascinarci davanti la scrivania. 

Mi sento leggermente più sicura, anche se un azzardo del genere da parte di Reiner non me lo sarei mai aspettata. 

Contava sul fatto che, in caso di pericolo, l'intervento di Isaac mi avrebbe dato il tempo di scappare? 

- Se dovesse succedermi qualcosa, non vorrei che tu mi difendessi. - 

- Non sono qui per questo? - Replica, sedendosi sul tappeto. 

- Tu, in cuor tuo, lo faresti? - Sono così scuri i suoi occhi, che la minima oscillazione del volto verso la luce del lampadario li fa scintillare. 

Li rende imperscrutabili. 

- Hai preso le mie parti così tante volte che ho perso il conto. È il minimo che potrei fare per sdebitarmi. - 

- Non ti ho aiutato per pulirmi la coscienza. Il mio intervento non è così spassionato come pensi... Tu mi somigli e ti ho in simpatia. Se non ci trovassimo in una situazione così miserevole, ti avrei già invitato al parco, per fare una passeggiata e chiacchierare, oppure... chessò... al cinema, per discutere dell'ultima trovata di Hollywood. - Faccio qualche conto mentalmente, risalendo all'invenzione dei fratelli Lumière e giudicandolo comunque plausibile.

- Te l'ho detto, sei una sognatrice. - Affondo nel morbido materasso, sparendo tra i cuscini e sollevando il lenzuolo al di sopra della testa. 

- Da bambina amavo costruire fortini e giocare con i miei amici, fingere di dover espugnare castelli sorvegliati da draghi ferocissimi e di liberare principesse da perfide streghe... Tu non ci giocavi mai? - Gli tendo le braccia, lasciando ricadere il lenzuolo sul capo, come un velo. 

- Sì, certo che ci giocavo... con mio fratello e con il mio migliore amico, ma... Non è una buona idea. Sono pur sempre un ebreo e tu sei una " gentile ". Sai cosa potresti passare per colpa mia; potrebbero giudicarti colpevole di un crimine razziale, appuntarti una stella bicolore sui vestiti e farti internare. - 

- Reiner non lo permetterebbe mai... Lui mi ama. - Statuisco, un po' troppo arditamente. - E lui, allo stesso tempo, ti odia più di ogni altro; questo l'ho capito da me e sicuramente lo avrai capito anche tu. Ma il suo affetto per me l'ho già comprovato: finché io e Reiner staremo insieme, lui ti lascerà vivere, perché io voglio che tu sopravviva. - Il ragazzo resta in ascolto, teso all'indietro come a voler prendere le distanze dall'argomento e con l'aria di chi vorrebbe dire qualcosa, ma non la dice. 

- Non potrei mai odiarti. - Mi batte sul tempo, inerpicandosi sul materasso. - Che cosa vuoi combattere? - Si infila sotto la mia stessa coperta, catapultandosi nel mio mondo di fantasia. 

- Il totalitarismo. - Socchiudo gli occhi, dovendo riconoscere di essere cresciuta, di non tremare più al cenno di mostri delle fiabe e fantasmi. - Quando avevo paura mi nascondevo sotto le lenzuola e mi dicevo che finché fossi rimasta lì sotto, nessuno avrebbe potuto farmi del male. Quel pezzo di stoffa era la mia salvezza e il mio rifugio. -

- Allora i nazisti non potranno venire a prendermi stanotte. - 

- No, non stanotte. - 

Quando Reiner si presenta alla porta, siamo troppo vicini perché lui possa ritrovarci esattamente così come siamo. 

Ringrazio di avergli sbarrato l'entrata, alzandomi dal letto per andare ad aprirgli. 

Isaac si tira su, o sarebbe più corretto dire " scatta su ", saltando in aria per l'agitazione e cadendo a terra sulle quattro zampe.

Lo guardo con aria interrogativa, non avendo conosciuto comportamento simile in nessun uomo o donna che abbia incontrato, tanto nella mia vita passata, quanto in quella palliativa che mi sono costruita: tra i migliaia di volti, nessuno esprime contemporaneamente vitalità e volontà di distruggersi, malinconia e gioia del ricordo, passività e piena coscienza di sé. 

Non sembra affar umano per tutte le sue contraddizioni. 

- Com'è andata? - Una volta spostata la scrivania e aperta la porta, ancor prima di rivolgersi a me, da un'occhiata all'interno per vedere in quali condizioni sia la stanza, in particolare, il letto. La vista delle lenzuola sfatte gli fa tremare i muscoli facciali e contorcere il viso in una forma quasi caricaturale. 

- Fuori. - Sibila, mirandolo in cagnesco. C'è poco da aggiungere: il povero diavolo è costretto alla fuga. 

- Sei tu che sei stato chiuso per mezz'ora in camera con quella! Perché te la prendi con Isaac? -

- Non ci ho fatto proprio niente con lei. L'ho fatta bere, " ubriacare " sarebbe un eufemismo per definire quanti bicchieri le ho fatto scolare, dopodiché non è stata capace di distinguere il mio cazzo dal collo della bottiglia. - Lo fisso come intorpidita, oscillando tra il disgusto e l'estraniazione. - Avresti dovuto sentire come urlava quando le ho rovesciato lo champagne dentro... - 

- Sì, sì, ho capito! - Grido, tappandomi le orecchie. 

Mi viene la nausea, ora che ho scoperto come se n'è uscito. Non è stata colpa sua; lo ha fatto per evitare di farmi un torto, ma è comunque avvilente sentirne parlare. 

- Piccola... - Addento il labbro con forza, ritrovandovi già il gusto delle lacrime. Lui mi culla tra le braccia, adottando un tono calmo e rassicurante. - Il tuo amico starà bene; non ho avuto bisogno di farle male, né di venir meno al mio giuramento. - 

Lo ha detto, ha usato proprio la parola " amico " per riferirsi ad Isaac.

Non merita di venir rimproverato e non voglio nemmeno che la sua camicia si riempia di moccio. I suoi colleghi si stanno divertendo, mentre lui è qui a sorbirsi i miei singhiozzi, a tirarmi indietro i capelli impiastricciati, sapendo già che, molto probabilmente, andrà in bianco. 

Tiro su col naso, gesticolando per fargli capire che mi sono ripresa e che non ho più intenzione di piagnucolargli addosso. 

Lui non si trattiene dal tirare un sospiro di sollievo, puntando verso il letto ancora vestito.

- Ma che fai? Dormi con la cintura? Non mi interessa se ti ha toccato anche quell'altra; a meno che non sia una specie di bulldog e ti abbia sbavato addosso, non ci sono problemi per me. - 

- Preferirei lavarmi prima di stendermi. Non lo so, Sara, mi sembra di mancarti di rispetto. Mettiti pure a letto, in dieci minuti dovrei tornare. -  

- Va bene, Herr Kommandant, tutto ciò che desiderate. - Gli faccio un cenno riconducibile ad un " hasta la vista ", dopodiché mi libero dal vestito, scartandomi come un pacco di Natale. Sguscio sotto le coperte, rivoltandomici per scaldare il lenzuolo. - Volevi assicurarti che andassi in avanscoperta anche dal tuo lato, oppure sei rimasto lì solamente per fare il guardone? - 

- Mi stai cacciando? - Ah, com'è furbo! Sa fin troppo bene che quella voce, così bassa e calda, mi farebbe cedere all'istante, se solo volesse riscattare il frutto delle sue fatiche. 

- Tu sbrigati. - Prendo tra le braccia il suo cuscino, strusciandomi contro la federa per riscaldarglielo. 

Così lo aspetto, lasciandogli in custodia la chiave in modo che possa rientrare in autonomia. 

Reiner, forte della sua puntualità tedesca, non si fa attendere un minuto di più di quel che aveva annunciato. 

- Ich will Schmusen. / Voglio le coccole. - Mi dice, intrufolandosi sotto le lenzuola. Sarò ingenua, ma il calore del suo corpo è molto più confortevole di un tessuto, per quanto soffice possa essere. - Die zukünftige Herzogin von Sachsen... / La futura duchessa di Sassonia... - Avvampo smisuratamente, come se i recettori fossero impazziti all'improvviso. 

Ma quale duchessa e duchessa! io sono una di quelle che impugna la forchetta come se fosse una cazzuola! 

La sua famiglia inorridirebbe se mi vedesse spolpare un osso di pollo.  

- Il tuo cognome... perché non scrivi mai " von " con la minuscola? - Me lo sono sempre chiesta: lo avevo notato per la prima volta quando firmò l'autografo a quel soldato, a Cracovia e, più in là, in un documento a cui avevo dato una sbirciata, sulla scrivania di Schneider. Era tutto pieghettato, i bordi erano sgualciti, come se lo avesse stretto nel pugno pensando di cestinarlo e poi ci avesse ripensato. La dicitura " Von Hebel ", secondo le regole della grammatica tedesca a proposito di questa " particella nobiliare ", dovrebbe essere sbagliata, ma lui usa scriverlo in questo modo e nessuno si è mai fatto avanti per sollevare la questione; del resto, il nome è suo e potrà pur gestirselo come più gli aggrada... 

Non mi pareva opportuno impicciarmi, anche dopo aver aperto " Les Fleurs du mal " e trovato " Reiner von Hebel " scritto sulla prima pagina ( e, dalla calligrafia, si direbbe da lui stesso ). 

Certo, fino ad ora. 

Lui mi definisce la sua " Freundin ", quindi penso proprio di aver acquisito sufficiente intimità per potergli porre la fatidica domanda. 

- È conveniente far credere agli altri che mi senta più vicino alla classe medio-bassa. Gli aristocratici sono guardati con occhio diffidente; si tende a pensare che mi sia tutto dovuto, che non abbia merito nel traguardo che ho raggiunto. Ho rinunciato da tempo all'altezzosità tipica del mio ceto e, all'infuori di Schneider, sembra funzionare... - 

- Ora ha senso - commento, annuendo e illuminandomi come una bambina. 

E sembro ancora bambina quando rotolo tra le sue braccia, chiudendo gli occhi per godere meglio della morbidezza della sua pelle e del suo odore fresco. 

Arranco soddisfatta, come un cucciolo, spostandomi verso il suo costato e ricercando quel calduccio che mi era mancato durante la notte. 

Sulle spalle nude il sole proietta i suoi raggi, non i primi e nemmeno i più caldi: è mattina inoltrata, eppure lui non pare neppure essersi mosso. 

Richiudo gli occhi dopo averne contemplato il viso addormentato e tranquillo, ma non prima di aver spostato il polpaccio da quella posizione così imbarazzante, tra le sue gambe.

Non mi avrebbe mai forzata ad avere un rapporto, ma disse di sentirsi scomodo, di aver fastidio dove i pantaloni, troppo stretti a causa dell'eccitazione insoddisfatta, avevano premuto per ore. Mi chiese se potesse togliersi i boxer ed io, sentendomi colpevole, glielo concessi. Ebbi comunque vergogna di guardare e mi rigirai dalla parte opposta... 

Il sonno, purtroppo, non sapeva dei miei pii propositi, tanto che Reiner si è svegliato per quanto calde sono diventate le mie guance. 

- Le tue gote, così rosse, sembrano fiori di pesco. - Vorrei nascondermi sotto il lenzuolo, ma so che, così facendo, mi renderei solo più ridicola. - Was für eine wunderschöne Farbe... / Che colore meraviglioso... - Appena lo vedo rigirarsi, mi spingo verso il margine del letto, scrutandolo come fosse un animale strano.

- Ma tu non hai vergogna! - Ride di questo dato di fatto, chiedendosi quale altro motivo ci possa essere dietro alla mia reazione. 

- È tutto nuovo... Mi fa ancora strano. - 

- Dai su, dobbiamo sbrigarci, prima che si svegli tutta l'allegra combriccola. - Scivola fuori dalle coperte, trascurando di non essersi infilato la biancheria. - Guarda che non ti morde mica. - Dopo essersi piegato per raccattare i boxer, risale ridacchiando, perfettamente a suo agio.

È di una bellezza imbarazzante. 

- Eddai, lo fai apposta! - Non ho idea del perché, ma lui sprizza gioia da tutti i pori e non si preoccupa nemmeno della sua stazza nel balzare sul letto. 

" Sei pazzo, sei pazzo ", non c'è bisogno che glielo dica, se ne accorge da sé. 

- Il giorno in cui deciderai di concederti a me, la mia anima potrà riposare in pace. Fino a quel momento, dovrai sorbirti anche il " piccolo Reiner ". - 

Che poi, tanto piccolo non mi pare proprio; in base a quanto ho potuto vedere, se si considera che non sono mai riuscita a non deviare lo sguardo, posso dire che sia proporzionato.

Proporzionato per un uomo che supera il metro e novanta e di una certa stazza, si intende. 

- Allontanati, Reiner, o non risponderò più di me. - Una minaccia che si addice ad un uomo, pronunciata da uno scricciolo di ragazzina. Mi risollevo, disadorna come una Grazia neoclassica, reggendo il suo sguardo provocatorio. 

- Sfida interessante. - 

- Vedrai, ti farò impazzire un giorno o l'altro. - Gli strizzo l'occhio, alzandomi in piedi sul materasso e saltando giù dal letto. 

Ritorno alle mie comode magliette colorate, ai leggins sportivi che esaltano la mia anatomia e che, pertanto, mi sono curata di nascondere sotto alla maglia larga. 

Sarà anche mattina presto, ma fuori non si sente una mosca volare; i corridoi sono vuoti, le camere deserte a discapito del brulicame che le aveva agitate durante la notte. 

Insetti, esseri disgustosi e striscianti pronti ad infilarsi in ogni dove e senza riguardo.

Se penso a quel povero diavolo di Hoffmann, che ha piegato la testa davanti alla ghigliottina... dev'essere ancora fuori, da solo e, magari, si è addormentato alle radici di quell'albero, come un animale.

L'aereo scalone, rischiarato dalla luce del giorno, esalta il sole nero sul pavimento sottostante, a ricordo di quella specie di rito che ha visto protagonista il giovane Hoffmann. 

Prima di avviarmi verso la cucina controllo le varie stanze: sui divanetti riposa una coppietta abbracciata e, più in là, una donna adagiata mollemente tra i cuscini; un uomo, che dev'esser caduto dal divano, dorme ( e russa anche ) come se fosse sdraiato su un morbido pouf, invece che sul pavimento. 

Mi soffermo sui piccioncini che avevo avvistato ieri, dimenticando per un attimo l'ambientazione e lasciandomi addolcire dalla tenerezza che trapela dai loro volti. 

- Noi siamo così? -

È un sapore agro-dolce, quello della malinconia; ricordo che Ernst ci aveva invidiati; mi aveva rivelato che anche lui avrebbe voluto amare ed essere amato in modo sincero. 

- La nostra è la storia di un sentimento tumultuoso. Proprio per questo, è drammaticamente bello. Sono troppo spensierati per poterlo comprendere. - 

Nessuno di loro si accorge della nostra presenza. 

Degli altri ancora nessuna traccia. 

Per quanto avranno bevuto, saranno svenuti...

A questo punto, direi che posso tranquillamente fare una tappa dai miei ragazzi, da Isaac ma, soprattutto, da Ariel e da Naomi, coloro che più hanno bisogno del mio intervento per sopravvivere.  

- Piuttosto che fornirgli un pretesto per poterti mettere a processo, preferirei togliere la vita ai tuoi giudei con le mie stesse mani. Anche se dovessi odiarmi, per quanto dolore mi arrecherebbe, sceglierei comunque di sacrificare ciò a cui tieni per salvarti. È quello che il mio amore per te mi imporrebbe di fare. - Mi fermo a metà strada, inorridendo. Le parole che ho sentito sono state pronunciate con una schiettezza disarmante e, sebbene siano perfettamente conformi a ciò che un nazista potrebbe dire, mi paiono troppo lontane dalla mentalità del " mio " Reiner che, fino ad ora, ha provveduto a me nel migliore dei modi. 

Non ho mai avuto paura di questo suo amore come in questo momento. 

- Perché dici così? Tu riusciresti a tirarmi fuori da quella situazione... - Lui sospira, mortificato, pur forzandosi di mantenere una solida facciata. 

- Il mio potere non è un pretesto per cercar grane senza curarsi delle conseguenze. Cerca di non lasciarti trascinare dalle emozioni. Ci andrai dopo da loro, o domani, o dopodomani... quando sarà più facile vederli. - Sono costretta a rettificare il mio percorso; faccio finta di nulla, ma ne sono scossa. 

Loro non c'entrano niente con me, non avrebbe dovuto tirarli in mezzo. 

Non avrebbe dovuto minacciarmi. 

Per un fortuito caso, a contrario di quanto mi aspettassi a causa delle sue condizioni, ritrovo Ariel in cucina, come al solito, ma al cenno di saluto da parte di questi, non riesco a rispondere in altro modo, se non abbassando la testa e sedermi mestamente al tavolo. 

Rialzo gli occhi, tale da accorgermi che del mio rifiuto non sia rimasto ferito. Ha capito che ne sono impossibilitata, non ha sospettato neanche per un momento che mi sia fatta contagiare dalle idee di Reiner. 

Mi piomba addosso un fortissimo senso di responsabilità nel vedere quel corpo malandato perché, se Rüdiger si mostra nervoso, si può star certi che sia per colpa mia. 

- Signorina, volete che vi prepari qualcosa? - 

- Non ho molta fame... - Farfuglio, appoggiandomi stancamente sul palmo. 

- Dispongo degli ingredienti necessari per cimentarmi nel vostro dolce preferito... sempre se voleste permettermi di cucinarlo per voi. - Anche con quegli occhi febbricitanti sembra un angelo; la dolcezza che non può esprimere in un incoraggiamento si ripercuote sul suono della sua voce, tanto più amorevole e fraterna rispetto al solito, come se si stesse rivolgendo a Maxim. 

Maxim, solo dicerie riguardo al suo stato di salute: è molto ormai che Reiner non mi permette più di vederlo e così vale anche per i Costa, rispetto ai quali ricevo discontinui e blandi accertamenti. 

- Ma certo. - Alla fine cedo, poiché ho ben poche occasioni per fargli rivivere quel barlume di quotidianità senza il quale si inasprirebbe. - Dove stai andando? - Reiner, in questi pochi nostri secondi di " conversazione ", ha afferrato uno strofinaccio e ci ha riposto del pane, dopodiché ha scovato nella dispensa un barattolo di marmellata di mele, ha afferrato un cucchiaio e ha preso la porta.

Ma che fa? Si sta preparando alla carestia? 

- A questo giro mi hai ascoltato. Provvederò io a loro fin quando non potrai essere di nuovo tu a farlo. - Non mi sento di ringraziarlo, benché gli sia grata. Ho visto tanto male, tuttavia quel che sarebbe disposto a fare mi è inaccettabile. Morirebbe e ucciderebbe, come mi aveva detto.

Secondo il mio punto di vista, nessuna delle due ipotesi dovrebbe essere contemplabile. 

Affogo il dolore nei dolci, mangiando a cucchiaiate la ricotta già zuccherata. Aveva già pensato a tutto Ariel; aveva già preparato la cialda prima del mio arrivo, così da doverli solo più friggere. 

Ogni parola perde valore; sarebbe superfluo domandare come stia, visto cosa gli si è riversato addosso la notte scorsa. 

A sorpresa, mentre sono intenta a inghiottire una dose eccessiva di ricotta, vedo comparire Isaac che, pur senza aver abbandonato lo smoking, ha recuperato in orgoglio, ma perso parte di quella radiosità che aveva ammaliato il pretenzioso pubblico di Schneider. 

Si siede al banco, né troppo vicino né troppo lontano e mi viene da tremare. Ho paura per lui; vorrei avere la forza di cacciarlo per il terrore che ho addosso. 

- Che ci fai qui? - La mia preoccupazione viene tradita dal tremito che mi ha percosso le corde vocali. Sarebbe potuto sembrare un pianto per quanto ho esitato tra una parola e l'altra. Lui reagisce immediatamente, bianco e mogio dapprima, poi via via intensificando e oggettivando l'iniziale e fallimentare intonazione angosciosa. 

- Ti ha fatto del male? - 

- No, certo che no. - Ribatto prontamente, destabilizzata dalla domanda che, in ogni caso, mi era suonata più come una proposizione affermativa che andava appurata. 

Lui, bianchiccio, di un pallore quasi mortale, ruota di nuovo su sé stesso, così da raddrizzarsi sulla sedia. 

Capisco che non si fidi di un nazista, capisco che il comandante sia particolarmente ostile nei suoi confronti, ma il pensiero che Reiner potesse infierire su di me era davvero tanto che non mi sfiorava. 

Che questa reazione sia motivata o meno da parte mia, mi è gelato il sangue nelle vene. 

Dio... non saprei immaginarmi una situazione simile... Lui... No, mai, non lo farebbe mai. 

- Non dovresti essere qui. - Replico, tentando di riprendermi dallo shock. 

- Il colonnello mi ha ordinato di comportarmi nel modo più normale possibile, come se fossi superiore rispetto a quello che in realtà sono. Molti di loro si aspettano di rivedermi o di risentirmi. - Mormora, lanciando di sfuggita un'occhiata ad Ariel, il quale, ribatte con un'alzata di spalle, come a volergli dire che non ha scelta. 

- Va bene, però spostati comunque, il più lontano possibile. Reiner impazzirebbe se ti vedesse a questa distanza. - Prima che lui si possa muovere, sentiamo una specie di sibilo, sicuramente prodotto da Ariel per richiamare la nostra attenzione. 

Presto mi accorgo quale sia il motivo di quel richiamo; 

- ruhig, ruhig. / Comodi, comodi. - È un uomo a parlare, dell'età di Rüdiger o di Reiner: si viene a sedere di fronte a noi e Ariel, vedendo avanzare il tedesco, capisce di doversi fare da parte. Una volta che egli ha lasciato la stanza, il giovane si appropria della tazza di caffè che sarebbe dovuta spettare a me, bevendone a brevi sorsi. 

È ovvio che mi stia chiedendo chi sia e cosa voglia. 

Dubito che Isaac non si stia ponendo le stesse domande. 

Dedico del tempo a studiarlo, così come lui sembra stia facendo con noi: sostiene la tazzina con un'eleganza innata, senza stringere, indagandoci con i suoi particolarissimi occhi turchini, tendenti al pervinca. 

- Siete belli. - Così avvia il discorso, dopo un lasso di tempo interminabile, lasciandoci entrambi basiti; non per la lingua, bensì per il fatto che ci abbia indicati, scorrendo da una parte all'altra del tavolo con il palmo semiaperto.

Mi appresto a ribattere, balbettando qualcosa, metà in italiano e metà in tedesco, provando a giustificare la nostra vicinanza. 

- Lo so chi sei, dolcezza. Non mi permetterei mai. - Sorride con fare ironico, portandosi alle labbra la chicchera in maiolica. Socchiude gli occhi, inspirandone il profumo e gustandosi appieno il suo aroma gradevolmente amarognolo. Il colore della salvia, misterioso, quasi ipnotico, ci mette terribilmente a disagio. - Intendevo da guardare. - Si rialza visibilmente soddisfatto, del caffè o delle nostre facce stralunate. Passando, mi sfiora il viso con una carezza e rivolge a lui uno sguardo interessato, come se avesse visto un animaletto raro e grazioso. Successivamente, si sgranchisce le ossa meno finemente di quanto avesse fatto all'inizio e ripercorre il corridoio, facendo perdere le sue tracce tra le stanze vuote, ormai irradiate dalla piena luce del sole. 

 

 

 

 

Angolo autrice: 

giuro, non sono ancora andata in pensione, ma ultimamente è stato particolarmente difficile per me riuscire a buttare giù anche poche righe. Sto valutando se continuare la storia seguendo i miei passi o tirare le somme e concludere il più presto possibile. Redarre un capitolo impiega tempo, amore ed energie ( oltre che fantasia ) e, a questo punto, mi ritrovo a domandarmi se valga o meno la pena pubblicarne molti altri. 

In ogni modo, spero che il capitolo possa essere di vostro gradimento e mi scuso ancora per il ritardo. 

  
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