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Autore: IndianaJones25    18/12/2019    3 recensioni
Dopo quasi quarant’anni, Indiana Jones fa ritorno sulle alture interne del Perù per raggiungere ancora una volta il tempio dei Chachapoyan dove, in gioventù, tra mille difficoltà, rinvenne l’idolo d’oro della fertilità. Ma nel tempio era celato molto più di una piccola e semplice statua d’oro, qualcosa di davvero unico e prezioso: un sorprendente segreto, rimasto custodito in quel luogo per migliaia di anni, che l’anziano archeologo intende finalmente riportare alla luce.
In questa nuova occasione, però, ad accompagnarlo ci sarà sua figlia, perché solo unendo le forze i due Jones potranno svelare quell’antico mistero, che sembra provenire da una galassia lontana lontana...
Genere: Avventura, Generale, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Henry Walton Jones Jr., Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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    EPILOGO

    LOS ANGELES, UN MESE DOPO

    «Lo sai, non mi dispiacerebbe affatto venire a vivere qui, dopo che avrò finito gli studi» commentò Katy con tono sognatore, guardando con una certa ammirazione i grandi palazzi e i viali di palme scorrere fuori dal finestrino.
    Per quanto amasse visitare luoghi selvaggi o siti archeologici, e per quanto le piacesse vivere nella casa dei suoi genitori in Connecticut, non poteva certo negare di disdegnare la modernità; e la città che le sorgeva attorno, con il suo connubio di casette circondate da piccoli giardini e grattacieli che svettavano sull’orizzonte, sotto il cielo perennemente terso della California, era quanto di più moderno potesse domandare.
    Al suo fianco, alla guida della Jeep Wagoneer verde oliva con le fiancate rivestite di legno che recavano impresso in lettere azzurre e bianche il nome, l’indirizzo e il numero di telefono della sua officina meccanica, suo fratello Mutt grugnì qualcosa di incomprensibile, mentre svoltava in una strada secondaria, dove il traffico era decisamente meno intenso.
    Capelli lunghi e spettinati che gli arrivavano fin quasi alle spalle, barba incolta e arruffata che gli incorniciava il volto, occhiali da sole Ray-Ban dalla montatura dorata, immancabile giubbotto di pelle nonostante la temperatura dell’abitacolo sfiorasse i quaranta gradi, pancia che, crescendo in abbondanza giorno dopo giorno a causa della troppa birra, cominciava a mettere in difficoltà le sue t-shirt dai colori sgargianti, Mutt rivolse un cenno alla sorella e sorrise.
    «Io mi trovo meglio a San Francisco» ammise. «L’aria è più profumata, la gente non ha tutta la fretta di quelli che abitano qui e, soprattutto, ci sono meno macchine e più motociclette. Ma non potevo non farti conoscere questo mio amico…»
    «Ma questo regista, che cosa vuole esattamente da te?» chiese Katy, distogliendo lo sguardo dal finestrino e girandosi a guardare il fratello.
    Mutt alzò le spalle. «Boh. Non ho capito. Gli ho fornito supporto tecnico per un suo film, un paio d’anni fa. Era un film interamente incentrato sulle automobili e io, come meccanico, mi sono occupato di modificarne alcune. Poi, un mesetto fa, mi ha telefonato per dirmi che era nei guai e mi ha chiesto di incontrarci oggi. Ci siamo dati appuntamento in un bar.»
    «In un bar…» ripeté Katy, un po’ delusa da quella notizia. Si infilò una mano sotto la maglietta e fece schioccare l’elastico del suo costume da bagno azzurro. «Pensavo ti avesse dato appuntamento nella sua villa di Beverly Hills… mi ero già preparata a farmi un tuffo in piscina insieme a qualche attore o attrice famosi!»
    Suo fratello ridacchiò, ripartendo dopo una breve sosta a un semaforo e tamburellando sul volante con le dita perennemente macchiate di nero olio di motore che denotavano alla perfezione la sua professione.
    «Scordati cose del genere, da parte di quel misantropo triste di George. È un tipo eccentrico e, soprattutto, odia con tutto il cuore Hollywood, le case di produzione, lo star system… credo che sia venuto qui a Los Angeles solo perché gli toccava discutere di affari con qualche pezzo grosso, ma sono pronto a scommettere che, appena avrà finito, tornerà alla chetichella nel suo buco in mezzo al nulla nel nord della California. Lui è fatto così.»
    Katy tornò a guardare fuori dal finestrino. D’accordo, non sarebbe entrata in una di quelle ville lussuose, le cui architetture di stile spagnolo dell’epoca coloniale si sposavano alla perfezione con arredamenti ultramoderni, al cui interno - almeno, così si raccontava - ricchi annoiati e divi del cinema trascorrevano le loro giornate tra bagordi e riti orgiastici di vario tipo, capaci di far impallidire persino i banchetti degli antichi patrizi romani, ma almeno avrebbe presto conosciuto un vero regista. E non uno di quegli improvvisati registi da due soldi che proiettavano i loro filmini dalle immagini sfocate e traballanti al cineforum del liceo, ma un vero regista con la R maiuscola, perlomeno a sentire Mutt.
    Era andata in vacanza per qualche giorno a San Francisco, ospite del fratello e della sua famiglia, e la sera prima lui le aveva domandato di accompagnarla fino a Los Angeles per quell’incontro. Ovviamente, eccitata alla sola idea di una simile occasione, non aveva pensato di dire di no neppure per un brevissimo istante.
    «Ecco, ci siamo» annunciò Mutt, accennando con la testa al locale più strano che Katy avesse mai visto in vita sua: era un edificio letteralmente a forma di cappello, dipinto in marrone, sul cui ingresso capeggiava la scritta The Brown Derby. A lato dell’edificio-cappello si allungava una veranda protetta da tendoni bianchi e rossi, che terminava contro il muro bianco che delimitava il parcheggio.
    Lasciata l’automobile, fratello e sorella si diressero a piedi verso l’entrata del ristorante, boccheggiando a causa del calore quasi irresistibile che si irradiava dall’asfalto. Fortunatamente, all’interno trovarono attivo il condizionatore d’aria.
    Dopo essersi avvicinati al bancone per ordinare due caffè e due fette di torta californiana alla frutta, si guardarono attorno in cerca del loro uomo.
    «Ah, ecco George» annunciò Mutt, facendo un cenno verso un tavolino a cui era seduto un tizio solitario.
    Katy seguì il suo sguardo e rimase decisamente perplessa.
    Si era immaginata, a sentire i racconti di suo fratello, di doversi preparare a incontrare un tipo stravagante e originale, ma lei con tale definizione intendeva tutt’altra cosa, non certo questo. Si era aspettata il classico divo californiano, abbronzato, muscoloso e con l’impeccabile completo all’ultima moda, oppure un tizio vestito in maniera bizzarra e dallo sguardo da fanatico. Quello, invece, sembrava quasi una specie di contadino, oppure il garzone di un supermercato, al massimo uno studente universitario male in arnese e fuori corso, ma certo non un famoso regista.
    Nonostante fosse sulla trentina, dimostrava molti meno anni di quanti ne avesse davvero, quasi fosse un coetaneo della ragazza o solo di poco più grande di lei: piccolo e mingherlino, piuttosto pallido, il suo sguardo trasognato sembrava quasi depresso dietro le lenti dei grandi occhiali dalla montatura di plastica nera; ed a quell’aria da cane bastonato si sommava una timidezza senza pari, che cercava di tenere inutilmente celata dietro la barba e i folti e spettinati capelli scuri, ma che traspariva anche così, da lontano, senza neppure la necessità di conoscerlo: lo si capiva perfettamente da come se ne stava un po’ ingobbito sulla sedia e da come le sue mani si tormentassero di continuo l’una con l’altra, con nervosismo.
    «Sarebbe quello, il regista?» commentò Katy, sarcastica, strofinandosi un dito sulle labbra. «Sei sicuro che faccia film? Semmai, mi sembra uno di quei nerd che passano le giornate a leggere fumetti, anziché studiare per provare a prendere la laurea…»
    A valutare dall’abbigliamento, composto di una semplicissima camicia di flanella a righine di vario colore intrecciate a formare quadretti di diverse dimensioni, che doveva aver comprato per pochi spiccioli, blue-jeans un po’ scoloriti e scarpe marroni decisamente sciupate, la sua prima impressione di essere alle prese con uno studente squattrinato parve confermata. Ma suo fratello le toccò una spalla e le rivolse uno sguardo ammonitore.
    «Va bene, a prima vista avrà un aspetto un po’ insignificante, non dico di no, ma non fermarti alle apparenze» le consigliò, con una saggezza che riusciva a dimostrare davvero di rado ma che pure possedeva. «A vederlo così non si direbbe mai, ma ha una mente vulcanica e, per di più, è reduce dal grandissimo successo di un film che ha vinto il Golden Globe, ricevuto diverse nomination all’Oscar e incassato più denaro di quanto lui stesso, forse, non si sia ancora reso conto.»
    «Ah» sbottò Katy, ancora un po’ scettica, prendendo il vassoio con le torte e i bicchieri di cartone pieni di caffè che la sorridente ragazza dietro il banco le stava porgendo.
    Seguì il fratello, che si diresse con decisione verso il tavolino a cui sedeva il regista.
    «George, eccomi qui!» salutò il ragazzo.
    L’altro si alzò per salutarlo e stringergli la mano, mentre Katy posava il vassoio sopra il tavolo.
    «Questa è mia sorella Katy» fece le presentazioni Mutt. «Katy, lui è George.»
    «Molto lieto» disse il regista con voce sottile, prendendo per un momento la mano della giovane nella sua, che non era di molto più grossa rispetto a quella della ragazza. «Ma sediamoci, bando ai convenevoli.»
    Si accomodarono e i due fratelli attaccarono subito la loro torta, mentre l’altro sorseggiava una Coca-Cola con aria meditabonda e riflessiva, quasi preoccupata. Un hamburger sbocconcellato per metà si stava velocemente raffreddando nel piatto che aveva di fronte. Dopo un momento, George abbassò la bottiglietta di vetro.
    «Ti sono veramente grato per aver accettato di venire a incontrarmi qui» disse, grattandosi piano la barba. «Sai, anche se non mi piace troppo venire da queste parti, ultimamente mi tocca: il lavoro è il lavoro! Tra tutti gli impegni che ho e la realizzazione di questo nuovo film, che mi sta assorbendo del tutto… il tempo per starmene a casa in santa pace, ormai, è ridotto a zero.» Scrollò le spalle. «Ma a me piace così.»
    Mutt ingoiò un boccone di torta.
    «In che modo potrei esserti d’aiuto…?» domandò, pulendosi la bocca con il dorso della mano. «Mi hai parlato di un problema praticamente insormontabile…»
    George si sistemò meglio gli occhiali, che gli erano scivolati sul naso.
    «È per via di una delle mie idee riguardo il film» rivelò, appoggiando la testa a una mano e mettendo il gomito sul tavolo. «Come saprai, sono anni ed anni che ho in mente questo progetto e, anche se quei maledetti della Fox mi stanno creando un sacco di grattacapi, cercando in ogni modo di mettermi i bastoni tra le ruote, penso che ormai ci siamo.»
    «È un progetto interessante?» chiese Katy, sorseggiando il caffè nero e bollente.
    «Credo che non ci sia mai stato un progetto più interessante e ambizioso, prima d’ora» rivelò il regista, senza nessuna falsa modestia. «Sono pronto a sconvolgere e a sovvertire tutte le regole del cinema. Sarà un film che cambierà per sempre il modo non solo di fare fantascienza - dato che, per come lo voglio fare, sarà tutto fuorché fantascienza - ma la cinematografia in generale.» Il suo tono risultò talmente convincente che nessuno osò controbattere o domandargli se, per caso, non stesse correndo un po’ troppo.
    Quella considerazione sulla fantascienza, invece, risvegliò qualcosa di indefinito, nella mente della ragazza. Immagini sfigurate e sfuggenti cominciarono a vorticarle nella mente, senza che, però, riuscisse a metterle bene a fuoco.
    «George doveva girare un film sul Vietnam, all’inizio» spiegò Mutt.
    «Già, un adattamento del romanzo Cuore di tenebra, ambientato però in Vietnam, durante la guerra» soggiunse il regista, annuendo in maniera distratta. «Un periodo che tuo fratello conosce molto bene, avendo combattuto.»
    Mutt arrossì fino alla radice dei capelli.
    «Ehm… sì, sì, certo…» tagliò corto, guardando da un’altra parte, sentendosi a disagio.
    Senza fare caso a lui, George continuò
: «Solo che, alla fine, dopo un tiramolla che sembrava non avere mai termine, quel film è andato al mio amico Coppola. Così, a me non è rimasto altro da fare che buttarmi su questa sceneggiatura a cui sto dietro da anni.» Sollevò la testa e intrecciò le dita, mentre una luce quasi folle gli si accendeva negli occhi. «Ora, me lo giro io, il mio film sul Vietnam… Ho già tutto in mente… sarà la storia di un ragazzo e di una ragazza, in un universo molto lontano dal nostro… ci sarà una ribellione contro un malvagio impero, nel mezzo della quale si svilupperà anche un intreccio amoroso, con eroi degni di un poema epico, cattivi violentissimi e alieni da mondi molto lontani… nessuno ha mai visto nulla del genere, ma io sono pronto a realizzarlo. Finalmente, darò anche al cinema il ruolo che gli spetta davvero, al pari della letteratura, del teatro e della musica! Tutti dovranno riconoscerlo come la nuova arte, l’arte del futuro! E lo farò a modo mio: divertendo. È venuto il momento di smettere di suddividere il cinema tra film che piacciono solo al pubblico e vengono snobbati dalla critica e pellicole intellettualoidi che nessuno guarda e tantomeno capisce.»
    Fratello e sorella si scambiarono uno sguardo abbastanza dubbioso.
    «Non pensi di stare un po’ esagerando, George?» domandò Mutt, che non riuscì più a trattenersi dal fare una simile domanda.
    Ma il regista scosse il capo, convintissimo.
    «Per niente. Quello che ho in mente non sarà un semplice film. Sarà allo stesso tempo una denuncia sociale e…» fece scivolare rapidamente il pollice sulle altre dita, quasi a voler afferrare un concetto che svolazzava a mezz’aria davanti a lui, «…e qualcosa di grande, di molto più grande, che unirà le generazioni. Ne sono certo! Posso ammettere di aver preso un abbaglio con THX 1138: il pubblico non era pronto, vedere un mito platonico trasformarsi in una distopia futuristica forse era troppo, anche se solo perché i tempi non erano ancora abbastanza maturi. Ma, in questo caso, ho ragione, lo sento!»
    Mutt lo considerò con un po’ di scetticismo, chiedendosi se il suo amico non avesse cominciato a esagerare con la Coca-Cola: ogni volta che lo incontrava ne stava bevendo una e, tutto quello zucchero, alla pari dell’alcol, poteva in qualche maniera avergli dato alla testa. Sempre che solo di zucchero si trattasse, poi. Gettò un’occhiata contrariata alla bottiglietta, chiedendosi quali strani ingredienti fossero contenuti in quell’intruglio dolciastro e dal colore nero, con tutte quelle bollicine; per fortuna, lui beveva solamente sana, vecchia e buona birra, che non tradiva mai. Tornò a guardare l’amico e si disse convinto che, conoscendolo bene, tutto l’entusiasmo che dimostrava adesso, di lì a qualche tempo si sarebbe smorzato completamente, tramutandosi quasi senza rendersene neppure conto in un nero pessimismo.
    «Mi hai parlato del tuo progetto altre volte, sì, e sono sicuro che sia molto interessante» replicò, cercando senza riuscirci di apparire convincente. Era il momento di deviare il discorso. «Però, non riesco proprio a capire che cosa c’entri io… ti ho aiutato con American Graffiti, d’accordo, ma di mezzi spaziali e altre cose del genere non me ne intendo molto…»
    George sollevò su di lui uno sguardo tristissimo, che pareva quasi implorare pietà.
    «Sono nei guai!» confessò, scuotendo piano la testa. «Vedi, nel film comparirà un’astronave diversa da qualsiasi altra mai vista prima, qualcosa a cui il pubblico possa rimanere sinceramente affezionato da qui a cento anni. Avevo già in mente la sua forma ma, in una nuova serie televisiva, Spazio: 1999, ne è stata inserita una praticamente identica! Mi tocca rifare tutto da capo!»
    «Mi dispiace davvero molto. Ma, come ti ho detto, io…» cominciò Mutt.
    «È vero, di astronavi non ne sai niente, ma di automobili sei un grande esperto» gli ricordò George, facendogli un cenno con la mano.
    Mutt sogghignò «Stavamo parlando di ufo o di auto, George?» chiese, facendo l’occhiolino a Katy, che li stava ascoltando con grande interesse, mangiando in silenzio la sua torta.
    «In pratica, di entrambe le cose» replicò il regista, convintissimo. «Perché a me serve un… un ufo che non sia un ufo. Un normalissimo disco volante che, però, non sia affatto un disco volante! Una nave spaziale con una propria personalità, capisci? Un’auto sportiva dello spazio, insomma, ma non quel tipo di auto che qualche figlio di papà utilizzerebbe per rimorchiare ragazze il sabato sera; voglio un’auto priva di qualsiasi eleganza, invece, costruita da un folle amante della velocità pensando soltanto a quella ed a niente altro, come se fosse stata assemblata con i pezzi di altre astronavi rottamate. Mi segui?»
    Mutt non rispose subito, lisciandosi la barba.
    «Ho capito cosa intendi… cioè, a dire il vero, non ci ho capito un accidente, George.»
    L’altro fece un cenno verso il panino abbandonato che gli giaceva davanti.
    «Vedi questo hamburger?» chiese.
    Il suo amico inarcò le sopracciglia, senza rispondere.
    «Be’» continuò George, «io qui, più o meno, ci vedo già il mio ufo. Grossomodo questa potrebbe essere la via, ma… mi manca qualcosa. Qualcosa che non riesco ad afferrare.» Si passò una mano sul viso, facendo un’espressione davvero compassionevole, e sospirò. «Ci sono quasi, ma è anche come se fossi ancora anni luce lontano. Questa cosa è davvero deprimente.»
    «Un panino imbottito?» pensò Mutt, guardando con sconcerto prima l’hamburger e poi il viso del regista. Cercò di essere comprensivo, ma più di un: «Scusami, George, ma non ti seguo proprio…» non riuscì a dire.
    Katy aveva seguito in silenzio quello scambio di battute, assaporando boccone dopo boccone la sua fetta di torta californiana, che era il suo dolce preferito; ne andava matta e, quando l’aveva nel piatto, non riusciva a pensare ad altro.
    Adesso, tuttavia, doveva ammettere che la torta non fosse al primo posto, nei suoi pensieri, perché la richiesta un po’ assurda che il regista aveva appena fatto a suo fratello le stava risvegliando dentro qualcosa di molto più concreto delle immagini fumose di prima. Era come se, dalle confuse nebbie dei suoi ricordi onirici, stesse emergendo una forma sempre più concreta.
    Appoggiata la forchetta nel piatto ormai vuoto, ritenne che fosse arrivato il suo momento di dire qualcosa.
    «È più o meno un mese che, quando vado a dormire, mi capita di fare un sogno ricorrente, sempre lo stesso» disse, vergognandosi un poco e giocherellando con una ciocca di capelli, mentre gli sguardi dei due uomini le si puntavano addosso. «Ho cominciato da quando sono tornata dal Perù, ci sono stata con papà a giugno, per fare insieme un’escursione nella giungla alla volta di un tempio abbandonato.»
    «Ho conosciuto tuo padre, me l’ha presentato Mutt, una volta» ricordò George, con la mente già lanciata in chissà quali progetti futuri. «Un grand’uomo, straordinario… credo che, anche su di lui, ci si potrebbe benissimo fare un film e…»
    «Un film sul matusa?!» sbottò Mutt, quasi strozzandosi nel tentativo di soffocare una risata. «Scusami, ma credo che sia meglio che tu continui a concentrarti sulle tue astronavi e lasci perdere il resto!» Poi, rivoltosi alla sorella, aggiunse: «E tu, Katy, non importunare George con i tuoi sogni, visto che ha già tanto a cui pensare. Sai, non credo proprio che gli interessi ciò che un’adolescente vede la notte…»
    La ragazza lo fissò offesa ma, prima che avesse avuto il tempo di replicare qualcosa di pungente - e lei possedeva tutto un suo personale e peperino repertorio per rispondere per le rime a chiunque - fu il regista stesso ad assumere le sue difese.
    «Non mi opportuna affatto. Anzi, tutto ciò che riguarda i sogni mi incuriosisce» affermò, guardandosi le dita delle mani. «Del resto, il mio lavoro consiste proprio nel prendere il sogno di una persona e trasformarlo in qualcosa di concreto, fruibile a chiunque.» Fece una pausa per togliersi gli occhiali e controllare controluce che non fossero sporchi, quindi soggiunse, mentre li puliva sommariamente con un lembo della camicia: «Nei sogni ci sono effetti speciali che nessuno ha mai potuto replicare… finora, almeno. Un paio di mesi fa, ho fondato apposta la Industrial Light & Magic: voglio che i miei film siano unici, sotto ogni punto di vista, a partire da quello visivo. Voglio che ciò che mi vedo dentro diventi tangibile e reale, per tutti. Tutte le persone, attraverso il mio lavoro e quello dei miei collaboratori, vedranno il mondo con occhi nuovi e impareranno che, col cinema, tutto è possibile. E, un giorno, grazie alla tecnologia sempre più raffinata - e che noi, alla ILM, contribuiremo a migliorare sempre di più con tutto il nostro impegno - qualsiasi bambino potrà, pur con pochi mezzi a disposizione, realizzare il proprio film personale!» Inforcati di nuovo gli occhiali, alzò lo sguardo e rivolse un cenno e un sorriso incoraggiante a Katy. «Scusami, quando si tratta del mio lavoro mi faccio sempre prendere dall’entusiasmo e parlo troppo. Continua pure.»
    La ragazza fece la linguaccia al fratello poi, continuando a giocherellare con la sua ciocca di capelli, cominciò a spiegare.
    «Bene, faccio questo sogno da almeno un mese, come ho detto. Io e papà siamo in una grotta e stiamo leggendo qualcosa su una parete. All’improvviso ci voltiamo e vediamo, in fondo al tunnel, un’astronave. Solo che, prima che possiamo avvicinarci, l’astronave si accende e risale la galleria. Io, allora, corro e corro per poterla seguire, ma non posso fare altro che guardarla mentre sfreccia fuori dalla terra e si innalza nel cielo.»
    Lei e George si fissarono in silenzio, contemplandosi a vicenda. Lo sguardo del regista si fece talmente intenso che Katy ebbe la sensazione che stesse tentando di guardarle direttamente nella mente. Mutt sbuffò.
    Da ragazzo, quando aveva appena conosciuto quel giramondo di suo padre, gli era capitata proprio un’esperienza simile, quindi non era mai stato troppo scettico riguardo all’idea della possibile esistenza di uomini dello spazio - o esseri ultradimensionali che fossero - che vivessero in altri pianeti. Però, non capiva proprio il motivo per cui, in una conversazione tecnica inerente la realizzazione di un film, si dovesse dare spazio ai sogni di una ragazzina di nemmeno diciotto anni, con gli ormoni impazziti e tutto il resto, che potevano significare qualsiasi cosa.
    «Probabilmente hai un qualche tipo di problema non risolto, ma ti assicuro che non c’è affatto bisogno che tu vada dallo strizzacervelli per sistemarlo» tagliò corto, finendo di bere il suo caffè. «Mi ricordo che anche a me, quando ero più giovane e avevo grossomodo la tua età, succedeva qualcosa di simile: facevo spesso un sogno ricorrente, in cui c’era una bellissima donna bionda che…» Si interruppe e sorrise beffardamente sotto la barba. «…ma certi particolari è meglio che li tenga per me.»
    Ignorandolo completamente, George si protese sul tavolo, verso Katy. La sua mano si allungò fino a posarsi sopra quella della ragazza, stringendola piano.
    «E l’astronave… sapresti descrivermela?» domandò, speranzoso.
    Lei si strinse nelle spalle.
    «Be’, me la vedo davanti agli occhi tutte le sere, no? Però… non è facile. Anche se a me sembra davvero un ufo che non è un ufo, come dicevi tu. E, in qualche modo, c’è anche un hamburger, lì dentro.»
    Il regista si leccò le labbra e i suoi occhi sembrarono emanare un luccichio languido mentre fissavano intensamente quelli di Katy, quasi sperasse sul serio di penetrarle nel cervello per potersi servire da solo e a proprio piacere di tutte quelle immagini oniriche che avrebbero fatto al caso suo.
    In quanto alla ragazza, abbassato per un momento lo sguardo al tavolo, fece un sorrisetto.
    «Ecco!» esclamò, afferrando il suo piatto vuoto e sollevandolo. «Questo potrebbe essere un ufo, no?»
    George annuì e anche Mutt, suo malgrado, fece lo stesso.
    «Il classico disco volante dei film di fantascienza, specialmente degli anni cinquanta» commentò il regista. «Aggiungici soltanto una cupola nel mezzo e il gioco è fatto.»
    «Ma io non ci aggiungo una cupola» replicò Katy, posando il piatto. «Piuttosto, ci aggiungo un secondo disco volante.»
    Senza chiedere il permesso, prese il piatto di Mutt, divorò in due bocconi i resti della sua torta e, tenendolo al rovescio, lo posò sopra il primo. Poi, non ancora contenta, afferrò la bottiglietta di Coca-Cola vuota che George aveva appena finito di bere e la sdraiò sulla destra della sua creazione, un po’ spostata in avanti rispetto al centro. «E questa è la cabina di pilotaggio, esterna, protesa verso lo spazio.» Soddisfatta, alzò gli occhi verso i due uomini, sorridendo con aria vittoriosa. «Ecco, più o meno, questa è la mia astronave.»
    Suo fratello fece una faccia stranita, non vedendo proprio nulla di speciale in quella creazione artistica di dubbio gusto; si grattò la testa e parve domandarsi se, per caso, sua sorella non si stesse prendendo un po’ troppo gioco della loro pazienza. Ma il regista, al contrario, parve estasiato, perché la contemplò come se si fosse trovato in presenza del più bello e prezioso tra tutti i tesori. I suoi occhi corsero dai piatti di Katy al suo hamburger ormai rassegnato a non essere mangiato da nessuno, quindi salirono fino a fissarsi in quelli della ragazza.
    Dopo un momento di completo silenzio, finalmente si riscosse.
    «Tu sei un genio!» esclamò a pieni polmoni, balzando in piedi e facendo volgere verso di loro gli altri clienti del locale. Con le mani che tremavano come se fosse in preda a un qualche strano attacco, tolse un taccuino e una matita dalla tasca posteriori dei jeans e prese in maniera rapidissima degli appunti, creando uno schizzo di quell’astronave che lo aveva stregato. Ammaliato. Nel giro di pochi istanti, aveva trovato esattamente quello che stava cercando.
    George Lucas non era mai stato un uomo che si lasciasse andare a troppe effusioni o che dimostrasse in presenza di qualcuno i propri sentimenti; aveva sempre preferito cercare di apparire impassibile, tenendo per sé le proprie emozioni. Ma, questa volta, non fu in grado di trattenersi.
    Fatto il giro del tavolo, mise le mani sulle spalle di Katy, si chinò su di lei e le stampò un bacio sulle labbra. Poi, non contento, soggiunse: «Ed è un genio anche tuo fratello ad averti portata qui!» precipitandosi a cercare di baciare anche lui.
    «George, per carità, ho una reputazione da rispettare!» schiamazzò Mutt, schiacciandosi sulla sedia per cercare di sottrarsi alla bocca dell’amico, mentre Katy, divenuta rossa come un sole al tramonto, rideva della grossa.
    «Io… io devo andare… correre dai miei ragazzi, alla ILM… subito…» balbettò il regista, in preda a una sorta di delirio. «Vi devo… tutto… e non me ne dimenticherò…né di voi… né di vostro padre che ti ha portata in Perù per farti fare quel sogno…»
    Tastandosi febbrilmente le tasche dei jeans, trovò il portafogli, ne estrasse a casaccio una banconota da cinquanta dollari che lasciò cadere sul tavolo per saldare il conto e, con la testa già completamente partita verso quell’universo lontanissimo a bordo di quell’ufo che non era un ufo, di cui già riusciva a contemplare ogni singolo particolare, schizzò via, come se avesse avuto le ali ai piedi.
    Mutt lo guardò allontanarsi, scuotendo adagio la testa.
    «Poveretto» commentò a bassa voce, dopo che lo ebbe visto uscire dal locale e sfrecciare di corsa lungo il marciapiede.
    Katy, che stava pian piano cominciando a riacquistare il suo colorito normale, sollevò un sopracciglio.
    «Perché poveretto?» domandò.
    Suo fratello ghignò con ironia, profondendosi in un’espressione che ricordava molto da vicino quella che il loro vecchio genitore riservava sempre a persone e situazioni di cui voleva prendersi gioco.
    «Sta buttando ogni sua risorsa in questo film di alieni e astronavi» replicò, con tono denso di sarcasmo. «Ma il cinema è già fin troppo saturo di roba del genere. Se avesse continuato a fare film sulla vita americana avrebbe di certo avuto successo, ma così… sarà la sua rovina. Nel giro di un mese soltanto, tutti si saranno dimenticati di lui e del suo film. Parola mia.»
    «Secondo me ti sbagli» replicò Katy, giochicchiando con il laccetto del suo costume da bagno, legato attorno al collo. «Sento, semmai, che farà un successo epocale.»
    «Mai contraddire una donna» si arrese Mutt, spingendo indietro la sedia per alzarsi. «Andiamo?»
    «Andiamo» rispose Katy, alzandosi a sua volta e gettando un’ultima e fuggevole occhiata al suo approssimativo ma efficace modello di ufo che non era un ufo. «Mi porti a Venice Beach? Non voglio essermi messa il costume per nulla…»
    Suo fratello fece un cenno affermativo con gli occhi e, insieme, si avviarono fuori dal bar, verso la soleggiata giornata californiana. Però, per un breve istante, entrambi si chiesero se, da qualche altra parte, magari in una galassia lontana, lontana, sotto uno o più soli sconosciuti, non stesse veramente sfrecciando un ufo che non era un ufo.

 [scritto: febbraio - maggio 2019]
   
 
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