Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: EvrenAll    15/01/2020    0 recensioni
Elettra ha vent'anni ed è una ladra. Le sue sorelle d'acciaio e il profondo desiderio di libertà sono le uniche certezze nella sua vita, ma le Cappe Nere, gilda di ladri ed assassini per cui lavora, non sono intenzionate a lasciarla andare.
Personaggio giocato durante una sessione di D&D particolarmente fortunata, ha deciso di diventare il mio pallino fisso fin quando non ho finito di scrivere la sua storia.
"I suoi occhi si facevano più grandi e tristi nei giorni di pioggia: la guardava precipitare dal cielo sostando davanti ai vetri appannati, e se erano all'aperto, quando credeva che fosse distratto, faceva in modo di alzare la testa verso le nuvole per perdersi tra le gocce silenti e sentirle scendere lungo il viso e sulla schiena.
E sorrideva."
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
6
 
Blackout


 

Chiusero la grata alle sue spalle con un tonfo metallico. 

L'avevano isolata degli altri detenuti. Grazie alla sua morbosa opera aveva guadagnato il privilegio di una cella singola ed ora il suo spazio era limitato ad un rettangolo di un paio di metri quadri. 

Si mosse fino ad appoggiare la fronte sulla fredda pietra della parete. Se si concentrava abbastanza da ignorare il rumore delle catene proveniente dal corridoio, riusciva a sentire il mare. Le onde sbattevano placidamente sulle mura portando nella cella non solo il loro ipnotico scrosciare, ma anche l'umidità che rendeva il freddo ancora più intollerabile. La prigione sotterranea doveva essere stata scavata nella scogliera. 

Mosse le dita l'una sull'altra, stropicciandosi le mani e portandole al viso. 

Adesso i suoi movimenti erano precisi e chiari, sentiva e controllava ognuno dei suoi muscoli come se non fosse successo nulla di insolito nelle ore precedenti. 

In qualche angolo della sua mente aveva ancora la speranza di svegliarsi e trovarsi in locanda, nello stesso letto in cui si era addormentata la notte passata. Ma non erano questi i suoi soliti incubi e l'indolenzimento ed il dolore del suo corpo erano troppo forti per essere un'illusione.

Il suo burattinaio si era divertito ad usarla senza risparmiare nessun colpo e portandola oltre ai suoi limiti. Riusciva a distinguere ognuno dei muscoli forzati: le cosce doloranti per gli scatti, braccia e spalle dolenti a causa della furia con cui avevano diretto le lame nella carne. Stava tremando. 

Massaggiò i bicipiti girandosi per cercare il conforto di una luce nel buio del sotterraneo. 

«La cella non è di tuo gradimento?» 

La guardia si beffò di lei, alzandosi dalla sua postazione per avvicinarsi. 

Lo fissò stringendo le mascelle.

«Che hai fatto per finire qui sotto, bellezza?» 

«Che hai fatto tu per avere un incarico così banale?» sputò al suo indirizzo. Allungò una gamba calciando la grata all'altezza delle mani dell'uomo. 

Amareggiata, si rese conto di non averlo colpito mentre questi le alzava verso il petto in segno di tregua. 

«Almeno non sono dietro le sbarre» affilò lo sguardo e rise ancora, arretrando mentre Elettra si dirigeva verso di lui e spingeva contro la porta per forzarla. 

L'arrendevolezza aveva lasciato spazio alla rabbia: dopo cinque anni di carriera perfetta era stata sbattuta in carcere per azioni che non aveva nemmeno voluto compiere! 

«Sei avvisata bambolina: meglio ti comporterai qui dentro, meglio verrai trattata quando dovremmo spogliarti, lavarti, nutrirti... Basta un brutto tiro e la tua permanenza qui dentro diverrà un inferno» 

«Quando uscirò di qui sarete voi a bruciare» minacciò, alzando la voce. Le grate rimanevano immobili. 

La cella sembrava progettata alla perfezione, ma doveva esserci un punto debole. 

L'uomo scosse la testa, come se quelle parole facessero parte di un mantra già sentito e risentito allo sfinimento. 

«Alice! Diane!»

Ignorò le sue urla e prese la torcia che aveva agganciato al muro al suo arrivo. Iniziò a camminare nello stretto corridoio allontanandosi da lei e controllando il resto dei prigionieri. 

Il buio sommerse la ladra, soffocò le sue parole e cancellò le lacrime di rabbia che inclementi le sferzavano le guance. Batté i pugni sulla grata immobile, ottenendo solo nuovi lividi sul suo corpo maltrattato. 

La sua speranza annegò di nuovo, cullata dallo scroscio delle onde del mare.

 

* * *

 

«Ci ha fatto passare una brutta giornata» 

Johan scelse una delle chiavi dal mazzo ancorato alla sua cinta. Aprì la grata e lasciò passare Elva dopo di sé in modo da richiudere subito il passaggio. Lei gli rimase vicino. Aveva paura degli spazi chiusi: gradiva le visite ai sotterranei quasi come l'essere chiusa viva in un armadio. 

Suo cugino l'aveva fatta vivere quella piccola tortura quando aveva solo sette anni. Ricordava perfettamente il buio e le inutili spinte sul legno mentre il ragazzino rideva di lei. 

«Ha cercato di forzare la porta della cella, sono dovuto intervenire un paio di volte e sono arrivati in tre a scortarla al cambio. Non me l'aspettavo così combattiva, insomma, avrà poco più di vent'anni» 

Strinse una mano sul tessuto del proprio abito infastidita dall'odore viziato che era arrivato al suo naso nonostante avessero percorso solo qualche metro all'interno della prigione. 

«Devo ancora vederla» 

«Detto tra me e te, non sembra molto pericolosa, se trascuriamo gli sguardi rabbiosi e i tutti quei bisbigli che mi fanno dubitare della sua sanità mentale» 

La guidò attraverso i cunicoli con sicurezza, illuminando la strada con il fuoco della torcia.

«Ha ucciso una ventina di persone. Stando a quello che dice Vincent un terzo erano bambini. I rimanenti donne, civili e guardie del luogo che hanno cercato di fermarla» 

Johan si voltò, fermandosi lungo il corridoio. Lo sguardo corrucciato tradiva sorpresa. 

«Stai scherzando?» 

Elva scosse la testa: «Vincent sembrava piuttosto serio» 

«Dannazione» si grattò la nuca impensierito. 

«Era da un po' che non avevamo qualcuno di così ...importante» 

«Siamo arrivati?» chiese, spazientita dal suo chiacchiericcio. 

«Sì, scusa. Giù per le scale» indicò un varco alla sua sinistra che si addentrava ancora di più nella nuda terra. Il tanfo di salsedine dava il voltastomaco. 

Fece strada, seguito dalla donna. Le scarpe scivolavano appena sui gradini umidi, troppo stretti per appoggiarci il piede intero. Elva non sapeva se sarebbe stato peggio sfiorare il viscidume depositato sulle pareti per cercare un appiglio o cadere direttamente a terra. Chissà chi ci aveva camminato, lì. 

Optò per una via di mezzo piuttosto semplice: la lentezza. Amava i compromessi. 

Forzò sé stessa ad ignorare la fretta della guardia e si concentrò sui proprio passi. Tutta quella situazione, dal buio attorno a loro alla pesantezza del suo incarico, non faceva altro che agitarla. Inspirò profondamente ignorando l'odore che la circondava. I polmoni ne risentirono comunque, investiti da una traccia gelida di umidità che le entrò fino alle ossa, facendola rabbrividire. Continuare a conversare forse l'avrebbe distratta abbastanza da riuscire a sopportarla. 

«Che cosa dice?» 

«La ragazzina?»

«Sì» rispose a parole, impegnata a seguirlo in un labirinto di cunicoli che sarebbe apparso molto meno intricato se osservato dall'alto.

«Dice dei nomi» Johan si strinse nelle spalle, rallentando per lasciare ad Elva il tempo di seguirlo. 

«Sembra che parli con qualcuno, ma non chiede aiuto» Elva intuì che dovevano essere arrivati non appena la sua voce piena venne sostituita da un sussurro. 

«Forse prega» 

La donna si accigliò osservando il suo interlocutore: pregare? A quale dio avrebbe potuto rivolgersi un'assassina con quelle colpe sulle spalle? 

Non era lì per redimere i suoi peccati, ma per farla parlare causandole il meno dolore possibile. Il suo dio, Dunen, non era un dio violento, ma giusto, e la giustizia non andava proclamata solo con belle parole. Azioni, perseveranza, fede e forza. 

«È lei» 

Si fermò a guardarla. Non le avevano lasciato nulla se non la divisa delle carceri reali: come un fagotto color del fango giaceva a terra, accucciata ad un piede dal muro più distante dalla porta della cella. 

Scacciò la pena che avrebbe provato in altre occasioni ripensando alla storia che le avevano raccontato: omicidi, assassini, setta. Avrebbe meritato tutt'altro che pietà. 

Si morse il labbro, pentita che il solo pensiero che si meritasse quella sorte le avesse attraversato il cervello. Chi era lei per giudicare? 

«Ragazzina, lei è qui per farti delle domande» 

Non una parola, né uno sguardo. 

«Fammi entrare» 

Alla richiesta di Elva, Johan scelse una delle chiavi agganciate alla sua cintura e fece scattare la serratura, attirando per un attimo lo sguardo della criminale. Elettra si raccolse su sé stessa, arretrando e rizzando la schiena. I suoi occhi guizzarono dalla soglia ai propri piedi, tradendo una leggera tensione. 

La donna varcò la porta raccogliendo sicurezza. La carcerata era davvero una ragazzina. Minuta, apparentemente innocua, trattenuta al muro con un paio di catene che le permettevano di allontanarsi da lì solo di qualche braccio. 

Le tese una mano per incoraggiarla ad alzarsi. 

Gli occhi di Elettra non si mossero dal pavimento. Aveva deciso di ignorare deliberatamente la nuova arrivata, avrebbe lasciato che i suoi pensieri continuassero a macerare nei più profondi angoli della sua mente e non avrebbe permesso nemmeno a qual gesto di smuoverla. 

«Non hai voglia di parlare con me?» 

La donna si appoggiò alle sbarre con la schiena guardando la ragazzina seduta a terra. Avrebbe dovuto mettere alla prova le capacità acquisite all'accademia per interrogarla senza farsi uccidere: doveva guardarsi dall'essere mostruoso che Vincent le aveva descritto, avere paura delle sue mani, anche se erano vuote. 

Lui e Reder erano state le uniche due guardie reali inviate al paesello dopo la notizia del massacro e se il racconto concitato del messaggero ed il terrore nei suoi occhi non era bastato a far allarmare Zarog, ci avevano pensato loro a descrivere l'orrore, a contare le vittime e riportare il carnefice, una ragazza legata e sporca di sangue fino all'osso, fino alle prigioni della capitale. 

«Come ti chiami?» 

Nei pozzi neri che si rivolsero a lei non vide quello che si aspettava. La ragazza la guardava con un'intensità anomala, indispettita dall'insistenza delle parole che avevano fermato il flusso dei suoi pensieri, tormentata, ma senza un briciolo di paura. 

Diversa da altri criminali che aveva già fatto parlare, boriosi e folli decantatori di assurde imprese, doveva essere folle a suo modo per non temere l'inevitabile destino a cui sarebbe stata condannata. 

Le ricordava l'unico membro delle Cappe Nere di cui aveva visto l'interrogatorio. Non aveva aperto bocca nemmeno una volta passati alle frustate; si era ucciso la notte stessa e non aveva detto una parola.

L'umidità le aveva incollato i capelli sul capo. Cadevano come fili scomposti sulle sue spalle, nascondendo il collo. 

Si rannicchiò di più per allontanarsi e forse cercare di superare il freddo con il calore della sua stessa pelle. 

«Ieri era più agitata» Johan assisteva, pronto ad intervenire al minimo segno di opposizione. 

Elva inclinò la testa, espandendo il proprio sentire al di fuori di sé. Pervase la piccola cella del suo potere lasciandolo scorrere sul pavimento come una corrente invisibile e calda. Si mise in ascolto. L'assassina non era completamente neutra: il lieve pizzicorio che le solleticò la pelle le suggeriva che la giovane sapesse relazionarsi con la magia in maniera minore. Probabilmente riusciva ad attivare e maneggiare oggetti straordinari con relativa facilità, qualità quasi comune nei criminali, ma oltre a quella piccola abilità le sue capacità erano nulle. Nessun incantesimo, nessuna aura, nessuna scintilla. 

«Qual era il suo equipaggiamento?» 

Johan tentennò per un attimo «Armatura, due pugnali da mischia, qualcuno da lancio» si grattò la testa. «Anche qualche gioiello, ma non ne sono certo. Non sono stato io a perquisirla prima di entrare» 

L'incantatrice avanzò nella cella, osservando ancora la giovane. 

«Le Cappe Nere in genere non ordinano stragi» respirò l'aria salmastra prima di continuare. Alcune parole le si fermarono sulla lingua senza che riuscisse a dar loro concretezza. Dovevano essere state invocate con forza, pensate con una tremenda intensità. Aprì la bocca lasciando che uscissero naturalmente in un sussurrò che attirò nuovamente lo sguardo della criminale «Alice, Diane. Sangue» 

Sbatté gli occhi, mentre prendevano consistenza nella sua mente, quindi parlò.

«Chi sono Alice e Diane?» 

Il tormento era svanito, rimpiazzato dalla rabbia. Elettra storse la bocca in una smorfia e voltò la testa contro la parete alla sua destra. Fece forza sulle gambe e si mise in piedi facendo scorrere la schiena contro il muro gelato. 

C'era dolore in quei nomi, dolore e tremendo affetto. 

«Ventitré persone aspettano le tue parole. Avevano dei nomi anche loro, proprio come Alice, proprio come Diane» 

Gli assassini avevano senso di colpa? 

«Nomi, volti... Ventitré persone aspettano di conoscere la ragione per cui sono state uccise da te» 

Elva la vide socchiudere gli occhi e stringere forte una mano a pugno. 

«Perché hai ucciso quei bambini?» 

Tanto dolore, troppo, talmente tanto da spandersi al di fuori di lei senza che potesse controllarlo. Invase Elva per un attimo, facendola rabbrividire e trattenere il fiato. 

Il dolore era intriso di morte, paura e desiderio. 

«Erano bambine anche loro...» sussurrò senza trattenersi, raggiungendo un'improvvisa consapevolezza. 

L'aria tremò ad un gemito trattenuto di Elettra, si quietò come l'acqua scossa da un sasso e rimase immobile. Densa. Il silenzio rimase totale per secondi, forse minuti. 

Così come era nata, l'ondata di emozione si spense, riassorbita dalla criminale. 

L'incantatrice deglutì, recuperando la calma. Era stata sorpresa nel momento di massima recezione perché non immaginava di poter avere a che fare con sensazioni di tale intensità e con un sapore così blu. Dov'erano la rabbia? Il disprezzo e tutto il rosso istinto che l'aveva resa capace di uccidere? 

Sospirò. Aveva sperato di non dover utilizzare magie superiori e muoversi sul sottile filo che delimitava lecito e proibito: la nuova riforma di Zarog sul trattamento dei prigionieri. 

Non era divertente invadere le menti della gente, ancora meno quelle degli assassini, ma era convinta che fosse meno doloroso cedere per una manciata di secondi che essere torturata fisicamente. Dopotutto se avesse collaborato e non avesse trattenuto i suoi pensieri per sé, forzandola ad abbattere le sue difese con la violenza, non avrebbe sentito nulla oltre ad un flebile ed innocuo ronzio, ed avrebbe udito quello solo perché in grado di percepire la magia.

 Cercare di resistere avrebbe reso le cose difficili per entrambe. 

«Ho bisogno che tu collabori con me» si avvicinò di un passo, sussurrando, cercando il contatto con il suo sguardo scuro e sfuggente. 

«Sono stata mandata per conoscere quello che hai fatto, individuare i tuoi mandanti e capire se altri membri della tua Gilda vogliono mettere in pericolo il regno» spiegò, caricando la voce del piccolo incanto che avrebbe dovuto convincerla a girare la testa e guardarla. 

La magia di Elva si infranse sulla pelle della criminale senza esito, facendola scuotere la testa per la frustrazione. Ora comprendeva il senso di impotenza provato dal suo maestro nel tentare di forzare l'impenetrabile scudo di Galor Freccia Rossa. Ma Galor non era un pesce piccolo quanto quella ragazza: ce la poteva fare, ce la doveva fare. 

«Johan» chiamò la guardia e schiarì la voce, sorpresa dal tono flebile uscito dalla sua gola. 

«Bloccala» 

Mentre l'uomo spostava Elettra dalla parete e le teneva le braccia ferme dietro la schiena, la donna le artigliò il mento con le dita. Un sussurro ed uno studiato movimento della mano libera fecero capire ad Elettra le intenzioni di Elva troppo tardi. Senza poter reagire si trovò intrappolata nelle sue iridi chiare, incapace di sfuggire, incapace di imporre la sua volontà sul proprio corpo, quasi come era successo al villaggio. Fu travolta dal panico. Non poteva spostare lo sguardo da quel frammento di cielo che aveva deciso di mostrarsi così lontano dalla luce. 

Calciò davanti a sé ed Elva perse il contatto, permettendole di parlare. 

«Sapete quello che ho fatto, non vi serve niente» sibilò voltando la testa per nascondere gli occhi all'incantatrice che aveva davanti. Avrebbero potuto reagire: immobilizzarla con una parola e costringere a rivelare tutti i suoi pensieri. 

Cosa avrebbero visto? E cosa aveva cercato quella donna? 

La Gilda le avrebbe fatto passare dolori più atroci della morte stessa se avesse rivelato qualcosa su di loro; Alice, Diane, erano sue, solo sue! E altrettanto sua era l'Ombra che le aveva fatto compiere il massacro! Sua e diversa da lei. 

Non le avrebbe creduto nemmeno quella strega. L'avrebbero uccisa con ancora più cautela perché avrebbero capito quanto poteva diventare pericolosa. 

«Elettra» 

S'irrigidì nel sentire il suo nome e strattonò ancora le catene, nel tentativo di tornare nell'angolo della gabbia in cui l'avevano rinchiusa. Meglio la solitudine, l'umidità. Meglio la fame ed il dolore rispetto alla magia. 

«Tienila ferma ancora un attimo, Johan» 

«Tutto quello che vuoi» 

L'uomo sciolse il lucchetto solo per accorciare la corda. Rapidamente, sorprendendola con uno strattone, la tirò verso di sé, fermandola. Nonostante i tentativi di lotta Elettra era bloccata contro la parete, senza una via di scampo. Una parola della donna rese le sue membra molli e la testa pesante: l'assassina collassò sotto il suo stesso peso. Proprio le stesse catene che la imprigionavano frenarono la caduta, lasciandola indifesa. Le mani di Johan guidarono la sua testa verso Elva con decisione, in modo che i loro occhi potessero ancora incrociarsi. 

Nuova immobilità, nuova invasione. 

Urlò, frustrata, mentre il terrore la dilaniava dall'interno e l'Ombra rispondeva, muovendosi nelle profondità della sua anima per scacciare l'intrusione. Poteva sentirle all'interno di sé il chiarore dell'incantatrice che frantumava le sue protezioni, l'Ombra nera che approfittava del sigillo rotto per infilare le sue spire nei meandri della sua anima, riempirla, sommergere lei e la luce. La torcevano, stritolandola nel loro potere in uno scontro inaspettato, senza darle la possibilità di un respiro, bruciandola come fiamme incandescenti. Riuscì solo a spalancare di più gli occhi e pregare di non perdere coscienza nell'azzurro. Voleva scappare. Voleva urlare. 

«Basta» 

Una parola all'unisono decretò la fine della magia. Richiesta d'aiuto e dato di fatto. 

Elettra si accasciò a terra, senza coscienza. Elva si spostò sul fondo della cella. Lontana da lei, la fissava, spaventata ed in guardia, cercando di calmare il respiro furioso e di spegnere la voce che le urlava nella mente dicendole di scappare subito dalla cosa che aveva davanti. Un velo di sudore le bagnava la fronte. 

«Cos'è successo?» 

Elva scosse la testa senza dare risposta alla guardia. Ondeggiando nella confusione, tenendo salda la presa sul muro al suo fianco uscì dalla cella mentre Johan allentava le catene della prigioniera. Uscirono insieme dai sotterranei, senza aspettare che si risvegliasse.

 

* * *

 

«In piedi» 

La guardia la afferrò per un braccio, facendola alzare senza aspettare che lei aprisse gli occhi. 

Prigione, magia... Sbatté gli occhi, abbagliata dalla luce della torcia, puntata dritta addosso al suo volto. 

«Avanti» 

La trascinò lungo il corridoio manovrandola come una bambola di pezza. Le sembrava che la sua testa sarebbe scoppiata da un momento all'altro: pulsava ancora per la stanchezza e per lo scontro di cui era stata vittima prima di perdere coscienza. Cos'era successo in quell'attimo? 

Ondeggiava in un mare ovattato di dolore mentre il mondo si muoveva al doppio, triplo della sua velocità. 

Sbarre, gradini... 

I passi erano confusi, c'era troppa luce. La sua testa... avrebbe preferito che gliela staccassero dal collo pur di far smettere quel rimbombo prepotente che seguiva ogni pensiero ed ogni azione. 

 «Johan mi ha raccontato che non sei stata educata con Elva»

Si accorse di essere stata legata solo quando le corde le furono strette alle caviglie tanto da farla lamentare per il dolore. 

Si mosse senza successo. I tentativi di opporsi al brusco trattamento a cui la guardia la stava sottoponendo erano inutili: Elettra non aveva la forza fisica per far fronte al mastino che ora le stava assicurando le braccia alla parete con catene di ferro. Qualunque cosa l'avesse fatta muovere al villaggio e mandare al tappeto tutti gli oppositori sembrava non voler intervenire a suo favore. 

«Non sono favorevole alla filosofia di Zarog» 

Riuscì a mettere a fuoco l'uomo mentre le fermava l'ultima catena sul polso destro. Capelli corti e biondicci, naso storto. 

«Il tuo caso è troppo fresco per prendere provvedimenti: "dobbiamo conoscere perché ha fatto ciò che ha fatto", "non dobbiamo forzare la mano e favorire le sue menzogne"» 

Perse il contatto suo viso mentre si allontanava, distinguendo solo le forme di un corpo massiccio che sembrava scoppiare sotto all'uniforme. 

«Ha troppa fiducia nella magia, crede troppo che le cose si possano risolvere con il "bene di tutti". Uomo stolto, dico io» 

Elettra abbandonò il capo verso il basso, sopraffatta da una fitta al collo data dal tentativo di seguirlo guardando dietro di sé. Avrebbe dovuto affidarsi solo all'udito, ma il dolore era troppo, la confusione la soffocava. 

«Allora poiché le domande di Elva non hanno avuto risposta, ora ci penso io a te» 

La voce dell'uomo si incupì, ricordandole per un momento il mostro Nero delle storie che le raccontava Jasmine la notte per farle paura. Si lamentò a mezzavoce: i tentativi di riacquistare lucidità si infrangevano come cristallo ogni volta che scuoteva per errore la testa. Ondate di nausea e capogiri erano l'unico risultato ottenuto dalla sua futile opposizione. 

«Ti propongo un gioco, ragazzina» continuò. Sembrava soddisfatto del vederla così inerme. 

«Si chiama "rispondi alle domande o ti frusto", è la mia personale variante dell'interrogatorio che ti hanno già provato a fare» 

Tortura. Avrebbe dovuto immaginarlo. 

«Iniziamo con qualcosa di facile» 

Tirò un braccio verso il busto, sentendo il ghiaccio del ferro scontrarsi con il suo polso, annaspando in un mare di caotica debolezza. Mani legate, caviglie immobilizzate... 

«Qual è il tuo nome?» 

Scosse le braccia, senza capire, mentre un fischio le invadeva la testa e le parole si confondevano l'una con l'altra. 

Elettra. Elettra Vatos. 

Un borbottio ovattato, il tentativo di tornare a galla. L'adrenalina l'avvolse all'improvviso mentre la frusta le segnava la schiena regalandole un secondo di lucidità e facendola gemere. 

«Qual è?» 

Il secondo colpo arrivò senza darle la possibilità di risposta. Spalancò gli occhi sulla stanza arrossata dal colore dei fuochi sospesi sulle pareti, ingoiando il dolore e le lacrime. Quanto tempo era passato dall'incontro con la strega? Quante possibilità c'erano che l'uomo sapesse il suo nome? Poteva rinunciarci, al nome. Poteva. 

La voce uscì troppo flebile, l'uomo non era contento. 

«Non borbottare» 

«Isabel»

Tre

La frustata le fece inarcare la schiena. 

«Bugiarda oltre che assassina» 

Le sue mani si strinsero a pugno. Non poteva scappare, non poteva fare niente.

«Chi ti ha mandato?» 

Nessuno. Nessuno. 

Non le avrebbe creduto, l'avrebbe colpita più forte e basta. 

«La Gilda?» 

«Le Cappe Nere non ti dicono nulla?» 

Voleva la verità? Voleva davvero la verità? 

«Galor non è passato tra le mie mani, ma tu non avrai la stessa fortuna» 

L'avevano già citato. Non lo conosceva Galor, l'aveva visto al quartier generale, null'altro! 

«La strage non poteva essere l'obbiettivo. Chi sono i complici?» 

«Nessuno» 

Quattro

«Parla più forte» 

«Nessuno!» 

Urlò. 

«Non mentire! ‒ cinque ‒ Cos'avete fatto ad Oner? Chi ti ha mandato?» 

«Non avete bisogno delle mie parole per sapere quello che ho fatto!» 

La voce le uscì spezzata, acuta, rotta dalla sofferenza. 

Un altro segno la fece piegare e piangere lacrime bollenti. L'uomo non aveva più bisogno di fare domande. 

 «Ho ucciso! Elettra Vatos ha ucciso!» 

Urlò quando l'ennesimo colpo di frusta le sferzò la schiena. 

Sette

«Perché?» 

Aveva risposto. Basta. Basta! 

«Per niente» 

L'aria le graffiò la gola mentre sputava le ultime parole. Udì ancora la voce del mastino e si sentì colmare di una rabbia improvvisa. Un'Ombra nera e bruciante la inondò dall'interno, senza misura, oltrepassando i confini del suo stesso corpo. Incapace di sopportarla collassò, inerme, sostenuta dalle stesse catene che la tenevano imprigionata.

 

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: EvrenAll