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Autore: crazy lion    20/01/2020    3 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Eccomi qui con un nuovo capitolo! In realtà avrebbe dovuto essere più lungo ma dato che avevo pronta questa parte ho deciso di postarla come capitolo a sé, anziché farvi aspettare ancora più di un mese. Dalla settimana prossima ricomincerò a scrivere questa storia sperando di aggiornare massimo ogni due mesi, o mi auguro anche prima! Di nuovo scusatemi per questo ritardo assurdo, ma gravi problemi in famiglia mi hanno tenuta lontana da questa long.
Mi rendo conto che questo è un capitolo di semi-passaggio, spero comunque che vi piacerà.
 
 
 
 
 
 
CAPITOLO 109.
 
RIVIVERE IL TRAUMA
 
"Ehi, venite a vedere!" esclamò Katie quella mattina.
Erano passati soltanto tre giorni e le cose avevano già iniziato a cambiare, anche se poco, tra le mura scolastiche. Lei per esempio, quella bambina bionda che non aveva mai detto nulla di male su di loro, non seguendo la massa, si stava rivelando un'ottima compagna di giochi e chissà, nel tempo forse anche un'amica, così Mac e Lizzie avevano deciso di diventare un trio.
"Non so perché non mi sono avvicinata prima a voi" aveva spiegato loro in precedenza, abbassando lo sguardo. "Bri e gli altri mi dicevano di non farlo, io volevo ma..."
"Avevi paura, lo capiamo" aveva risposto Elizabeth.
"Sì, ma mi sento brutta e cattiva. Sempre."
E si era presa il viso tra le mani per nascondere le lacrime, pensando che le altre due non l'avrebbero notato.
Ne avevano parlato a lungo e si erano chiarite. E adesso eccole lì, tutte e tre insieme prima di entrare in classe.
Cosa devi mostrarci? chiese Mackenzie.
Se era una sorpresa, si sentiva già elettrizzata alla sola idea.
La bambina si allontanò un po' da tutti gli altri e, quando le tre ritrovarono il loro posto sotto l'albero, tirò fuori da una tasca una bambolina piccolissima.
"Una LOL?" chiese Elizabeth.
Si trattava di una piccola bambola che veniva venduta dentro una palla con tutti i suoi accessori.
"Sono riuscita a collezionarle tutte!" esclamò Katie  entusiasta. "E ci gioco un sacco. Ho anche la loro casa."
Ehm… wow disse Mackenzie cercando di mostrarsi entusiasta.
"Non vi piace?"
La mamma mi ha sempre detto che costano molto e che non me le prende, ma comunque io preferisco i personaggi di "Luce e ombra".
"Di cosa?"
"E perché ti sei allontanata dagli altri bambini per mostrarcela?" chiese Elizabeth.
"Non voglio che pensano che sono ricchissima o snob e mi prendono in giro" sussurrò non accorgendosi di aver sbagliato a parlare. Ma la verità era anche che Katie era una bambina molto timida, che già prima se ne stava davvero tanto sulle sue non parlando quasi con nessuno. "In realtà me le ha prese tutte mio papà" continuò, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.
Confuse, le due amiche la guardarono interrogativamente.
"I miei non vivono più insieme, sono… come si dice? Divorziati."
Oddio, mi dispiace Katie scrisse Mackenzie, appoggiandole poi una mano su una spalla e Lizzie fece lo stesso, con parole un po' diverse.
Le due pensarono che, nonostante tutto quello che avevano passato e che stavano vivendo, almeno loro avevano un paio di genitori che stavano insieme, si amavano e volevano loro molto bene. Certo, quelli naturali di Mackenzie purtroppo non c'erano più e questo era peggio di un divorzio, ma anche se non avrebbe mai potuto dimenticare quella notte, ora aveva Andrew e Demi  come famiglia.
"È stato per colpa di mio papà" continuò la piccola. "La mamma mi ha detto che sta con un'altra, non so altro. Lo vedo nei weekend, ma spesso si dimentica e non viene. Forse mi ha comprato queste perché vuole dirmi che mi ama e che si scusa, ma io vorrei sentirlo da lui."
Mac e Lizzie annuirono.
I giochi non bastavano, ci voleva l'amore. Il padre di Katie certo le voleva bene, ma avrebbe dovuto dimostrarglielo anche con la propria presenza.
"Cos'è questo "Luce e ombra""? chiese la bambina per cambiare argomento-
E così Mackenzie cominciò a parlargliene tutta entusiasta dandole il nome del sito e quello dell'autrice, che le annotò su un foglietto, e mostrandole le bambole di Kaleia e Sky
Alla quarta ora la maestra Rivers li fece sedere subito, non li lasciò chiacchierare ancora un po' mentre lei tirava fuori ciò che le serviva. Un pesante silenzio calò d'improvviso nella stanza. Che stava succedendo?
"Bambini" cominciò la donna. "Devo parlarvi di una cosa molto importante. Come credo ormai tutti voi sappiate ci sono stati alcuni problemi, come vi avevo detto."
"Sì, ci avevi spiegato che sono successe delle cose brutte" disse Katie.
"Esatto. Ci sono stati alcuni bambini di questa classe che hanno bullizzato due dei vostri compagni. Bullizzare significa prendere in giro molto spesso e in modo davvero brutto, con parole cattive e non solo, il bullismo può anche voler dire fare molto male, fisicamente, agli altri."
Restò vaga perché gli occhi non fossero fin da subito puntati su Mac e Lizzie, ma fu inutile perché tanto alla fine tutti sapevano di chi si trattava. Le due sentirono addosso il peso di quegli sguardi e si piegarono in avanti come se non riuscissero a sostenerlo nemmeno fisicamente, come se fosse stato un peso fisico.
"James non frequenterà più questa scuola. Ha fatto delle cose gravi ma non l'avremmo mandato via, è stata sua mamma a decidere."
"È vero che ha lanciato una sedia contro la direttrice?" chiese un bambino.
La maestra rimase in silenzio per qualche secondo, indecisa su cosa dire.
"Sì, è vero, ma non è successo niente per fortuna."
Si levò un lieve brusio di fondo.
"Quindi," continuò ancora la donna battendo la mano sul tavolo per ridurre tutti al silenzio, "lunedì cominceremo a parlare del bullismo, a spiegarvi meglio cos'è, faremo un incontro con la psicologa della scuola e ogni tanto questa cosa verrà ripetuta non solo qui ma anche in altre classi. Ci sono varie forme di bullismo e quando sarete più grandi ve ne parleremo. Intanto sappiate che se qualcuno vi offende ripetutamente per il vostro colore della pelle, o per la religione o per altri motivi, se vi tira cose addosso o vi fa del male in maniera più grave, anche se avete paura dovete immediatamente venire a parlarne con noi. Le maestre non sono solo qui per insegnare ma anche per aiutarvi, per ascoltarvi. Noi siamo persone come voi."
Molti bambini non seppero cosa pensare. Non avevano mai sentito parlare del bullismo o, se sì, non si erano mai chiesti cosa fosse. La maestra aveva fatto degli esempi semplici, ma essendo piccoli non riuscivano a capire quanto questo problema potesse essere grave. Mac, Lizzie, Katie e qualcun altro invece rimasero molto colpiti dal discorso della signorina Rivers. Era stato profondo, pieno di dolcezza e di parole sincere e importanti.
"Ah, più tardi ci sarà una prova di evacuazione" continuò ancora lei. "Vi abbiamo già spiegato di cosa si tratta qualche tempo fa, adesso è ora di provarla."
"Non si dice evapuazione?" domandò Katie. "Io avevo sempre capito così."
Quasi tutti risero, alcuni in maniera piuttosto sguaiata.
"Bambini!” esclamò la donna alzando la voce, poi si fece più dolce. “Se un vostro compagno sbaglia dovete aiutarlo, non prenderlo in giro. Voi non avete mai commesso degli errori? Comunque no Katie, si dice con la "c"."
"Oh, okay. Ho imparato una cosa nuova" trillò.
"Io fino a poco tempo fa credevo si dicesse "filanzati" e non "fidanzati"" disse Brianna.
Altro scoppio di risa e la maestra si mise una mano sul volto.
"Ripeto, basta! Va bene, ora calmatevi. Iniziamo la lezione."
"Tra quanto ci sarà la prova?" chiedevano in molti."
"Non lo so."
In realtà la Rivers ne era a conoscenza eccome, ma non voleva dirlo per paura che gli alunni si distraessero e si concentrassero solo a fissare l'orologio appeso in classe e non sulla lezione di inglese.
 
 
 
Demi si sentiva carica. Da quando le cose avevano cominciato lentamente a migliorare era come se una forza nuova fosse entrata in ogni fibra del suo essere.
Speriamo che non mi lasci per parecchio tempo, allora.
In quei giorni aveva lavorato senza sosta dalla mattina alla sera, a volte fermandosi anche fino a dopo cena e lasciando che fossero i nonni ad occuparsi delle bambine o, quando poteva, Andrew. Le dispiaceva non passare del tempo con loro perché farlo era importantissimo, ma a volte il lavoro impone anche questi sacrifici benché facciano male. Tra le canzoni da registrare finché non fossero diventate perfette, i video da fare e da montare con gli attori che oltre a lei ne facevano parte, il documentario da terminare - e ne mancava ancora una buona parte - con la gente da intervistare, i vari luoghi nei quali trovarsi per parlare di questo e quello, la pubblicità dell’album che il suo team avrebbe dovuto fare, il singolo in uscita pochi mesi più avanti… le cose da fare erano moltissime. E l'obiettivo che Demetria si era prefissata di riuscire a pubblicare l'album in un anno anziché uno e mezzo o due era molto difficile da raggiungere.
"Se non ce la farò, pazienza" si disse mentre saliva sul palco dello studio. "Pronta" annunciò.
La musica partì, delicata, poi Demi cominciò a cantare.
My mind’s telling me to go, I can’t stand up now
Boy, you got me feeling so weak
Your ocean was drowning me, arms wrapped around me
Now I’m getting in too deep, not falling cause I want to
Baby, you keep pushing me
Don’t love you cause I need to, but it’s everything you do to me
 
Make music when you’re moanin’, from night until the morning
Just tell me when you’re ready, and Imma paint your body with my lips
Baby, I’ll do anything you want
Lock me down like I’m your slave
‘Cause ooh, when you’re done with me
I can’t even concentrate, concentrate
 
Drag of a cigarette, sheet are all soaking wet
Coldplay on the radio, you keep running through my head
Wanna do it again, we can take it nice and slow
[…]
Le sembrò di volare quando, più avanti, alzò la voce fino a raggiungere note altissime. Allargò le braccia come fossero state ali e si sentì libera, stava meglio finalmente.
"Sei stata grande!" esclamò Phil, poi iniziarono a parlare del futuro.
Avrebbero voluto far uscire "Sorry Not Sorry" come singolo a marzo, ovviamente prima Demi l'avrebbe annunciato sui social network e i pubblicisti avrebbero fatto il loro lavoro. E da allora, lo sapeva, sarebbero cominciate le interviste in vari show, giornali e radio, ma non era un problema. Sarebbe riuscita ad organizzarsi anche con due bambine a cui pensare. Non voleva diventare una di quelle mamme prese talmente tanto dal loro lavoro da passare pochissimo tempo con le loro creature. Le aveva adottate perché desiderava dar loro amore ed essere una mamma presente.
“So a cosa stai pensando" disse Phil. "Vedrai che, nel caso dovessi ricevere troppe chiamate in un giorno, parlerò io direttamente con chi di dovere e proveremo a ridistribuire il tutto in modo che tu non sia completamente assorbita da lavoro e interviste, ma abbia anche tempo per le tue figlie."
"Grazie!"
"So che avevi deciso di lavorare part-time, ma se vogliamo pubblicare l'album in tempo devi fare degli straordinari e più avanti andremo, più spesso accadrà."
"No, lo capisco. Ma va bene, Insomma, molte donne lavorano tutto il giorno e sono anche madri, perché non dovrei riuscirci io?"
Si mise una mano sul cuore. Faceva male. Una volta a casa riusciva a giocare con le piccole nonostante la stanchezza, ma Dio, quanto le mancavano durante la giornata! Era abituata a passarci assieme il pomeriggio, in quei due giorni invece non l'aveva fatto, anche se Hope e Mac non parevano averne risentito più di tanto.
Grazie al cielo pensò.
Si sarebbe sentita una merda se fosse stato il contrario, come se avesse fatto qualcosa di male.
"Ci prendiamo un caffè e riprendiamo?" propose.
"Buona idea."
 
 
 
Non per mandarti via, ma non hai anche altri bambini con cui stare? chiese Mackenzie a Katie alla fine della quarta ora.
C'era un altro banco accanto a quelli suo e di Lizzie, sempre rimasto vuoto e ora occupato da lei.
"Non ho fatto amicizia con nessuno."
"Sembrava di sì" disse Elizabeth.
Le due l'avevano vista chiacchierare spesso con alcune bambine o anche giocare con loro e ridere.
"Mia mamma dice che una cosa è conoscere qualcuno, un'altra diventare suo amico. Io le conosco e basta."
E pensi che potresti diventare amica nostra?
"Perché no? Mi lasciate stare con voi? Sennò me ne vado."
Non voleva essere di troppo, anche se le sarebbe dispiaciuto molto. Prima non avrebbe potuto dirlo a causa di quello che James e gli altri li avevano in un certo senso costretti a fare, ma Mackenzie sembrava simpatica e molto matura ed Elizabeth dolcissima.
"Certo che ti lasciamo, figurati! Non volevamo offenderti."
Rimani, per favore.
E così, anche se Katie non era diventata ancora loro amica, il loro duo adesso era un trio.
"Bene," si disse Mackenzie, "potrò parlare anche con qualcun altro."
Justice Evans, l’insegnante di educazione fisica, arrivò poco dopo e Mac le sorrise. Sentiva che da quando avevano parlato qualche giorno prima si era creato tra loro una sorta di legame. Quella donna la capiva davvero e sapeva che avrebbe potuto andare da lei se avesse avuto bisogno di parlare.
"Coraggio bambini, in fila per due, parlate piano e andiamo in palestra" disse.
Mac lanciò uno sguardo all'amica e lei le sorrise, così la prima prese Katie per mano e Lizzie andò con un'altra bambina.
"Perché stai con me?"
Se resti con noi, non voglio certo passare tutto il tempo con lei.
"Voi che fate per il Ringraziamento?" chiese Shasa, una bambina con due trecce bionde lunghissime e un viso paffutello.
Aveva un nome arabo ma era americana. I suoi l’avevano scelto perché l'avevano letto in un libro ed era piaciuto loro. Mackenzie lo trovava affascinante.
Non so ancora.
Wow, solo pochi giorni prima avrebbe avuto paura a rispondere ad una che non fosse Lizzie, ora adesso invece si sentiva un pochino più rilassata, anche se avvertiva sempre un leggero tremore alle mani.
"Tranquilla, non ti mangio" le rispose l'altra e tutti, a parte Lizzie e Katie, risero.
"Comunque," disse Brianna, "non siete eccitati anche voi all'idea che staremo a casa quel giorno per festeggiare? Niente scuola!" esultò.
Il Ringraziamento cade l'ultimo giovedì di novembre, quell'anno il 30. In realtà, più che essere eccitata all’idea sedersi intorno ad un tavolo e mangiare tacchino, Mackenzie lo era perché dieci giorni dopo ci sarebbe stato il suo Battesimo, ma non lo disse. Probabilmente tutti pensavano che fosse già stata battezzata e non voleva essere vittima di un'ulteriore presa in giro. Aveva comunque già condiviso quel segreto con Elizabeth e Katie che avevano gioito con e per lei e promesso di non dirlo a nessuno.
Una volta in palestra, iniziarono con un po' di corsa lenta.
Non posso continuare così per quindici minuti, è pazza pensò Mac, ma continuò ad andare avanti cercando di non pensare alla mancanza di fiato, al sudore e ai suoi passi pesanti sul linoleum appiccicoso.
Si concentrò su una cosa bella, la prima che le venne in mente: sua sorella, la più grande gioia della propria vita. Era così felice di non essere figlia unica e sperò che i suoi genitori naturali lo fossero stati altrettanto anche se erano riusciti a godersela poco. Non l'avevano vista crescere, dire la prima parola, muovere il primo passo, Hope aveva chiamato "Mamma" un'altra persona.
Ma che sto dicendo? Quella persona è Demi, è lei adesso la mia mamma.
Beh, forse come diceva proprio lei le guardavano sempre dal Paradiso. Erano passati venti mesi dalla loro morte - sì, teneva il conto, lo faceva sempre - e lei ci soffriva ancora tantissimo. Ma tutti le dicevano che era normale, che avrebbe dovuto prendersi i propri tempi, ovvero non avere fretta di stare meglio. Qualche lacrima le rigò il volto.
"Piangi?" le chiese Katie che le passò lì accanto.
No scrisse dopo essersi fermata.
"Dai, non mentirmi."
Okay sì, un po'.
"Perché?"
Mi mancano i miei veri genitori.
E allora successe qualcosa che Mackenzie non si sarebbe mai aspettata. Katie la guardò intensamente e in maniera così profonda da toglierle il fiato. I suoi occhi azzurri, chiari come due pozze d'acqua, sembravano leggerle dentro. Parevano… capire? No, forse si stava immaginando tutto, anzi doveva essere così perché poi non disse più niente e proseguì nella sua corsa.
Una volta terminata si misero per terra e fecero stretching: torsioni del busto, piegamenti con la schiena sia a gambe distese che, come Mackenzie preferiva, incrociate.
"Ora prendete tutti un pallone da basket e..."
In quel momento iniziò a suonare la campanella della scuola, ma in modo diverso. Non solo una volta ma tante, tantissime e ad un ritmo serrato, poco dopo partì anche un allarme.
"E' la prova, bambini. State calmi, non c'è nessun incendio" li rassicurò la donna.
Tutte le classi avevano fatto, ognuna con la propria insegnante di inglese, una lezione su come ci si doveva comportare in quei casi. Ma, come si dice, tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, per cui nonostante le parole di Justice si scatenò il panico.
"Aiuto!" era una delle grida più frequenti, mentre tutti correvano da una parte all'altra della palestra senza sapere dove andare né cosa stavano facendo.
I piccoli si andavano addosso, muovevano le braccia in aria, urlavano anche cose senza senso.
"Non è niente, calmi!" continuava a dire l'insegnante, ma per riportare l'ordine e non potendo controllarli tutti in quello stato dovette suonare tre volte il fischietto che portava al collo e con tutta la potenza di cui era capace. Fu allora che la tranquillità tornò. "E' un'esercitazione, okay? Lo so che l'allarme fa paura, è normale, ma dobbiamo metterci in fila per due con un capofila e un chiudi fila e uscire, poi procederemo."
C'erano anche alcuni bambini che avrebbero dovuto rimanere dentro a fare i feriti, ma non erano stati scelti in quella classe. Sempre agitati ma più lucidi, i bimbi obbedirono e seguirono l'insegnante. Nell'atrio incontrarono molti altri compagni e il fracasso confuse per un momento Elizabeth e Katie. Il capofila era Adrian, la chiudi fila invece Mackenzie che si era proposta già qualche settimana prima. Una volta in cortile, la classe rimase allineata com'era e, mentre le altre maestre contavano gli alunni, lo fece anche la Evans.
"Uno, due, tre, quattro…" Qualcosa non tornava. "Ventinove? Come ventinove?" mormorò per non spaventarli; forse in fondo si era solo sbagliata, bastava rifare daccapo. "Niente, manca qualcuno. Bambini, facciamo l'appello okay? Silenzio!" ordinò, visto che molti già chiacchieravano. "Sapete dirmi chi manca?"
Dalla piccola folla si levarono dei "No". Tutti si guardavano intorno distrattamente, pensò la Evans, impegnati a chiacchierare con gli altri. Ma ce n'erano alcuni che si erano davvero spaventati, come per esempio Elizabeth e Katie, che guardavano davanti a sé e restavano quasi del tutto immobili per questo, ma il tremore delle gambe e delle mani si poteva notare con chiarezza. Avrebbe voluto tranquillizzarle, ma non c'era tempo adesso. Iniziò a fare l'appello.
"Mackenzie Lovato?" Nessuna bambina alzò la mano, né venne da lei a portarle un foglio con scritto Presente. "Mackenzie Lovato?" riprovò la maestra. Niente. Guardò se c'era, in fondo era l'unica con la pelle di un colore diverso ma no, non la vedeva da nessuna parte. "Fermi e aspettatemi qui. Fermi" ripeté.
"Oh mio Dio, Mac!" esclamò Elizabeth. "E' ancora dentro. Ma perché? Che le sarà successo? Forse è caduta, si è fatta male. Devo andare a cercarla."
"No, aspetta" la fermò Katie, prendendole la mano e tenendola saldamente.
“Lasciami!” si lamentò la bambina, tentando di liberarsi con uno strattone.
"Ragiona. Se vai la maestra si preoccupa, e poi non sappiamo dov’è, magari si è spostata dalla palestra."
"Ma è mia amica!" protestò Lizzie. "Tu lasceresti un'amica da sola?"
"Tu vuoi aiutarla, lo so, ma la cercano le maestre. Non puoi fare più di loro. Aspettiamola qui, d'accordo?"
"D'accordo" le fece eco l'altra, anche se non era convinta.
I cuori di entrambe battevano all’impazzata e i loro sguardi si fissarono sull’entrata della scuola.
 
 
 
Fissava il vuoto. Anzi, lei era quel vuoto, ci era entrata così tanto da diventare un tutt’uno con esso. Nel frattempo camminava senza una meta né vedendo niente. Andò a sbattere con il piede contro un muro e si ridestò da quello stato di trance solo per un momento, quel che bastò per risentire il suono acuto e insistente dell'allarme che ancora continuava. Oltre alla campanella infatti si era aggiunto un vero e proprio allarme - quello di prima, ricordò -, ed entrambi creavano con il loro suono monotono un'atmosfera a dir poco inquietante. Quell'allarme non era simile al suono delle sirene della polizia che aveva udito il 21 febbraio 2018, quando erano morti i suoi genitori, ma era sufficiente per ricordarglielo.
 
 
Non rammentava più di essere nella sua scuola e di stare passeggiando senza meta né guardare dove metteva i piedi. Era nella sua casa, sentiva le sirene che arrivavano da lontano. L'uomo cattivo era scappato appena le aveva udite, i vicini erano con lei. Un uomo e una donna, sapeva solo questo. Le parlavano ma lei non riusciva a sentire quello che dicevano né a ricordare i loro nomi. Non le pareva nemmeno di conoscerli, quando in realtà li frequentava spesso con i genitori. Hope era ancora fra le sue braccia. E oltre alla paura e ad avere davanti quell'orrore, le due sentivano una cosa: dolore. Un dolore al viso che toglieva il fiato e annebbiava i sensi, o almeno Mac lo percepiva così visto che non riusciva a vedere bene ciò che la circondava e che le pareva di avere una spessa nebbia davanti agli occhi. La testa le girava e le doleva tantissimo, come se qualcuno ci stesse sbattendo contro un martello.
"Tesoro, tengo io la tua sorellina" le disse la donna con dolcezza. "Sei distrutta, non ce la fai più."
Quando la toccò per prenderla, Mackenzie reagì urlando e scalciando. Gridò cose senza senso, diede calci a caso colpendo la donna alle caviglie e tentò anche di morderla. Lei e il marito provarono a calmarla, a rassicurarla.
"Non ti vogliamo fare del male, andrà tutto bene" le dicevano.
Ma non era vero. Nulla sarebbe andato bene, perché niente sarebbe più stato come prima.
L'ultima cosa a cui pensò fu che le sirene della polizia si erano avvicinate e che quel suono le entrò nelle orecchie e nella testa, penetrandola come se volesse forzarla a farlo diventare parte di lei.
 
 
Sentì dei passi che si facevano sempre più vicini ed ebbe paura. Era l’uomo cattivo che veniva a farle del male, ne era certa. La mamma aveva detto che non sarebbe più tornato, ma non era vero. Corse più veloce che poté, mentre alcune voci femminili la chiamavano anche se lei non ci fece caso. Per la bambina erano solo un groviglio di suoni indistinti. Trovò una stanza - uno sgabuzzino? Un bagno? - e vi si chiuse dentro, chiudendolo a chiave.
"Mackenzie, sei qui?"
Non rispose.
Continuava a sentirsi in pericolo, i sensi in allerta, gli occhi che saettavano da una parte all'altra, la testa alta per udire qualunque suono che avrebbe potuto farle capire che era in pericolo. Ebbe la sensazione di ritrovarsi a casa sua, con le sirene della polizia che si avvicinavano, e che il corso degli eventi fosse cambiato. Lei si era nascosta in quello sgabuzzino di cui non ricordava l'esistenza e ora qualcuno la stava chiamando. Era forse la vicina? Un'infermiera? Non ci stava capendo niente. Ma soprattutto: perché Hope non era con lei? Avrebbe dovuto essere tra le sue braccia, la stringeva quando i suoi erano morti. Dov'era? Non la sentiva nemmeno piangere. E se quell'uomo fosse tornato e l'avesse portata via? Il suo cuore perse un battito e il respiro si fece sempre più corto, mentre le mani le sudavano e le diventavano appiccicose. Avrebbe voluto urlare qualcosa, il nome della sorella magari, ma quando ci provò non uscì nulla. Crollò a terra sul pavimento freddo e polveroso, poi urlò. Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, buttando fuori Dio solo sapeva quali e quante emozioni, ora non riusciva a definirle tutte. Sapeva soltanto che aveva tantissima paura.
"Mackenzie, apri per favore. Non ti voglio fare del male."
Non avrebbe mai aperto, ma anche se avesse voluto non ci sarebbe riuscita. Era scossa da tremiti così violenti che se si fosse alzata sarebbe sicuramente caduta a terra battendo la testa. La voce che la chiamava sembrava preoccupata. Forse, se lo stava facendo, l'uomo cattivo non c'era e non sarebbe accaduto nulla, magari avrebbe  dovuto ascoltarla.
"Non ti succederà niente, tesoro. Lo so che hai paura, ma qualsiasi cosa sia capitata possiamo parlarne e capire. Posso aiutarti, ma tu devi lasciarmelo fare aprendo questa porta, okay?"
Era così dolce.
"Batti sulla porta per farmi capire se stai bene. Ti prego!"
La  stava implorando, era preoccupatissima allora. Lo fece. Batté tre volte.
"Ti sei fatta male? Batti tre volte per dire sì e due per dire no."
Uno, due.
"Perfetto, piccola, Ora mi apri così parliamo?"
Pur non riconoscendo di chi fosse quella voce, la bambina decise di fidarsi. Lentamente, molto lentamente si alzò, fece qualche passo indeciso, girò la piccola chiave e aprì piano.
"Sono io, calmati" disse l'insegnante di educazione fisica ma, quando vide che la bambina non la riconosceva e che sembrava da un'altra parte, iniziò a preoccuparsi. "Mackenzie,, sono..."
Aveva iniziato a scrivere qualcosa su un foglio, uno di quelli che si portava sempre dietro in un piccolo zainetto, così la donna aspettò che terminasse. Più scriveva, più i suoi lineamenti erano tesi e si trasformavano in una maschera di terrore. Mio Dio, ma che stava succedendo? La ragazza non sapeva se chiamare qualcun altro oppure no - quando l'aveva trovata aveva detto alle altre due insegnanti che erano venute con lei, di uscire.
Chi sei tu? Che cosa vuoi? Dov'è la mia sorellina? I miei genitori sono morti, sono morti, sono morti! diceva il messaggio.
E allora Justice, che insegnava educazione fisica ma studiava per conto suo psicologia per passione, capì.
"Mackenzie, che ne dici se ci sediamo, eh? Ti spiegherò tutto. Non devi essere preoccupata, sei al sicuro e anche Hope lo è."
Doveva riportarla al presente ma andare piano, con tutta la calma possibile per non spaventarla.
Si accomodarono su due sedie dell'atrio della scuola. La ragazza provò a prenderle la mano ma la bambina si alzò e scattò in avanti, poi crollò a terra rannicchiandosi su se stessa come in una palla.
Peggio di quanto pensavo rifletté la maestra.
"Non ti voglio fare niente" le ripeté ancora. "Davvero, volevo solo tenerti la mano."
Pessima mossa, Justice. Hai sbagliato in pieno! Non è ancora tornata alla realtà, lei è in quella casa adesso. Non si fida abbastanza di te per darti la mano.
Pensò di chiamare i genitori e un’ambulanza, ma portarla in ospedale non sarebbe servito a molto. Sarebbe fuggita anche dai medici, non si sarebbe lasciata toccare anche se loro, di sicuro, ne sapevano più di lei.
Decise di tentare da sola, almeno per farla stare un po’ meglio.
"Mackenzie, riesci a scrivermi cosa succede in questo momento? Cosa vedi e cosa senti?"
Lei rimase in quella posizione per un minuto buono, che all'insegnante sembrò eterno, poi si mise carponi e scrisse qualcos'altro, lanciando il foglio da un lato e restando così.
La maestra lo raccolse e lesse.
Non so dove sia l'uomo cattivo ma mia sorella è scomparsa. Non mi toccare! Lasciami donna cattiva.
"Qui si mette male" mormorò fra sé.
"Ascolta" disse. "Io sono qui per aiutarti. Non sono cattiva, sono buona e non ti farei mai del male, né ne farei a tua sorella. So che ora non ci credi, ma non sei in quella casa, non ci sei più da quasi due anni ormai. I tuoi non ci sono più, è vero, e mi dispiace tantissimo, non sai quanto piccola! Ma Hope sta bene e tu, beh, tu stai lottando per stare meglio. Hai fatto già alcuni passi avanti, sei migliorata. Riesci comunque a sorridere e a vivere dei momenti felici. L'uomo cattivo è in prigione."
Non è vero.
Com’era possibile? Di sicuro era ancora fuori, magari a fare del male ad altre persone o a sua sorella. Il solo pensiero la fece piegare in avanti mentre la coglieva un conato violentissimo, ma per fortuna non vomitò. Quella ragazza forse non apparteneva al momento che lei stava vivendo, al 21 febbraio 2018, non l’aveva mai vista in quella situazione. Si sentiva come se la sua mente la stesse tirando da due parti, verso il presente e ancora più in profondità nel proprio passato. E non sapeva chi ascoltare, chi seguire, forse stava impazzendo.
Se Justice non avesse studiato il PTSD avrebbe detto che Mackenzie era davvero pazza, invece sapeva che il suo era un problema mentale ma che non si trattava di pazzia.
"Hai una mamma, si chiama Demi" insistette. Ti ricorda qualcosa questo nome?"
Mackenzie non ne era sicura. Era possibile che si stesse immaginando tutto? La nausea aumentò, un sudore freddo le colò giù per la schiena e un tremore più violento degli altri le fece quasi sbattere la testa sul pavimento. Il nome Demi... Se lo ripeté in testa ed ebbe come una folgorazione. Ma sì, certo! La mamma. La sua mamma.
S-sì.
Bene, pensò Justice, quella sorta di allucinazione è durata poco. Significa che il suo disturbo post traumatico da stress non è davvero severo come pensavo. Ha rivissuto il trauma per qualche momento in maniera molto intensa e questo è sicuramente brutto ma se vado con calma, se riesco dovrei riuscire a farla stare bene di nuovo, o almeno meglio. Ma non sono una psicologa, ho solo studiato la teoria, non faccio questo lavoro. Ne sarò capace? E se dovessi sbagliare e peggiorare tutto? Si tratta di una questione molto delicata.
Mille dubbi e insicurezze la assalirono. Il PTSD nei bambini dev'essere trattato con estrema attenzione, soprattutto perché si tratta di creature ancora piccole e che spesso non riescono ad esprimere, per nulla o in parte, le proprie emozioni. Ma lei era solo un'insegnante, non una professionista. Se avessero trovato lo psicologo della scuola... Tuttavia era vero che Mackenzie in quel momento stava iniziando a fidarsi di lei. Parlare con un'altra persona, che tra l'altro forse conosceva solo di vista, in una fase così delicata avrebbe potuto destabilizzarla ancora di più. Doveva tentare. Forse la bambina stava tornando al presente.
"Cosa ti ricorda? O chi?" riprese.
Mackenzie ci pensò per qualche momento.
Noi siamo andate in affidamento. In tre famiglie. Poi abbiamo trovato lei e ci siamo rimaste e ci rimarremo per sempre. Demi, cioè la mamma, è molto buona con noi. Ci ama e ce lo dice spesso. E ci coccola tanto e mi aiuta sempre.
Justice sorrise.
"Esatto."
Mackenzie aveva la sensazione che una fitta nebbia avesse avvolto i suoi pensieri fino a poco prima, ma che ora si stesse diradando. Era più lucida, si diceva così, giusto? Ma cosa le era capitato? Perché aveva scritto quelle cose senza senso che ora aveva davanti e si era comportata in quel modo assurdo?
Cosa… provò a chiedere, ma non riuscì a terminare la frase. Si sentiva così confusa. In parte pensava ancora al suo passato, al fatto che le era sembrato di rivivere tutto e in parte che in realtà si trovava nel presente e la sua testa pareva divisa in due. I pensieri che la affollavano creavano un chiasso assordante. Voglio che c'è silenzio, continuo a pensare e sto male, malissimo!
"Mackenzie, guardami. Ehi, guardami" ripeté la donna, dato che gli occhi della bambina erano fissi nel vuoto come all'inizio. "Vuoi sapere cosa ti è successo? Non ne sono sicura, ma credo tu abbia rivissuto il trauma. Questo vuol dire che l'allarme dell'antincendio può aver fatto pensare alla tua testa:
Ah, ma allora è come quella notte.
E così hai iniziato a ricordare talmente tanto che ti è sembrato di essere di nuovo là, di stare vivendo ogni cosa un’altra volta."
I primi giorni, in ospedale, gli psicologi dicevano che lo facevo. Poi ho avuto dei momenti in cui stavo male, tipo quello della sigaretta al parco, ma così… Perché è stato tanto forte?
"Forse quell'allarme era molto intenso e i pensieri lo sono stati di conseguenza, anche perché eri qui da sola e avrai avuto paura. Non sono una psicologa, ma credo che potrebbe essere così. Vuoi un po' d'acqua?"
Sì, grazie.
Il cuore le batteva come un tamburo, aveva il fiatone e non ne poteva più, voleva tornare a respirare regolarmente e a calmarsi, ad avere la testa libera ma non ci riusciva. Il suo intero corpo era madido di sudore e si sentiva sconvolta. Nemmeno l'acqua, che la sua dolcissima insegnante le disse di bere con calma, la aiutò. Justice la lasciò sola un momento - non trovò bidelli lì intorno - per andare ad avvertire le altre insegnanti e pregò Dio che non le sarebbe successo nulla, che non avrebbe avuto un altro flashback del genere. Fece più in fretta possibile, correndo come una pazza e parlando velocemente per poi tornare dalla bambina con un unico pensiero in testa:
Dio, ti prego, fa' che stia bene.
Avrebbe voluto portarla fuori con sé, ma a Mackenzie tremavano ancora le gambe e non voleva sottoporla a quello che per lei, adesso, sarebbe sicuramente risultato uno sforzo. Inoltre uscire con tutti quei bambini non sarebbe stato il massimo.
Mac era rimasta dov'era, seduta sulla panchina con il bicchiere in mano. Si sentiva intontita e stanca e il pensiero che avrebbe dovuto affrontare più di quattro ore di scuola le faceva dire:
"Non posso farcela."
"Mac, parlando con le maestre e la Preside abbiamo deciso di chiederti se vuoi andare a casa. So che sei una bambina molto forte e coraggiosa, l’hai dimostrato anche oggi, ma non ho idea se tu possa riuscire a concentrarti dopo quello che è successo. Hai bisogno di riposare."
Glielo si leggeva anche in faccia. I suoi lineamenti erano quelli di una bambina molto provata che avrebbe solo voluto chiudere gli occhi. Tuttavia, se anche lei credeva ciò che Justice aveva detto, una parte del suo cervello non faceva altrettanto.
Ma la mamma è al lavoro, deve fare tantissime cose e poi io sono già stata assente per la febbre alcuni giorni. Forse si arrabbierebbe se la chiamiamo perché non solo vado ancora a casa ma le farei perdere anche tempo.
Non voleva causarle problemi.
"Sei molto carina a preoccuparti per lei, ma sono sicura che capirebbe. Quello che hai avuto non è stato un leggero attacco d'ansia o di panico, ma un flashback dovuto da un allarme che ti ha ricordato ciò che sappiamo, ed è una reazione molto comune nel PTSD, cioè succede spesso" concluse, ricordandosi di usare termini più semplici.
Parli come una psicologa.
“Mi sono consultata con lei, che è fuori, prima di tornare dentro e ha confermato ciò che pensavo anche se non ti ha vista. Ovviamente sono solo ipotesi che, però, forse la tua terapista confermerà, ti dirà lei se è così o no. Io lo dico per te, piccola, hai bisogno di andare a casa, stenderti, distrarti un po' e poi parlarne con… come si chiama la psicologa che ti segue?"
Catherine.
"Ecco, lei. Possiamo chiamare tuo padre se vuoi. Cioè, Andrew. Lo so che non è tuo papà ma si dice che siate molto legati."
Per me lui è mio papà, lo sarà sempre.
Una delle più belle frasi che avesse mai sentito, pensò Justice.
Quando la bambina disse di sì andò ad avvertire la Preside, poi mentre tutti i bambini entravano lei e Mackenzie si misero in un'aula vuota.
 
 
 
"Demi vuole conoscerti, sai?" se ne uscì Andrew, non sapendo cosa dire.
Erano alle macchinette dello studio legale, in pausa per un caffè.
"Davvero?" chiese Bill, felice.
"Sì, me l'ha detto tempo fa ma sai, con l’inizio della scuola di Mackenzie, l'asilo di Hope e tutto il resto, non ha avuto molto tempo."
Bill sapeva cosa significava quel "tutto il resto". Andrew era stato sincero con lui. Gli aveva parlato dei problemi di Mackenzie e del fatto che stava andando da una psicologa.
"Capisco" rispose l'altro, comprensivo.
"Comunque, mi ha detto che se vuoi possiamo andare da lei domani sera a cena."
Ne avevano parlato proprio il giorno precedente.
"Va bene! A che ora?"
"Mi aveva proposto alle venti."
"Fantastico! Sarò puntualissimo."
"Io andrò da lei prima ad aiutarla a preparare tutto."
"Certo, non preoccuparti. Mandami pure l'indirizzo per SMS. Comunque non serve che prepariate tante cose, a me una pasta va benissimo. Sempre se la cucinate, ovviamente, non tutti gli americani lo fanno."
Anzi, probabilmente molto pochi.
"Lei è molto brava a farla, te l’assicuro. Ah, ti dispiace se ci sarà anche Selena, la migliore amica di Demi?"
"Vuoi dire quella Selena?" domandò Bill, eccitato. “La cantante e l’attrice Selena Marie Gomez?”
"Sì, proprio lei."
"Wow! Insomma, figo." Stava sudando. Quante altre volte nella vita gli sarebbe capitato di incontrare due celebrità in una sola sera? "Ehm… okay, mi calmo" disse, poi prese un respiro profondo per cercare di contenersi e, infine, rispose: "No, figurati, non mi dispiace. Perché dovrebbe?"
Andrew accese per un momento il cellulare, anche se generalmente non lo faceva mai e notò alcune chiamate.
"La scuola di Mackenzie?" chiese. "Che cosa sarà successo?"
Cominciò a preoccuparsi. Perché non avevano provato a chiamare Demi, prima? O forse avevano tentato ma non erano riusciti a trovarla, essendo lei in studio a registrare.
"Richiama, tanto siamo in pausa."
Sperando che non fosse nulla di grave, l'uomo premette il tasto di chiamata. Uno, due, tre squilli, il tempo sembrava non passare mai.
Ti prego, chiunque tu sia, rispondi.
"Pronto?"
Era una voce femminile che non riconobbe, forse un'insegnante, forse la Preside.
"Pronto, sono Andrew Marwell. Mi aveva te cercato?"
"Sì, signore. Sono la signorina Rivers, una delle insegnanti di Mackenzie." Ah sì, ora ricordava, era una delle maestre che aveva visto il giorno della riunione. In effetti, adesso che ascoltava con più attenzione, la voce gli era familiare. "C'è stata la prova di evacuazione e sua figlia non si è sentita bene." E gli spiegò quello che era successo e ciò che la signorina Evans sospettava. "Ci chiedevamo se potesse venire a prenderla. La bambina non è in grado di tornare in classe in queste condizioni, non si concentrerebbe e, anzi, potrebbe stare ancora peggio in mezzo a tante persone. Non è un piccolo attacco di panico quello che ha avuto, ma uno dei più potenti che l'insegnante di educazione fisica abbia visto su un bambino. Inoltre c'è differenza tra semplice attacco di panico e rivivere un trauma."
Non l'aveva detto per convincere Andrew ad andare a scuola, pensando per esempio che fosse un cattivo genitore o che non credesse alla bambina, ma soltanto per presentargli la situazione.
"Sì, capisco, avete ragione. Avverto la mia ragazza. In fondo è lei la madre, e poi arrivo."
Non se la sentiva di farlo senza dirglielo, non sarebbe stato corretto.
Dopo aver ringraziato e salutato la donna mise giù la chiamata e telefonò allo studio di registrazione in cui Demi lavorava. Quando seppe quello che era successo la donna si preoccupò.
"Portala a casa mia" gli disse quando gli parlò. "Si sentirà più sicura lì. Ti lascio una copia delle chiavi all'entrata del mio studio."
"Va bene. Sta' tranquilla, mi occupo io di lei."
Ma Demi non riusciva a restare calma. Avrebbe dovuto rimanere al lavoro anche il pomeriggio e il pensiero di non poter vedere sua figlia fino a sera la preoccupava. Era vero, non era nulla di gravissimo e lei non poteva certo uscire dal lavoro quando le capitava, ma allo stesso tempo era difficile rimanere lì. Se avesse mangiato velocemente a pranzo avrebbe potuto correre a casa e stare con lei un po'.
“Amore?”
“Sì?”
“Per sicurezza portala in ospedale, voglio assicurarmi che stia davvero bene perlomeno fisicamente.”
“Okay.”
Andrew cercò di fare il prima possibile e, arrivato davanti al cancello della scuola, aveva il cuore che gli martellava nel petto. Non aveva idea delle condizioni psicologiche nelle quali avrebbe trovato sua figlia e, pur avendo assistito in passato ad alcuni attacchi di panico di Demi, aveva la brutta sensazione che questo sarebbe stato peggiore. Non conoscendo bene il disturbo post traumatico da stress, non sapeva cosa aspettarsi e mentre camminava per il cortile, pregò Dio che tutto sarebbe andato bene.
 
 
credits:
Demi Lovato, Concentrate
 
 
 
NOTE:
1. vero, flashback e memorie intrusive sono un sintomo del PTSD. La persona percepisce un ricordo, o parte di un ricordo, come se lo stesse vivendo in questo momento, per cui rivive il trauma. Può quindi non sentirsi legata al presente e agire come se il trauma tesse succedendo ora. Si possono vedere scene del trauma, sentire rumori o sintomi fisici collegati ad esso, vaale lo stesso per le emozioni provate in quel drammatico momento. Il flashback può durare secondi, minuti o anche di più. Ho preso queste informazioni dal sito www.healthyplace.com.
2. Demi ha capito la situazione, vuole solo sincerarsi che la bambina stia bene dal punto di vista fisico. Nel prossimo capitolo accennerò soltanto al fatto che è così, non allungherò la cosa perché non serve.
   
 
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