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Autore: Roiben    22/01/2020    0 recensioni
[Arsène Lupin (Maurice Leblanc) – Sherlock Holmes (Arthur Conan Doyle)]
Quando si ha per le mani un caso delicato e la concreta possibilità di fallire, nella migliore delle ipotesi, o di venire arrestati nella peggiore, in che modo risolvere un problema che sembra non avere sbocchi? A chi chiedere un estremo aiuto? Quando un uomo probo è disperato, prende decisioni disperate.
|Revisionata 11.08.2020|
Genere: Avventura, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, John Watson, Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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26 - A pochi passi dal cielo 

 

 

 

 

 

Nel cielo nero rilucono solo una sottile falce argentata e decine di milioni di spilli pulsanti e risplendenti di fuoco celeste. Nessuna nuvola a offuscare lo scintillio del firmamento, non un alito di vento a turbare l'aria inaspettatamente tersa ma gelida di Londra. Acquattato in cima a un tetto, Arsène Lupin illustra per l'ennesima e ultima volta ai suoi gregari quella che sarà la sequenza per quella notte e nel mentre mostra la posizione della villa e a mente la dislocazione di quel che interessa loro traslocare altrove. Scorrendo uno a uno i loro volti con attenzione, si accerta che abbiano ben stampato in testa il loro ruolo, infine si alza e fa segno agli altri di seguirlo lungo i cornicioni e fino al punto in cui, da dove si trovano, passeranno con le dovute precauzioni fino alla terrazza in cima alla villa di sir Dominick. Ha portato con sé i ragazzi più leggeri e agili, poiché non intende imbattersi in altro se non begli oggetti, di certo evitando di larga misura qualunque incidente o incontro sgradevole; questo perché, quella notte, saranno funamboli e scivoleranno lungo una fune da un cornicione all'altro con nel mezzo qualche ettaro di terreno piantumato a sempreverdi e circa sessantacinque piedi di aria fra loro e suddetto terreno. In pratica c'è poco di che distrarsi, a meno di non voler estrarre un biglietto di sola andata per l'obitorio. 

 

Dal punto elevato in cui si trova in quel momento indirizza un'ultima occhiata valutativa al perimetro della villa cui stanno mirando, annotando a mente il numero di piantoni abbandonati a fare la guardia a un luogo che, per quanto ne sanno, è deserto fatta eccezione che per una manciata di uomini e donne facenti parte del personale di servizio: sette totali, sparsi lungo la cancellata esterna. Senza offesa per l'investigatore, ma quando ha asserito che i poliziotti inglesi non fossero di molto più svegli di quelli francesi è stato piuttosto ottimista; sono ottusi in maniera imbarazzante. Tanto meglio per i suoi progetti per la serata. 

 

Da una valigia in cuoio estrae una balestra di metallo scuro ma molto meno pesante di quanto appaia a un'occhiata distratta. In luogo del dardo che viene utilizzato di norma con quel tipo di arma, sul binario monta una sorta di robusto arpione a quattro ganci, alla cui estremità posteriore v'è un occhiello con fissata all'interno una spessa fune che si dipana abbondante formando un rotolo serpentino a terra. Grazie a un ingegnoso meccanismo, i quattro ganci possono essere ritratti così che, al momento del tiro, il dardo scivoli più agilmente attraverso l'aria senza subirne l'attrito che ne ridurrebbe la velocità e la potenza, ma al tempo stesso il meccanismo che serve a bloccare gli uncini richiusi durante il volo si sblocca a seguito dell'urto causato dal raggiungimento del bersaglio, permettendo agli uncini di riespandersi così da fornire un aggancio stabile e solido. Accanto al grilletto, ma nella parte superiore, è montato un mirino. Lupin appoggia le anche al parapetto e osserva il suo bersaglio, inquadrandolo con cura nel mirino, poi solleva il tiro di poco, al fine di bilanciare il peso del dardo e la distanza che dovrà percorrere. Inspira una lunga boccata d'aria, espira lentamente, preme sul grilletto e solleva appena lo sguardo a seguire la traiettoria del dardo e le evoluzioni sinuose della fune che si srotola con rapidità fissata a esso. Il dardo si fa strada di stretta misura fra due colonne di marmo che compongono la balconata del terrazzo e va a conficcarsi nel muro alle sue spalle. Con uno strattone deciso alla porzione di fune rimasta dalla sua parte Lupin libera il dardo ora aperto a ventaglio e i ganci si ancorano contro l'interno delle colonne della balconata. Fa un cenno a uno dei suoi ragazzi perché fissi l'estremità della fune a un punto solido dalla loro parte e fa scorrere lo sguardo lungo il loro nuovo passaggio in sospensione, annuendo compiaciuto. 

 

«È ora» annuncia ai suoi ragazzi. «Uno alla volta, e senza fretta» ricorda loro con una cura che fa pensare a un padre che istruisce i propri pargoli affinché non cadano a terra sbucciandosi un ginocchio. 

 

Per prima manda avanti Danielle, che non solo è francese, ma è anche una giovane donna che nel tempo libero fa la svaligiatrice, e di lavoro la trapezista, attualmente in vacanza premio in Gran Bretagna, prontamente reclutata appositamente per quella missione una volta saputo che si trovava tanto a portata di mano. Con un morbido sorriso compiaciuto osserva la sua sottile e sinuosa figura, abbigliata in blu notte dalla testa ai piedi (mani comprese), che agile si sposta lungo la fune senza una singola incertezza e con maggior rapidità di quanta chiunque fra i presenti si aspettasse. In meno di tre minuti è sull'altro lato del loro sottile e temporaneo ponte, ovvero in cima alla balaustra che circonda la terrazza della villa. Marco, un ragazzo italiano di appena diciannove anni, guarda con occhi grandi e ammirati la collega in piedi molti metri più in là e deglutisce con visibile nervosismo, ma a un'occhiata diretta al suo capo annuisce e si prepara a fare altrettanto, con più cautela e minor velocità, ma con lo stesso risultato finale, accolto con un radioso sorriso sia da parte di Danielle che dei compagni rimasti ancora sul tetto. Uno alla volta, i restanti cinque componenti della spedizione attraversano l'aria, le mani guantate che corrono agili sulla fune, portandosi sulla terrazza, gli ultimi due portandosi appresso anche delle sacche di tela agganciate a carrucole che scorrono lungo la fune. Infine anche Lupin si fa strada ad ampie bracciate, raggiungendo rapido la sua squadra, salutato da espressioni emozionate e nervose insieme. 

 

Poggia l'indice sulle labbra, a indicare di fare silenzio, e addita la porta a vetri coperta da ampi tendaggi di pesante broccato che conduce all'interno dell'edificio. Quasi in punta di piedi vi si accosta, accertandosi che gli altri rimangano a distanza, e poggia un orecchio al vetro, rimanendo in ascolto. Sicuro oramai che oltre quell'entrata non vi sia nessuno ad aspettarli, da una delle sue innumerevoli tasche interne estrae il suo coltellino multiuso e pochi secondi dopo la serratura scatta e la porta si apre fornendo accesso alla villa. Con un secco gesto della testa invita la sua squadra a seguirlo e, uno dietro l'altro, sfilano per la terrazza e dentro la camera dell'attico in un silenzio pressoché assoluto. Ogni volta che oltrepassano un'entrata o svoltano in un nuovo corridoio, si assicurano che dall'altra parte la via sia sgombra e non si odano suoni di voci o rumori fuori posto, ma sembra dopo tutto che gli attuali abitanti della villa siano intenti a dormire e non facciano caso alle ombre notturne che si spostano silenziose per la casa in cerca delle sale private dell'ex-segretario all’interno delle quali si celano meraviglie. 

 

Lupin apre una pesante porta e la richiude alle spalle dei suoi ragazzi, va alla finestra assicurandosi che le imposte siano serrate e solo allora accende la lampada a gas accanto alla porta. Lievi sospiri strozzati riempiono la stanza mentre il ladro francese arriccia le labbra in un piccolo sorriso compiaciuto. Di fronte a loro, montata sulla parete opposta rispetto al camino grazie a una robusta intelaiatura metallica, trova posto una lastra di marmo di quasi un metro di lunghezza, rappresentante un bassorilievo, meglio conosciuto come Centauromachia. 

 

«Dimmi un po', Lucas: ne vale la pena, ora?» domanda Lupin a un giovane inglese dall’aspetto esile, intento a fissare il bassorilievo con manifesta bramosia. 

 

«Oh, sì; solo questo ripagherebbe di ogni fatica». 

 

«Ben detto, mon ami» approva. Si accosta al bassorilievostudiandone con cura la strana armonia. Sorride. Si fa indietrovoltandosi verso i ragazzi in attesa alle sue spalle. «Eh bien! Al lavoro, pelandroni. Tiratelo giù da lì». 

 

Di fronte alla finestra v’è un piccolo quadro raffigurante una ballerina. «L'étoile» mormora, fermandocisi sotto. Non è una tela, ma un disegno a pastello su carta, inquadrato in una sottile cornice argentata della quale percorre i contorni con sguardo attento. «La cornice mi garba, ce la teniamo» stabilisce, facendo segno a uno dei ragazzi più alti della sua squadra di tirare giù il dipinto con tutta la sua montatura. «Sembra palladio, ma credo che sia platino» soppesa meditabondo. 

 

Mentre i ragazzi lavorano, si sposta su unterza parete, seguito da Danielle e Marco, che osservano con attenzione i suoi movimenti. I suoi occhi si soffermano qualche lungo istante sulla mensola del camino. Si volta indietro e ammicca ai suoi due angeli. «Danielle, tu che conosci il soggetto, hai mai veduto un ninnolo tanto grazioso?». 

 

Danielle ha lo sguardo puntato sull'oggetto in questione, un uovo grande poco meno del pugno del suo capo, decorato in oro, rubini e smalti. «Ne ho veduto uno, una volta. Era un poco più piccolo, una meraviglia, ma stava dietro la vetrina di un museo in Medioriente, e quelli non ti guardano nemmeno in faccia mentre ti staccano una mano per aver provato a fregarli» spiega, fissando sognante l’uovo Fabergé che gli sta di fronte indifeso. 

 

«Bene, questo te lo puoi prendere tenendoti anche entrambe le mani: omaggio della ditta» conferma Lupin, sogghignando e passando oltre. 

 

Silenziosi come gatti abbandonano quella stanza, spegnendo le luci e richiudendosi l’uscio alle spalle, e ne raggiungono un'altra, lo studio privato di sir Dominick, nel quale mancano i quadri ma in compenso sono presenti altre attrattive che Lupin ha potuto notare durante il suo colloquio con il padrone di casa. Libri, per lo più, rilegati in pelle, alcuni tanto antichi da avere la copertina screpolata e le pagine troppo fragili. Mentre si occupa di spulciare nella libreria, dà agli altri il compito di scovare suppellettili interessanti, come ad esempio il costoso orologio da parete intagliato a mano dietro la scrivania dell'ex-segretario, o il piccolo scrigno di legno e avorio posato con negligenza su di un tavolino a tre piedi intagliato nella radica. E poi, mentre estrae un volume che altro non è se non una prima edizione di I racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer, nota con sbigottimento ed eccitazione una fessura nella scaffalatura. 

 

 «Ah, mon Dieu» soffia trepidante.  

 

Con i polpastrelli studia il legno che compone la libreria e dopo vari tentativi scova un punto idoneo in cui far leva e che gli consente di far scattare il meccanismo che apre uno scomparto dietro la libreria, non più grande di una finestrella da carrozza, quasi un'ennesima cassaforte, ma senza combinazione, protetta unicamente dal suo essere così ben celata alla vista. All'interno trovano rifugio due soli oggetti: un manoscritto rilegato in modo artigianale e un cofanetto di metallo in parte corroso dal tempo, con tutta probabilità ferro; all'interno, dopo averlo aperto con cautela, vi trova una sottile lamina d'oro, un frammento irregolare che, nonostante sia rovinato e smangiato in più parti, ancora brilla come il sole, e sopra questa si scorgono incisioni all'apparenza incomprensibili, un'epigrafe in una lingua scomparsa da secoli con tutta probabilità. Affanna, sentendo le ginocchia tremare, e si appoggia con una spalla alla libreria, continuando a fissare con sgomento quel piccolo frammento di sole racchiuso in un cofanetto senza importanza. Scuote la testa, deglutisce, chiude gli occhi e, con uno sforzo di volontà, richiude anche il cofanetto, così da non dover continuare a fissare lo sguardo sul suo contenuto. Ha quasi timore di scoprire cosa contenga il manoscritto, ma poiché non intende lasciarlo in quel posto scaccia ogni ulteriore indugio e, con estrema delicatezza, raccoglie fra le mani il fascio di carte racchiuso nel guscio di cuoio vecchio e logoro e lo trasporta lentamente fino alla scrivania sopra la quale brilla la luce della lampada. Prende una lunga boccata di ossigeno e, molto piano, solleva la copertina e un momento dopo aggrotta le sopracciglia. Distrattamente, dietro di sé ode le voci confuse di alcuni dei suoi ragazzi, ma non presta loro ascolto, occupato nell'esame di qualcosa che non è certo di comprendere. 

 

«Sembra islandese. No, non proprio islandese... norreno, probabilmenteHélas! Questo segretario ha più segreti di un faraone. Se fosse addirittura una parte di Codex Regius? Ma non conosco esperti di storia nordica. Però qui non lo lascio di certo; me lo porto via e deciderò poi» stabilisce, cercando con lo sguardo un modo sicuro per proteggere il manoscritto. 

 

Alla fine, quasi bisticciando con i suoi preziosi accoliti, si risolve a strappar via delle soprattende di velluto e avvolgervi con cura il reperto, per poi infilarlo in una borsa e metterselo a tracolla, in buona compagnia della lamina d'oro. Solo quando è soddisfatto della momentanea sistemazione si lascia convincere a proseguire la spedizione all'interno della villa. Hanno così la possibilità di recuperare qualche altra opera di un certo valore tra cui alcuni quadri: La plage à Pourville, soleil couchant dipinto da Claude Monet, Küste bei Mondschein di Caspar David Friedrich, Incendio alla camera dei lord e dei comuni del pittore William Turner e Ash Wednesday di Carl Spitzweg; svariate porcellane, poche sculture e uno specchio del XVI secolo conservato quasi del tutto intatto. 

 

Sul finire del giro turistico appaiono tutti piuttosto soddisfatti e su di giri, a parte forse il loro gran generale che, per quanto soddisfatto, ha un'espressione visibilmente nervosa, e non certo per i poveri piantoni inglesi appostati al freddo esclusivamente lungo il perimetro della villa, quanto piuttosto per il destino di ciò che ha fortuitamente trovato nel nascondiglio segreto di sir Dominick. 

 

Come nelle loro previsioni, nonostante siano ovviamente appesantiti rispetto all'andata, non incontrano ulteriori difficoltà durante la strada di ritorno; i domestici della villa hanno fatto un buon risposo e i poliziotti hanno tuttalpiù preso un raffreddore, di certo nessun ladro, che al contrario si è allontanato indisturbato lasciando l'edificio un po' più sgombro e povero rispetto alla sera precedente. 

 

 

 

Quella mattina sul presto, quando Watson scende dalla sua camera da letto al loro salotto per predisporsi alla colazione, vi ritrova l'amico già appostato sulla sua abituale poltrona accanto al camino, o piuttosto ancora appostato, a giudicare dal viso tirato e dagli occhi arrossati e lucidi. Sospira, massaggiandosi la nuca. 

 

«Holmes, vi prego, non ditemi che siete lì da ieri pomeriggio» chiede, sperando in una risposta negativa. 

 

Ancora una volta rimane deluso, poiché il coinquilino annuisce sembrando a malapena presente e con la testa decisamente altrove. Di diverso rispetto alla sera precedente, tuttavia, vi è il giornale di quella mattina. Stringe le labbra, contrariato, ma si avvicina con calma, provando perfino un sorriso che non trova un corrispettivo dall'altra parte. 

 

«Che notizie ci sono?» tenta allora, sperando in qualche reazione di maggior rilievo. 

 

Per tutta risposta l'investigatore ripiega il quotidiano e lo lancia sulle gambe del dottore, come a dire Guardatevelo da voi. E, dato che non vede molte altre alternative di fronte a sé, così fa, riaprendo le pagine e scorrendo i titoli. Non che debba andare lontano per trovare quel che cerca: è tutto lì, in prima pagina, a grossi caratteri sopra una foto della villa di sir Dominick. Sospira di nuovo, dopo aver letto approssimativamente l'articolo. A quanto pare il signor Lupin ha messo in atto ciò che prometteva, per giunta sotto il naso dei poliziotti che circondavano la villa e senza che nessuno si accorgesse di nulla, salvo all'alba, quando i primi domestici si sono alzati per le incombenze della giornata, dando subito l'allarme. Ha persino lasciato un biglietto da visita, sulla scrivania dello studio di sir Dominick; da un lato la consueta firma: Arsène Lupin, dall'altro un'unica parola: GrazieIstintivamente sta per lasciarsi sfuggire una risatina allucinata, ma sollevando gli occhi dal giornale nota l'espressione tempestosa dell'amico e opta per una rispettosa astensione. 

 

«Che cosa intendete fare, ora?» sussurra. 

 

«Assolutamente nulla» sono le prime parole che gli sente pronunciare dalla sera precedente. 

 

«E tuttavia...». 

 

«Non esistono se, né ma, né però. Non è più affar mio e non ho intenzione di occupare oltre il mio tempo in questa storia» stabilisce categorico. 

 

Vorrebbe protestare, forse scuoterlo per le spalle, magari tentare di convincerlo a uscire da quel loro appartamento che sta diventando sempre più stretto e soffocante per cercare qualche stupido indizio. Ma a che scopo? Se quanto gli è stato riferito il giorno precedente è vero, e non ha motivo di dubitarne, a quel punto non c'è proprio nulla che sia in suo potere fare. Quell'uomo, quello che l'amico ha più volte definito demonio, avrà di certo già fatto i bagagli e lasciato la città, se non direttamente il paese, anche perché oramai ha scoperto le sue carte con la trovata del biglietto da visita, e rimanere nei paraggi sarebbe non solo pericoloso ma anche incosciente. E allora si limita a restare in silenzio, deciso a rispettare quello dell'amico. 

 

 

 

All'ora di pranzo la signora Hudson sale da loro portando con sé, oltre ai viveri di sussistenza, una certa aria di vita che contrasta in modo plateale con l'atmosfera da funerale che si respira nell'appartamento occupato da Holmes e Watson. Quest'ultimo fa comunque del proprio meglio per accoglierla con riconoscenza, al contrario dell'amico che non l'ha degnata di un solo sguardo né al momento della sua comparsa, né al momento del suo congedo, peraltro contrariato. Il dottor Watson, dopo aver tentennato per qualche istante di fronte alla tavola imbandita e all'indifferenza dell'investigatore, raggiunge il pianerottolo trovandovi la padrona di casa, ancora con quell'espressione di contrarietà deducibile dalla piega amareggiata delle labbra e dal cipiglio fosco impresso nei lineamenti. 

 

«Immagino che sia per via del giornale di questoggi?» esordisce la signora Hudson con un'inattesa perspicacia derivante, probabilmente, dalla sua tendenza all'empatia. 

 

Il dottore espira lentamente e annuisce. «Purtroppo» conferma. 

 

La donna incrocia le braccia sotto il seno ed esibisce un atteggiamento battagliero. «E voi non intendete far nulla? Siete un dottore, se ben rammento. Non l'avete forse visto? Questa mattina ha un aspetto terribile, più del solito per lo meno, e già di norma non dà l'idea di essere in forma smagliante né sprizzare salute da tutti i pori. Dovreste portarlo fuori. C'è il sole, quest'oggi. Trascinatecelo con la forza se non ha voglia di seguirvi». 

 

Watson sorride e scuote la testa. «Dimenticate che quello con nozioni di difesa personale è lui, non io. Dubito che si lascerebbe trascinare fuori facilmente». 

 

La signora Hudson assottiglia gli occhi con fare minaccioso, facendo innervosire il buon dottore. «Quindi? Ve ne starete con le mani in mano ad aspettare che si rovini l'esistenza più di quanto già non abbia fatto fino a ora? Vi credevo suo amico». 

 

Il dottore si rabbuia, ritenendo del tutto ingiusta l'accusa della loro padrona di casa. Come se lui, in tutti quegli anni, non avesse mai fatto del proprio meglio per preservare la salute dell'amico. «Non sapete quel che dite» soffia, offeso e umiliato. 

 

«Voi credete?» lo rimbecca, per nulla intimidita e anzi sembrando decisa a far valere il suo punto di vista. «Allora, ditemi, perché negli ultimi giorni non l'ho mai visto toccare il cibo che ho preparato per entrambi? Perché la luce del vostro salotto è rimasta accesa per l'intera notte? Perché il suo letto è rimasto intatto negli ultimi due giorni? E, se mi è consentito dirlo, non ho notato in voi tutta questa sollecitudine che sembrate rivendicare con il vostro atteggiamento». 

 

Incredulo, a occhi sgranati, la fissa come vedendola per la prima volta, con una sensazione di dolore che occlude la gola. «Come potete dire questo? Giudicate senza conoscere tutti i fatti, né ciò che abbiamo passato insieme? Pensate forse sia semplice gestire la sua vita oltre che la mia? Perché mai, ora, vi permettete di condannare la mia condotta, come se la colpa di tutti i fallimenti debba ricadere su di me? Chi siete, voi, per decidere che la responsabilità del suo attuale stato sia da imputare a me solo?». 

 

La signora Hudson, una mano premuta sul petto e le labbra tremanti, percorre quei pochi passi avanti che la separano dal dottore e, con un piccolo sorriso tirato, allunga una mano e gli sfiora il viso con una lieve carezza. «Avete ragione. Perdonatemi se me la sono presa con voi. È stato scorretto e crudele, da parte mia, e me ne dispiace». Per un lungo momento lo osserva, soppesandolo. «Credete che esista qualche soluzione allo stato attuale della situazione? Potremmo, forse, agire in qualche modo?». 

 

Scuote la testa, pensieroso. «Non lo so. Ci ho provato, stamani, ma sembra invischiato nei suoi pensieri, e ho il sospetto che si sia a malapena accorto della mia esistenza. Se lui fosse ancora qui, forse...» dubita. 

 

La padrona di casa cruccia la fronte, incerta. «Luisarebbe quel giovanotto che è passato di qui più volte nel corso degli ultimi giorni?» chiede, ricordando malauguratamente quel loro primo, imbarazzante incontro. 

 

«Sì, è esatto. Ma temo che a quest'ora sia già lontano, con tutta probabilità sulla strada di ritorno in Francia». 

 

Lei si mordicchia le labbra, contrariata. «È un bel problema. Siete proprio sicuro che non si riuscirebbe a metterlo su una delle navi che portano oltremanica?». 

 

Watson la fissa con stupore, poi ridacchia. «Non con la forza, signora Hudson. O volete forse provarci voi stessa? Scommetto quel che volete che nemmeno unendo le forze riusciremmo a spostarlo da quella poltrona, non fintanto che non lo decida in autonomia». 

 

Sospira, affranta. «Forse avete ragione. Bisognerebbe convincere uno di quegli ispettori che vengono qui di tanto in tanto, quel Lestrade per esempio, a legarlo, impacchettarlo e scaricarlo a forza nella cabina della nave. Davvero, secondo me un po' di aria nuova gli farebbe bene, e magari anche un poco di sole. Forse al posto di Parigi si potrebbe spedirlo in qualche località balneare del sud della Francia». 

 

Il dottore, divertito dalle macchinazioni della padrona di casa, scuote la testa. «Se trovate il modo di mettere in atto i vostri loschi piani, ricordatevi di avvertirmi: vorrei andarci anche io in quella località balneare di cui parlate». 

 

«Molto spiritoso» bercia la signora Hudson, levando gli occhi al cielo e rispedendo in casa il suo inquilino, raccomandandogli perentoriamente di tenere d'occhio l'investigatore. 

  
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