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Autore: _Malila_Pevensie    07/02/2020    1 recensioni
Prima storia della serie "Le Saghe di Finian"
Il mondo di Finian non conosce giustizia da quasi cento anni, fin dall'istante in cui la tirannia della Regina Mirea ha avuto inizio.
Freya non l'ha mai vissuta in modo diretto, protetta dalla quiete delle Foreste di Confine in cui sua madre l'ha cresciuta. Le è stato fatto l'immenso dono della libertà e lei non ha mai pensato di lasciare il luogo che l'ha vista diventare ciò che è.
Aran, Principe alla corte di Errania, non ha mai visto in Mirea null'altro che la propria salvatrice. La sorte gli ha concesso ogni ricchezza e privilegio, ma gli ha lasciato anche un fardello d'immense bugie in cui non sa di star affondando sempre più.
La verità, celata dietro quelle esistenze che sembrano destinate a ripetersi sempre uguali a loro stesse, si rivelerà presto in tutta la sua schiacciante realtà.
Il loro destino, racchiuso in una Profezia antica di un secolo e ultimo lascito dei draghi, si presenterà proprio nell'instante in cui le loro vite entreranno inaspettatamente in collisione.
Il Tempo del Silenzio è giunto alla fine e il momento di scegliere si fa sempre più vicino.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO 3
- IL VIAGGIO -



Si svegliò proprio nell'istante in cui i caldi raggi del sole iniziavano ad affiorare dall'est, portando con sé la promessa di un nuovo giorno.
Cercò di non indugiare troppo in quel luogo pieno di ricordi e raccolse piuttosto in fretta le bisacce; non era del sentimentalismo che aveva bisogno, in quel momento. Solo una volta giù dall'albero si concesse un'ultima occhiata alla sua casa; anche se non sapeva se mai ci sarebbe tornata aveva calato tutte le coperture necessarie a celarne la presenza, tanto che se non avesse saputo dove guardare mail'avrebbe potuta intravedere. Esitando più di quanto avrebbe voluto,si voltò e prese a camminare in direzione dell'accampamento dei soldati, lasciandosi alle spalle il grande albero e tutto ciò che rappresentava.
Non ci volle molto per arrivare in vista del bivacco e quel poco tempo le diede ancor più idea di quanto i soldati si fossero avvicinati alla casa sull'albero; un brivido poco rassicurante le scosse la spina dorsale. Era già tutto pronto, constatò: le tende erano scomparse e al loro posto, legati ai rami più bassi di un giovane albero, c'erano otto cavalli. Sette di loro erano della stessa razza, tutti di un colore rossiccio, evidentemente stalloni da guerra. L'ottavo lasciò Freya a bocca aperta: era un animale enorme, dalle zampe grandi e robuste ricoperte di folto pelo fulvo; gli zoccoli, larghi e ben piantati, sembravano poter passare sopra qualunque ostacolo; il crine era nero e il manto bianco, ricoperto da grandi e bellissime macchie scure. Non appena avanzò di qualche passo, lo stallone la notò e la guardò con i suoi grandi occhi scuri e limpidi, grattando al suolo lo zoccolo della zampa anteriore destra. I soldati la videro solo grazie al movimento dell'animale.
«Speravo che avreste accettato» le disse il capitano, accompagnando le sue parole con una breve riverenza che la mise a disagio tanto quanto il giorno prima.
«Sarò felice di sapere qualcosa in più della mia storia» si limitò a rispondere la ragazza, senza sbilanciarsi troppo. Non dovevano sospettare quanto poco ancora si fidasse di loro, ma non gli avrebbe nemmeno lasciato credere che fosse una sciocca ragazzina pronta a credere a qualunque cosa le venisse propinata. Per quanto diffidente, non poté impedirsi di sgranare gli occhi quando il capitano Craius le porse proprio le redini del grande stallone, che le si avvicinò di buon grado. Freya guardò l'uomo, senza capire.
«Questo stupendo stallone è discendente diretto di quello che un tempo fu il cavallo di vostro padre» le spiegò il comandante. «La Regina Mirea mi ha incaricato di consegnarvelo come suo dono personale. Vorrebbe che foste voi a dargli un nome.»
Freya lo guardò pensosa, poi decise che avrebbe capito quale fosse il nome più adatto a lui solo dopo averlo cavalcato. Agganciò tutte le bisacce alla sella dello stallone e poi vi montò. La sensazione che mani invisibili la legassero a doppio filo a quella meravigliosa creatura la lasciò quasi senza fiato. Le era sempre successo di sentirsi in sintonia con tutto ciò che l'intera natura comprendeva, tanto che mai le era accaduto che qualche bestia selvatica la aggredisse. Poche volte le era però accaduto così intensamente.
Lo spronò a muovere i primi passi e in quell'istante il capitano si voltò verso di lei: «Il viaggio sarà particolarmente lungo, Lady Freya. Avremo la possibilità di fare sosta in più di un centro abitato, ma spesso saremo costretti a dormire all'aperto. Rappresenta un problema, per voi?»
Freya dovette trattenere una lieve risata in gola, sia per l'assurdità di quel "Lady" apposto al suo nome che per la domanda in sé; sembrava che la credesse fatta di vetro. Si limitò a sorridere, asserendo: «No, capitano. Non temete per me, sono più resiliente di quanto non sembri.»
Craius le rivolse un brevissimo sorriso, prima di portare l'attenzione sui suoi uomini. «Compagnia, in sella. Il percorso è lungo e dobbiamo sfruttare ogni attimo per consumare miglia» ordinò, perentorio. I soldati montarono a cavallo senza una parola e in breve formarono un'ordinata colonna, per quanto permettesse lo stretto sentiero.
Freya non aveva mai cavalcato prima, ma il da farsi le venne istintivo: invitò con un leggero colpo di talloni il suo stallone a muoversi e aggiustò la presa sulle redini. Ebbe solo un brevissimo istante per riflettere un'ultima volta su quello che stava per fare: lo spese voltandosi all'indietro e guardando la parte a lei conosciuta della foresta che si allontanava sempre di più alle sue spalle.


Cavalcarono ininterrottamente per tutta la giornata. Nonostante le grandi zampe, notò la giovane, lo stallone si districava bene nella foresta, tra le fronde basse e le radici nodose dei grandi alberi. Era una dote piuttosto utile, contando il fatto che in quel punto la foresta era particolarmente estesa e intricata.
Arrivata la notte, si accamparono in una radura grande abbastanza da ospitare le tende  dei soldati. Quando il comandante Craius ne offrì una a Freya, la ragazza rispose che preferiva dormire sotto le stelle; preparò un giaciglio con le coperte che si era portata e, dopo aver tolto il fastidioso morso al cavallo, si recò al rigagnolo che scorreva lì accanto per darsi una rinfrescata. Consumata poi la propria cena, si sedette con la schiena appoggiata al grande tronco alle sue spalle.
Lo stallone pascolava placidamente l'erba che cresceva attorno all'albero. Era da tutta la giornata, rilassata dalla regolare andatura del suo passo, che pensava a un nome da dargli, ma solo in quel momento, ferma a guardare il cielo che risplendeva di stelle sopra la radura, le venne spontaneo un nome. Si alzò e il cavallo le venne incontro, come se avesse percepito che dovesse dirgli qualcosa; la ragazza gli posò una mano sul muso e gli disse dolcemente: «Stellato. Questo sarà il tuo nome, se vorrai portarlo.»
Il cavallo emise un nitrito di soddisfazione che fece voltare brevemente i soldati nella sua direzione.
La ragazza sorrise lievemente. «Allora è deciso.» Poi, tornò a coricarsi accanto all'albero, chiudendo gli occhi. Non appena fu sola nel buio della propria mente, fu assalita dall'enormità di tutte le decisioni che aveva preso.
Davvero sua sua madre sarebbe stata fiera di lei, se avesse saputo a che cosa aveva scelto di andare incontro? Sì, capì infine, lo sarebbe stata. In fondo, era stata lei a insegnarle che in un mondo governato dalla prepotenza qual'era il loro perseguire la verità e la giustizia fosse una virtù fondamentale per accendere una luce nel buio. Con quella consapevolezza si addormentò e, in qualche modo, riuscì a coltivarla dentro di sé anche nei molti giorni di viaggio successivi.


La prima sorpresa arrivò già appena superata la parte più profonda della foresta, quando improvvisamente Freya si ritrovò a cavalcare sulla strada più grande che avesse mai visto. Doveva essere relativamente recente, perché non ve n'era traccia sulle cartine che aveva avuto fra le mani lei, probabilmente antecedenti alla conquista di Mirea. Da quel momento in poi, iniziarono a incrociare viandanti, sia solitari che in gruppo, carri di tutte le dimensioni e altri drappelli di soldati a cavallo diretti chissà dove. Man mano che si avvicinavano al cuore di Riagàn, la loro meta, il viavai si faceva sempre più frenetico e caotico. Passarono quello che una volta era stato il confine senza che Freya nemmeno se ne accorgesse, troppo impegnata a cercare di abituarsi a tutte quelle novità.
Il vero e proprio Regno di Riagàn, così come lo era stato fino a cent'anni prima, era molto più piccolo del territorio controllato ora dalla sovrana. Quando aveva preso il potere Mirea aveva iniziato lentamente a espandere i domini di Riagàn e adesso villaggi e piccoli centri urbani erano sorti dove prima c'erano solo boschi e luoghi completamente disabitati. Pochi erano gli angoli di Finian che gli esseri umani non fossero riusciti a raggiungere e uno di questi era la piccola porzione di foresta in cui viveva Freya. Gli altri erano i cuori delle Antiche Terre: la ragazza aveva passato tutta la propria infanzia a domandarsi se prima o poi qualcuno sarebbe riuscito a raggiungere di nuovo gli altri popoli nei loro territori remoti. In fondo, era da uno di quei luoghi che sua madre proveniva, anche se aveva sempre continuato a ripeterle che non sarebbe mai potuta tornare fra la sua gente. In ogni caso, erano pensieri che forse, nel posto in cui stava andando, avrebbe fatto meglio a tenere per sé.
Mano a mano che il viaggio proseguiva, la giovane si rendeva sempre più conto che probabilmente a Errania non avrebbe avuto nemmeno la stessa libertà di espressione a cui era abituata. Eleana le aveva sempre permesso di dar voce alla propria opinione, se lo voleva, ricordandole semplicemente di farlo nei giusti modi; il suo pensiero era sempre stato libero di articolarsi in parole, fin tanto che lo faceva educatamente. Le persone che le passavano davanti, villaggio dopo villaggio, sembravano in qualche modo frenate dal farlo. Freya imparò come spesso la gente preferisse il silenzio, soprattutto sotto lo sguardo di chi, in qualche modo, era considerato loro superiore. In quel mondo che lei ancora non capiva, nessuno pareva dire mai del tutto ciò che avrebbe voluto, nemmeno con gentilezza.
Mentre gli zoccoli di Stellato la portavano lontano da casa, così come nelle notti trascorse in tenda o nella camera di qualche locanda, Freya cercava di ripetersi che quelle donne e quegli uomini non erano poi tanto diversi da lei. Nonostante questo, loro non sembravano pensarla esattamente alla stessa maniera: la ragazza sentiva i loro sguardi su di sé, vedeva il timore nelle loro espressioni quando notavano le sue orecchie a punta. Iniziò a sentirsi una specie di creatura leggendaria ricomparsa dai recessi delle loro memorie, qualcosa che fino al giorno prima non pensavano potesse ancora esistere. Aveva provato a fare finta di niente, ma non era abituata a tutta quella attenzione, né a tutta quella presenza umana.
Anche mia madre si sentiva così?, iniziò a chiedersi costantemente. Tutti quegli sguardi le hanno mai fatto pesare il suo essere elfa?
La sera, quando riuscivano a pernottare al cado di qualche struttura, Freya mangiava velocemente e si rintanava nella stanza che avevano tenuto per lei, beandosi della solitudine. A lungo quella restò una sua abitudine, seppur accompagnata dalla consapevolezza che, oramai, nulla nella sua vita sarebbe potuto restare uguale per molto.
Il suo carattere, in ogni caso, sopportò imperterrito tutte le prove a cui venne sottoposto. La sua curiosità la portò comunque a trarre immensa gioia da tutto ciò che aveva occasione di scoprire per la prima volta. Per quanto la giovane non riuscisse ancora a capire come funzionasse la società in cui gli esseri umani si muovevano, rimase fin da subito affascinata dalla loro capacità di costruire pressoché qualunque cosa. Dapprima, nei piccoli centri urbani in cui sostavano, imparò ad apprezzare ciò che scaturiva dal lavoro degli artigiani; non importava quale materiale trattassero o cosa ne facessero: vedere le loro mani usare con perizia gli strumenti del mestiere e creare tutto quello di cui le persone potevano aver bisogno aveva il potere di incantarla. Anche lei aveva spesso dovuto trovare il modo di mettere insieme quello che le serviva, ma c'era un'enorme differenza tra farlo per mera necessità e farlo anche per passione; la si vedeva nell'amore e nella cura per i dettagli, oltre che nel risultato finale.
Quando giunsero poi nella prima delle due grandi città che li separavano dalla capitale, per la prima volta Freya vide fin dove l'inventiva e l'abilità degli abitanti di Riagàn era capace di arrivare. Non aveva mai visto nulla di simile a quegli edifici di pietra, pesanti, imponenti, tanto solidi. La sua casa sull'albero sembrava prossima a crollare al primo alito di vento, se paragonata agli enormi palazzi di Concivis. Mentre vi cavalcava attraverso, la giovane non ne perse nemmeno il più piccolo scorcio. Era un luogo molto curioso: alle case più semplici si alternavano strutture dalla pianta rotonda, simili a basse e larghe torri, spesso arricchite da pitture che fregiavano il contorno di porte e finestre; a fare da sfondo a quelle opere d'arte, il colore giallo declinato in centinaia delle sue tonalità. Sembrava una caratteristica comune a tutti gli esterni dei palazzi, dalla periferia al centro. Nel vedere la sua curiosità, il capitano Craius le spiegò che quello ero lo stile architettonico peculiare di Concivis e che in nessun'altra città avrebbe trovato qualcosa di simile.
Vi sostarono per un paio di giorni, il tempo necessario a fare un pò di rifornimento, prima di proseguire in direzione di Plametia. Come le aveva detto il capitano, la città, che sorgeva al centro di una vasta pianura, non condivideva nessuna caratteristica con la precedente: gli edifici di Plametia erano costruiti in pietra scura, grezza, su cui ogni tanto faceva capolino qualche bassorilievo. La pianta dell'intero centro urbano era un perfetto incrociarsi di strade, che scorrevano parallele o perpendicolari le une alle altre, in assoluta simmetria. Perfino per Freya, che in mezzo a tutte quelle vie si sentiva un pò disorientata, sarebbe stato difficile perdersi.
Solo una cosa accomunava quei due luoghi: il misto di stupore e timore che suscitavano nell'animo della giovane. C'era una parte di lei che bramava di sapere, che spingeva per poter assorbire quante più nuove nozioni e immagini potesse; l'altra, invece, era quella che percepiva la sostanziale differenza fra sé e ogni altro elemento che la circondava. Dimenticare gli sguardi era più facile, quando la sua attenzione era catturata da altro, ma nulla avrebbe mai potuto cancellarli del tutto.
Presto, lasciarono anche Plametia e fu mentre la grande porta della città si allontava alle sue spalle che Freya iniziò davvero a realizzare: la capitale si faceva sempre più vicina e con essa anche l'ora della verità.


Era il tardo pomeriggio dell'ennesimo giorno trascorso in sella quando,in lontananza, videro finalmente il castello e la città che gli si espandeva al fianco. Proseguirono ancora per diverse ore e infine, quando la sera stava iniziando ad allungarsi sulla terra, vi giunsero. La capitale, Errania, era immensa e in un certo qual modo terrificante, molto più di quanto non lo fossero Concivis e Plametia, gli unici metri di paragone che Freya avesse: era una distesa di case e palazzi, circondata da una spessa cinta muraria che impediva qualunque sguardo esterno sulla sua vita; oltre solo il castello, arroccato su un'altura che la dominava. Era lì che si stavano dirigendo, tenendo i cavalli a un trotto sostenuto.
Il pesante cancello era stato lasciato spalancato in vista del loro arrivo e a Freya non restò altro da fare che seguire i soldati nell'ultimo tratto di quell'improbabile viaggio. Sentì i propri muscoli irrigidirsi progressivamente, come pronti per scattare a un imminente pericolo, ma comunque, quando fu il momento, entrò nel cortile del castello. Guardie e servitori andavano avanti e indietro, svolgendo le loro mansioni quotidiane. Alla loro comparsa si fecero tutti da parte. Il sole, alla fine del suo tracciato nel cielo, tingeva ogni cosa di un colore aranciato che le riempiva gli occhi, abbagliandola, tanto che inizialmente non si rese conto che tutti si erano fermati. Credeva di essersi quasi abituata a essere circondata da tante persone, ma ci volle poco perché capisse che non era così; il suo disagio non fece altro che crescere quando si accorse che le sue orecchie leggermente appuntite e i tratti inusuali del suo viso avevano sortito il solito effetto.
Per un attimo, una strana paura la colse e fu tentata di far voltare Stellato e fuggire da tutta quell'attenzione indesiderata; sentiva di essere arrivata al limite ancor prima che la sua avventura cominciasse davvero. Fu dalla sua anima che giunse l'incoraggiamento necessario: il ricordo di ciò che le aveva detto il suo Spirito Guida la notte prima che partisse. Le sue parole la invasero, riempiendola di forza. Raddrizzò la schiena e proseguì verso il fondo del cortile principale, su cui si affacciava l'entrata del palazzo. Lì, un gruppetto di cinque persone allineate sembrava attenderli: senza dubbio servitori del castello, tutti vestiti in abiti semplici e dai colori poco vistosi. Non sembrava esserci nessun altro. Fu solo avanzando ancora di qualche passo che notò due ragazzi, in piedi sulla scalinata di pietra che conduceva al portone intarsiato di ferro nero.
Non appena si concesse uno sguardo d'insieme, Freya rimase meravigliata dalla grandezza di quel cortile, dall'altezza delle guglie di quel palazzo color antracite e dall'effetto che la luce solare produceva sull'ambiente circostante. Era talmente assorta nella contemplazione di quell'ennesimo nuovo paesaggio da rendersi conto solo in un secondo momento che tutte quelle persone erano lì per accogliere lei. Con tutta la propria forza di volontà, riuscì a ricacciare indietro il turbamento, almeno finché non incontrò lo sguardo di uno dei due giovani.
Solo allora sentì un'ondata di emozioni per lei non identificabili afferrarle il cuore, rovesciandolo esattamente come quando, da piccola, si lanciava da rami fin troppo alti per lei e quello di colpo sembrava precipitarle fino ai piedi, per poi ritornare bruscamente al proprio posto. Fra tutte quelle sensazioni, a stagliarsi nitida su tutte le altre, seppur inspiegabile, era quella di aver ritrovato qualcosa di perduto da tempo.
Era giunta in un luogo completamente estraneo, mai visto prima se non in una minuscola veduta dipinta sulle Saghe di Finian. Eppure, lui ebbe la sensazione di conoscerlo da una vita intera.
   
 
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