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Autore: Estel_naMar    24/03/2020    20 recensioni
Esiste qualcosa di più affascinante degli individui? E qualcosa di più originale e coraggioso della loro quotidianità? Mi chiamo Abigail e vi presenterò delle persone, degli istanti delle loro vite cristallizzati in un peculiare infinito.
Le ho incontrate per strada, nell'attesa della metro, sulla terrazza di un albergo, lungo un viale alberato e in mezzo alla natura. Le ho incontrate per caso e loro, in preda a una gentilezza inconscia, mi hanno ceduto una parte delle narrazioni che li riguardavano e li abitavano: a me non resta che fare altrettanto e condividerle con ognuno di voi.
Mi chiamo Abigail e questi sono solo dei racconti sull'eccezionale ordinarietà di una vita qualunque come potrebbe essere la tua, la mia o la nostra.
Mi chiamo Abigail e queste sono le narrazioni che mi hanno sconvolto e rivoluzionato l'esistenza.
✠ Il capitolo "Max e Annie" è vincitore del contest "Attraverso i tuoi occhi (II edizione)" indetto da Milla4 sul forum di EFP
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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MAX E ANNIE

 



  

A R., 
perché grazie a quella singola notte
mi hai permesse di credere.
Grazie, perché nulla ci rovinerà.

 



           Ti racconterò una storia. Parla di tutto quello che due persone possono essere, ma che non saranno mai. Parla di un frangente, di un “per sempre” cristallizzato nel tempo, parla di affinità.

Io sono Massimiliano, ma puoi chiamarmi Max, che è l’unico nome che puoi dire se vuoi farmi voltare. Ecco, questa storia parla un po’ di me… e un po’ di Annie. Parla di quando, con lei, mi sono voltato una volta di troppo e l’ho persa di vista. Ma parla anche della bellezza della potenzialità che ci ha caratterizzati, la quale mai smetterà di darci speranza verso il futuro.


Non ci conoscevamo: ci aveva messi in contatto un’amica in comune asserendo semplicemente che potevamo trovarci, senza sbilanciarsi oltre, ma in fondo… non che noi avessimo davvero l’esigenza che lei lo facesse. Ricordo che passai un pomeriggio intero a domandarmi se sarebbe stata Annie a scrivermi o se invece avrei dovuto farlo io. Non mi interessava particolarmente la risposta: pensai che dovevo agire come sentivo, senza pormi ulteriormente il problema.

Esordii nel più originale dei modi: «Ciao, io sono Max. Mi ha dato il tuo numero Cassandra, credo ti abbia avvertita», misi le mani avanti, sperando che Cass lo avesse effettivamente fatto.


Mi rispose, dopo non troppo tempo, il suo nome era Annie, per l’appunto. Ci ponemmo le stesse domande che si pongono le persone che si approcciano sui siti di incontri, tastando un po’ il terreno. Lei non pareva sbilanciarsi, non mi era chiaro se ci sarebbe stata, se le stessi risultando simpatico, minimamente interessante o comunque uno con cui non avrebbe rifiutato di uscire. Rispondeva con entusiasmo ai miei quesiti indagatori: non disprezzava parlare dei suoi interessi, né ascoltare come i miei fossero in qualche modo simili ai suoi, ma non approfondiva mai davvero quando doveva esporre se stessa. La ritenni un po’ sostenuta e mi chiesi in cosa potessi ritrovare quell’affinità di cui Cassandra narrava quando me ne aveva parlato, visto che io, al contrario, sono una persona estremamente aperta. Che poi… inaspettato che una persona non voglia esporsi con un perfetto sconosciuto… Pff, cosa mi sarei mai dovuto aspettare?


Decisi presto di scoprirlo e mi feci avanti: «Ti va di vederci uno di questi giorni? Io starò in città ancora una settimana, poi devo tornare a Roma, però mi piacerebbe molto», studiavo a Roma e sarei rimasto nella mia città natale ancora soltanto poco tempo. Non ero sicuro dell’esito, ma le ore stringevano, perciò non potevo perdere giornate.

«Non lo so, non mi dispiacerebbe», non mi dispiacerebbe, pff, che è comunque diverso da un “mi farebbe piacere”… meglio di niente, «Questa settimana, però, ho sempre un sacco di impegni: tra università, riunioni, lo sport, non saprei proprio quando», stava chiaramente tergiversando.

«Così, de botto: stasera? Hai da fare?», non avrei mollato.

«Sto andando a giocare un’amichevole in trasferta, proprio adesso. Non so per che ora tornerò, ma, per esperienza, presumo rincaserò a notte inoltrata», e invece, come si dice a Roma, mi aveva pisciato proprio bene bene.

Risposi chiarendole che volevo fidarmi di Cass, sperando di convincere anche lei a fare altrettanto, e che avrei tentato di nuovo.




           Nei due giorni successivi dialogammo per un numero indefinito di ore, di tutte le stronzate possibili e immaginabili. Da parte mia, devo ammettere che non avrei descritto quella situazione con un entusiasta “è scattata la scintilla”, malgrado ciò ero curioso e ammaliato e volevo continuare a parlarle.

Avevamo passati musicali simili, molto vicini al rock. “Come un po’ tutti, del resto”, direte voi, d’altronde per ogni millenials definibile tale deve esserci stata quella fase adolescenziale in bilico tra la rabbia e la ribellione e il loro opposto (che personalmente evidenzio come tutto ciò che riguarda quello che è populista e conformista e superficiale e pop e da discoteca e… potrei andare avanti per ore, ma non è questo il punto). Lei non aveva un passato metallaro come me, quello no, ma si era comunque innamorata di tutta quella musica di denuncia, di manifesto, di opposizione, quella che veicolava pensieri politici, dolore, sofferenza, quella che non aveva paura di parlare di tutto ciò che rientrava in quella grande scatola vuota che è il diverso.


Eppure, non era neanche solo questo: ad un certo punto, d’improvviso, probabilmente a causa di qualche bias o associazione euristica, mi aveva domandato di quale orientamento politico fossi uscendosene con “senza pensarci: destra o sinistra? Fai la tua scelta”. Ebbi l’impressione che si aspettasse una risposta ben precisa.
 Mi parve quasi confidare nel fatto che io le dessi il responso che si aspettava, come se sperasse che non fosse differente da quello che avrebbe dato lei se qualcuno le avesse posto quello stesso quesito; quasi come se, nel caso in cui quello che io sono (perché in certi casi l’ideologia politica definisce parte del proprio essere) avesse per qualche strano allineamento stellare coinciso con quello che lei presumeva, potesse effettivamente concedersi la possibilità di conoscermi e scoprire che in fondo in fondo potessi anche piacerle.

«Pff, domanda che non sussiste. Sinistra, ovvio», credo di non averla né delusa né stupita… non quanto fui stupito io nel vedere, per la prima volta, da quando parlavamo, un interesse sincero nei miei confronti. Avevo ovviamente soddisfatto le sue supposizioni, esattamente come lei soddisfò le mie con quel suo “oh, meno male” che mi mandò in risposta.


Parlammo e parlammo ancora e i giorni passavano: me ne restavano due per vederla e l’avevo informata a riguardo, eppure Annie continuava a rifiutare i miei inviti, come se avesse un qualche tipo di timore. Timore non tanto nei miei confronti, quello non sembrava interessarle troppo, quanto nei suoi. Era palese che ci fosse qualcosa che la bloccava, ma cosa? Non è così che fanno le persone? Non si conoscono per i motivi più disparati e poi, se notano che c’è un interesse, si incontrano, escono in solitaria, senza la presenza di altri, per vedere come va?


Dalle uniche due foto del profilo che avevo potuto scrutare, quelle di telegram e whatsapp, era una ragazza carina, sebbene avesse rifiutato di dirmi il suo cognome, impedendomi – più o meno volontariamente – di aggiungerla ai miei amici facebook o cercarla su instagram. Riflettendoci un poco, mi si aprirono tutta una serie di scenari in mente, ognuno dei quali approdava alla medesima conclusione: e se Annie non fosse la persona che diceva di essere? Ero stato vittima di un catfish? Cassandra mi aveva preso in giro? Cassandra mi aveva preso in giro, un’alternativa piuttosto plausibile. Magari adesso si stava divertendo con qualche suo amico o amica. Poteva essere, ma non potevo darlo per scontato. Anche perché in fin dei conti si era sempre comportata piuttosto bene con me.


«Mandami un audio, sono curioso di sentire il tuo accento, hai detto di essere toscana e io amo l’accento toscano», chissà cosa deve aver pensato di me quando dal niente me ne uscii così. Probabilmente lei stessa dedusse la cosa giusta.

«La mia voce fa schifo negli audio», che era un modo carino per non dire “questo mi crede un uomo/questo mi crede Cass/questo mi crede una qualsiasi persona, ma non me”. Se mi avesse risposto così avrebbe avuto ragione: era esattamente quello che pensavo.

Decisi che sarebbe dovuto spettare a me il compito di compiere il primo passo: «Farò lo stesso con te così anche tu sentirai la mia voce. Ciao, sono Max, piacere di sentirti. Dimmi tutto quello che vuoi, tutto quello che ti passa per la testa, mi accontenterò», le mandai un audio del genere, un audio che in realtà conteneva molte più parole con la lettera “b”, dettaglio che la fece sorridere mentre lo ascoltava, mi informò. D’altronde, erano anni che abitavo a Roma e metà della mia famiglia veniva comunque da lì: il mio accento era non poco marcato.

«Ciao Max, sono Annie. Sono un po’ a disagio e in imbarazzo nel fare questa cosa. Non so cosa dirti, perché non so chi sei. Quindi improvviserò e trarrò ispirazione da quello che mi sta intorno, ergo, la mia stanza», interessante, non posso biasimarla: in tempi di carestia d’idee, bisogna saper accogliere anche i più banali spunti.
«Ho una camera piena di oggetti: deve rappresentarmi in tutto e per tutto. Dunque, sulla parete intorno a mio letto sono affissi una serie infinita di poster, delle iniziative che ho organizzato, quelle a cui ho partecipato, di qualche rivista fica, tipo de “L’Espresso” o dell’“Internazionale”. Ho appeso a dei chiodi uno spago a cui ho attaccato un sacco di foto della mia infanzia, soprattutto con i miei fratelli, che sono le mie persone preferite nel mondo, e un sacco di cartoline dei luoghi che ho visitato. Subito dopo ci sono un po’ di biglietti dei concerti a cui sono stata, come i Pearl Jam o i Foo Fighters, per dirne un paio», uh, colpo al cuore, maledetto che non regge. «Ecco, poi vediamo… Devo proprio sembrarti un po’ scema, perdonami, ma non ho proprio fantasia, oltreché essere davvero tanto a disagio», ribadì, doveva esserlo davvero… Mi venne da sorridere un po’ ebete, apprezzando lo sforzo che stava compiendo per accontentarmi. «Ah sì, poi c’è la cosa che preferisco: un poster in A1 di Star Wars – Il ritorno dello Jedi, in versione originale, che era la copertina di un libro-fumetto da collezione. È enorme e si impone su tutto, d’altronde non che la Forza possa fare qualcosa di diverso. E poi niente, ho la tv e la Play Station ed un sacco di giochi super emozionanti, con cui non voglio annoiarti»

Ora come facevo? Ero fregato. Palesemente, nulla da fare. Totalmente e sfacciatamente fregato. Tutto per colpa di Cass e di uno stupido audio.

Le piaceva Star Wars, aveva dei giochi che definiva fighi (e mi fidai inconsciamente del fatto che lo fossero) e i due gruppi che aveva nominato erano tra i miei preferiti. Ero fregato.

«Sei un po’ nerd», asserii semplicemente, nella speranza che mi dicesse che sì, lo era e che lo era anche molto di più di quanto mi avesse detto in quel minuto e mezzo di sproloqui. «Vuoi vedere su cosa ho lavorato negli ultimi mesi? Se lo vedi tu muori male, ti avverto», inviai dopo aver sorriso un po’ tra me e me.


Lei nel frattempo mi aveva mandato quella meravigliosa gigantografia della copertina di Episodio VI, dio… E poi aggiunse un ulteriore audio, palesemente più tranquilla: «Comunque, nel tuo parlato, l’accento veneto lo senti altro che te, eh. Perdonami, ma proprio non lo hai, non che mi dispiaccia: va bene anche così» va bene anche così.

In tutta risposta le mandai la foto del mio Stormtrooper versione lego e poi i video di me alle prese con la sistemazione della colonna sonora d’allora nuovo episodio uscente, episodio VIII. Aver scelto di fare della musica la mia vita, sebbene in un modo meno canonico di quello che ci si aspetta – in qualità di tecnico del suono –, avrà pure i suoi pro. Ne rimase apertamente e palesemente ammaliata.


Era il momento di sondare il terreno ancor più in profondità, non potevo farmi sfuggire l’attimo; dovevo solo buttarmi e incrociare le dita: «Però, in tutto questo, preferisco Il Signore degli Anelli», ecco, lo avevo detto. O la va o la spacca.

«Ah, sì? Ora valuto il tuo livello di conoscenza in merito»

«Prego, signorina, vada»

Di tutta risposta, mi arrivò la foto di un tatuaggio, contenente una singola parola. Io l’avevo detto: F-R-E-G-A-T-O.
 Non potevo nascondere il mio stupore e le mandai in risposta un serie di messaggi a singole parole: «Aspetta. Aspetta. Cazzo. Non vorrei sparare una stronzata. Dovrebbe essere un soprannome, no? Non è Granpasso?»


Un cuore. La sua risposta fu un cuore seguito da un “Bravò” e aggiunse poi: «Se l’hai cercato nel mondo dell’internet, però, non vale, eh!»

«Figurati, sono troppo sicuro delle mie conoscenze per scadere così in basso. Cosa regala Galadriel a Gimli?»
«Pff, così scontato e semplice», mi prese un po’ in giro, «Una ciocca dei suoi fottutissimi capelli?»
«Allora, intanto ti calmi» scherzai un po’, «Erano tre, mia cara. Ma lui gliene aveva chiesta una soltanto»
 «Dai, direi che possa tranquillamente rientrare tra le risposte corrette. Comunque, temo di perderlo questo gioco, anche se a lanciarlo sono stata io, quindi direi di chiuderlo qua, in parità»

«Nîn o Chithaeglir lasto beth daer; Rimmo Nîn Bruinen dan in Ulaer!», le scrissi, stimolato dal momento – altissimo – che sentivo di star vivendo in quel momento.

«Ribadisco: questa cosa finirà male. Ho un secondo tatuaggio con scritto “I Aear cân van na mar”»
«Cos’è: il mare ci chiama o qualcosa del genere giusto? Scusa, non lo rileggo da molto»
«Si, è letteralmente “il mare ci richiama sempre a casa”. È ciò che Elrond dice ad Arwen quando devono partire. E comunque sì, non è quel tipo di libro che si presta alla lettura “come passatempo”»



BOOM.
 


Non so in che altri termini spiegarlo se non questo. Incredibile, davvero incredibile. Madonna, Cassandra, quanto ci avevi preso.

«TROVA DEL TEMPO PER ME», me ne uscii. Mi aveva totalmente conquistato, invaghito, catturato… in un modo che neanche avrei mai ritenuto possibile. Volevo vederla, adesso più che mai. Volevo coronare quel momento, concretizzarlo e raccontarlo ai posteri come “quell’attimo in cui avevo conosciuto LA persona della vita”, quell’attimo in cui mi aveva chiuso nella sua morsa e io non avevo fatto niente se non crogiolarmici dentro, trovandola la cosa più comoda, confortevole e naturale del mondo. Incredibile, davvero incredibile.

In risposta mi raccontò dei giochi da bambina, del Monte Fato che altro non era se non una dolce collinetta che tuttora rappresentava uno dei suoi luoghi preferiti nel mondo, nella quale anche lei poté prender parte alle grandi battaglie della terza era. Mi raccontò di come lo aveva letto la prima volta, il Signore degli Anelli, attraverso gli occhi di suo padre, il quale, accompagnandola a scuola alle elementari, mentre camminavano, le raccontava delle pagine in cui si era imbattuto la sera precedente prima di appisolarsi.


«Io piansi, quando vidi per la prima volta Il ritorno del Re, al cinema. Mi travolse completamente; sarà che ero piccolo, ma ha rivoluzionato il mio modo di vedere le cose. Anch’oggi mi emoziona e commuove in una maniera non comparabile a nient’altro»

«Io piango ogni volta. Senza vergogna o ritegno, per altro. Il discorso struggente di Sam in ricordo della contea, le aquile… come può una persona restare indifferente a cotanta meraviglia? Te lo dico io. È molto semplice: non può; ed è giusto così», sospirò e riprese: «Ma poi sono così invaghita e presa, che ho visto infinite volte ciascuno dei dischi dedicati ai contenuti speciali, tanto per non averne mai abbastanza e interfacciarmi appieno con tutto ciò che riguarda quel mondo. Penserai che forse sono un po’ esagerata, ops» Era ufficiale: non sarei potuto sopravvivere a tutto questo.


«Aaah», sospirai rumorosamente all’inizio dell’audio che le stavo mandando, quasi come per liberarmi di un po’ di quelle sensazioni che mi stavano pervadendo e che palesemente non stavo riuscendo a controllare o gestire, «Io… Io, pff… Attaccato al letto della camera a Roma ho l’anello, l’unico anello. Tipo come una presenza, un simbolo che vegli su di me ogni giorno. Ho tutti i cofanetti e quando sono usciti gli ultimi, con una versione dei film ancor più lunga, ho preso pure quelli. E li ho guardati, un numero inquantificabile di volte. Ho letto tutto ciò che potevo leggere e sto cercando di terminare I racconti perduti. Difficile, eh, però: tanto materiale»

Presi una pausa, fu doveroso: assolutamente necessaria per non implodere: «Ti capisco. Ti capisco perfettamente, in un modo che non avrei neanche mai ritenuto possibile. E basta: mi hai proprio conquistato. Non posso aggiungere altro. Non so, ti vengo a fare la serenata sotto casa, mi metto a suonare il flauto, il mandolino, ti procuro dell’erba pipa... Dimmi cosa posso fare per riuscire a farmi concedere un poco del tuo tempo, te ne prego»


«Quel sospiro iniziale… è tipo…», non terminò la frase. Rimase sospesa lì, nei meandri di una conversazione fatta di sguardi e gestualità, sebbene in assenza della condivisione letterale degli spazi, anche perché quello che stavamo condividendo in quel momento non vi sarebbe neanche potuto entrare.

«Ti è piaciuto eh? Era fatto più o meno consapevolmente. Perché… Boh, cioè… Non potevo, non… Aaaah, scusa. Dai, Annie, dai…», bene: ero pure arrivato ad un livello tale di coinvolgimento stile “adolescente alle prese con la prima cotta” da non riuscire neanche a formulare una frase con senso. Perfetto. Bravo Max, cosa mai ci saremmo potuti aspettare dai tuoi ventisei anni…

 

Sorrise, me lo sentivo, sorrise di fronte al mio essere completamente impacciato. «Eh, io, come ti dicevo, non sono in grado di darti garanzie, purtroppo». Non riuscivo a non pensare ai giorni precedenti: alla sua indecisione, al suo starsene sulle sue, al non esporsi, al rifiutarmi malamente; non riuscivo a non pensare a Cass, a quanto sospettavo che quella volta l’avesse fatta fuori dal vaso. E invece…
Eppure, quel purtroppo era tutto: per la prima volta, dal poco, ma intenso tempo che ci conoscevamo, aveva esplicitato un rammarico all’idea che effettivamente potessimo non vederci. In fondo, era ben più che probabile che anche lei desiderasse ciò che desideravo anche io.

E allora esplicitai questo tipo di pensieri, nel marasma dovuto a questa nuova consapevolezza che mi aveva fatto acquisire una sicurezza di cui non disponevo fino a quel preciso momento: «Sai, cara, ho il presentimento che tu adesso abbia cambiato idea. Sai perché? Perché ti ho fatto vedere il mio lato un po’ più nerd. E questa cosa ti è piaciuta. Altroché se ti è piaciuta, capito? Ti è piaciuta…», terminai sussurrando tra me e me, più rivolgendomi a lei.


L’avevo messa in un angolo, angolo poi non così claustrofobico: «Boh, sì. Alla fine, mi piacciono le persone nerd, le persone che ascoltano buona musica – o quella che io ritengo tale – e sì: mi è piaciuto. Per il modo di parlare, per le tue idee politiche – che vogliono pur sempre dire molto su una persona –, per come hai messo in luce le tue emozioni… Buono per te, direi, no?», buttò fuori di getto. Parlando velocemente e mangiandosi qualche parola nella frenesia. Mi fece tenerezza e al contempo mi sbalordii per la sincerità che mi dimostrò.



           L’ultimo messaggio lo inviai esattamente alle 4.08 del mattino: non lo vide, probabilmente era pian piano collassata. Come biasimarla, aveva pure un po’ di febbre e ciò nonostante era stata fino a quel momento a dialogare con me di tutte le stronzate che ci venivano in mente. Ammirevole, e sicuramente sintomatico del fatto che anche da parte sua, ormai, ci fosse un lampante interesse.

Mi sono sempre domandato, nella vita, come si potesse invaghirsi velocemente di qualcuno: non mi era mai successo. Di norma, infatti, la profondità e la sintonia che in qualche modo – per quanto in parte superficiale ed infondata – avevo percepito nel parlare con lei era qualcosa che cresceva nel tempo dilatato: non l’avevo mai provata di colpo, dal giorno alla notte. Eppure, era lì. E io non volevo fare altro se non abbracciarla e farla mia: non volevo neanche concepire l’ipotesi per la quale non avremmo potuto incontrarci e mi fossi fatto sfuggire l’opportunità di vivere appieno questa cosa.


La mattina dopo, a entrambi spettavano importanti appuntamenti, quindi non ci sentimmo fino al primo pomeriggio, momento in cui le chiesi come fosse andato il colloquio col professore a cui si era dimenticata di inviare parte del suo esame – benché l’avesse svolto – entro la scadenza; lei di rimando mi domandò se allora avessi dovuto cambiare occhiali dopo la visita. La mia risposta era positiva, mio malgrado, sarei andato subito a cambiare la montatura.


Alle dieci di sera le domandai a che punto fosse della sua importante riunione serale: «Eh, sono ancora qua: abbiamo chiaramente iniziato in ritardo, ed io non ho neanche cenato dopo il mio allenamento. Non so quanto durerà e sto tipo malissimo: ho un martello al posto della testa, vorrei strapparmela di dosso», sorrisi amaramente, dispiaciuto per la sua situazione e dispiaciuto perché quel tipo di risposta mi faceva prevedere l’ennesima buca. Non lo avrei accettato.

«Dai, ti porto io del moment, giuro, tutto pur di non farmi balzare di nuovo, domani parto...»
 «Eheh», rise un poco, «non credo di avere la forza nemmeno per fare due chiacchiere sui gradini di casa», terminò con uno strano tono, che non riuscii davvero a comprendere.

«Va bene», la assecondai, arrendendomi alla sua indecisione. Ne rimase spiacevolmente colpita, presumo.
 «A parte tutto, comunque, le circostanze in cui ci siamo incontrati non sono delle migliori. Tu che torni a Padova negli stessi periodi in cui di solito io torno a casa; adesso che siamo quindi insieme, ma io sono oberata dagli impegni… Non siamo proprio le persone più fortunate del mondo», quanta verità in quelle brevi frasi. Chissà, se ci fossimo conosciuti in frangenti differenti.


«Potrei anche dirti: "vieni qua sotto casa", giusto per fare un po’ di chiacchiere, ma nella consapevolezza che sarebbero davvero soltanto quello e che non ti chiederò di salire. In più, sappi che se tocco il letto muoio: sono arrivata a stare così male che non riesco nemmeno più a fumare, praticamente»

«Non fumerò, prometto che non fumo»

«Non fumerai? Non sarebbe un problema, non preoccuparti»

«Il moment quanto mi uccide lo stomaco se lo prendo senza aver mangiato prima?»

«Non troppo dai, il giusto»

«Ottimo direi. Guarda te a che punto sono arrivata. Mi salvi dal mal di testa, quando potrei semplicemente dormire, pff… cosa non si fa»

«Dai, suvvia, smetti di lamentarti: fra potrai godere di una compagnia a dir poco fantastica»

«Eh, se non mi addormento prima»

«Non ci provare. Salgo in bici e mi faccio i chilometri per te»

«Uhm… I chilometri, non prendermi in giro»

«Sono ben tre»

«Pensa, la stessa distanza che mi separa ogni mattina dalla facoltà»

«Ah, peccato, pensavo fosse la distanza che avevi messo tra te e il tuo letto. A cui, ribadisco, non ti devi avvicinare nemmeno per sbaglio»

«Tranquillo, mi sono messa nella posizione più scomoda del mondo, sdraiata sul pavimento. Non sarebbe possibile addormentarmi»

«Beh, io nel dubbio sto volando lì. Giuro. Tra l’altro, se tu potessi offrirmi una felpa al mio arrivo sarebbe stratosferico, ché ormai sono partito e mi son reso conto che si è fatto freschino ed ho solo una t-shirt»
 Aveva fatto la sua mossa e, come mi ero ripromesso, avevo deciso di coglierla. Aumentai la velocità delle pedalate sulla mia bici malconcia e mi sentii leggero come non mai.



  

         Non mi ero mai soffermato troppo a osservare l’argine del Bassanello, il canale che, in parte, mi separava dalla mia destinazione. L’acqua era scura e rifletteva la luce della luna, in una limpidissima e quiete notte. Prima non avevo notato la presenza del vento, ma il movimento dell’aria dovuto al mio andare più veloce che potevo era effettivamente un po’ oltre al banale “rinfrescante”, come se fosse davvero un problema, quello.
 Figuriamoci, erano mesi che non mi sentivo così in fibrillazione, sinceramente eccitato all’idea, più di quanto avessi preventivato. Non sapevo cosa aspettarmi e questo di norma mi avrebbe spaventato, ma, arrivato a quel punto, non mi balenava neanche in testa quel timore. Io avevo visto, di questo ero certo con tutto me stesso e adesso stavo letteralmente fluttuando. Mi allietai a quella presa di coscienza.

 

Padova in settembre è qualcosa di affascinante: è il periodo in cui pian piano si poteva assistere al ritorno degli studenti che popolano la città e in cui i colori brillanti dell’estate lasciano spazio a quelli caldi dell’autunno. Non avevo mai creduto nella meteoropatia, ma in quella notte sarebbe stato tutto perfettamente percettibile pure agli occhi di un osservatore sconosciuto. Il cielo era terso: ancora vi si poteva ammirare il triangolo estivo che lo dominava, tra le altre costellazioni. La luna, calante, era l’unica fonte di chiarore realmente apprezzabile nei dintorni e creava un affascinante gioco di luci e ombre tra le foglie degli alberi.

Era silenziosa, quella serata nel bel mezzo della settimana, forse perché troppo rumoroso ero io e i miei pensieri. Mentre proseguivo la mia corsa sul mio possente mezzo, tentai invano di proteggermi dal freddo che stavo provando, inconsapevole del fatto che avrei dovuto proteggermi da ben altro.


In lontananza si riuscivano ad ammirare le cupole di Santa Giustina sulle quali rimbalzava la luce dei lampioni che governano Prato della Valle, la piazza più grande della città. Panorama che, nella sua semplicità, mi aveva strappato un sorriso tra un respiro e l’altro. Mandai un messaggio ad Annie invitandola a scendere, visto che ero praticamente giunto, poi svoltai nell’ultima via prima di arrivare a destinazione: una zona residenziale poco dietro Prato, zona in cui di solito si trovano più famiglie che studenti, e invece eccola là.




           Annie portava una gonna beige con sopra una fantasia di disegnetti rossi, neri e panna, una canottiera nera col pizzo, un felpone nero con zip aperta e delle birkenstock ai piedi. In mano aveva la felpa destinata a me. Nel vedermi si scostò una ciocca di capelli dal viso, abbassando un poco lo sguardo e portandola fin dietro l’orecchio. Aveva una lunga chioma castana scura con dei boccoli non troppo definiti, gli occhiali sul naso e un po’ di borse sotto gli occhi: tutta una serie di dettagli che mi fecero sorridere al pensiero che avesse scelto di non sistemarsi per l’incontro che la aspettava. Non come se non fosse abbastanza importante da farlo, bensì il contrario. Forse lo era così tanto da tenerci particolarmente ad essere apprezzata per quello che era in quel giorno: una ragazza un po’ stanca, appesantita, febbricitante che, nonostante tutto questo, aveva deciso di vedersi con uno sconosciuto, solo perché qualcosa era scattato tra loro. Volli credere fosse questo il ragionamento che si era ritrovata a compiere.


Premette il pulsante d’apertura del cancelletto del giardino, arrivò verso di me e me lo aprì aiutandomi, così facendo, ad appoggiare la bici dentro il cortiletto, la notai scrutarmi nel mentre, poi mi guardò: «Piacere, io sono Annie» e mi porse la mano.

Io le sorrisi di rimando: «Piacere, Max», gliela strinsi e sentii dei brividi percorrermi la schiena e le braccia e il corpo tutto.

«Cavolo, se non avessi lavato il telo giusto ieri, avremmo potuto metterci sull’erba in giardino. Invece dovremo accontentarci dei gradini», se ne uscì, mentre tirava fuori il tabacco.

La osservai stupito: aveva detto che avrebbe evitato, visto come stava, e lei se ne accorse: «Ho deciso che non posso escludere la nicotina dalla mia vita, soprattutto adesso», mi rispose come se mi avesse letto la mente, poi si abbassò e si sedette.


«Tieni. È la mia preferita, un grande onere ed onore, sappilo», aggiunse poi porgendomi una felpa bordeaux. La indossai subito e mi pervase un odore misto a detersivo al borotalco e profumo di lei.
«Grazie, non hai davvero idea di quanto tu mi stia salvando. Sono tipo… un polaretto! Maledetto settembre, quando di giorno ci sono ancora venticinque gradi e la sera cala fino a quindici! Come fa una persona a saper vivere? Mah», rise un po’. Mi abbassai e mi misi accanto a lei. «Non hai idea di come mi sento adesso. Sono arrivato qua velocissimo. È davvero stranissimo. Non riesco a descriverlo a parole. Senti», le presi la mano e me la misi sul petto, per farle sentire quanto il mio battito fosse accelerato in quel momento, restando vago sulle ragioni di tale agitazione.

Annie mi fissò un attimo negli occhi, quasi a capire se le sue intuizioni rispetto alla mia affermazione fossero giuste: erano sicuramente giustissime. Cosa sono tre chilometri in dieci minuti? Niente che giustifichi l’accelerazione eccessiva del mio cuore.


Era un po’ in ansia, dopo aver chiuso la sua sigaretta passando delicatamente la lingua sulla cartina, la accese e aspirò. «Che pensi?», mi venne spontaneo chiederle.

«Non lo so. In che senso che penso? Che penso di cosa?»

«Che pensi in questo preciso istante, di me, della situazione, di tutto», cercai di chiarire.
Si girò e si guardò intorno pensante: «Alla fine hai fatto cambiare subito la montatura, giusto? Mi piacciono questi tuoi nuovi occhiali»

«Oh, primo scoglio superato. Sei la prima persona, a parte mia madre, che mi vede in questa veste. E l’opinione della mamma non conta davvero in certi casi, ti pare?»

«Li trovo un’ottima scelta, ti stanno bene. E comunque non sei l’unico a stare in quella situazione, sai?», mi rincuorò facendo un cenno col capo in direzione del mio petto e arrossendo leggermente, mentre si torturava il dito in cui portava un anello. Era palese quanto non si sentisse troppo a suo agio all’interno di quella situazione, allora decisi di parlare di qualcosa che le consentisse di sentirsi tranquilla e al sicuro, così che smettesse di preoccuparsi di avere il controllo su tutto ciò che la circondava e su quello che stava provando.



           Parlammo tantissimo, esattamente come avevamo fatto nei giorni precedenti, ormai era quasi l’una di notte. Subito rimasi coinvolto e colpito dalla sguaiatezza della sua risata, quella spontanea e reale che le prendeva quando sparavo una delle mie cazzate; e fui fin da subito lieto di riuscire a farla ridere con cotanta serenità.
 «Sai, non prendertela, ma è proprio divertente l’espressione che si forma sulla tua faccia quando ridi così», la presi in giro un po’, strizzandole un pochetto la guancia così come si fa coi bambini, le mi lanciò uno sguardo torvo più per questo gesto che non per l’uscita che le avevo fatto.

«Sai, da piccola ero costantemente circondata da persone che quando mi conoscevano si ritrovavano davanti una bambina col viso paffuto e queste guance immense: una calamita per tutte quelle mani. Ma vedi, il fatto è che… La mia pelle non è elastica, tipo… Non lo è affatto. Eppure, le persone non parevano capirlo e continuavano a stringerle. Le odio tutte. Però tu lo hai fatto con delicatezza, apprezzabile», mi sorrise di nuovo e allora fui io ad essere spiazzato e segretamente felice per questa sua ammissione.


Mi alzai di scatto e mi parai davanti a lei, abbassandomi poi alla sua altezza e prendendole le mani; Annie ne fu sorpresa: «Ti prego, ti prego: hai voglia di farmi un massaggio? Tipo qua tra spalle e collo, che ci ho preso tutto il vento venendo in qua… me lo devi», la supplicai indicandole il punto preciso.

«Ahaha, posso farlo se e solo se poi contraccambi»

«Andata»
«Dimmi se qualcosa non ti torna, se premo troppo o troppo poco e dove ti fa male più precisamente», disse spostandosi sul gradino più alto e permettendomi si sedermi tra le sue gambe divaricate, iniziando poi a massaggiare il trapezio.

«Va benissimo, è la cosa più rilassante del mondo», e mi lasciai cullare per dieci minuti dalle sue mani calde sulla mia pelle. Sapeva decisamente dove andare a toccare: quali sono i punti in cui spesso si formano le contratture e come fare a scioglierle o alleviare il dolore. Passò pian piano al collo e alle orecchie alla testa, che toccava delicatamente, provocandomi dei brividi. Ero totalmente assorto.


«Sai, anni e anni di sedute dal fisioterapista dovranno pur avermi lasciato qualcosa!», mi disse risvegliandomi dal mio stato di trance.

Rimanemmo così: con lei che metteva le mani tra i miei riccioli facendo movimenti circolari con le dita e io che stavo trovando la pace dei sensi; avrei potuto addormentarmi tra le sue braccia, tanto era naturale quel momento che stavamo vivendo. Io, quasi a cercare di contraccambiare quella rilassatezza che mi stava concedendo mi appoggiai con i gomiti sulle sue ginocchia e con le mani iniziai a fare quei medesimi movimenti impercettibili lungo le sue gambe.

Benché le dessi le spalle e non potessi vederla, percepii il suo desiderio di ritrarsi, che si palesò con lei che per qualche secondo interruppe il gesto a cui mi stava abituando. Non volevo metterla a disagio col mio tocco, ma semplicemente partecipare attivamente a quell’interazione che ci stava legando.

«Cosa ti spaventa?», le domandai continuando a sfiorarla sul polpaccio.


Si ritrasse definitivamente: «Io non… Non so. Quello che sento, probabilmente. Mi spaventa il fatto che non mi senta pronta a questo tipo di sensazioni… eppure sono qui»

«Sappi che non ho la benché minima intenzione di fare una qualsiasi cosa che possa metterti a disagio. Solo… è un bel momento questo, no? Non averne timore», mi girai a guardarla con la coda dell’occhio, «Dai, scambiamoci. Ti restituisco il favore», decisi per cercare di spezzare e limitare quel suo allontanarsi emotivamente da me.

Si alzò e spostò davanti, si mise giù, le gambe distese e le spalle un po’ crucciate in avanti, continuando in quella sua chiusura. Non lo avrei accettato.


«Per farti fare un massaggio minimamente decente, mia cara, dovrai stare molto più dritta e rilassata rispetto a come sei adesso, sappilo», allora le puntai una mano nella parte alta della schiena, proprio al centro, e con l’altra le portai indietro una spalla, per farle capire il movimento, che imitò con l’altra.
 Sbuffò di soppiatto ridendo un poco.

«Ora devi lasciarti stare tra le mie mani. Se rimani sostenuta rischio soltanto di provocarti ulteriore dolore, pallavolista rotta»

«Ok, amico. Sia mai di peggiorare la situazione del mio corpo, che è già abbastanza a puttane»
E allora e solo allora, si lascio andare. Le legai i capelli in malo modo, onde evitare di tirarglieli per sbaglio, e cominciai. Trovai sbalorditivo quanto il suo corpo rispecchiasse perfettamente il suo modo di essere: era tirata, contratta, rigida; inconsciamente, di tanto in tanto, si opponeva a quel massaggio confortevole che mi accingevo a procurarle, ma quando si dava l’opportunità di goderselo, permetteva al suo corpo di muoversi in simbiosi col mio tocco, andando a creare una danza di rilassatezza di cui palesemente aveva bisogno.

«Non so che tipo di impressioni avresti di me se solo tu potessi vedere la mia faccia in questo momento», iniziò a ragionare ad alta voce.

«Perché?»
«Oh, beh… perché credo stia oscillando tra l’"oh mio dio ora mi addormento da quanto sto bene" e tutta una serie di smorfie facciali legate alla sofferenza»

«Oh, no! Ma tu fammelo presente se premo troppo e ti faccio male!», rallentai preoccupato.
«No, figurati, cioè: è un tipo di dolore che mi fa stare bene. Continua tipo all’infinito, tipo in eterno, tipo sempre, te ne prego! Sono drogata di massaggi!», mi rassicurò ridendo; e come richiedeva, così feci.

Pian piano che proseguivo, involontariamente, avevo iniziato ad avvicinarmi sempre più a lei, spostando il mio busto in avanti. Avevo potuto sentire il suo respiro stabilizzarsi e farsi lento, sintomo del fatto che si stesse effettivamente abbandonando. Fui ammaliato dalla consapevolezza dell’effetto che stavo avendo ed anche un po’ agitato all’idea che di nuovo si allontanasse da me se avesse scoperto la mia vicinanza, che non era soltanto fisica, bensì emotiva… soprattutto emotiva.

Le tolsi l’elastico, quasi per avvertirla che di lì a poco avrei terminato col mio lavoro, e iniziai a trillarle i capelli, seguendo le onde dei suoi boccoli, come aveva fatto lei coi miei. Parve apprezzare quel mio gesto e, nella timidezza, strinse un po’ le spalle, incrociò le braccia ed iniziò a strusciare le mani tra il collo e la clavicola. Poi lasciò la testa cadere all’indietro, fino ad appoggiarla al mio petto, non troppo distante dal mio mento.

Rimanemmo in quella posizione, taciti, per qualche minuto. Non avevo mai ascoltato così tanto in così poco rumore; davvero: tuttora, trovo stupefacente quanto fossimo a nostro agio l’uno con l’altra. Avevamo una sintonia ed una tensione che, sono sicuro, avrebbe potuto essere percepita anche dall’esterno da noi. Stavamo lasciando incontrare il flusso delle nostre emozioni, che si muoveva al ritmo concesso dai soli nostri respiri.
«Domani devo tornare a Roma», affermai amareggiato. Se solo non mi avesse dato buca tutte quelle volte, se non avessimo aspettato la mia ultima notte in città per vederci, se Cass me l’avesse presentata prima, se solo le circostanze fossero state almeno un poco più clementi con noi… «Non voglio invadere i tuoi spazi, li rispetterei, qualora non volessi rispondermi, ma… Perché non hai accettato subito? Di cosa avevi paura?»
«Di cosa, chiedi? Di tutto, ovviamente. Avevo solo il timore di non piacerti, ho sempre il timore di non piacere»
«Ma tu hai una gigantografia di Star Wars, ascolti musica che piace anche a me, sei di sinistra – fermamente convinta, tra l’altro – e ti fai guidare dal Maestro Tolkien nella vita… Potevi essere pure un porcellino d’india incapace di proferire parola: ormai mi avevi già catturato!», sdrammatizzai, cercando di non prendermi comunque gioco delle sue insicurezze e cercando di rassicurarla.

«Beh e “questo” a te non ha spaventato da morire?», chiese indicando se stessa e poi me.
«Assolutamente, ma solo perché so della mia imminente partenza»


Allungò il braccio all’indietro, riprendendo a toccarmi i capelli con la mano, mano che presi e che portai sulla mia guancia, perché sentivo che si era creata una confidenza tale da poterlo permettere, e mi ci strofinai leggermente. Gliela baciai, prima che sfuggisse dalla mia presa. Poi strinsi a me il suo corpo, respirando il profumo dei suoi capelli. Sapevano di cocco e qualche olio che non ero stato capace di distinguere: «Che prodotti usi per i capelli?»

Mosse la testa ed accennò un gesto con la mano, come per chiedersi il perché di quel tipo di domanda in quel momento, ciò nonostante mi rispose: «Attualmente uno shampoo all’olio di mandorla e un balsamo al cocco. Sono tipo i miei preferiti: mi lasciano i capelli morbidi. Speciali. Perché?»

«Volevo solo avere la chance di ricordarlo»




           Sarei voluto restare in quel modo ancora a lungo, con lei appollaiata tra le mie gambe e io che avevo l’opportunità di godere della sua presenza.

Continuammo a parlare ancora per qualche ora, toccando ogni argomento possibile e sorprendendoci a vicenda per la vicinanza del nostro modo di vedere la vita e il mondo, per la vicinanza dei nostri pensieri e per quella delle nostre emozioni. Poi si fecero le cinque e realizzai di dover dormire almeno sei ore prima di poter affrontare il viaggio.


Tergiversai per un’altra ventina di minuti, ma anche lei aveva percepito che era il momento: «Non ti tratterrò più a lungo di così. Vedo che vuoi restare, ma sai di non poterlo fare. Quindi smetti di sparare una cagata dietro l’altra per continuare a stare qua a ridere e scherzare», la guardai un po’ torvo per il modo schietto con cui mi aveva parlato, «Dai, non sto dicendo che non vorrei che tu restassi, ma solo che mi hai informata del fatto di dover andare a lavoro appena giunto a Roma e so del disagio di affrontare i viaggi con Trenitalia con la morte addosso!», fece una pausa, «Magari il tempo di un’ultima cicca? D’altronde, la cicca della buonanotte è d’obbligo, ti pare?!»

Le sorrisi e annuii: «Ovvio, la cicca della buonanotte non si nega a nessuno, sarebbe proprio maleducato da parte mia e io non vorrei mai esser considerato tale»


 Passammo quegli ultimi minuti che avevamo a disposizione a parlare del “domani” che ci aspettava, quello imminente e quello futuro, evitando di domandarci a vicenda come vi avremmo inserito quel “noi” che avevamo creato. Non so se valesse anche per lei – dopo quella sera ho sempre presunto di sì –, ma io me lo domandai interiormente per tutto il tempo restante. Poi il tempo scadde e noi non ne avevamo più a disposizione da concederci vicendevolmente.

«Max… è stato davvero un piacere», corrucciò le labbra mentre mi osservava, annuendo impercettibilmente, a conferma di ciò che stava asserendo.

«Giuro che mi farò perdonare per la mia partenza di domani»

«E io per non aver acconsentito a vederti una settimana fa, quando me lo avevi domandato per la prima volta, ma ormai è inutile dispiacersene», e a quel punto fu lei ad abbracciarmi e stringermi e farmi sentire il calore della sua pelle e del suo cuore… e io… ormai avevo preso il volo già da qualche ora, chissà se sarei anche stato capace di atterrare poi.


Mi staccai a quel pensiero e le diedi un bacio sulla fronte, Annie di tutta risposta mi accarezzò la guancia coperta da un po’ di barba. Ci fissammo di nuovo negli occhi: c’era un bacio sospeso nell’aria. Sicuramente entrambi lo sentimmo, sicuramente nessuno dei due aveva avuto il coraggio di permettere all’altro di coglierlo. Ne abbiamo impedito il suo naturale concretizzarsi. Allora, le strinsi di nuovo, ma ancor più dolcemente, la guancia con le dita, ridendo un po’. Raccolsi il mio tabacco da terra, recuperai la mia bici e uscii dal cancelletto.

Annie mi aveva guardato in ognuna di quelle azioni e mi guardava anche in quel momento, mentre mi accingevo a sedermi sul sellino, pronto alla partenza, la sua mano posata sulla guancia con la quale avevo appena giocato: «Ciao», mimò con le labbra, senza che le uscisse alcun tipo di suono, e con quella stessa mano accennò un saluto. Sorrisi ancora e le feci un cenno col capo incrociando il suo sguardo, un po’ più vuoto di prima, sperando di farle arrivare nitide le mie emozioni, poi mi voltai e tornai sulla via di casa.




           Sono passati due anni da quella sera. Non ho mai restituito ad Annie la sua felpa preferita, che mi sono dimenticato di togliere prima di partire e che lei aveva dimenticato di richiedermi.

Quella felpa l’ho persa, tanto tempo fa, esattamente come ho perso la possibilità di avere Annie nella mia vita in un modo meno effimero di quello che abbiamo avuto. Non l’ho più vista o più sentita: quella luna calante era tramontata innumerevoli volte ed aveva dato spazio a tante nuove lune. Di tanto in tanto la penso, sicuro che valga lo stesso per lei, e ogni volta che lo faccio mi rinnamoro di ciò che un pomeriggio ed una notte siamo stati.

Ci siamo persi, noi due… Persi in noi stessi, negli altri, nell’altro. Non c’era spazio per la reciproca presenza nelle rispettive vite, perché noi quello spazio abbiamo deciso di non concedercelo. Non c’era tempo, non c’era occasione.
Eppure, abbiamo avuto tutto: abbiamo percepito ed assaporato un’intensità rara e preziosa. Ci siamo cristallizzati al di sopra delle nostre vite e delle nostre realtà, elevandoci laddove ogni eventualità è possibile e percorribile… e siamo stati perfetti.


Non abbiamo condiviso nulla, ma al contempo abbiamo condiviso tutto: benché la quotidianità e le circostanze entro le quali ci siamo mossi abbiano avuto un peso tale per cui siamo stati eterni solo in quell’attimo circoscritto, noi in quello stesso attimo siamo un “per sempre” che niente potrà mai spezzare.
Alle volte mi capita di sentire odore di cocco o olio di mandorla e, in quel momento, di domandarmi come saremmo potuti evolvere, quanto più profondamente avremmo potuto impararci, quanto saremmo stati adatti l’uno all’altra. Eppure, al di là dei “non detti” e della precarietà della conoscenza che avevamo potuto apprendere, io l’ho sentito quel fuoco dentro, quelle farfalle nello stomaco, quella tensione emotiva e sessuale che mi ha tenuto scombussolato per una serie innumerevole di giorni.


Ed allora continuiamo ad esser lì, consapevoli di poter contare sempre sul ricordo di quelle sensazioni creatrici di un amore e una passione nei confronti delle sfaccettature della vita che mi muove tutt’oggi. Continuiamo ad esser lì, a fluttuare nel marasma delle eventualità che non abbiamo percorso, delle scelte che non abbiamo compiuto, a metà tra il rimpianto delle occasioni perdute e la speranza di quelle che così facendo abbiamo potuto accogliere.

E là, in quella trepidezza, ci siamo dispiegati e placati ed abbiamo trovato la nostra serenità.





  

LOOK AT ME!
Allora, qualche premessa che a questo punto appare doverosa:
1. Tutti questi racconti parleranno d'amore;
2. Non tutti ne parleranno in quest'accezione per lo più da luogo comune.
In generale, infatti, saranno molto più rivolti all'amore per la vita, alla “stupefacenza” della vita.
Ci tenevo a fare questo tipo di specificazione perché non vorrei che questa raccolta venisse inconsciamente inserita nel calderone delle "storie romantiche" (sempre nell'accezione di cui parlavo prima, obv), perché non nascono per essere inserite lì, ecco.
Detto ciò, spero che la lettura sia stata piacevole. Finalmente sono riuscita a terminare questo racconto che era solo abbozzato da molto molto tempo.
Come al solito, mi farebbe davvero piacere ricevere opinioni, spunti, critiche :)

Alla prossima,

 Bongi

 

   
 
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