Salve
a tutti i lettori della mia storia.
Ho
deciso di anticipare di qualche giorno la pubblicazione del secondo
capitolo. Ho voluto dare un po’ più di materiale
ai lettori, sperando che decidano di lasciarmi qualche commento in
più!
Scherzi
a parte, mi farebbe molto piacere leggere le vostre opinioni:
è molto tempo che non scrivo una fanfiction, e vorrei
veramente scoprire cosa ne pensate, anche se dovessero essere commenti
negativi.
Grazie
mille, e buona lettura!
CAPITOLO
UNO
La
prima cosa che vidi, quando aprii nuovamente gli occhi, fu la luce
entrare dalle grandi finestre a sesto acuto dell’infermeria.
Anche mentre cercavo di scrollarmi di dosso il sonno, non feci fatica a
capire che il mio tentativo era fallito: non ero tornato a casa, non
ero in un ospedale o nella mia camera. Ero ancora nello stesso luogo.
Un luogo straniero, e che allo stesso tempo mi era fin troppo
familiare. Girando lentamente la testa a sinistra, vidi Harry russare
placidamente nel letto accanto a me, gli occhiali appoggiati sul
comodino. Accanto al suo letto era posata una borsa. Sapevo che cosa
conteneva: i resti della sua scopa, distrutta dal Platano Picchiatore
dopo la partita contro Tassorosso, nel novembre del suo terzo anno di
scuola.
Ricordarmi
quel dettaglio fu più che sufficiente a farmi rischiare un
crollo nervoso, e dovetti trattenermi dall’urlare. Non era un
sogno! Era folle, assurdo, delirante, completamene
impossibile… eppure era vero! Non ero più nel mio
mondo. Non ero in alcun modo in grado di trovare una spiegazione
razionale a quello che stava succedendo, eppure in quel momento io
stavo guardando l’infermeria di Hogwarts!
Hogwarts…
era impensabile. Mi voltai di nuovo a guardare Harry, che continuava a
dormire senza avere idea della situazione nella quale versava quello
che, per lui, era un semplice compagno di scuola. Io, dal canto mio,
dovetti ammettere con me stesso di stare osservando quello che era
stato con ogni probabilità il più grande eroe
letterario della mia infanzia e della mia adolescenza, che in quel
momento era vivo e vero a pochi metri da me.
Le
mie viscere si rovesciarono letteralmente, ed avvertii un conato di
vomito. Cercando di fare meno rumore possibile, mi catapultai verso una
porta laterale, sperando che fosse il bagno. Per mia fortuna, avevo
indovinato, perché feci appena in tempo a chinarmi sul water
prima di vomitare tutto quello che avevo nello stomaco. Ci misi quasi
un minuto prima di riprendermi a sufficienza da trascinarmi fino al
lavandino e sciacquarmi la bocca. Con una certa dose di timore, alzai
lo sguardo verso lo specchio. Quello che vidi mi costò quasi
un infarto: il volto che mi osservava non era il mio… e allo
stesso tempo lo era. Conoscevo bene quella faccia, anche se non la
vedevo da molto tempo: quello che avevo davanti ero
io…dodici anni prima. Nello specchio c’era un me tredicenne
che mi fissava stupefatto: quello che stavo guardando era il volto
paffuto di un ragazzino appena entrato nell’adolescenza,
senza ancora neppure un accenno di barba. Riconobbi tutto: i capelli
lisci, castani chiarissimi, lunghi sulle tempie come li portavo alle
scuole medie; gli occhi marroni con un chiaro riflesso verde, in quel
momento sgranati dal terrore; il naso leggermente schiacciato; perfino
uno degli incisivi inferiori leggermente storto. Tutto perfetto, tutto
identico. Abbassai lo sguardo: anche fisicamente ero perfettamente
identico a come ero stato dodici anni prima. Ero relativamente alto per
la mia età, e abbastanza robusto, anche se con un accenno di
pancia, memoria di un bambino grassottello cresciuto di colpo in
altezza due anni prima.
Aprii
nuovamente la cannella e mi passai più volte
l’acqua gelata sulla faccia, nel tentativo di schiarirmi le
idee, poi mi trascinai al mio letto e vi crollai sopra, stanco come
dopo una maratona. La notte di sonno aveva fatto sparire quasi tutti i
dolori, ma mi sentivo ugualmente a pezzi. Respirai lentamente, cercando
di fare ordine nella mia mente. Ormai era chiaro che ero finito,
chissà in quale modo, in un mondo che sarebbe dovuto
esistere solo nei libri. Ero entrato nella storia di Harry Potter, e in
quel momento ero nel corpo di uno studente di Hogwarts.
‘Calmo,
devo stare calmo. Farmi prendere dal panico non migliorerà
in alcun modo la mia situazione. Devo cercare di riflettere’.
Il problema era che nella mia memoria c’era un vero e proprio
ciclone, con ricordi che si sovrapponevano apparentemente senza alcun
controllo: da una parte c’era la vita di Matteo Simoncini,
venticinque anni, studente italiano prossimo alla laurea in storia
contemporanea; dall’altra, però, oltre quello che
avrei potuto descrivere solo come un denso banco di scurissima nebbia,
avvertivo la presenza di altri ricordi, dei quali riuscivo ad afferrare
solo dei frammenti, dei flash, ma che sembravano premere per uscire.
‘Devono
essere i ricordi dell’altro me, di questo ragazzo, di quello
che sto impersonando’ mi dissi, cercando di trovare un filo
conduttore nel caos. Già il mio
‘personaggio’, però, poneva un problema
non da poco: avevo letto tutti i libri di Harry Potter almeno una mezza
dozzina di volte, e la partita nella quale Harry cadeva dalla colpa
faceva parte del terzo tomo. Purtroppo, a meno che non mi stessi
perdendo qualcosa di fondamentale, solo Harry era caduto in quella
partita. In maniera confusa, ricordavo di aver giocato da cacciatore in
sostituzione di…di… di Alicia Spinnet, che si era
presa una bronchite allenandosi sotto il diluvio, e di essere caduto a
causa di un bolide che mi aveva colpito alla nuca. Nel libro che
ricordavo io, però, nulla di tutto ciò era
successo: Alicia aveva giocato regolarmente, e solo Harry si era fatto
male. Un momento: mi stavo preoccupando delle modifiche improvvise alla
trama di un libro quando mi trovavo intrappolato in un mondo di
fantasia?
‘Ok,
un problema alla volta. Cerchiamo di andare con ordine’. Mi
resi subito conto che chiedermi in che modo ero finito lì mi
avrebbe comprato solo un biglietto per l’ospedale
psichiatrico più vicino. Non avevo neanche mezza
possibilità di capirlo, andava decisamente oltre le
capacità del mio cervello. La sola ipotesi che ero in grado
di fare era che l’incidente mi avesse, in qualche modo,
catapultato in quel mondo. Come fosse possibile che esistesse
fisicamente un universo partorito dalla mente di una scrittrice, e come
avessi fatto io a finirci dentro, mi era impossibile capirlo, e per
assurdo, non era neanche particolarmente importante. La cosa
fondamentale era che qualcosa mi ci aveva trasportato, e che non avevo
idea di come poter tornare alla mia vita di prima. Sempre che
– e qui un brivido mi attraversò la schiena
– avessi ancora una vita alla quale tornare.
L’immagine dell’albero mi invase la testa:
l’ultimo evento che mi aveva riguardato nel mio mondo era
stato un terrificante incidente stradale. Forse – secondo
brivido – ero morto, e quello nel quale mi ero ritrovato era
l’Aldilà. Cercai di scartare questa ipotesi come
semplicemente troppo assurda: sembrava la trama di un pessimo fantasy.
La misi da parte, anche se una minima parte della mia mente non
riuscì a lasciarla completamente perdere.
‘Bene,
per prima cosa mettiamo i punti fermi: mi trovo nel modo di Harry
Potter, per la precisione poco prima della metà del suo
terzo anno, e non so come uscirne. Cosa devo fare?’.
Incredibilmente, la soluzione era molto semplice: se non potevo
andarmene, dovevo restare. Dovevo vivere quella vita, nella speranza
che mi si presentasse l’occasione per tornare alla mia
normale esistenza. Nel frattempo, sarei stato uno studente tredicenne
di Hogwarts. Un momento, ecco il secondo problema: chi diavolo ero io?
Avevo già appurato che la partita da me giocata contro
Tassorosso sotto il fortunale stonava con la storia ufficiale, ma in
generale non avevo alcun ricordo del mio personaggio nei libri. Tanto
per cominciare, come accidenti mi chiamavo? Non Matteo Simoncini, di
questo ero sicuro. Vediamo… Madama Chips e la professoressa
Mc Grannitt (sì, ormai potevo chiamarle così) mi
avevano chiamato ‘signor Carter’, e Harry mi aveva
apostrofato come ‘Josh’. Provai a scavare nella mia
memoria, andando a cozzare contro il muro di nebbia… ecco,
vedevo qualcosa… Joshua Carter! Ecco il mio nome! Joshua
Carter... un momento: chi diavolo era Joshua Carter? Non ricordavo
nessuno, nella saga di Harry Potter, con un nome simile. Cercai di
scartabellare i miei ricordi dei sette libri, e già in quel
momento vidi le prime avvisaglie di qualcosa di strano: nonostante in
teoria dovessi conoscere a menadito tutta la storia dei sette anni, per
quante volte avevo letto la storia, i miei ricordi erano chiari e
nitidi solo fino ad un punto ben preciso: la partita contro Tassorosso
del giorno prima. Avrei potuto ripetere quasi giorno per giorno quello
che Harry, Ron, Hermione e tutti gli altri avevano fatto nei primi due
anni della loro carriera scolastica, dalla difesa della Pietra
Filosofale alla battaglia contro il basilisco, fino
all’incidente di Harry con sua zia Marge
dell’estate precedente, tutto fino al giorno prima.
Più avanti, però, le cose cambiavano nettamente:
dal giorno dopo i miei ricordi erano oscurati, annebbiati, confusi.
Riuscivo a strappare solo qualche barlume. In quel momento non ci feci
granché caso, attribuendo il fatto allo stato confusionale
nel quale versavo.
In
ogni caso, una cosa era sicura: nei primi due anni e mezzo della storia
non c’era alcun Joshua Carter. Non era un personaggio creato
dalla Rowling. Qualsiasi forza mi avesse scaraventato in quel mondo,
sembrava aver pensato a tutto: non solo aveva inventato un personaggio
specifico nel corpo del quale inserirmi, ma sembrava avergli costruito
anche un background che lo amalgamasse agli altri personaggi,
modificando la storia quel tanto che bastava perché
‘Joshua Carter’ ne entrasse a far parte.
C’era
solo un piccolo problema: della storia di questo nuovo
‘me’ io per il momento ricordavo poco e niente. A
giudicare dalla matassa di nebulosi ricordi che occupavano la mia
mente, ero certo che prima o poi avrei recuperato i ricordi della vita
di Carter, ma per il momento come avrei fatto a presentarmi agli altri?
Ah, ma la ‘forza misteriosa’ aveva pensato anche a
questo! L’illuminazione mi giunse come un fulmine: la
partita! Mi era stata fornita la scusa perfetta per una memoria
ballerina: un bel colpo in testa, ed i ricordi confusi o mancanti
diventavano perfettamente spiegabili. Chiunque, o qualsiasi cosa mi
avesse voluto lì, si era impegnato di brutto
perché la mia presenza fosse più che
giustificata. Una conclusione leggermente inquietante, in effetti, ma
in quel momento non me ne preoccupai più di tanto, avevo
già sufficienti pensieri.
“Vedo
che si è svegliato, signor Carter. Voglio sperare che questo
significhi che si sente meglio”.
Alzai
gli occhi: Madama Chips stava uscendo dal suo ufficio, un sorriso
rassicurante sul volto.
Mi
passai la mano sulla faccia, simulando una sofferenza molto superiore
rispetto a quella che realmente provavo: “Ancora un
po’ dolorante, Madama Chips, ma decisamente meglio di ieri.
Ho ancora un po’ di mal di testa e di dolori alle ossa, ma
migliorano velocemente”.
“Ne
ero sicura. In fondo, ho visto infortuni molto peggiori del suo. E per
quanto riguarda la memoria?”.
Scossi
la testa: “Non bene. Ricordo bene l’incidente, ma
il resto è una serie di flash, di frammenti. So di
chiamarmi Joshua Carter, di essere un Grifondoro del terzo anno, e di
aver fatto un bel volo dalla scopa ieri, ma poco altro”.
L’infermiera
della scuola sembrava molto sorpresa: “Una reazione molto
forte, anche per un colpo in testa violento come quello che ha
incassato lei. Non ha proprio altri ricordi chiari? Non si ricorda, per
esempio, della sua famiglia?”.
Prima
che potessi inventarmi qualcosa per rispondere, visto che della
famiglia di Joshua Carter non ricordavo in quel momento niente di
niente, Harry, forse disturbato dalla nostra conversazione,
iniziò a muoversi, e pochi secondi dopo sollevò
la testa dal cuscino, afferrò gli occhiali dal comodino e li
indossò: “Buongiorno, Madama Chips”
disse, mentre il suo sguardo si abbassava sulla sacca contenente i
miseri resti della sua scopa. Vidi i suoi occhi adombrarsi.
“Buongiorno,
Potter. Vedo che anche tu ti stai riprendendo – disse
l’infermiera, mentre i suoi occhi correvano ai rimasugli di
legno e saggina – Ho aspettato che ti svegliassi prima di
buttarla, immagino fossi affezionato alla tua
scopa…”.
“No
– rispose seccamente Harry, lo sguardo ancora cupo
– La prego, non la getti”.
“Potter…-
riprese Madama Chips, con voce quasi compassionevole – mi
dispiace molto, ma credo tu ti renda conto che non è
riparabile, è ridotta in pezzi…”.
Harry
scosse nuovamente la testa, poi, quasi a troncare la discussione, si
girò verso di me: “Tu come ti senti, Josh? Hai
fatto un volo quasi peggiore del mio”.
“Fisicamente
abbastanza bene – risposi, con una sincerità
insolita per uno nella mia situazione – E’ la testa
che non va”.
“Ancora
problemi di memoria?” chiese Harry, con una nota di
preoccupazione.
“Già.
Tutto quello che è successo prima di ieri sera sembra
avvolto nella nebbia” dissi mestamente. Un attimo dopo, mi
venne un’idea. Era assurda, ma forse poteva avere qualche
speranza di riuscita. Probabilmente sarebbe stato come prendere a calci
una macchina ingolfata, ma tanto valeva provare:
“Perché non mi racconti quello che sai di me? -
chiesi ad Harry – Può darsi che, con un
po’ di stimolo, la mia memoria si decida a tornare a
funzionare”.
In
realtà non ci contavo molto, ma ero sinceramente curioso di
sapere qualcosa di più riguardo alla vita di Joshua Carter,
il ruolo che io, per così dire, mi stavo trovando ad
interpretare.
Harry
mi osservò sorpreso per qualche secondo, poi rispose:
“Posso provarci, ma devo ammettere che ancora non so
moltissimo di te, sei arrivato solo da tre mesi. Ci hai raccontato di
essere di padre americano e di madre gallese. Sei nato a Filadelfia, e
hai frequentato i primi due anni a Ilvermorny. Poi i tuoi genitori
hanno divorziato, e tu sei tornato in Gran Bretagna con tua madre e tua
sorella…”.
“Sheila!”
lo interruppi. Incredibile a dirsi, aveva funzionato. Le parole di
Harry avevano aperto una breccia nella nebbia della mia memoria, e
alcune informazioni erano riuscite a farsi strada: “Mia
sorella si chiama Sheila, ha dieci anni, e inizierà a
frequentare Hogwarts il prossimo settembre. Mia madre si chiama
Katherine Jones, lavora come erbologista. Mio padre è
Benjamin Carter, lavora per il MACUSA, il Ministero della Magia
americano, e non lo vedo da giugno, da quando c’è
stato il divorzio. Ho conosciuto te e gli altri il primo di settembre,
sul treno per Hogwarts, e la stessa sera il Cappello Parlante mi ha
smistato a Grifondoro”.
Avevo
ripetuto quelle informazioni come una sorta di apparecchio elettronico,
e ad Harry non poté che sfuggire una risata:
“Niente male, considerando che hai detto tutto praticamente
senza riprendere fiato! Altro?”.
Iniziai
a ridere anche io: “No, per adesso no. Immagino che il resto
tornerà con il tempo”.
Era
esattamente quello che pensavo: nell’assurdità
della mia situazione, la sola cosa che potevo fare era aspettare e
stare a vedere. Non avevo la minima idea di quello che mi aspettava in
quel mondo, che mi era allo stesso tempo nuovo e conosciuto. Ancora non
riuscivo a ricordare gran che di quello che, secondo la storia
‘ufficiale’, sarebbe accaduto negli anni
successivi, ma sapevo che presto le cose si sarebbero fatte difficili,
addirittura drammatiche. C’era qualcosa
nell’aria… una tragedia che incombeva, ancora
distante, ma in avvicinamento. In quel momento ero certo che mi sarebbe
venuto in mente tutto, e che forse sarei addirittura riuscito ad
evitarla, qualsiasi cosa fosse. Casa mia non mi era mai sembrata
più distante, non sapevo se sarei mai riuscito a tornarci,
ma ero consapevole di una cosa: se volevo sperare di trovare un sistema
per tornare ad essere Matteo Simoncini, il solo modo era vivere come
Joshua Carter.
La
porta dell’infermeria si aprì, e la squadra di
Quidditch al completo, questa volta accompagnata anche dal capitano
Baston e da una convalescente Alicia Spinnet (accidenti, le avevo
sempre immaginate carine le tre cacciatrici di Grifondoro, ma erano
addirittura meglio di quanto credessi!). Erano venuti tutti a visitare
i loro compagni infortunati. Con un sorriso, tornai nel ruolo di Joshua
Carter e mi preparai ad accoglierli.