CAPITOLO
III
Gli
occhi di Russell sono di una delicata sfumatura azzurro cielo, qualcosa che non
può davvero essere associato al cielo di questo pianeta, pardon luna, non
nelle ore diurne perlomeno. Nell’incrociare i suoi esprimono un’espressione che
non le capitava di vedere da una vita. Compatimento. Simpatia.
“Clarke
Griffin,” la saluta con un cenno rispettoso, invitandola a sedersi con un ampio
gesto del braccio. Un modo per farle capire che in questo incontro la riconosce
come suo pari. “I racconti delle tue gesta ti precedono.”
Clarke
schiocca la lingua e gli si siede di fronte. La tavola riccamente imbandita le
provoca una violenta ondata di nausea. Pensa a Bellamy e si
chiede se anche lui abbia provato lo stesso, se anche lui si sia sentito
intrappolato in questa versione distorta di ricordo. Persone riverse su
tavole apparecchiate come se fossero addormentate, unico indizio di quanto
successo gli sfregi tumefatti sulla loro pelle già fredda, le smorfie di dolore
e terrore sulle loro bocche atrofizzate nel rigor mortis.
“Sono state
ampiamente esagerate,” replica per rompere il silenzio, per scacciare i
fantasmi che popolano il buio dietro le sue palpebre chiuse ogni volta che osa
cercare un attimo di stallo e quiete.
Il
sorriso che lui le rivolge in risposta è uno specchietto per le allodole,
contiene la blandizia ingannevole di una lusinga. “Non credo sia questo il caso
e ora che ti vedo so per certo che tutto quello che ci è stato detto su di te
corrisponde al vero.” Da vaga che era, la luce nel suo sguardo sembra ardere
più brillante e pericolosa. Non è più profonda nostalgia, ma bramosia,
ambizione folle mossa dalla disperazione più nera. “Tu mi ricordi qualcuno che
ho perso.”
Clarke
non si lascia commuovere. C’è stato un tempo, pensa, in cui un’affermazione del
genere avrebbe smosso qualcosa dentro di lei. Non oggi. Non più. Non quando ci
sono le vite di sua madre e di sua figlia in gioco. “Mi dispiace per la tua
perdita,” commenta impassibile. “Arriviamo al punto. So che avete rapito mia
figlia e mia madre. Restituitecele e non vi uccideremo.” A giudicare dall’espressione
attonita di Russell, il suo sguardo deve rispecchiare alla perfezione il suo
umore. È gelido e selvaggio.
“Non
sei stanca di essere una distruttrice di mondi?” domanda la donna seduta accanto
a Russell. Sa che è la moglie di Russell, ma non ricorda il suo nome. Non che
abbia qualche rilevanza per lei. Assassina, sussurra una voce dentro di
lei e la crudeltà di ALIE nel corpo di Raven mette radici nella sua mente. I
mostri che ha combattuto sono diventati parte di lei, li ha assorbiti nel momento
in cui li ha abbattuti.
“Non sei stanca di portare con te la morte ovunque tu
vada? Sei come veleno. Nessuno è al sicuro con te vicino.”
Crede
davvero che pozza spezzarla con così poco? È più forte di quello che pensano.
Il peso delle scelte impossibili non grava più sulle sue spalle come il mondo
per Atlante. È scomparso nel momento in cui ha accettato la verità. La verità
non uccide, ma fortifica. La verità l’ha affrancata, l’ha resa indistruttibile.
“Sono quello che sono e non intendo scusarmi per quello che ho fatto.” La sua
voce non trema, non tentenna. Perché dovrebbe? Sono altre le cose che la
terrorizzano, capaci di toglierle il sonno e la ragione: una fossa di
combattimento imbrattata da vecchie incrostazioni di sangue, il silenzio
intollerabile di una navicella deserta, il puntino rosso di una registrazione
in atto, giorni che si trasformano in mesi e mesi che si trascinano in anni,
una solitudine che tracima in pazzia.
“Avete
ragione. La mia fama mi precede. Sapete di cosa sono capace. Non ho scrupoli
quando si tratta di proteggere le persone che amo. Voi avete qualcosa di mio,”
dice, inarcandosi in avanti, “e brucerò il mondo che conoscete pur di riaverlo
indietro.”
Capisce
dallo sguardo che si scambiano che è una minaccia che non hanno alcuna
intenzione di prendere alla leggera. Le storie di Jordan devono aver reso appieno
l’idea di chi è e di cosa è disposta a fare e quello che in un’altra occasione
sarebbe stato un errore strategico e una mossa avventata può essere sfruttata, trasformandosi
in un vantaggio determinante. Che sappiano cosa li aspetta. Che siano
consapevoli del rischio che stanno correndo. Lo scopo di questo parley è
stato questo sin dall’inizio.
Li
lascia conversare tra di loro e ripensa alle informazioni finora raccolte.
Troppo poche per organizzare un’operazione di salvataggio. Il numero di guardie
che ha visto e -
“Abbiamo
una proposta.” La voce di Russell si intrufola nelle sue stime, riportandola
alla realtà.
Clarke
rimane in silenzio, un chiaro invito a parlare.
Simone,
ecco il nome della donna dal volto triangolare, si protende e afferra la sua mano
destra. Russell fa lo stesso con la sinistra. Clarke osserva la parvenza di
cerchio che le loro braccia hanno creato e aggrotta le sopracciglia. “Se
potessi salvare loro o te stessa, cosa sceglieresti?” domanda Simone.
Clarke
non batte ciglio. Ha già fatto quella scelta molto tempo fa. “Perché lo
chiedete?”
Entrambi
stanno sorridendo adesso ed è un sorriso che le fa accapponare la pelle.
Esprime un inspiegabile sollievo, ma anche qualcosa di torbido. Le riporta ancora
alla memoria un reparto di quarantena, corpi deturpati dalle radiazioni.
“Ti
proponiamo uno scambio,” chiarisce Russell.
“Che
genere di scambio?
“Te
per la tua famiglia,” lui risponde. “Sai come sopravviviamo. Abbiamo scoperto
un modo per sconfiggere la morte. Per noi niente finisce. I tuoi amici te lo
avranno già raccontato. Sei anni fa abbiamo perso nostra figlia. Ti stiamo
chiedendo di offrirti come ospite. Pensaci, Clarke. Niente più battaglie.
Salveresti la tua gente, evitando un inutile spargimento di sangue. Saresti in
pace finalmente.”
Clarke
non riesce a decidere cosa sia peggio, osservare come queste persone abbiano
perso a tal punto la loro umanità da distorcere un atto di egoismo con uno di
clemenza, o il fatto che una parte minuscola di lei, per un istante che si
estende all’infinito in un parossismo della sua instabilità emotiva, abbia seriamente
preso in considerazione l’alternativa che le stanno offrendo. Non pace, ma
la fine del dolore.
“Lasciate
che ci pensi,” risponde con prudenza, ma l’attimo di debolezza è passato. Non
si offrirà come vittima sacrificale all’altare della loro cupidigia, non spontaneamente.
“Certamente,”
dice Russell. “Come dimostrazione della nostra benevolenza e della rinnovata
amicizia tra i nostri popoli siamo disposti a portarti da tua figlia.”
Ma
non a lasciarla andare, pensa lei cupamente.
*
"Mamma?"
Madi batte le palpebre, intontita e non ancora del tutto sveglia. "Sei
sveglia."
Clarke
osserva il momento in cui la confusione sul volto di sua figlia si trasforma in
euforia e quando succede è come se la trasfigurasse. I suoi occhi si sgranano e
le rivolge un ampio, buffo sorriso e sì, forse è stupido sentimentalismo, ma
sono trascorsi dieci anni dall'ultima volta che l'ha vista, sei mesi per lei e
oh, com'è cresciuta. Le scosta i capelli dalle tempie e non riesce a trattenere
oltre il bisogno di abbracciarla.
"Lo
sono e lo rimarrò finché non troviamo una soluzione."
Quando
si scosta, gli occhi di Madi divorano avidamente i cambiamenti in lei come se
dovesse mappare una nuova costellazione del firmamento, alla ricerca di una
stella perduta o errante. Qualsiasi cosa si aspettasse, non deve averla trovata
perché il piacere con cui la guarda ora ha assunto una sfumatura di disappunto
e di ansia.
"Non
hai ancora visto Bellamy?"
"Era
lì quando mi hanno svegliata," lei risponde distratta e da vaga che era, la
contrarietà di Madi diventa concreta. Impossibile non notarla. Si acciglia. C'è
qualcosa di cui non è al corrente?
Prima
che possa elaborare in parole il turbinio di pensieri, Miller la richiama dalla
porta a cui sta facendo la guardia. "Clarke, dobbiamo sbrigarci."
"Giusto,"
lei dice. Non hanno tempo per questo, qualunque cosa 'questo' sia. "Madi,
ascoltami. Ho stretto un accordo con Russell. Sono disposti a lasciarti andare,
a patto che io prenda il tuo posto." È una clamorosa bugia, ma non serve
che lo sappia. Quando si accorgeranno di quello che ha fatto, sarà troppo
tardi. Sa cosa l’aspetta. Madi sarà al sicuro. È tutto quello che le
occorre sapere.
Madi
sta già scuotendo la testa e ha un'espressione di ostinata determinazione.
"Non ho intenzione di lasciarti."
"Non
mi stai lasciando," la rassicura perché è la pura verità. "Non è una
tua scelta. Miller ti riporterà all’Eligius." Distoglie lo sguardo da Madi
per fissarlo su Miller, assicurarsi che lui abbia sentito. Lui annuisce e lei
sente un peso sgravarsi dalle sue spalle. "Io ti raggiungerò appena
possibile."
A
Madi non deve essere passato inosservato quel breve scambio. Le pare quasi di
sentire il frenetico lavorio dei meccanismi nella sua testa, lo sforzo con cui
sta connettendo i fili dietro il suo comportamento. "Stai mentendo,"
conclude, valutando la sua reazione. "Perché? Cosa mi nascondi?"
Senza
farsi notare, lei si lascia scivolare nel palmo della mano l'anestetico che teneva
nascosto nella manica del giubbotto in via precauzionale. La abbraccia di
nuovo, più stretta e cerca di non pensare al fatto che questa sia l'ultima
volta che succede, di ricacciare indietro il groppo in gola che saperlo le
provoca. "Madi, ti voglio bene. Sei la persona più importante per
me."
Qualunque
sia la conclusione che ha dedotto, Madi ricambia l'abbraccio con uguale forza e
appoggia la fronte contro la sua spalla come non ha più fatto da molto tempo. Le
piace credere di non essere più una bambina, ma parte di lei lo sarà sempre ed
è quella parte che adesso sta prendendo il sopravvento. "Clarke, mi stai
spaventando."
"Sei
mia figlia. La mia bambina. Anche quando non ci sarò più. Non dimenticarlo, va
bene?" Ti voglio bene. Ti voglio bene. Preme l'anestetico contro il
collo di Madi ed è una questione di secondi prima che il corpo di sua figlia si
accasci tra le sue braccia, pesante e privo di conoscenza.
Miller
si sposta dalla porta e la prende in braccio senza che debba chiederglielo.
Clarke
si asciuga il bordo degli occhi il più discretamente possibile. "Te la
affido. Portala al sicuro."
Sa
che non c'è tempo, ma si allunga per accarezzare il volto di Madi un'ultima
volta. Può percepire lo sguardo di Miller su di lei quando le chiede: "Cosa
mi dici di te?"
Mentire
non è difficile, ma è come bloccata. "Saprò cavarmela. Sono fatta di una
fibra più resistente.”
"Non
mi piace," commenta Miller. "Cosa dovrei dire a Bellamy?"
Le
sue dita non hanno ancora abbandonato la fronte di Madi. Traccia il contorno
delle sue sopracciglia con il cuore pesante. Intanto pensa a un volto
completamente diverso, altrettanto amato. "Non dirgli niente." Si
sforza di sorridere, anche se fa male come se stesse tastando una ferita aperta
prima di suturarla. (Quante volte ha dovuto farlo negli ultimi sedici anni?
Ricucirsi da sola? Se si guardasse in uno specchio la sua pelle sarebbe un
assembramento di tessuto cicatriziale. La testimonianza nuda e cruda di com’è
sopravvissuta.) Ripensa alle ultime parole che gli ha rivolto, forse le ultime
che gli dirà mai, parole cattive che non rispecchiano affatto ciò che prova.
Non sa come rimediare, se può. Per la prima volta da quando ha compiuto
trent’anni, sente che potrebbe piangere per la tempesta che imperversa nella
sua mente.
“Lo sa già,” si rassicura. O almeno è ciò che spera.
*
"Cosa
significa che non è con te?"
Bellamy
si trattiene a stento dallo scrollarlo. Innanzitutto perché si tratta di Miller,
in secondo luogo perché la sua espressione devastata serve a dirgli tutto ciò
che gli occorre sapere.
"Esattamente
quello che ho detto," risponde Miller e sembra che ogni parola gli venga
strappata. "È rimasta indietro. Ha detto che tu avresti capito."
Capire
cosa? Che l’ha persa di nuovo, che è stato talmente stupido da lasciarla andare
in avanscoperta in una missione potenzialmente suicida, ben sapendo cosa
rischiava, il pericolo che correva?
"Bellamy,
Madi si è svegliata," dice Echo, comparendo alle sue spalle. Il suo volto
teso nella luce giallastra del corridoio lo mette subito in allerta. "Penso
che tu debba venire in infermeria."
*
Le
urla lo raggiungono mentre è ancora in corridoio. Urla strazianti ed è quasi
impossibile descrivere l’orrore e la paura che esprimono, la reazione di
tensione estrema che automaticamente ottiene in chiunque le ascolti. Percorre
gli ultimi metri correndo ed entra trafelato. I suoi occhi sono subito
calamitati dalla figura stesa sul letto nell'angolo. È rannicchiata su sé
stessa e le sue urla rimbombano contro le pareti.
"Cosa
sta succedendo?"
Se
possibile Jordan e Gaia sembrano più ansiosi di lui. Accanto a lui Jackson ha
una siringa in mano. "Non lo so. È così da quando ha ripreso conoscenza.
Non lascia che nessuno la tocchi."
Lui
annuisce e si avvicina cautamente. Sentendo il rumore di passi, Madi si volta
di scatto come un animale braccato. Sembra rilassarsi impercettibilmente nel
vederlo ed emette un sospiro. Il sollievo è momentaneo. La sua espressione si
accartoccia di nuovo ed emette un verso gutturale che gli spezza il cuore.
Prima che se ne renda conto, lei è pigiata contro il suo petto e sta piangendo inconsolabilmente.
Lui le accarezza piano la testa. "Madi, ehi. Sei al sicuro adesso."
"Non
capisci," la sente farfugliare. "Lo sta facendo di nuovo. Dobbiamo
tornare indietro. Potrebbe già essere troppo tardi."
Ci
mette un attimo a registrare le sue parole. In quello successivo ogni
emozione
è attutita ed è attraversato da un brivido. "Frena. Madi.
Madi. Rallenta. Di cosa stai parlando? Chi sta facendo cosa?"
"Clarke.
È rimasta indietro.” Un altro singulto, parla così velocemente che le parole si
accavallano. “Lexa mi aveva avvertito. Non l'ho ascoltata. Ha preso il mio
posto. Cercavano un ospite e ora l'hanno trovato. La uccideranno. Si è offerta
volontaria per salvarmi, per salvare tutti noi."
I
minuti successivi sono una macchia confusa. Ricorda di essere rimasto con Madi
mentre Jackson la anestetizzava e di averla lasciata alle cure di Gaia, di aver
intravisto il volto stravolto di Jordan mentre si lasciava cadere in un angolo
come se non si raccapezzasse di quanto accaduto.
Quando
Raven lo raggiunge, bloccandogli il passaggio, lui la indirizza verso
l'infermeria. "Resta con Jordan," ordina e si guarda attorno con
occhi spiritati. "Dov'è Miller?"
Raven
lo fissa con le sopracciglia aggrottate. "Cosa hai intenzione di
fare?"
Quando
non lo lascia passare, lui dà un pugno al muro. Il dolore riverbera lungo il
braccio e fino alla spalla. Serve allo scopo. La sua testa si sgonfia di ogni
altro pensiero e Clarke diventa solo un'ustione, non più una lacerazione.
Raven
è abbastanza distratta dal gesto. Riesce a superarla e a dirigersi verso il
ponte di comando. "Sapevo che lasciarla andare da sola non era una buona
idea. Lo sapevo."
"Non
potevi sapere che sarebbe arrivata a questo," lei ribatte seguendolo.
"Sì
invece. Questo è ciò che fa, che ha sempre fatto. Sacrificarsi per salvarci
tutti? È esattamente da lei. Non sarebbe la prima volta."
*
"Abbiamo
proposto a Clarke un accordo e lei ha accettato," afferma Russell.
Bellamy
deve trattenersi dal mettergli le mani attorno al collo. “L'avete uccisa.”
“Ha
scelto di sacrificarsi per salvare le vostre vite. Sapeva che la pace ha un
costo ed era disposta a pagarlo. L'accordo è ancora valido. Abby Griffin verrà
rilasciata all'istante se voi accetterete le condizioni della tregua.”
Accettarle?
Hanno la minima idea di quello che hanno fatto, di cosa hanno scatenato? Hanno
portato la guerra sulla loro porta e se prima sarebbe stato possibile evitarla se
avessero restituito Madi e Abby incolumi, ora è –
“Dovreste
esserci grati,” interviene una voce familiare e Russell non è l’unico ad
irrigidirsi. Indra si incupisce ed è qualcosa di incredibilmente singolare
riuscire a cogliere la lievissima frattura nei suoi nervi d’acciaio. Echo gli
si avvicina, frenandolo con una mano sul braccio ancora prima che lui possa
pensare di tramutare in aggressività il crepacuore che gli sta squarciando la
gabbia toracica. Può percepire il calore irradiato dal suo corpo solido e
letale. Si volta lentamente e quello che vede lo trasforma in un mostro a sangue
freddo, con ghiaccio a scorrergli nelle vene e l’istinto di uccidere.
“Josephine,”
la richiama Russell e il tono e lo sguardo che dardeggia da loro a lei e
viceversa sono pregni di avvertimento.
La
donna che indossa il volto di Clarke, che cammina nel corpo di Clarke, che
parla con la sua voce, non sembra scalfita dal rimprovero. Indossa gli stessi
vestiti in cui l’ha vista l’ultima volta, ma lo sguardo nei suoi occhi fa
crollare l’ultimo barlume di illusione e rivela quanto solo ad un’occhiata approfondita
diventa visibile. Clarke non c’è più.
“Non
fingete che vi stesse a cuore,” parla con voce strascicata, provocatoria e si
muove come Clarke non avrebbe mai fatto, ondeggiando leggermente le anche. Gli
sembra che qualcuno gli abbia conficcato un pugnale in petto. “Vi importa
davvero che sia morta? In realtà la odiavate e chi potrebbe biasimarvi? Ognuno
di voi la incolpava per qualcosa. Ti ha lasciato a morire in quella fossa di
combattimento. E tu stavi per essere impiccato, giusto?” domanda, voltandosi
verso Murphy che la osserva impietrito. Si picchietta la fronte. “Ho accesso ai
suoi ricordi. So le cose atroci che ha fatto e come il senso di colpa la stesse
torturando. Tutte le persone che ha ucciso, nemici e amici. Tutti quegli anni
trascorsi da sola mentre il resto di voi dormiva, tutti quegli anni a fissare
le stelle, chiedendosi se vi avrebbe mai rivisti, tutte quelle scelte
impossibili. Non era un eroe, anche se le piaceva pensare di essere una dei
buoni.”
“Non
parlare di lei come se la conoscessi,” sbotta. “Tu non sai niente.”
“So
quanto basta.” Gli occhi chiari e limpidi di Clarke si fissano su di lui e c’è
una luce predatoria e irridente. Inclina la testa su un lato e si prende una
ciocca di capelli tra le dita, giocandoci. “Voleva farla finita. Ci ha provato
così tante volte, lo sapevate?”
“Non
osare-”
“Bellamy!”
urla qualcuno alle sue spalle, ma lui è già piombato su di lei e l’ha spinta
contro il muro, afferrandola per la gola e coprendo quel sorriso con la mano
come se potesse cancellarlo. Sbagliato. Quel sorriso è sbagliato sul
viso di Clarke, così come lo è l’espressione con cui lo sta guardando, come se
fosse divertita, come se l’intera situazione fosse un passatempo e–
Gli
iniettano qualcosa nel collo e quando cade, il viso della non-Clarke è chino su
di lui, l’ultima immagine che si scolpisce nelle sue cornee prima di perdere
conoscenza sono le infinite, minuscole differenze con la sua Clarke.
*
“Sei
stato grande lì dentro. Dico sul serio. Se il tuo scopo era farci uccidere,
sappi che ci sei quasi riuscito.” Murphy muove le catene che li tengono bloccati
al pavimento. Bellamy non si volta a guardarlo, ma sa che ha roteato gli occhi.
“Perciò adesso è lo sciopero del silenzio? Cosa hai intenzione di fare? Domanda
stupida. Perché non puoi lasciar perdere? Clarke ha fatto la sua scelta.”
Basta
la menzione di lei a provocargli un’ondata di nausea e odio per sé stesso. “Non
è stata una scelta. L'hanno costretta.”
Si
aspetterebbe una battuta o una risposta mordace, invece quando parla, la voce
di Murphy è grave e pacata. È un aspetto di lui che raramente emerge. Murphy di
solito preferisce nascondersi dietro lo stratagemma di battute da repertorio,
in un meccanismo di difesa che lo distanzia dagli altri ed è la sua valvola di
sfogo. “No, non l’hanno fatto, ma non fa alcuna differenza per
te, non è vero? Non vuoi lasciarla andare.”
L’idea
è inconcepibile. Ci sei già riuscito una volta, dice una voce dentro di
lui, una che è uguale a quella di lei in tutto e per tutto. Ricordi? Sei
anni sull’Anello. Hai creduto che fossi morta e sei andato avanti, mi hai
dimenticata. Cos’è una volta in più?
No.
Si prende la testa tra le mani, nasconde il viso. Non di nuovo. Non può
rifarlo. Se anche la prima volta è sopravvissuto, ora è impensabile. Non ora
che sa delle chiamate radio, non dopo le registrazioni. Non si ama per essere riamati,
ma quando lo si è… quando lo si è. “Non posso,” mormora con voce rotta dall’emozione.
“Ci
stanno offrendo una tregua. So che è difficile, so che lo odi, ma ragiona. Pensi che lei avrebbe voluto questo?”
“Non
so cosa Clarke avrebbe voluto. È un peccato che non possiamo chiederglielo.”
“Bugiardo.
Lo sai perfettamente invece.”
Sì,
lo sa. Anche se non vorrebbe. “Io so solo che se fosse stata al nostro posto,
se avessero fatto ad uno di noi quello che hanno fatto a lei, avrebbe ridotto
questo posto in cenere.”
“Forse,”
concede Murphy. “Non avrebbe voluto che facessimo lo stesso per lei. Non lo ha
mai voluto. Ha sempre pensato di essere sacrificabile ed è esattamente il
motivo per cui avrebbe voluto che facessimo il nostro meglio. Essere i buoni.
Di certo non rischiare le nostre vite per vendicarci. Si è offerta
volontariamente.”
Di
nuovo quelle parole, le stesse usate da Russell. Le odia e odia lei per averlo
messo in questa posizione, per averlo costretto ancora una volta a farsi carico
del mondo da solo. (Continuano a ribadire che si sia stata una sua scelta, come
se questo rendesse accettabile l’abominio di cui si sono resi colpevoli, ma che
scelta è una del genere? Che razza di vita è una che ti costringe a fare una
scelta del genere, a scambiare la tua libertà per salvare quella della tua
famiglia? E cosa dice di tutti loro che glielo abbiano permesso?) “Sì, per
salvare tutti noi! Di nuovo!”
“Possono
aiutarci.” Murphy non sembra scalfito dalla sua veemenza e all’improvviso lui non
vuole più ascoltare quello che ha da dire, la ragionevolezza delle sue affermazioni.
“Conoscono il terreno. Possono mostrarci come sopravvivere, costruire i nostri
complessi come avevano promesso.”
Ma
a quale prezzo?, lui vorrebbe urlare. Non gli interessa, non se il prezzo da
pagare è Clarke.
“Sai
qual è la cosa peggiore?” domanda ed emette un verso soffocato, a metà tra una
risata amara e un singhiozzo incastrato in gola. Si passa una mano tra i
capelli, trapassandoli da parte a parte. “Sono stato io a svegliarla. Sapevo
cosa sarebbe successo. Sapevo che avrebbe fatto di tutto per salvare Madi.
Sapevo che il suo piano era rischioso. Sapevo che sarebbe stata un bersaglio.
Lo sapevo e l'ho lasciata andare lo stesso.”
È
colpa sua ed è una colpa che non riuscirà mai ad espiare, che non si perdonerà
mai. Sente la mano di Murphy sulla spalla e non gli è di alcun conforto. Non
riempie il vuoto abissale dell’assenza di Clarke.
“Non
saresti mai riuscito a fermarla. Non te lo avrebbe permesso. Follemente
coraggiosa o completamente folle. Ostinata
fino al midollo.”
Murphy
scoppia a ridere e anche se suona strozzata, Bellamy ride a sua volta, portandosi
una mano al viso. “Suona come lei.”
L’attimo
di ilarità ha breve durata e nel silenzio fragoroso che segue, Murphy dice
esattamente quello che lui aveva bisogno di sentirsi dire. “Se non l'avessi
svegliata, avrebbero ucciso Madi e Abby.”
Non
possono saperlo con sicurezza. Bellamy sospira. “Lo so.”
“L'avresti
persa lo stesso.”
“Mi
odierebbe,” lui lo corregge stancamente e si chiede se sia così che si è
sentita anche lei, logorata e sola e vecchia, “ma almeno sarebbe ancora viva.”
*
“So
che non è facile accettarlo, ma dobbiamo andare avanti. Dobbiamo sopravvivere.
È quello che lei avrebbe voluto.”
Le
sue parole suonano vuote alle sue stesse orecchie. Lo sguardo che Abby gli
rivolge trabocca dello stesso senso di vuoto incommensurabile.
“Conosco
il mio dovere,” lei ribatte seccamente, abbracciandosi come se stesse cercando
di proteggersi dal dolore, ma allo stesso tempo riconoscendo che si tratta di
un vano tentativo. Il dolore vive già dentro di lei. “Ho perso mio marito per
il bene comune. Ho perso Marcus. Ora ho perso anche mia figlia.”
*
È
viva. Rinchiusa nella sua stessa mente come in una cella della skybox. È viva e
lui può ricominciare a respirare.
There's a corner of my heart that is yours. And I
don't mean for now, or until I've found somebody else, I mean forever. I mean
to say that whether I fall in love a thousand times over or once or never
again, there'll always be a small quiet place in my heart that belongs only to
you.
-Beau Taplin
Dopo
che anche Monty è scomparso, Clarke ripercorre i corridoi del suo spazio
mentale. Apre una porta a caso e si trova nella fossa di
combattimento. Schiena contro il muro, si accascia sul pavimento. Si passa le
braccia attorno alle caviglie e appoggia la fronte contro le ginocchia.
"Va'
via," brontola, quando sente un rumore di passi. Invece di allontanarsi,
l'intruso si avvicina e si lascia cadere con un tonfo accanto a lei. Lo sente
canticchiare a bassa voce una melodia che le sembra di riconoscere (giorni
di sole rubati alla guerra, una presenza salda alle sue spalle pronta a sorreggerla
in caso di caduta, un ragazzo con un sorriso tagliente come una lama di pugnale
e le nocche quasi sempre scorticate. Combattere contro la fame e la stanchezza,
costruendo un’utopia di nuovo tra le macerie di un mondo al collasso). Solleva
la testa e lo fissa di traverso. È più giovane, simile a com'era quando lo ha
lasciato dopo Mount Weather, ma le sue ferite sono localizzate in zone diverse.
Ci sono abrasioni sulla sua guancia sinistra e un’altra vicina all’occhio
destro. Ha un labbro spaccato e – capisce. Sa perché la sua mente ha
scelto proprio questa versione di lui, estratto dal giorno in cui le ha insegnato
come maneggiare un’arma da fuoco, in cui ha ucciso Dax. Il giorno in cui ha
ammesso di avere bisogno di lui. Se fosse una persona vanitosa, quasi
ammirerebbe questa dimostrazione di logica pragmatica da parte del suo
subconscio.
"Sei
un frammento della mia immaginazione," lo accusa.
Lui
annuisce, imperturbato. “Lo sono.” Sta mangiando qualcosa e gliela porge. Sul
palmo aperto, rotonde e tendenti al verde, le noci Jobi di Monty e Jasper.
Lei
sopprime l’impulso istintivo di fargliele cadere, ma quando lo vede masticarne
una seconda e poi una terza non può evitare una smorfia. “Perché sei ancora
qui?”
“Sei
tu quella intelligente, principessa. Dimmelo tu.”
“Se
non riesco più a farmi obbedire dalle mie proiezioni significa che non ho più
potere nella mia mente. Josephine ha vinto. Sto scomparendo.”
“Oppure
stai mentendo a te stessa. Tu vuoi che sia qui.”
Clarke
corruga la fronte. Non perché non ci sia del vero in quello che ha detto, ma
perché osservarlo così, con la barba rasata e l’aria arrogante, ricoperto di
fango e con escoriazioni recenti a marchiargli la pelle, la turba più di quanto
le piaccia ammettere.
“Se
questi sono i tuoi ultimi momenti, sappiamo entrambi con chi vorresti
trascorrerli. Ecco perché mi trovo ancora qui,” conclude lui con un ghigno di
supponenza. I suoi occhi si piantano nei suoi e sono come quelli del Bellamy
che conosceva prima del Praimfaya, perseguitati e prepotenti. Aveva dimenticato
quanto fosse cocciuto e cosa provasse allora, quanto la facesse sentire viva
scontrarsi con lui, litigare per avere l’ultima parola. “Tu vuoi che io
sia qui,” ripete una seconda volta. “Non negarlo.”
Quando
le poggia una mano contro il viso, lei non si ritrae, non questa volta, non
quando ha la sicurezza che -reale oppure no- sarà l’ultima volta. Lascia che il
calore ingannevole le intiepidisca la pelle, ingentilisca in modi che le sono
incomprensibili le rovine diroccate che un tempo sono state la sua forza, la
sua capacità di agire con prontezza e scegliere tra due mali il minore. Piega
la testa e si sposta per averlo più vicino, sentire la consistenza ruvida dei
calli e credere per un istante, uno soltanto, di poter tornare indietro nel
tempo. A quando tutto sembrava incredibilmente difficile e che ora, con
l’assennatezza derivata dall’esperienza e la saggezza indesiderata della
giovinezza sfumata, appare invece facile e la riempie di nostalgia nonostante
le impervietà e imperfezioni da cui non era esente.
“Sei
così giovane,” mormora contro la sua pelle.
Bellamy le scosta i capelli dal viso. Sono lunghi e scarmigliati come li portava allora, una massa di trecce biondo sporco. Sembra che tra le sue ciocche sia nascosta un’intera polveriera o la sponda fangosa di un torrente. Quando avvicina la fronte alla sua, lei percepisce il suo
respiro contro il naso. “Anche tu.”
“Non
mi sento più giovane da tanto tempo.” È facile ammetterlo con questo aspetto,
quando non era ancora diventata Wanheda, quando non aveva ancora scritto una
lista di sopravvissuti condannando il resto a morte certa. Prima del Praimfaya,
prima di Madi, prima di dieci anni di solitudine con una spada al posto del
cuore.
Lui
sorride, un sorrido lento e quasi pigro, canzonatorio. La sua mano si è
spostata dietro la sua nuca, le sostiene la testa, mentre l’altra è rimasta
contro la sua guancia e con il pollice sfrega lo spazio umido sotto le sue
palpebre, asciugando la trasposizione di quella che non è più debolezza, ma
solo stanchezza. “Lo sei mai stata davvero?”
“E
tu?” domanda di rimando.
“Touché,”
lui risponde con una risata soffocata. Lo sguardo che le rivolge è affezionato,
colmo di tenerezza. Prima che l’attimo di coraggio che sta provando scompaia
nel risveglio del buonsenso, Clarke si sporge leggermente in avanti. (Perché
no? Già, perché no? Non ferirà nessuno al di fuori di sé stessa.) Quando
i loro visi sono talmente vicini che può contare le lentiggini che gli
cospargono a sprazzi il naso e gli zigomi, Clarke si ferma. Le ferite si sono
rimarginate e il Bellamy che la sta guardando, pieno di timore reverenziale e
come se temesse che lei possa scomparire da un momento all’altro se facesse la
mossa sbagliata, è molto più simile al Bellamy che le ha chiesto di rimanere
dopo Mount Weather, la prima volta che gli ha voltato le spalle. Ma non è lui.
Indossa le pellicce di un guerriero della nazione del ghiaccio e lei ricorda. Il
terrore, il sollievo, l’amore.
Tocca
in punta di dita il suo viso, come ricorda che lui abbia fatto quando l’ha
trovata legata e imbavagliata, quando lei ha supplicato Roan di non ucciderlo,
scambiando la sua vita con la propria. “Posso toccarti?”
Lui
annuisce, deglutendo, il pomo d’Adamo prominente e allo stesso tempo meno
pronunciato di quanto ricordasse. A separarli solo lo spazio di un respiro e i
mille, stupidi impedimenti che li hanno intralciati sin dal primo giorno.
Poggia le labbra contro le sue e lo sente tendersi e rispondere immediatamente,
come sapeva che avrebbe fatto. Non è un bacio gentile. È duro e affamato, una
battaglia tra forze uguali e contrarie. È il loro primo, ma serba anche un
senso di finalità che le fa venire le lacrime agli occhi. Quando si staccano
l’una dall’altro per riprendere fiato, non è l’unica ad avere il respiro corto
e gli occhi lucidi, l’espressione dolente di qualcuno a cui è appena stata
comunicata una notizia terribile.
“Mi
hai chiamato ogni giorno per sei anni e poi mi hai lasciato a morire in una
fossa di combattimento.”
“Sì,”
risponde, “e non c'è stato giorno da allora in cui non l'abbia rimpianto.”
Non
è più il ragazzo fiero, ma l’uomo pronto ad assicurarsi la sua incolumità, scambiandola
con le vite di duecentottantatré prigionieri. Ci sono sei anni di differenze da
scoprire. “Perché l'hai fatto?” lui domanda sottovoce.
Sa
che non può mentirgli, soprattutto non qui, nella riproduzione fedele del suo
rimpianto. “Perché ero arrabbiata con te e volevo che tu provassi lo stesso.
Avevi tradito la mia fiducia.”
“Parli
di Madi. O di Echo?”
“Entrambe
forse?” Scuote la testa, abbassando gli occhi. “Non lo so. Non sono più sicura
di niente ormai.”
“Perché
mi chiamavi?” lui insiste, mettendole un dito sotto il mento e costringendola a
voltarsi di nuovo verso di lui.
Lei
sospira. “Te l'ho già spiegato.”
“Vero,
ma quella era una registrazione. Non me lo hai mai detto di persona. Clarke. Avresti potuto fingere di parlare con chiunque
altro, invece hai scelto me.”
Non
sa cosa la convinca. Forse è l’appello contenuto nei suoi occhi (anche se ora
mostra i segni del tempo, gli occhi sono rimasti quelli del Bellamy che ha
abbracciato quando cercavano Luna con Jasper e Octavia. Non sa come sia
possibile. Si chiede se in fondo non siano mai cambiati, se invece è stata lei
a non riconoscere quella luce di supplica e assoluzione, se è sempre stata lì sin
dall’inizio e se è stata davvero così cieca da non vederla subito per quello
che era.) “Ho scelto te perché non ho mai sentito l'esigenza di parlare con gli
altri.” L’ammissione quieta non le provoca alcun dolore aggiunto e forse è
questo il primo passo per guarire. Non limitarsi ad ammettere che esista un
problema, ma smettere di rinnegare i sintomi che hanno provocato il peggiorarsi
della malattia. “Mi mancava la loro compagnia, ma non come mi mancavi tu. Non
si può vivere senza il proprio cuore. Credimi, io ci ho provato per sedici
anni.” Si morde l’interno della guancia abbastanza forte che il sapore del sangue
le invade la bocca. “Mi manchi,” mormora, sfiorandogli una guancia e tocca a
lui adesso girare il volto, accostare le labbra al suo polso e lasciarle lì
nella parvenza di un bacio di pura devozione.
“Sono
proprio qui,” lo sente dire.
“Non
questa versione di te, ma quella che non ho ancora perso.”
“Non
mi hai mai perso,” lui promette. “Nessuna parte di me.”
“Vorrei
che fosse vero. Vorrei che mi avessi perdonato.”
“L'ho
già fatto. Centoventicinque anni fa.” Sembra così sicuro, così fiducioso. Come può
non credergli? Specialmente quando continua a guardarla in quel modo e le tende
le braccia. “Tu puoi dire lo stesso di te stessa?”
Per
la prima volta in anni il freddo retrocede e così la solitudine, il senso di
colpa che vive nella sua ombra. Seduta nella fossa di combattimento in cui lo
ha abbandonato a morire, le braccia di Bellamy avvolte attorno a lei, sente che
potrebbe piangere da un momento all'altro e non è per la tristezza.
*
Il
corpo di Clarke ha un sussulto e ricomincia a respirare con boccate agonizzanti
dal suono raspante. Più tardi, quando è troppo esausta per continuare a parlare,
si addormenta con le dita strette attorno alla sua mano.
Mai più, lui giura a sé stesso, scostandole i capelli dal viso e
sfiorandole la fronte con le labbra in un bacio che intende sugellare la sua
promessa silenziosa. Mai più.
*
Si
sveglia e per un attimo non ricorda dove si trova, cosa è successo. Nella
penombra, la tenda potrebbe essere il laboratorio di Becca. È di nuovo sull’Eligius
e il suo baccello continua a non funzionare. (Ha sempre vissuto di giorni
rubati, tra una catastrofe e l'altra, aspettando, combattendo, cadendo e
rialzandosi.) Poi ricorda. Le ore trascorse prima che il sonno avesse la
meglio, le verità bisbigliate che si sono scambiati, cercando di colmare in una
manciata di ore sei mesi di lontananza per lei e dieci anni per lui. Lui le ha
raccontato della rottura con Echo, di quanto gli risulti ancora difficile
perdonare Octavia, di Jordan e di Madi, del nuovo pianeta e di notti tormentate
trascorse accanto al suo baccello. Lei gli ha raccontato di una solitudine così
profonda da averla convinta di non poter trovare alcuna parvenza di conforto,
come vagare in un deserto senza viveri e senza il conforto di zone d’ombra sotto
un sole cocente, desiderando solo che finisca. Convincersi che non può più trattarsi
di semplice sfortuna, troppe tragedie non possono essere semplici coincidenze e
che allora devono essere il frutto delle azioni compiute, che si riceve quello
che si merita. Anelare il contatto fisico al punto da sentirsi lacerata, come
se qualcuno la stesse divorando dall’interno, al punto che essere toccata da
lui quando si è risvegliata è stato uno shock, come essere attraversata da una
scossa elettrica.
Ricorda.
È morta e poi non lo è stata più. Lui l’ha salvata. Da Josephine e da sé
stessa.
Quando
cerca di mettersi a sedere, la testa le gira vorticosamente. L'unica cosa che
la ancora alla realtà è la mano saldamente intrecciata alla sua. L’uomo a cui
la mano appartiene, dorme a poca distanza da lei, in una posizione che deve
essere tutt’altro che comoda. Anche nell’incoscienza i muscoli facciali sono
contratti in un’espressione di preoccupazione e l’angolazione del corpo è
disposta in modo che sia il più vicino possibile a lei, come se anche nel sonno
il suo primo istinto fosse quello di vegliare su di lei.
Clarke
non si trattiene dallo scostargli i capelli dalla fronte. Il suo sonno deve
essere più leggero di quanto pensasse perché gli occhi di Bellamy si spalancano
all’improvviso e si fissano nei suoi con un’urgenza e una trepidazione che ha
il potere di disarmarla.
“Clarke?” domanda con voce arrochita dal sonno e il
tono interrogativo è lo stesso di qualche ora fa, come se dovesse accertarsi
che lei sia davvero lei, che non si sia trattato di un sogno. È come se
l’ultima barriera che ha eretto per proteggersi fosse appena crollata, cedendo
ai colpi poderosi dell’ennesimo attacco indefesso. Non percepisce alcuna differenza
dentro di lei, ma qualcosa deve trasparire dal suo volto perché l’espressione di
Bellamy cambia completamente, repentinamente. I suoi occhi sono sospettosamente
luminosi e sembrano arricciarsi come se non riuscissero a contenere una
violenta emozione, le sue labbra si contorcono come se stesse cercando di non
piangere e Clarke riconosce quello sguardo, certo che lo riconosce. Il suo
cuore perde un battito e apre le braccia che tremano un poco, anche se pensa
che sia dovuto più al fatto di essere sopravvissuta a un’esperienza di
pre-morte. Lui esita ancora, nonostante non abbia mostrato il minimo dubbio la
notte prima, e lei ne intuisce il motivo mentre l’eco delle parole che gli ha
rivolto le rimbomba dentro, dura e spietata. Non toccarmi.
“Vieni
qui,” mormora e Bellamy non se lo lascia ripetere una seconda volta,
fagocitandola in un abbraccio che è un’apologia dei loro trascorsi,
un’ammissione di colpa reciproca.
“Mi
dispiace.” Preme il viso contro il suo collo, la lanugine della barba a pizzicarle
la pelle. Sospira e lo sente fare lo stesso. Non serve che gli spieghi a cosa si
riferisce. Sa che lui capirà. È Bellamy. Capisce sempre.
“Anche
a me,” lo sente dire in risposta e come lui ha compreso che lei stesse parlando
del loro ultimo incontro, tocca a lei fare lo stesso. Riconoscere la
frustrazione e la critica con cui condanna sé stesso per qualcosa che non
avrebbe potuto impedire neanche se avesse voluto, che non è dipeso in alcun
modo da lui, ma per cui si sente ugualmente, irrazionalmente responsabile. È
stato egoista pensare che i dieci anni che ha trascorso da sola non avrebbero
influenzato nessun altro oltre lei, che fosse l’unica ad essere cambiata.
Perché è cambiata, è vero, ma non al punto da essere irriconoscibile, non al punto
da continuare a rinnegare i sentimenti che prova per quest’uomo, soprattutto
non a causa di qualcosa di così meschino e deleterio come la paura. (Non del
rifiuto, ma dell’incognita, del pericolo che una felicità come quella
comporta.)
“Avevo
il terrore di finire i miei giorni in solitudine,” dice e la presa di Bellamy
attorno alla sua vita si fa spasmodica, si rafforza al punto da dolerle. Lo
sente tremare, non solo per quello che ha appena confessato, ma per la
prospettiva dell’alternativa, di quello che sono stati ad un passo dal perdere.
Ancora una volta.
“E
io che avrei dovuto spendere il resto della mia vita senza di te.”
Batte
le palpebre e non sa cosa stia provando di preciso, è un amalgama di gioia
furiosa e una sofferenza che non è necessariamente dolorosa, ma ha qualcosa di
catartico.
Si
scosta quel tanto che le basta per incrociare i suoi occhi e le mani di lui
corrono subito a sorreggerle il viso con delicatezza. Il modo in cui la sta
guardando, feroce protezione e un amore che non è possessivo ma oblativo, le fa
venire voglia di colmare la breve distanza che li separa per baciarlo. Lo
stesso desiderio è impresso chiaramente nei suoi occhi commossi. Non osa
sperare, ma… Ma.
“Sei
il mio cuore.” Le parole riecheggiano quelle dell’ultima registrazione che gli
ha lasciato, ma hanno un sapore diverso, meno amaro. Per un attimo le sembra di
avere di nuovo diciotto anni, di essere perennemente stanca e affamata, con una
mandria di ragazzini di cui occuparsi e un co-leader dal sorriso spavaldo a coprirle
le spalle sempre e comunque, oberata come si sentono tutte le persone giovani e
inconsapevolmente libera dagli errori che devono ancora essere commessi ed
espiati.
Il
sorriso che Bellamy le rivolge è lo stesso di quel ragazzo e allo stesso tempo
diverso, più maturo, consapevole. Ha qualcosa che l’altro non aveva, esprime
una contentezza calma e rassicurante, una pace che scaccia qualsiasi residuo di
torto o malevolenza potesse ancora esserci tra di loro. (E lo sa, sa che
la strada della guarigione è ancora lunga, ma con lui al suo fianco sembra meno
terribile e spaventoso pensare al futuro e proiettarsi al suo interno.) Nel
poggiarsi contro il suo, quando le loro labbra si sfiorano in un bacio rapido e
caotico, più adatto a dei ragazzini inesperti che a qualcuno della loro età, quel
sorriso sembra solo ingigantirsi. “Tu sei il mio.”
Chameleon-like, I am
trasformed by light.
-Erica Jong
La
trova tra la marea di persone che si abbracciano, felici che sia finita,
sollevati di essere sopravvissuti ancora una volta, mentre il sole trasforma il
mondo, ricreandolo daccapo, rendendolo luce pura.
Lei
gli va incontro, accelerando il passo e prima che si renda conto di quello che
sta succedendo, sono l'una tra le braccia dell'altro e la stringe così forte
che vorrebbe che quell’alba dorata non finisse mai. Sono vivi. Non è successo
niente di catastrofico, niente di irreparabile. Lei non è bloccata nello spazio
e lui su una luna aliena. Non lo aspettano giorni di tormento e una nuova,
lunga, penosa separazione. Sono vivi e sono insieme e se non è questa la
felicità, lui non sa cos'altro sia, non sa come chiamare questa bolla di calore
e perfezione che li circonda.
Nonostante
il lutto per la perdita di Abby, nonostante le rassicurazioni che si stanno dando
a vicenda, nonostante i suoi occhi traboccanti di lacrime, sa che anche per lei
è lo stesso. Lo sente nel modo in cui lo abbraccia, simile a quello di tanti
anni prima dopo l’anello di fuoco e la prima fuga da Mount Weather, in cui
respira affannosamente contro il suo collo mentre cerca di non scoppiare in
singhiozzi, in cui lo guarda e gli parla. Sedici anni, ma alla fine è tornata
da lui. Ce l’hanno fatta. Lei è lì. Ti tengo io.
"Rimango
più vecchia di te," la sente dire e lui ride, anche se gli occhi gli
bruciano e sembra che il petto possa scoppiargli da un momento all'altro.
"La
triste verità è che lo sei sempre stata. Troppo seria e matura per la tua età.
Dispotica e autoritaria dal primo giorno che ti ho conosciuta." Appoggia
la fronte contro la sua e chiude gli occhi. Percepisce le dita di Clarke
tracciare i contorni del suo viso, il tocco dei polpastrelli leggero come ali
di farfalla, bruciante come tizzoni ardenti contro la pelle. "Mi dispiace
non averti risposto in questi sedici anni."
"Dispiace
anche a me."
"Sono
qui adesso. Se lo vuoi. Se mi vuoi."
La
sente trattenere il fiato e guardarlo con una strana espressione concentrata e
poi- "Sì."
"Sì?"
ripete e la sua incredulità deve essere evidente.
Clarke
gli cinge il collo con le braccia e lo bacia, a lungo e intensamente. Quando
finisce, entrambi hanno il fiato corto e un sorriso sulle loro facce che fa
male in modo non interamente fastidioso.
"Togliti
quel sorriso dalla faccia prima che Madi o Jordan ti vedano.”
"Troppo
tardi," lui mormora, mettendole un braccio attorno alla vita. Guarda un
punto alle sue spalle con insistenza. Clarke si volta. Segue la traiettoria del
suo sguardo e se possibile il suo sorriso si allarga, con uno sfolgorio negli
occhi. A poca distanza da loro, i
diretti interessati li stanno fissando. C’è una gioia contagiosa nel sorriso raggiante
della ragazzina. Di fianco a lei Jordan li guarda come se si fosse aspettato
esattamente questo sviluppo.
Clarke
preme il viso contro la sua spalla e quando piega la testa all'indietro per
guardarlo, lui si sporge in avanti per baciarla di nuovo, veloce e fieramente,
rubandole quel sorriso dalle labbra.
"Non
badate a me," annuncia Murphy, passando loro accanto. "Tutta questa
felicità mi ha reso cieco."
"Ascoltarti
è una delizia per l’animo, Murphy.”
"Ti
ho sentito, Clarke," lui urla di rimando, ancora abbastanza vicino da aver
colto le sue parole. "Ho detto di essere cieco, non sordo."
You claim your joy. You
lay your roots. Blood and bone and fire and ash. And in this land of free and
home of the brave, you plant yourself. Like
a flag.
- Samira Ahmed
N/a:
Ho letto e riletto questo capitolo non so quante
volte, indecisa se pubblicarlo o riscriverlo daccapo, se cancellare le parti
che non mi convincevano (il pezzetto Bellamy-Murphy, tanto per puntare il dito)
o che mi parevano inadeguate rispetto al contesto. Alla fine ho deciso di
pubblicarlo così com’è. Non sono sicura di essere riuscita a rendere al meglio
il cambiamento graduale di Clarke tra la parte iniziale e quella finale, la
lenta e progressiva accettazione che l’amore non sia qualcosa che si deve
meritare, che tutte le cose orribili che le sono capitate non la rendono una
persona cattiva, che sono in gran parte sfortuna, ma lascio decidere voi.
Scrivere e pubblicare è fondamentalmente questo dopotutto: mettersi in gioco, buttarsi
anche quando si è attanagliati dalla paura di un commento negativo, una
forma di sollievo creativo, una porta aperta sull’anima di chi scrive e di chi
legge, un attimo di intima condivisione. Perciò spero che i miei sforzi siano
valsi a qualcosa. Ho scoperto che preferisco scrivere dal punto di vista di
Clarke (si vede?). Dopo anni a scrivere Sherlolly mi riesce difficile
immedesimarmi in un uomo che vive le sue emozioni così appassionatamente come
Bellamy, che non nasconde la sua rabbia o il suo odio, che vive il suo dolore
in modo straziante e- insomma, mi riesce difficile, punto.
Anche se in ritardo, spero che abbiate trascorso una
felice Pasqua, che vi siate ingozzati di uova di cioccolato e siate riusciti a
trascorrere dei giorni sereni con i vostri cari.
Un abbraccio a tutti!