CAPITOLO QUATTRO
“Tu mi ricordi una
poesia
che non riesco a
ricordare,
una canzone che non è
mai esistita
e un posto in cui non
devo essere mai stato”.
Efraim Medina Reyes.
“Quando un amore
finisce,
uno dei due soffre.
Se non soffre nessuno,
non è mai iniziato”.
Marylin Monroe.
Capisco solo poco dopo
il motivo di tale frettolosità. Non devo nemmeno bussare alla porta
dell’ufficio di Ramsey che lo sceriffo della contea mi fissa con insistenza.
Ho già avuto modo di
vedere in giro il vecchio Jake, mi è sempre sembrato un tipo che si è meritato
il posto che occupa, anche se mi impressiona ogni volta la sua serietà
eccessiva. Non mi ha mai tuttavia degnato di uno sguardo, io che sono un
bassofondo della gerarchia. Quindi è stato un problema di altri. Ma, adesso…
“Ecco l’agente Barley,
signor sceriffo. È lui che ho scelto appositamente” mi presenta subito Ramsey,
venendomi incontro e accogliendomi con fare anomalo, poiché amichevole. È tutta
scena, solo scena.
Lo sceriffo mi allunga
la mano e me la stringe.
“Bene, agente Barley.
Abbiamo un caso che fa per lei” aggiunge l’anziano, serafico.
“Per… me?” chiedo,
titubante. Quale caso potrebbe fare per me, che non mi è mai stato affidato
nulla? Poi sto anche per ricevere il pensionamento. Qualche mese e sarò fuori
da questo giro.
“Per lei, sì” ribadisce
il mio superiore, mentre Ramsey mi riserva un’occhiataccia.
“Si tratta in effetti
di una questione adatta a una persona della sua esperienza”.
Prima che io possa
ribadire qualcosa di fuori luogo, Ramsey interviene.
“Un passato nella
stradale, poi diversi piccoli casi seguiti in città con un’attenzione e una
circospezione da manuale. L’agente qui presente è stato selezionato con cura
tra quelli disponibili e al momento disoccupati”. Disoccupati. È una vita che
in effetti lo sono. Fare sopralluoghi in mini appartamenti dopo una rapina
infruttuosa in effetti non è che sia un grande impegno. Solo quel po’ di
burocrazia nel raccogliere la testimonianza del padrone di casa, una firma lì,
due parole là. Fine.
“Perfetto” torna ad
aggiungere lo sceriffo, impassibile nello sguardo ma convinto nel parlare.
“Gliene vuole parlare
lei, agente?” interloquisce poi Ramsey, ma il mio detestato collega declina con
cortesia.
“Penso che sia meglio
che sia lei a farlo, signore” dice, infatti, “l’agente qui presente è il
migliore al momento disponibile, è vero, ma a volte fa orecchie da mercante
quando gli parlo. Ci conosciamo da un sacco di tempo e la nostra amicizia ormai
è abitudine. Con me non capirebbe quanto è delicata la faccenda che sta per
affrontare. Lo faccia lei, per favore”.
Abbasso lo sguardo e mi
sento avvampare. Quante stronzate per appiopparmi quella che probabilmente è
una grana bella e buona.
“Va bene” acconsente il
superiore comune a entrambi, “allora, agente Barley” ribadisce di nuovo, sembra
gli piaccia farlo, “a lei è affidato un caso un po’ particolare. È stato scelto
perché è di servizio da molto tempo, è un tipo molto calmo, e tutto questo le
servirà. Capirà che un novellino non potrà affrontare a nervi saldi una
faccendina così…”.
Appoggia sulla
scrivania di Ramsey il plico di fogli che ha stretto tra le mani fino a questo
momento. Mi fa cenno di avvicinarmi, mentre inizia a sfogliarli. Noto
immediatamente che si tratta di una deposizione abbastanza corposa.
“Qualche settimana fa,
presso la clinica psichiatrica Mary’s House, la più famosa qui in città, un
paziente è deceduto per cause ancora parzialmente da scoprire”. Profondo
sospiro del sergente, prima di proseguire. “La figlia del defunto ha deciso di
sporgere una pesante denuncia. Indignata, pensa che suo padre sia stato ucciso
dai componenti dell’equipe medica che lavora nell’edificio”.
Il sergente si ferma
ancora un attimo e chiude il fascicolo con una manata lesta.
“Fin qui le sembrerà
tutto normale. Un padre che muore solo in una clinica dalla quale non può
uscire nemmeno con la punta del naso, e una figlia che si ritrova bramosa di
vendetta. E… le dirò, si tratta solo di una caccia alle streghe”.
Ramsey tossicchia, poi
fa vistosamente cenno di assenso con la testa.
“L’uomo è morto per
cause naturali, come conferma l’autopsia. Solo che la signorina si è impuntata
sulla sua idea. Poiché non sono state finora svolte indagini approfondite, a
lei sarà affidato il compito di ascoltarla, leggere queste deposizioni e poi
fare un sopralluogo in quella clinica e controllare la cartella del paziente,
per essere certi che sia tutto in perfetto ordine. E quando ciò sarà accertato
e constatato, con la sua calma lei inviterà la signorina a mettersi a sedere e
a bere un tè mentre le spiega che non c’è nulla che non va, e che suo padre è
morto anziano e solo perché i suoi disturbi si erano aggravati così tanto da
spingerlo a compiere follie pretenziose, di quelle che portano alla morte”.
Lo sceriffo di contea
allora mi allunga il fascicolo e fa sì che lo stringa bene tra le mani, prima
di lasciarlo.
“Ricordi che si parla
comunque della morte di un ex senatore. È per questo che la stiamo mobilitando,
agente Barley” conclude. Mi stringe la mano con professionalità, poi saluta
Ramsey e se ne va, lasciandomi frastornato e perplesso.
“Quindi dovrei calmare
questa signorina solo perché è ricca e suo padre è un ex politico?” chiedo, una
volta rimasto solo con il mio superiore locale. So di aver sbagliato a parlare
così, ma non so stare zitto quando le cose mi restano sulla punta della lingua.
Mi sento umiliato, in un certo senso.
Ramsey infatti mi
riserva un’occhiataccia e mi mette a tacere subito.
“Non si lamenti,
finalmente ha la scusa buona per non annoiarsi tra scartoffie e traffico da
dirigere” affonda il dito nella piaga, senza alcuna pietà, “e si tenga stretto
questo caso inutile, prima che glielo tolga”.
Resto in silenzio,
ammutolito.
“Ricordi anche che
questa sarà la sua ultima occasione per compiacere e onorare il suo lungo
servizio. E anche per avere un distintivo suo…”, con non celato astio, Ramsey
mi allunga quello che un tempo era stato il mio desiderio più recondito.
Distintivo da sfoggiare e diversi documenti che contengono alcuni permessi
speciali. All’improvviso, proprio quando non me l’aspettavo più, anche a me è
stata offerta l’occasione per essere qualcosa di più di un semplicissimo agente
di quartiere.
Per questo non replico
nulla, mi lascio scivolare tutto addosso. In fondo ho ottenuto ciò che ho più
desiderato durante la mia intera carriera.
Mi riprometto di tenere
la bocca chiusa e di obbedire; mi sento come onorato di poter svolgere un ruolo
delicato e più complesso rispetto a ciò che ho affrontato finora, seppur la
faccenda mi puzzi abbastanza.
Devo sapermi
accontentare.
Una malattia, come G è stato per me. E’ questo che penso non
appena un’automobile sfreccia a mio fianco e interrompe il mio continuo
rimuginare.
Non mi ero mai accorto di quanto fossi omosessuale, prima di
incontrarlo. E, come c’era da aspettarsi, si è rivelato una delusione
celestiale.
Ma davvero, poi? O anche questo è frutto della mia fantasia?
Che testa del cazzo che mi porto in giro sulle spalle, mannaggia.
G è la persona che non ti aspetteresti mai. Non sono un tipo
sociale e non mi importa di restare ai margini dell’umanità; è così da quando
sono nato, me ne sono fatto una dannata ragione. Non temo più la solitudine, o
per lo meno non la temo più come prima, quando ero più giovane e lo sconforto
costante mi spingeva a fumare quel tabacco amaro che mi rendeva la bocca amara
e l’alito pesante.
G non fuma, è un uomo distinto e dall’apparenza cordiale.
Forse fin troppo, dato che ha conquistato il cuore di tanti. E di tante, penso.
L’uomo più sociale e realizzato che esista, che si crogiola
nel suo lavoro e si diverte mentre lo svolge. Simpatico e accattivante,
costantemente circondato da frotte di amici che pendono dalle sue labbra.
Parla e tutti ridono, tutti lo guardano. Una stella nel mezzo
di un cielo inscurito dalla notte.
Per me, abituato alla solitudine, all’inizio era il nulla.
Persino antipatico. Siamo stati da sempre due destini destinati a non
incrociarsi mai, rette parallele che si affiancano all’infinito e corrono verso
un orizzonte ignoto.
Poi, cosa è successo? La vita è una sorpresa, ma anche una
bella merda, a volte.
Ci siamo incontrati. Quando due rette parallele si sfiorano,
ecco che può accadere l’impossibile... e, in effetti, è accaduto. Mi sono
innamorato per la prima volta nella mia vita.
Lui mi cerca. Lui mi vuole.
Troppo tardi però mi sono accorto che mi desidera solo quando
si annoia. Oppure per soldi.
Adesso beve, e beve tanto; la bottiglia di birra sempre tra
le mani. Ha la memoria che dura una frazione di secondo, forse anche meno. La
barba gli si è allungata e ingrigita, ha perso i suoi anni migliori e quello
charme che mi aveva fatto capitolare al suo cospetto.
Ora G è pronto a tornare nel dimenticatoio, tra le tante
persone che non meritavano nulla di me. Nemmeno un pensiero. E pensare che
all’inizio lo pensavo sempre, immaginando che facesse lo stesso nei miei
confronti.
Invece no, a lui sono sempre importati i soldi e quello che
potevo dargli. Sì, nulla di romantico, solo la materia.
Benvenuti nella società capitalista, eh.
“I bengalini”.
Sobbalzo improvvisamente. Durante il mio cammino, non mi sono
accorto che in effetti lui è presente e mi ha già affiancato.
“Co… come?” quasi balbetto, preso un po’ alla sprovvista. G,
colui che ho amato tanto da desiderare di dedicargli la mia intera esistenza,
alza la mano destra in cenno di saluto. O vuole un cinque? Ah, cazzo, non ho
sei anni! Il cinque non glielo do, se è quello che vuole.
Tengo ben strette le mani alla cintola e ignoro la sua mossa.
“Come vanno i bengalini, allora? Mister?”
Mister. Da millenni ci conosciamo e mi chiama ancora Mister.
Ma porca vacca.
“Bene” taglio corto. Faccio
per svignarmela ma lui mi blocca, perentorio nel parlare.
“Non sono aumentati di numero?”
Mi chiede questo. La stessa domanda che mi ha fatto solo
qualche giorno fa. O forse ieri.
Chi se lo ricorda?
Pare che ogni volta che mi vede escogiti il Metodo Bengalini per intortarmi
amabilmente. In verità so che a lui fanno gola, tutto qui.
“Da ieri a oggi ci vorrebbe un miracolo, sai. Tipo la
moltiplicazione dei pani”.
Sono serio ma lui sorride e le labbra si increspano sotto la
barba.
“Non sei ancora diventato un Cristo, allora”.
“Non penso”.
Sempre serio.
Allora G si sbottona e ride.
“Sei forte, ragazzone”.
Sì, sono il suo ragazzone. Una volta avrei voluto essere
qualcosa di più, ma adesso che è invecchiato e sembra che non abbia nemmeno più
il dono della memoria, tra alcol ed eccessi vari, non ha più alcun senso. Ha un
corpo ancora da mille e una notte, però la testa ha perso tanto. Tipo una
bellissima bottiglia di spumante, che presso le feste invita a sorseggiare, ma
una volta che te la porti alle labbra scopri che dentro c’è solo aria. E ti
viene da tirare giù il mondo.
Ho creduto, fino a qualche mese fa, che facesse il cretino
per non pagare la tassa, non so se mi spiego. Invece credo che non ci arrivi
proprio, ora che lo sto analizzando per bene.
“Sono forte in tutti i sensi” ribatto, dopo un breve
tentennamento. Penso sempre un po’ troppo.
Con una leggera goffaggine iniziale, alzo le braccia e gli
mostro i muscoli ben sviluppati.
“Ragazzone” ribadisce G, allora.
“Vai con Dio, amico” dico allora, scoraggiato.
Gli do le spalle e faccio per andarmene, schivo come sempre.
Schivo come se fossi maleducato, anche se lo faccio per evitare di mostrare la
mia timidezza; sto arrossendo a una velocità impressionante e non voglio che
veda le mie gote imporporate, così come non gradisco che le notino gli altri.
Preferisco insabbiare tutto quanto, piuttosto che mostrarmi fragile, buono e
vulnerabile.
Perché sotto sotto sono buono, vero? Lo sono?
“E quindi, i bengalini…” fa per ribattere, senza mollare la
presa, “…vorrei comprarli anch’io, li sto cercando…”.
Ma vattene a fanculo, G! So che mi intorti solo perché vuoi
che ti dia i miei bengalini. E potrei anche regalarteli, sai? Ma sei solo una
testa di cazzo, un coglione.
Mi allontano da lui in fretta, non voglio ascoltarlo, ogni
sua parola è per me una coltellata. Io che mi illudevo che mi amasse… invece
voleva solo scroccare qualcosa.
In fondo, lui e S non sono poi così tanto diversi, solo che
il secondo arraffa e poi sparisce, per tornare a saccheggiare quando gli va,
mentre il primo non impari mai davvero a capire cosa vuole. So solo che ogni
volta si strappa una parte di me e se la porta via.
Di S non mi frega niente, è solo un malato. G è il fascino
fisico reso nel migliore dei modi. E, quasi incredibile da ammettere, ora che
mi sto allontanando mi verrebbe voglia di riavvicinarlo.
Dio me ne scampi. Devo fuggire, fuggire da lui… il più
lontano possibile.
Forse sarebbe meglio che fuggissi anche dalla vita, ma credo
questo sia un altro discorso, più barbaro e insolente.
NOTA DELL’AUTORE
Alex è un vorticare di rabbia, alla fine. Ecco che qui, di
nuovo, mi ritrovo a detestarlo. Mi sta su, decisamente.
L’incredibile è che quando scrivo lo faccio e via. Alex è un
fiume in piena, i suoi pensieri si collegano con una facilità che ritengo
davvero incredibile. Perché ci metto seicento anni a scrivere una sola frase
per altri racconti, ma in quelli dove c’è questo qui ecco che viene naturale.
Boh, forse sono un mostro rabbioso anche io, in fondo.
Scusatemi, queste note le ho scritte dopo la rilettura. Sono
capitoli che ho scritto mesi e mesi fa e rileggo poco prima di voi. Alla fine
leggiamo assieme, perché durante la battitura, come mio solito, non mi rendo
tanto conto di ciò che salta fuori, scrivo e basta.
Grazie per essere ancora qui, vi voglio bene. Siete tutti
fantastici!