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Autore: l y r a _    24/05/2020    3 recensioni
Il secondo anno di liceo di Tooru Oikawa è un gran macello. Lo dice Hajime Iwaizumi, il suo migliore amico da una vita, e precisa che lo sarebbe stato un po’ meno se non avessero incontrato Sakurai e subìto tutte le sue complicazioni patologiche.
Il primo anno di liceo di Megumi Sakurai è un fallimento annunciato e lei è arrogante, ambiziosa e ha scrupoli quanti gli spiccioli nel suo portafogli: nessuno. Lo dice tutta Sendai ed è tutta la verità.
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[Oikawa/OC | UshiShira | Accenni OC/Ushijima | Perpetrato reato di canon/OC ]
Genere: Generale, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Altri, Kenjiro Shirabu, Nuovo personaggio, Tooru Oikawa, Wakatoshi Ushijima
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 12

Risorse

Tooru era convinto avrebbe ricordato quell’anno come uno dei più brutti mai capitatogli: una straordinaria congiunzione di avvenimenti spiacevoli che si erano avvicendati uno dopo l’altro senza alcuna pietà. Di buono c’era che Yahaba ci sapeva fare e s’impegnava quanto più poteva per essere all’altezza del suo senpai, ma lui non sarebbe entrato in campo nemmeno una volta. A metà settembre aveva scoperto che Mizoguchi non gli avrebbe nemmeno permesso di sedersi in panchina e che gli sarebbe toccato seguire le ultime fasi dei preliminari dell’Harukou in mezzo agli spalti, con la parte del club che non era inclusa attivamente nella squadra e che si occupava perlopiù della tifoseria. Così aveva passato la penultima settimana di ottobre ad arrossire quando qualche rinomato rivale gli sfilava davanti tutto tronfio, pronto a giocarsi il tutto per tutto, mentre lui si stringeva il benedetto ginocchio che lo aveva costretto alla pacchia. Eppure adesso poteva camminare dignitosamente, bastava che riposasse di tanto in tanto e non si affaticasse troppo. Si era addirittura abituato al tutore, a volte non ricordava nemmeno di portarlo.
Il secondo giorno, con una stretta allo stomaco, intravide Megumi sugli spalti più lontani, tutta presa dallo scontro fra la sua scuola e la DateKo. Trovò carino che fosse poi passata a salutarlo e a chiedergli come stesse. Con lei c’era una ragazza alta e magra, dai capelli neri e lucidi, che li scrutava entrambi con interesse; era sicuro di averla già vista da qualche parte, forse proprio nella squadra di Megumi, quando a giugno le aveva viste giocare al completo. Megumi gli chiese come stesse andando il suo club, le rispose rapidamente che fino ad allora se l’erano cavata bene, ma temeva per il set successivo, perché Iwaizumi iniziava a sembrargli troppo stanco. La ragazza si prese un attimo per guardare in campo con attenzione, ma poi concordò con lui. Si disse tuttavia fiduciosa che il suo amico avrebbe fatto ugualmente un’ottima performance.
«Ad un certo punto» spiegò «Sei esausto, ma l’adrenalina fa tutto il lavoro.»
«Insomma, da un certo punto della partita in poi smetti di giocare col cervello.»
L’amica di Megumi parve trovare la cosa piuttosto divertente e lei le scoccò uno sguardo di rimprovero che non sortì il benché minimo effetto. Tooru era felice di constatare che Megumi era riuscita a stringere una nuova amicizia, e il fatto che la ragazza, che poi scoprì chiamarsi Mikoto, non fosse affatto intimorita da lei era un segnale decisamente positivo per la ripresa psicologica di Megumi.
Nel corso delle settimane precedenti, i due avevano molto parlato del processo contro Hattori. Quando le cose sembravano volgere positivamente per i Sakurai, soprattutto grazie alla preziosissima registrazione che Tooru aveva fornito come prova, l’avvocato di Hattori ed il suo assistito avevano iniziato il più subdolo dei contrattacchi. Hattori sosteneva ora con insistenza che Megumi fosse consenziente e che, banalmente, se la fosse cercata: la sua nuova versione dei fatti raccontava una realtà in cui Megumi aveva incoraggiato sin dall’inizio le sue avances, pur di rimanere in squadra. Incredibilmente, il giudice aveva preso in considerazione le sue dichiarazioni: i messaggi e la cronologia telefonica del vecchio cellulare di Megumi, tutti inviati da Hattori servendosi di un’applicazione che generava numeri fittizi, erano stati bollati dalla difesa come fasulli e Megumi era stata accusata di aver falsificato le prove. Quanto alla registrazione, tuttavia, Hattori ed il suo avvocato non erano stati ancora in grado di trovare una scusa abbastanza credibile.
La faccenda aveva inevitabilmente turbato la ragazza, che si era confidata con lui qualche sera prima, quando era ancora a Minamisaka. Lui non poteva dirsi meno stupito, ma ciò che provava era essenzialmente un grande disgusto per quell’essere perfido ed egoista. Quel giorno però Megumi sembrava più serena rispetto a come le era sembrata per telefono in quell’occasione ed era certo che gran parte del merito lo dovesse alla compagnia degli altri. Ad esser sincero, provava un pizzico di dispiacere nel rendersi conto che la sua presenza non poteva essere fisica e costante quanto quella dei suoi compagni di scuola o – peggio ancora – quanto quella di Ushiwaka, che aveva perfino la fortuna di abitare a pochi passi da casa sua. Quando simili pensieri lo assalivano, si consolava rammentandosi che di lì a pochi giorni avevano in programma quella giornata al luna park che lei aveva sorprendentemente accettato di buon grado: nel grigiore di quell’ottobre deludente, sembrava l’unico evento che valesse la pena aspettare.
«I vostri hanno vinto, immagino.» osservò per cambiare argomento prima che Megumi si azzuffasse con la sua amica per via dei suoi risolini incontrollabili.
«Intendi i ragazzi? Ovviamente.»
Il modo in cui Megumi lo diceva, come se fosse la cosa più naturale e semplice del mondo, comune a tutti coloro che frequentavano la sua stessa scuola, lo innervosiva tantissimo ma doveva sforzarsi di camuffare il disappunto. Immaginò che se Hajime, giù in campo, avesse ascoltato quell’affermazione spicciola, si sarebbe seccato tanto da segnare almeno dieci punti uno dopo l’altro.
«Oikawa, ti si legge in faccia il fastidio!» commentò lei vagamente divertita.
«Mi scoccia che lo diate tutti così per scontato.» ammise allora.
«Perché lo è. Scontato, intendo.» intervenne Mikoto con altrettanta semplicità.
«Ecco! Mi fate davvero arrabbiare! Voi e il vostro lavaggio del cervello!» protestò melodrammatico.
«Miko, lui crede che ci facciano il lavaggio del cervello in entrata all’Accademia, per convincerci che sia il meglio in ogni campo.» spiegò Megumi all’amica con un sorriso.
«Ipotesi affascinante, ma assolutamente poco valida. Hai letto le statistiche di entrata e di uscita? Non so, quelle del job placement? Le università che frequentano i diplomati? I nomi degli ex-studenti?»
«Statistiche e nomi: sono tutto quello che sapete ripetere a pappagallo. Dite tutti la stessa cosa, come si fa a non pensare che siate lobotomizzati?»
Mentre Mikoto e Tooru bisticciavano animatamente, Megumi si distrasse da quella scena bizzarra quanto bastava per notare Wakatoshi che la fissava da qualche fila più in basso. Lo salutò agitando la mano e gli indicò sommessamente che Oikawa era seduto lì e che stavano parlando con lui. Aveva forse immaginato che l’amico le avrebbe semplicemente rivolto un cenno disinteressato e si sarebbe allontanato con gli altri, invece si sorprese di vederlo salire le scale fino alla loro fila di sedute, sudato e stanco come lo aveva lasciato dopo la partita. Era piuttosto ingombrante e non poteva passare inosservato in mezzo ai ragazzi del club dell’Aoba Johsai, che si scoccarono sguardi confusi e innervositi. Per fortuna Tooru si era seduto ai margini del gruppo, perciò fu presto fuori dal loro campo visivo, anche se – di tanto in tanto – qualcuno si sarebbe voltato a guardarlo incuriosito. Il suo arrivo interruppe il singolare battibecco fra Mikoto e Tooru e quest’ultimo assunse, tutt’a un tratto, un colorito vagamente paonazzo. Aveva compreso che Megumi non l’aveva chiamato lì volontariamente e non riusciva davvero ad immaginarsi un motivo per cui uno come lui potesse infilarsi nel mezzo della tifoseria di noti rivali per raggiungere un’amica che aveva l’opportunità di vedere a tutte le ore del giorno. Invece, Ushiwaka riuscì a sconvolgerlo. Lo salutò con un rapido segno del capo e mormorò, col suo insopportabile vocione baritono:
«Mi dispiace per il tuo infortunio.»
Il ragazzo biascicò qualcosa, preso alla sprovvista da uno spirito solidale che non avrebbe mai potuto attribuire a Ushijima. Non si poteva dire che ne fosse contento, ma in qualche modo lo trovava piacevole.
«Quando ho saputo che non avresti giocato» e qui si tradì rivolgendo uno sguardo fugace a Megumi, che arrossì e finse di concentrarsi su quanto accadeva in campo «ci sono restato male, contavo che le nostre squadre si sarebbero scontrate, come sempre.»
Tooru non sapeva come giudicare quelle parole: da una parte, era grato che Ushijima lo tenesse tanto in considerazione come rivale da manifestargli tutta la sua solidarietà, dall’altra lo infastidiva il velato egoismo che accompagnava le sue affermazioni, insieme all’implicazione – quella piuttosto palese – che senza di lui i ragazzi non sarebbero mai riusciti a vincere abbastanza partite da incrociare la Shiratorizawa. Stava dunque per replicare con ostilità quando Megumi s’intromise per rimproverare l’amico, del tutto inaspettatamente.
«Waka-nii, il club di Oikawa se la cava egregiamente anche senza di lui!»
«Non credo proprio.»
«Innanzitutto credi male e poi non sono cose per niente carine da dire!»
«Senza di lui sono una squadretta mediocre, prevedibile.»
«Sei impazzito? Guarda che sei circondato dal nemico! Vuoi iniziare una rissa sugli spalti?»
«No.» replicò lui con la consueta serietà.
Era talmente irritante che lo avrebbe preso a pugni Tooru stesso, se fosse stato in grado di fare a botte. Per qualche istante si era illuso che fosse una persona tutto sommato normale e ora poteva confermare che si trattasse sempre del solito stronzo. Come si poteva collaborare con uno così? Sempre testardo e saccente, convinto dell’assoluta superiorità delle sue opinioni. Anche Megumi, che pure condivideva con lui la sua buona dose di cocciutaggine e presunzione, come riusciva a tollerare il confronto con una personalità altrettanto rigida? La osservò mentre cercava di farlo ragionare, tutta bianca in viso per la preoccupazione di star facendo una pessima figura davanti a lui.
«Era un complimento.» si giustificò Ushijima, che aveva l’aria di non aver capito quale fosse il nocciolo della questione «Volevo dire che se riesce tanto bene in una squadra così ordinaria, avrebbe potuto compiere miracoli se…»
«Non voglio sentire altro, grazie per la tua solidarietà. E anche dei complimenti.» lo interruppe lui prima che potesse completare «Sono sicuro che i ragazzi stiano facendo del loro meglio, ma per quanto riguarda me e te ci rifaremo quest’estate.»
«No, aspettate un attimo.» s’immischiò Mikoto, abbastanza intrigata dalla discussione «C’è qualcosa che mi sono persa?»
«Lui aveva ricevuto un invito, lo scorso anno. Non ha accettato.»
«Un invito dell’Accademia?» ripeté, adesso più convinta «Capisco, quindi ti sei pentito?»
«Assolutamente no! Sto bene al posto mio e i ragazzi sono straordinari, al contrario di quanto dice Ushiwaka. Nessun rimorso, neanche uno!»
Mikoto gli rivolse un sorriso ambiguo che non gli piacque troppo. Sentì le guance in fiamme quando con gli occhi gli indicò Megumi accanto a lei e gli strizzò un occhio. Non gli dispiaceva che le sue amiche lo avessero saputo, ma lo preoccupava Ushiwaka: probabilmente non avrebbe tollerato le sue mire su Megumi, nonostante lui avesse rifiutato ogni sua dichiarazione d’amore. Nell’agitazione, però, riuscì a leggere la domanda che Mikoto stava silenziosamente sillabando con le sole labbra: le sta bene la divisa, vero? Arrossì ancora di più di prima e si sforzò di fingere che quella conversazione muta non fosse mai avvenuta. Megumi invece, che pur se l’era persa, interpretò male il suo rossore e protestò con durezza che lo stessero mettendo a disagio quando di problemi lui ne aveva già abbastanza. Fu grato della sua ingenua preoccupazione, ma la rassicurò che andava tutto bene e che non si faceva influenzare dal giudizio di chi imparava a memoria il depliant dell’orientamento insieme all’inno della scuola.
«Non è vero.» rispose Ushijima, prendendo la cosa ridicolmente sul serio.
«Ushijima-kun, lascialo perdere.» ridacchiò Mikoto «Non c’è proprio verso di farglielo capire. Non ha nemmeno visto com’è dentro e pretende di saperla lunga.»
«Non è vero, ho visto com’è… più o meno fino ai dormitori! Era notte però.»
Mikoto scoccò a Megumi un’occhiata teatralmente incredula. Tooru credeva di detestarla.
«Davvero, Megumi? Con Scoiattolo nella stessa stanza?»
Questa volta fu il turno di Megumi di diventar rossa come un peperone. Completamente in imbarazzo, spiegò alla men peggio che Oikawa l’aveva soltanto riaccompagnata a casa qualche volta quando giocavano insieme al Galaxy. Ushijima, con grande sollievo di Tooru, sembrava non aver afferrato troppo della conversazione. Cominciava a pensare che ci fosse abbastanza materiale controverso perché lo prendesse di peso e lo lanciasse giù dalle tribune.
«Santo cielo, Megumi… scherzavo!» replicò la ragazza, poi si rivolse a Tooru «E comunque non conta aver visto il campus di notte un paio di volte. Hai mai pensato di farci un giro?»
«Neanche per sogno!»
«Vieni al festival, il mese prossimo.» li interruppe Ushijima, con la solita flemma seriosa.
Per un attimo, pur conoscendolo abbastanza bene, Tooru considerò che lo stesse soltanto prendendo in giro, che non fosse un vero invito. Ma poi l’altro aggiunse: «Ogni anno c’è sempre una gran folla, nessuno si accorgerà di te. Puoi fare un giro con Megumi.»
Ushijima a quel punto poteva essere o tremendamente intelligente o profondamente stupido. In cuor suo, Tooru sperò con tutte le sue forze che la deduzione giusta forse la seconda, perché nel caso la prima si fosse rivelata corretta, probabilmente lo stava solo invitando nella tana del lupo per fargli la festa.
«Waka-nii, non essere ridicolo. Chi gliela fa fare?» intervenne Megumi, tutta impacciata.
Ushijima però gli rivolse un durissimo sguardo di sfida, come se si trattasse di una stravagante prova di coraggio, e lui si ritrovò a ricambiare con altrettanta durezza. Non poteva dimenticare nemmeno che Megumi era andata a trovarlo a scuola per ben due volte e si era perfino esposta al chiacchiericcio dei suoi compagni di scuola. Così alla fine gli assicurò che sarebbe passato, nonostante le proteste di Megumi. Forse aveva firmato la sua condanna a morte, ma non aveva alcuna intenzione di dare motivo ad Ushijima di ritenerlo un codardo. Se poi lo avesse gonfiato di botte perché girava intorno alla sua amica del cuore, almeno si sarebbe fatto pestare con dignità.
Alla fine il terzetto si accomiatò da lui. Megumi gli chiedeva scusa con gli occhi, non avrebbe voluto che i suoi amici lo mettessero così tanto alle strette. Tooru le sorrise, sperando che capisse che non era arrabbiato con lei, le disse che le avrebbe scritto più tardi. Ushijima lasciò che le ragazze si avviassero e fossero abbastanza lontane, prima di rivolgergli la parola per l’ultima volta.
«Grazie per tutto quello che fai per Megumi.»
Non riusciva proprio a smettere di stupirlo quel giorno. Forse non c’era malizia nel suo invito, forse non era né estremamente intelligente né totalmente stupido: forse sapeva e gli andava bene così.
«Lo faccio volentieri.» riuscì a rispondere a malapena, in testa un groviglio di ipotesi.
Gli pareva quasi, ma era certo di sbagliarsi, che Ushijima stesse cercando di aiutarlo con Megumi: lo aveva esplicitamente esortato a visitare il festival scolastico con lei ed ora lo ringraziava per averla difesa, o almeno per aver cercato di farlo, quando Hattori aveva cercato di strangolarla. Quando ripensava al vecchio coach di Megumi, gli montavano repentinamente addosso rabbia e riprovazione: non aveva mai voluto chiederle cosa di preciso quel maiale l’avesse obbligata a fare e a farsi fare, ma il modo in cui le sue labbra tremavano quando di tanto in tanto Tooru cercava con lei il contatto fisico parlava chiaro. Era sicuro che perfino Ushijima doveva aver rilevato qualche comportamento simile da parte dell’amica, che prima era stata tanto appiccicosa e prodiga di manifestazioni d’affetto nei suoi confronti.  A quel punto l’altro si congedò definitivamente, con la solita espressione indecifrabile e indisponente dipinta sul volto.

~

Arisu aveva perso le altre in un battito di ciglia quando una delegazione di corpulenti ragazzoni con indosso una divisa di un fastidioso color canarino l’aveva travolta senza alcuna educazione. Quando quell’onda anomala fu rientrata e tutto quel giallo terminò finalmente di accecarla, scoprì che Kaori e Horie erano fuori dalla sua visuale. Ficcò le mani nelle tasche della felpa bianca con cui sostituiva il blazer della divisa, troppo largo per le sue spalle, e si rassegnò a doverle cercare per tutto il palazzetto. Le sarebbe andato bene anche ritrovare Mikoto o Megumi, che dopo la partita si erano allontanate in direzione delle tribune, purché avesse potuto accodarsi a qualcuno dietro cui nascondersi. Per sicurezza, s’infilò anche il cappuccio.
Quella mattina, quando gli studenti dell’Accademia erano appena arrivati al palazzetto per assistere alle partite del club di pallavolo maschile, aveva scorto da lontano, fra decine e decine di teste, il profilo di alcune conoscenze piuttosto dolorose da ricordare, almeno quanto l’inverno dell’anno passato. Nel mezzo di una macchia di colore scuro, fiere e felici delle loro divise verde e blu elettrico, c’erano almeno tre delle sue compagne di squadra delle medie, inseparabili come sempre. Un tempo, erano state anche sue amiche, prima dell’affaire Megumi. Da allora avevano preso ad escluderla deliberatamente da ogni loro uscita o momento di aggregazione: se si avvicinava al loro banco durante la pausa pranzo, quelle subito decidevano che fosse il caso di scendere in cortile. Allora lo aveva trovato un comportamento giustificabile: contavano su di lei e aveva tradito la loro fiducia, ma adesso, a distanza di tutto quel tempo, si rendeva conto della crudeltà di un simile trattamento. Arisu si era solo sentita fortemente demotivata, aveva avuto paura di non essere più all’altezza del suo ruolo, di non poter tener testa nel futuro a martelli del calibro di Megumi e nessuno, nemmeno una di loro o il loro allenatore, che pure fino al giorno precedente aveva avuto una grandissima considerazione di lei, si erano degnati di rassicurarla. Era forse tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno: se gliel’avessero dato, probabilmente anche lei in quel momento sarebbe stata lì con loro a chiacchierare serenamente, nella sua bella uniforme blu e verde dell’Istituto Kujakuhara. Si rese conto, tuttavia, mentre guardava Mayu tenere il suo consueto comizio e Kotone e Seiko pendere dalle sue labbra, di non provare alcuna invidia: un bel cambiamento rispetto all’inizio di quell’anno scolastico, che aveva trascorso spiando con rimorso le homepage dei loro social e addossandosi colpe che in realtà non aveva. Ma, sebbene non trovasse la sua condizione attuale meno valida della loro, mossa da una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza aveva preferito non farsi notare e nascondersi dietro Yoshida, che le aveva rivolto uno sguardo interrogativo e preoccupato.
«Ho visto qualcuno con cui non voglio parlare.» aveva spiegato semplicemente alla capitana.
L’ultima cosa che desiderava, dunque, era incontrarle ora che era rimasta sola. Dubitava che le avrebbero rivolto la parola, ma la spaventava l’idea di cosa avrebbero potuto confabulare fra di loro alle sue spalle, magari condividendo i commenti con le loro nuove compagne di squadra. Se poi non l’avessero vista in compagnia di nessuno, avrebbero pensato che era rimasta la stessa esclusa che avevano lasciato alla fine dei corsi e se ne sarebbero comunque compiaciute. Doveva assolutamente sbrigarsi, perciò svoltò nell’atrio principale per accedere nuovamente alle tribune, dove quantomeno dovevano ancora essere seduti alcuni dei suoi compagni di classe.
«Seiko-chan, non è Hiromi questa ragazza?»
Accanto ai distributori automatici di snack e bevande, proprio ad un palmo di distanza da lei, le sue vecchie amiche, che tanto aveva desiderato di non incontrare, la scrutavano incuriosite. Imprecò fra sé e sé e strinse forte i pugni nelle tasche.
Mayu si chinò su di lei per osservarle meglio il volto, indugiò sui suoi piercing e sul nuovo colore di capelli, di cui non avevano mai saputo nulla. Arisu si era premurata, infatti, che nessuna nuova informazione su di lei giungesse alle loro orecchie, non sapeva dirsi se per ripicca o per proteggersi.
«Non c’è dubbio, sei proprio tu Hiromi!» decise alla fine.
«Coi capelli di quel colore mi aveva quasi presa in giro!» commentò Kotone divertita.
«Ciao, ragazze.» mormorò Arisu con mestizia «Era tanto che non ci vedevamo.»
Le tre non risposero subito, le vide guardare con attenzione la sua divisa scolastica sotto la felpa, cercando di capire a quale scuola fosse iscritta. Gli occhi di Mayu passarono in rassegna il suo cravattino, la sua gonna e perfino i collant scuri sotto i quali s’intravedevano appena i cerottini sulle ginocchia.
«Quindi giochi ancora.» disse sospettosa ritornando a guardarla in faccia. «Avevi detto di aver chiuso.»
«Si dicono tante cose, nei momenti di sconforto.» sibilò innervosita.
«Un momento di sconforto.» ripeté Kotone seccata dal suo tono «Non mi sembrava affatto un momento. Piangi ancora quando vedi Sakurai?»
«Non essere cattiva, Kotone-chan!» intervenne Mayu con un sorriso. Arisu detestava tutta quell’ipocrisia, si chiese come avesse fatto a non notarla quando le frequentava ancora. Ed infatti, con crudeltà ancora maggiore, Mayu continuò: «Basta non incontrarla, non è così?»
«Be’, non che si senta tanto nominare, quest’anno.» aggiunse Seiko pensosa.
«Pensa, Hiromi, siamo in lizza per i Nazionali quest’anno e la Shiratorizawa non l’abbiamo nemmeno incontrata. Che peccato, che tu abbia avuto il tuo momento di sconforto! Se ti fossi iscritta con noi neanche l’avresti vista.»
Arisu digrignò i denti. Era furiosa, ma le mancavano le parole per rispondere. Le tre non erano riuscite a capire che si fosse iscritta proprio all’Accademia, né potevano immaginare che le cose fossero totalmente cambiate fra lei e Megumi. Eppure non riusciva a parlare, le bruciavano solo gli occhi.
«Tesoro, ti viene ancora da piangere?» rincarò la dose Kotone «Cos’è, tu invece l’hai rivista?»
Era esattamente quello che credeva che sarebbe accaduto, soltanto che nella sua testa Arisu rispondeva tutta tronfia e decisa che le cose non stessero come loro pensavano. Ma anche se provava ad aprire la bocca, dalle sue labbra non usciva alcun suono: ricordava soltanto la tachicardia di quel giorno, i loro sguardi colmi di cocente delusione, e Megumi che infieriva su di lei dall’altra parte della rete. Alla fine, l’impensabile accadde.
«Guarda, guarda, qualcuno sta disturbando il tuo Scoiattolo
Mai sentire la voce di Mikoto aveva provocato in Arisu tanto sollievo. La ragazza torreggiava alta sulle sue ex-compagne di squadra, con un sorriso per nulla rassicurante sulle labbra sottili. A dire la verità, era piuttosto spaventoso, ma Mayu e le altre sembravano più preoccupate dall’altra persona che si trovava con lei.
«Vuoi scherzare, Miko? Nessuno disturba il mio Scoiattolo, posso farlo solo io.»
Il tono di Megumi, che ad Arisu ricordò soltanto una pessima imitazione del modo di parlare di Mikoto, in qualche modo riuscì a mettere in guardia le sue vecchie amiche. Con un pizzico di soddisfazione, vide Kotone fare un passo indietro e boccheggiare senza risultato.
«Ci siamo già viste?» domandò Mikoto con modi decisamente troppo cortesi per i suoi standard. Era chiaro come il sole che la sua fosse una provocazione, lei e Megumi giocavano insieme alle medie e si erano scontrate con loro appena l’anno prima.
«Giocavamo all’Hanazono con Hiromi, l’anno scorso.» rispose Mayu innervosita.
«Ah già!» recitò la ragazza «Forse adesso ricordo qualcosina! Megumi tu le ricordi?»
«Io mi ricordo solo di Risu.»
«Voi tre… vi conoscete?» balbettò Seiko confusa. Occhieggiava preoccupata in direzione di Mikoto, la cui reputazione di iettatrice era celebre già dai tempi del liceo. Arisu rammentava che alcune delle sue compagne di squadra avevano attribuito la loro cocente disfatta allo zampino della strega. Forse sarebbe stato il caso di chiederglielo, prima o poi.
«Lei è in squadra con noi, è chiaro che ci conosciamo.» rispose Mikoto facendo spallucce.
«Io e Risu siamo anche compagne di stanza, se è per questo.» aggiunse Megumi con naturalezza.
Mayu e le altre si scambiarono sguardi sconvolti. Al loro posto, anche Arisu lo sarebbe stata: l’anno prima non sarebbe mai arrivata a credere alla realizzazione di uno scenario simile, era perfino grata a Mikoto che, insospettabilmente, aveva deciso di prendere le sue parti quando passava la maggior parte del tempo a stuzzicarla. Immagino che volesse dire che tutto sommato erano amiche.
«Non è possibile» obiettò infine Mayu decisa «Lei ti detesta.»
Megumi sollevò un sopracciglio, replicando che non le risultasse.
«Mi detesti, Risu?»
«Assolutamente no!» le assicurò prontamente.
«Andiamo piuttosto d’accordo, a dire il vero.» spiegò Megumi.
«All’inizio abbiamo avuto qualche attrito, ma è acqua passata.» convenne Arisu.
«Abbiamo parlato e chiarito.»
«È così che si dovrebbero affrontare i dissapori.» concluse Arisu, non risparmiandosi la frecciatina alle sue vecchie amiche «Parlandone.»
Mayu strinse le labbra. Ricacciò i capelli scuri dietro le orecchie e socchiuse gli occhi, con l’intenzione piuttosto audace di ferire.
«Quindi per la paura di scontrarti con lei hai preferito passare dalla sua parte? Accettate anche le vigliacche alla Shiratorizawa? Dovete essere davvero alle pezze!»
«Ma sentila! Almeno Scoiattolo ha cercato di fermare Megumi, mentre voi avete preferito lasciare che se ne occupasse soltanto lei, finché non si è stancata!» ribatté aspra Mikoto.
Arisu non aveva mai visto la vicenda da quel punto di vista: stando in campo si era sentita sola, in trappola, come se stessero sfidandosi solo lei e Megumi. Presa dal vortice di emozioni negative che l’aveva inghiottita quel giorno, aveva dimenticato che le altre non avessero mosso un dito per alleggerirle il compito, nemmeno quando la sua fiducia aveva cominciato a vacillare. Le avevano lasciato l’ingrata incombenza di ricevere e difendere ogni palla di Megumi, le stesse da cui loro erano spaventate, e quando tutto era andato male si erano sentite legittimate a scaricarle addosso tutta la colpa. Ma Mikoto era un’osservatrice scaltra, come Kaori; dall’altro lato aveva avuto una visione completa di cosa stesse accadendo fra le fila delle avversarie e aveva visto quello che Arisu non era stata in grado di notare: codardia.
«Ti sfugge che la tua amica puntava su di lei.»
«E a te sfugge che sei provvista di gambe.»
Mayu sbuffò furente. Arisu avrebbe trovato divertente, in un’altra situazione, che fosse stata proprio Mikoto a fare un’osservazione del genere. Lei, che in ricezione e difesa era penosa.
«Bene le cose devono essere cambiate, dal momento che noi siamo arrivate alle semifinali e voi da quanto ci risulta non vi siete nemmeno qualificate.»
«Volete forse che vi auguri il nostro vecchio coach? Vi avverto che non è una bella esperienza.»
«Non osare sputare malefici, strega!» intervenne Kotone inquieta.
«Risolviamo la cosa civilmente.» propose Seiko, che era sempre stata la più diplomatica delle tre «Al prossimo campionato, fate in modo di qualificarvi.»
Non era per niente il caso che qualcuno mettesse così tanta ansia da prestazione sulle spalle di Megumi, che peraltro al momento non sapeva nemmeno se nel prossimo campionato avrebbe giocato, perciò Arisu si preoccupò per lei. Avrebbe voluto intromettersi per mediare ma l’amica fu più veloce: accettò la sfida senza riserve e, per un istante, gli sembrò di essere ritornata la stessa bestia feroce dell’anno prima, con la stessa luce insaziabile negli occhi.
«Ragazze, io vi ringrazio ma non era il caso di attaccare briga con Mayu e le altre.» sussurrò quando si furono finalmente separate da loro.
«Ti stavano infastidendo.» tagliò corto Megumi «Non devono permettersi mai più.»
«Ma sentila! Scoiattolo, credo che Megumi si senta in colpa.»
«Mi pare giusto che mi senta in colpa, Miko. È accaduto tutto a causa mia, anche se quelle ci hanno messo del loro. Per quel che mi riguarda, ci tengo a difenderla.»
«Non ho bisogno di essere protetta, ma grazie.»
L’idea che Megumi intendesse aiutarla le procurava una sensazione pacifica, luminosa e calda come il sole. Non che non sapesse la ragione per cui la provasse, forse le era fin troppo chiaro, ma evitava accuratamente di accertarlo. Era felice di averla dalla sua parte, molto più di quanto lo fosse stata quando era con Mayu, Kotone, Seiko o chiunque altro.

~

Quanto aveva dormito? Megumi sperò che fossero trascorse almeno un paio d’ore dall’ultima volta che si era svegliata, invece – più lucida di quanto avrebbe voluto essere – scoprì che le lancette fluorescenti della sveglia sul suo comodino segnavano ancora le quattro meno un quarto del mattino: l’ultima volta che l’aveva controllata erano solo le tre e venti. Invidiava Arisu, che dormiva beata nel letto di fronte da quando vi si era lasciata cadere sopra, mentre a lei sembrava di essere tornata qualche mese indietro nel tempo: si era illusa che la storia di Hattori fosse finita quando lo aveva denunciato, aveva dato per scontato che il processo avesse dato semplicemente ragione a lei e alla sua famiglia, le era perfino sembrato che tutto sarebbe andato per il meglio. Il contrattacco non se l’era proprio aspettato, era la solita stupida. Si rimise seduta e si tirò indietro i capelli per scoprire la fronte. Non riusciva a decidere se provasse caldo o freddo: un attimo prima si scopriva nervosamente, quello dopo si stringeva addosso il piumone. Non vedeva via d’uscita, l’unico suo appiglio rimaneva quella registrazione di Oikawa, o almeno lo sarebbe stato ancora per poco: Hattori e il suo avvocato avrebbero trovato ben presto un cavillo del quale servirsi per smontarlo. Eppure a lei tutte quelle scuse sembravano incredibili, come poteva un giudice prestare ascolto a degli alibi tanto ridicoli?
«Signori, non è possibile negare che la ragazza se l’è cercata.»
Megumi sillabò fra le labbra l’assurda affermazione dell’avvocato, come un soffio silenzioso. Iniziava a crederci anche lei, dopotutto le avevano ripetuto più e più volte che aveva in effetti accettato il negoziato di Hattori: aveva sempre sostenuto di non aver avuto scelta, eppure adesso riusciva a comprendere di aver mentito. Cosa sarebbe accaduto se avesse rifiutato la proposta di Hattori quel giorno? Semplicemente sarebbe uscita dall’ufficio e tutto sarebbe proseguito in modo normale, si sarebbe guadagnata il suo posto in squadra onestamente e sarebbe stata felice. Non riusciva quasi più a udire quella voce che le ricordava che Hattori non avrebbe mai accettato un no come risposta, che le avrebbe ripetuto la proposta giorno dopo giorno, che anche se avesse giocato egregiamente, non l’avrebbe mai accolta in squadra per ripicca, che si sarebbe comunque sentito in diritto di molestarla e minacciarla, perché era la sua parola contro quella di una studentessa in cerca d’attenzioni.
Sentiva le dita formicolare per l’ansia ed una morsa gelida le stringeva il petto; non poteva prendere altre medicine, lo aveva già fatto prima di mettersi a letto ed era passato troppo poco tempo per giustificare una seconda dose. Valutò di svegliare Arisu, ma si vergognava troppo per farlo.
Le quattro del mattino erano troppo presto per una corsa? Forse sì ma in quel momento non vedeva altra alternativa che togliersi il pigiama ed infilarsi la tuta e le scarpe da ginnastica, poiché non aveva più alcuna speranza di rimettersi a dormire, ci aveva già provato invano troppe volte.
Così, infine, sgattaiolò fuori dal dormitorio, ben attenta a non svegliare il custode che si era addormentato durante il turno. Le luci dell’alba erano ancora lontane, ed un brivido freddo la costrinse a tirar su la zip della felpa ma inspirò profondamente e cominciò a camminare a passo svelto, sempre più veloce, finché i suoi muscoli non si furono riscaldati abbastanza da permetterle di correre lungo il perimetro interno dell’Accademia. Avrebbe voluto variare il tragitto, ma prima delle sei i cancelli rimanevano saldamente chiusi.
«È presto perfino per te.» la voce del ragazzo fermo nel buio del mattino autunnale, accanto alla fontana orribile del cortile la costrinse a fermarsi a sua volta.
«Anche per te, Waka-nii
Avvicinandosi, si accorse che poggiava una gamba alla volta sul bordo più alto della fontana, per tirare meglio il quadricipite; Wakatoshi era solito fare stretching solo alla fine del suo allenamento, perciò doveva essere uscito perfino prima di lei ed era curioso che non si fossero notati prima.
«Ti ho vista prima, ma tu no. Non volevo disturbarti.» spiegò come se potesse leggerle nel pensiero.
«A che ora hai iniziato?» gli domandò incuriosita correndo sul posto.
«Le due e mezzo… le tre, non lo so nemmeno io. Non riuscivo a dormire.»
Megumi smise di saltellare sul posto, turbata e l’altro interruppe lo stretching per farsi vicino a lei.
«Vieni» le disse «Facciamo un giro di defaticamento, non ti fa bene fermarti di colpo.»
Megumi lo seguì preoccupata, d’un tratto si era perfino dimenticata dei pensieri che l’avevano assillata fino ad allora: era raro che Wakatoshi fosse angosciato per qualcosa, e mai prima di allora qualcosa lo aveva tenuto sveglio fino al mattino successivo, se non il divorzio dei suoi genitori e la partenza di suo padre.
«È per il processo, non è così?» le domandò lui prima che lei avesse il tempo di chiedergli qualcosa «Tua madre ha raccontato a mia nonna cosa ha detto quel viscido davanti al giudice. Lo sai, vero, che lo fa apposta per costringerti a ritrattare?»
«Dice che l’ho voluto io, che me la sono andata a cercare.»
«Non è vero. Se anche gli avessi detto no, ti avrebbe assillata finché non avessi accettato.»
«Be’, non possiamo esserne sicuri.»
«Sì, invece, perché tu non gli hai mai dato il permesso di infastidirti oltre quel bacio. A prescindere da quello, avrebbe continuato a tormentarti.»
«Non possiamo saperlo.» ribadì nuovamente.
«Megumi-chan, non pensare nemmeno una volta che quello che ti è accaduto sia colpa tua. Sei stata ingenua, questo sì, ma anche se non avessi accettato quel bacio, se lo sarebbe preso come si è preso tutto il resto.»
Megumi gli rivolse un sorriso amaro. «Tutto il resto…» sospirò afflitta.
«Non è che per caso… lui…»
«No!» tagliò corto la ragazza, tutta tesa «Ma era questione di tempo, era da un po’ che ci provava, io ero sempre riuscita a scamparla, perfino quel giorno. L’ho fatto arrabbiare così tanto che se n’è scordato e ha preferito picchiarmi, o…» le sue dita sfiorarono il collo, mimarono il gesto di stringerlo.
Wakatoshi le cinse le spalle con un braccio, lei trasalì prima di rilassarsi: era solo il suo amico d’infanzia, non le avrebbe mai fatto del male.
«Ho pensato di morire.» ammise per la prima volta in tutti quei mesi «Mi era sembrata una soluzione praticabile per disfarmi di Hattori. Ero pronta, riesci a crederci?»
«Avresti dovuto parlarmene, come stai facendo adesso.»
Megumi fece per obiettare ma l’amico l’anticipò: «Sì, lo so che Hattori ti ha detto che non si sarebbe fatto scrupoli a prendersela anche con me, ma in due l’avremmo affrontato meglio.»
«Ti ho già promesso che d’ora in poi non ti nasconderò più nulla che mi preoccupi.» gli ricordò sorridendogli e dandogli un lieve colpetto di spalla. «Ma non credo che da parte tua sia reciproco.»
Wakatoshi la guardò un istante, non parve per niente sorpreso e distolse subito lo sguardo. Il loro passo era ormai diventato lento e il cielo più chiaro, segno inequivocabile che la notte avrebbe presto ceduto il posto al mattino.
«Cosa ti preoccupa?» lo incalzò allora Megumi, ansiosa di trovare risposte.
«Sono stato convocato per la nazionale juniores.» ammise allora. C’era un che di stonato nella sua solita cadenza distaccata, un tremore che vibrava più acuto della sua voce, piuttosto inedito per chi non lo avesse conosciuto da quanto tempo lo conosceva lei. Wakatoshi non parlava mai di paura e si poteva essere perfino tanto sconsiderati da azzardare che non ne avesse mai provata in vita sua, salvo poi riconoscere l’errore: non temeva la maggior parte delle cose che i più avrebbero trovato spaventose forse, ma conosceva anche lui l’ansietà ed era tutta in quel fremito sommesso che contaminava le sue parole.
«Ma è fantastico, Waka-­nii!» commentò felice come se fosse al posto suo «Sei solo al secondo anno e sei già dentro! Me lo sentivo da quando lo scorso anno sei stato selezionato per il ritiro nazionale!»
L’amico preferì non rispondere, lasciò che il suo entusiasmo si spegnesse nel silenzio dell’alba.
«Perché hai paura? La tua carriera sportiva vera e propria è sul punto di iniziare…»
Wakatoshi si mise le mani in tasca, si fermò a pochi passi dal punto in cui erano partiti.
«Non ho mai avuto dubbi sulle mie competenze a livello nazionale.» ammise tradendo appena la tensione «Ma adesso si parla di confrontarsi col mondo intero. Ho paura di restare deluso da me stesso ed ho paura di deludere mio padre.»
«Come potresti deluderlo? Piuttosto sarà felicissimo di poterti vedere giocare oltreoceano!»
«O potrei farlo vergognare in diretta mondiale.»
«E anche se sbagliassi qualche volta? Hai solo diciassette anni, è normale che tu abbia ancora tanto da imparare per migliorare… e sei già a buon punto! L’unica cosa che non sei in grado di fare è proprio deludere qualcuno dal punto di vista sportivo. Sono certa che tuo padre è fiero di te.»
Wakatoshi le sorrise appena.
«Dovrai chiedere a tua mamma di firmare qualche giustificazione per la scuola.» le annunciò.
Megumi si limitò a scoccargli un’occhiata confusa.
«Hai promesso di assistere a tutte le mie partite, non ricordi?»
Profumo di erba appena tagliata, di vernice fresca sulla terra battuta, polvere sul pallone rammendato, un cane che abbaiava non troppo lontano ma non abbastanza forte da coprire il canto delle cicale. I pensieri di Megumi tornarono al caldo umido di luglio in una frazione di campagna. Si chiese cosa si provasse a salire su un aereo.
«Non posso dimenticarlo.» rispose con un sorriso.
~
 
Mikoto era stata la prima, in tutto quel marasma delle ultime settimane, a portare a termine la missione del servizio in salto: silenziosa e incolore, era il cavallo su cui nessuno avrebbe mai scommesso ed invece aveva sbaragliato tutta la competizione, Megumi compresa. Quel giovedì sfortunato le aveva rivolto un sorriso compiaciuto e si era goduta i complimenti di tutte, perfino quelli di Kurihara. Alla fine dei conti – considerò Megumi – la sfortuna era una misteriosa alleata di Mikoto, che sembrava possedere il potere di piegarla alla sua volontà e plasmarla a proprio piacimento.
Era l’inizio di una giornata disastrosa: per tutto l’allenamento mattutino, uno dei più odiosi visto che precedeva l’inizio delle lezioni, non aveva fatto altro che chiedersi quando e come l’amica si fosse impratichita abbastanza da farle mangiare la propria polvere. Si rese infine conto di essere stata tanto presa da sé stessa e dal suo obiettivo, ogni giorno sempre più irraggiungibile, da dimenticarsi di guardarsi intorno. Non solo Mikoto era migliorata, ma anche gli sforzi di Kaori iniziavano a dare i primi frutti e così quelli di Hoshino e di Yoshida, che era diventata – se possibile – ancora più abile di quanto fosse mai stata. Ognuna delle sue compagne di squadra aveva mosso dei passi in avanti e gli ambiziosi piani della signorina Kato si facevano sempre più realizzabili, eccetto per una minuscola ma essenziale variabile: Megumi, che era rimasta indietro, con le gambe pesanti come piombo. Allora comprese che la sua nuova allenatrice, che in lei aveva riposto così tante speranze, non poteva essere affatto contenta di lei. Forse aveva ragione Hattori: Megumi non era nessuno e non aveva alcuna speranza di farsi strada se non quella di ricorrere a sotterfugi illeciti e sleali. Sapeva bene che non era il momento giusto per farsi prendere dallo sconforto, si disse che doveva concentrarsi sul piccolo match di allenamento che avevano improvvisato per l’ultima mezz’ora, che doveva rimanere concentrata, ma non fu capace di scacciare quelle dolorose riflessioni dalla propria testa e se ne accorse troppo tardi.
Qualcuno, forse Kato stessa, l’aveva chiamata per nome, ma la sua voce suonava lontana e ovattata, non riusciva a capire bene cosa le stesse dicendo. Faceva freddo, ma Megumi aveva le mani sudate; avevano appena iniziato la partita, ma le mancava il respiro come se avesse appena smesso di correre. Il gioco si era fermato? Non vedeva più la palla, la palestra era diventata una macchia sfocata. D’improvviso, il panico le esplose nel petto e come un’onda gelida, la privò di ciò che rimaneva della sua coscienza. Qualcuno gridò, mentre il suo braccio veniva saldamente afferrato per impedire che crollasse per terra. Infine tutti i suoni scomparvero e la macchia sfocata si ridusse al colore della pece.
Si era risvegliata ben lontana dalla palestra, nell’infermeria dell’Accademia, non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato. Naomi Kato era seduta accanto a lei, trafficava con il cellulare e sembrava preoccupata.
«Mi dica che non è successo.» mormorò Megumi, distogliendo l’allenatrice dai suoi pensieri.
La signorina Kato le rivolse un sorriso radioso, come se lei non fosse miseramente svenuta nel mezzo del suo allenamento, come se meritasse gentilezza.
«Come ti senti?» le domandò con dolcezza.
«Confusa… e stanca.»
«Comprensibile: Arisu dice che sei uscita presto stamattina.»
«Non riuscivo più a dormire.»
«Credo che tu abbia recuperato, in un modo o nell’altro: sono le dieci passate.»
«Lei… è stata qui per tre ore?»
«Se una mia ragazza non si sente bene, è mio dovere.»
«Non mi risulta sia una regola dell’istituto.»
Naomi rise. «Diciamo che è una mia regola. E poi ci hai fatto prendere un brutto spavento, cascare così all’improvviso... per fortuna stai bene, il medico ha detto che si è trattato di un attacco di panico.»
Megumi balbettò che lo sapeva e che non era la prima volta che le capitava, ma non era mai svenuta. Si vergognava tantissimo della figuraccia e le dispiaceva di aver messo in allarme tutte quante, si scusò con l’allenatrice, cercò di prometterle che non sarebbe mai più accaduto.
«Cosa c’è di male, Megumi? Può capitare a tutti, anche ai migliori. Anche se ricapitasse, non è una colpa: dopo tutto quello che ti è successo e che ti sta succedendo è più che normale che il tuo corpo ne risenta. Se vuoi proprio promettermi qualcosa, promettimi di essere meno severa con te stessa: non uscire a correre alle quattro di mattina, ad esempio, e per un po’ mettiamo da parte quella dieta proteica. Vai bene così come sei, non ho bisogno che tu la prosegua oltre, anzi spero tu possa perdonarmi per avertela richiesta, sono stata incosciente. Immagino che il preside abbia ragione quando dice che non sono adatta.»
«Lei è più che adatta, sono io che non vado bene.»
«Tu non hai nulla che non vada bene Megumi! Stai solo passando un brutto periodo ed è comprensibile che tutto si risolva in un batter d’occhio. Ascoltami, prendila più alla leggera: allenati il giusto, quanto basta per restare pratica, passa del tempo con gli amici, esci, oppure stai a letto e leggi un libro… ma divertiti, ritrova te stessa.»
«Le ho già detto tempo fa che non voglio sconti, è irritante che mi trattiate sempre come se ci fosse soltanto bisogno di compatirmi e assecondarmi. La verità è che, per quanto io possa sforzarmi, nulla mi riesce abbastanza bene: è oggettivo e lo sapete tutti, ma continuate a fingere. Ho trascorso le ultime settimane a esercitarmi su quel servizio ogni santissimo giorno, ma non ho mai ottenuto i risultati che Mikoto sembra aver raggiunto senza il minimo sacrificio, e mi sento colpevole perché ne sono invidiosa quando invece dovrei soltanto essere felice per lei. Sono una cattiva persona, non è così?»
Gli occhi della signorina Kato erano colmi di stupore e a Megumi parve quasi che stesse vedendo altro, oltre che la sua faccia di allieva penosa. Tutt’a un tratto le prese le mani.
«È normale essere invidiosi, Megumi. Lo siamo stati tutti, anche io. Può capitare perfino di esserlo nei confronti degli amici, come sta succedendo a te. Ed è vero, forse siamo tutti indulgenti con te, ma lo facciamo perché vogliamo aiutarti: quello che vorrei che capissi è che l’unico ostacolo che ti separa da quel che vuoi e che puoi diventare sei tu. Io li vedo, i tuoi sforzi, e allo stesso modo li vedono le ragazze e i tuoi amici, ma vediamo anche i tuoi tentativi di autosabotaggio.»
«Glielo giuro, io non faccio niente per sabotarmi!» protestò la ragazza.
«Non mi aspetto che tu lo riconosca, non lo fai consciamente: ma trovare ogni volta una scusa per giustificare la cattiva riuscita di un’azione, prima ancora che avvenga, è autosabotaggio. Decidere che non sei in grado di fare qualcosa senza nemmeno provare è autosabotaggio, convincerti che Noriko ti stia osservando per vederti sbagliare un servizio è autosabotaggio, continuare a pensare che Hattori avesse ragione sul tuo conto è autosabotaggio. E tu fai tutte queste cose, è vero o no?»
A malincuore, ma piena di una consapevolezza tutta nuova, Megumi fu costretta a confermare. Era piuttosto certa che sarebbe scoppiata a piangere di nuovo davanti a l’allenatrice e tentò in tutti i modi di impedire alle lacrime di venire fuori, ma alla fine fu la stessa Kato ad accorgersene.
«Se ti fa stare meglio, non vergognarti di piangere.» la rassicurò.
La ragazza non aveva mai voluto accogliere il suo invito, ma il suo corpo non obbediva più alla sua volontà, così si ritrovò a singhiozzare con gli occhi gonfi e lucidi, domandò all’allenatrice cosa avesse intenzione di fare con lei, ora che l’ansia aveva fatto di lei un essere così debole.
Kato le sorrise, stavolta non con pietà o con condiscendenza, ma con salda decisione.
«La paura può diventare una risorsa.»
Megumi avrebbe continuato a ripetersi quella risposta così insensata mentre dall’infermeria rincasava al dormitorio, con il benestare dell’infermiere e la firma del preside Kurihara che non si era nemmeno risparmiato di telefonare sua madre. Dopo aver bisticciato al telefono con la signora Sakurai, che si era offerta in tutti i modi di andare a prenderla per riportarla a casa, la ragazza aveva ottenuto l’esonero dalle lezioni per il pomeriggio e per tutto il giorno successivo, a patto che non ne approfittasse per ripresentarsi agli allenamenti. Più tardi, in mensa, il cuoco in persona provvide a servirle il doppio delle porzioni, sostenendo che fosse troppo sciupata per accontentarsi di quel che c’era; Megumi sospettava che ci fosse lo zampino della signorina Kato e del preside e non aveva nemmeno tutta quella fame, ma fu costretta a passare ugualmente sopra il disagio che tutte quelle attenzioni le procuravano.
Non aveva voglia di parlare con nessuno, nemmeno con Wakatoshi o con Arisu, perciò scelse il tavolo più lontano dagli occhi degli altri, in un angolino riparato a ridosso delle cucine e provò ad assaggiare il ramen di pollo che il cuoco aveva tanto diligentemente lodato, ma era così bollente che ogni tentativo di avvicinare le bacchette alla bocca finiva con una scottatura. In attesa che si freddasse il minimo necessario a mangiarlo senza ustionarsi il palato e l’esofago, tirò fuori il cellulare e prese ad esaminare le numerose notifiche che si erano accumulate da quella mattina. C’erano almeno dieci messaggi di Arisu, che non era riuscita a rientrare al dormitorio quando Megumi era tornata e le chiedeva insistentemente come stesse, due di Wakatoshi che aveva saputo l’accaduto da qualcuno e le chiedeva dove fosse, alcuni delle sue compagne di squadra, compresa Kurihara, che le aveva scritto che aveva insistito con suo nonno perché le fossero sospese le lezioni, e – aggrottò le sopracciglia nel vederlo – otto chiamate senza risposta da parte di Kenjiro. Megumi si chiese quando fosse stato in grado di farle, visto che non gli sarebbero nemmeno bastati tutti i cambi dell’ora.
C’era poi, in basso, il consueto messaggino di buongiorno di Oikawa, seguito dai consueti mille cuoricini molesti, tutti di colore blu. Quella mattina si era scordata di rispondere, dicendosi che lo avrebbe fatto prima di entrare in classe, ma poi a scuola non c’era andata più. Gli scrisse allora per scusarsi del silenzio, riassumendogli in poche parole quello che le era accaduto. Il ragazzo le rispose istantaneamente, chiedendole ulteriori notizie su come stesse e se avesse bisogno di qualcosa. Quando l’ebbe rassicurato che tutto quello che le serviva era una bella notte di riposo ed un po’ di relax, Oikawa si offrì, piuttosto perentorio in realtà, di accompagnarla a fare una passeggiata il giorno successivo, garantendole che non si sarebbero affaticati troppo. Lei, incredibilmente sorpresa da sé stessa e dall’emozione sconosciuta che l’aveva pervasa nel leggere l’invito, accettò.
«Eccoti qua, finalmente! Si può sapere dov’eri finita?»
Kenjiro era riuscito in qualche modo ad individuarla nella confusione della sala mensa all’ora di punta e la fissava con sguardo duro.
«Si può sapere dov’eri finita? Ho perso il conto delle volte in cui ho provato a chiamarti! Mentre eravamo in pausa mi sono perfino infilato in classe di Kawanishi e Nonaka mi ha detto che ti eri sentita male ed eri in infermeria! Ma indovina? Quando sono arrivato, in infermeria non c’eri!»
L’irritazione di Kenjiro era quasi divertente e bastava a riscaldarle il cuore.
«Il preside mi ha fatta uscire, sono tornata al dormitorio.»
«Sei una cogliona, ne sei consapevole, vero? Potevi scrivermi un messaggio, chiedere a qualcuno di avvertirmi, ed invece te ne sei stata due ore da sola senza dare segni di vita e poi ti sei nascosta dietro la porta della cucina! Lo sai che durante l’ora di coordinamento la capoclasse ha assegnato i ruoli per il festival scolastico? Ti avrebbero messo nel Maid Café se non fossi intervenuto io!»
Tralasciando il cattivo gusto di chi aveva pensato che le sarebbe stato bene un grembiulino bardato di fiocchi e fronzoli, Megumi non avrebbe mai accettato un’umiliazione del genere: piuttosto avrebbe marinato la scuola. Ringraziò perciò Kenjiro per la premura e quello, per tutta risposta, le intimò nervoso di non muoversi da lì perché sarebbe andato a prendere il suo vassoio dal tavolo dove si era sistemato e sarebbe tornato per continuare la ramanzina. Tuttavia, quando tornò indietro, non era più solo: con lui c’erano anche Mikoto e Kaori e un loro compagno di classe che giocava con Kenjiro e che ricordava chiamarsi Kawanishi. La presenza di Mikoto la metteva un po’ a disagio per via dei pensieri che aveva esternato alla signorina Kato e si considerò lieta del fatto che i poteri paranormali di Mikoto non prevedessero la lettura della mente altrui. Nei minuti successivi, si presentò al loro tavolo anche Arisu, che non volle sentire ragioni e si fece fare spazio fra Megumi e Mikoto. In men che non si dica, l’angolo più nascosto della sala era diventato anche il più rumoroso e la situazione non poté che peggiorare quando, alle costole di Wakatoshi, che li aveva raggiunti dopo che Megumi lo aveva informato di dove fosse, spuntò perfino Tendou che prese a tormentare Kawanishi per il resto della pausa pranzo. Per concludere, si buscarono una bella sgridata del professore di storia.
Quando le ragazze restarono sole, prima che Arisu, Mikoto e Kaori tornassero alle lezioni pomeridiane, Megumi riuscì finalmente a far virare il discorso su cosa facessero il pomeriggio di Halloween. Erano giorni che cercava di introdurre l’argomento senza alcun successo, ma questa volta Kaori parve cascarci in pieno, perché prese a raccontare di quanta roba il negozio dei suoi genitori smerciasse in quel periodo e di come ogni anno li avesse aiutati a servire la clientela. Da quell’anno, tuttavia, i signori Nonaka avrebbero dovuto fare a meno della collaborazione della figlia minore: da quando Kaori aveva iniziato il liceo, rimaneva al dormitorio fino al week-end, con buona pace di mamma e papà.
«Ah, io non so.» rispose Mikoto con una serietà che soltanto dopo si rivelò dissacrante autoironia «Ho questo incontro con le mie colleghe streghe, stiamo cercando di evocare un demone della vendetta. Personalmente, non sono convinta che funzionerà.»
Poi fu costretta a precisare, giurando solennemente sui suoi gatti, che stava scherzando, prima che Arisu fosse colta da un calo di pressione. Quando fu sufficientemente rassicurata che Mikoto non aveva in programma alcuna evocazione demoniaca per il trentuno del mese, bisticciando con un cerottino sul ginocchio, Arisu sospirò che non aveva nulla da fare ad Halloween.
A quel punto Megumi ritenne il momento adatto a introdurre la questione.
«Se non avete nulla da fare, ci sarebbe il parco divertimenti. È l’ultima apertura di questa stagione, e sono stata invitata ad andarci.»
«Invitata da chi?» la punzecchio Mikoto sospettosa.
Megumi strinse le labbra. «Non ve lo dico.» borbottò.
«Se un ragazzo ti invita al luna park, devi andarci da sola con lui!»
«Non è un appuntamento!» chiarificò l’altra con nervosismo.
«Se Oikawa ti invita al Luna Park e tu gli dici di sì è tecnicamente un appuntamento.» osservò Kaori, decisamente troppo entusiasta della situazione.
Megumi si affrettò a spiegare che Oikawa le aveva semplicemente esteso l’invito dei suoi amici, che avevano già programmato di trascorrere lì il pomeriggio di Halloween, dal momento che cadeva proprio nel giorno di riposo del loro club. Omise che non si spiegava come mai avessero deciso di includerla con così tanta tranquillità, visto che l’ultimo incontro con loro, risalente a qualche settimana prima, non era stato poi così amichevole. Questa incertezza, insieme al consueto imbarazzo che le prendeva ogni volta che rimaneva troppo tempo da sola con Oikawa, l’aveva spinta a sua volta a chiedere alle ragazze di accompagnarla.
«Chiaramente è una farsa per convincerti: è ovvio che sarete solo voi due.» affermò Arisu.
«Non mi importa: che sia solo lui o che ci siano anche gli altri, non mi va di andarci sola. Kenjiro non vuole venirci, e Wakatoshi ha insistito di non volerne assolutamente sapere nulla. Siete la mia unica speranza!»
«Piuttosto vorrai dire che siamo l’ultima scelta…» commentò Mikoto.
«Avevo pensato subito a voi, in realtà: loro sarebbero quattro e noi altrettante!»
«Ah no, a me queste cose non piacciono!» la interruppe Arisu tesa «Sia chiaro che io non ho intenzione di fare gli occhi dolci a nessuno, detesto gli appuntamenti combinati!»
«Scoiattolo, credo che tu stia viaggiando di fantasia, non penso che Megumi stesse programmando di trovarti il fidanzato, sta solo cercando una via di fuga nel caso le cose vadano male. Io ci sto: non ho niente di meglio da fare e ho troppa poca fiducia nel genere maschile per lasciarla senza paracadute. Se poi dovessero essere soltanto loro due soli soletti, scomparirò prima che Oikawa possa vedermi.»
«Grazie, Mikoto. In realtà mi farebbe piacere se rimanessi anche se fossimo soli, ma va bene lo stesso. Ricambierò il favore appena possibile.»
«Allora verrò anche io.» annunciò Arisu, un po’ rossa in viso «E se Oikawa dovesse infastidirti quando rimarrete da soli, verrò fuori e gliene dirò quattro.»
Kaori le guardava tutte e tre con un’espressione piuttosto sconsolata sul viso: stava considerando che, di quel passo, l’appuntamento di Megumi sarebbe stato un disastro irrimediabile. Mikoto avrebbe terrorizzato i ragazzi, ammesso sempre che ci fossero realmente stati, mentre Arisu avrebbe impedito a Oikawa anche solo di superare il metro di distanza dalla ragazza che aveva invitato ad uscire. Constatato che c’era l’inderogabile necessità di qualcuno che tenesse sotto controllo quelle tre irresponsabili, decise infine di unirsi al gruppo.
Megumi le fu immensamente grata: la signorina Kato le aveva consigliato di trascorrere del tempo con gli amici e lei era già riuscita a trasformare qualcosa che la spaventava – quell’appuntamento con Oikawa al parco divertimenti che aveva tanto incautamente accettato – in un’occasione per farlo.
Forse era proprio quello che intendeva Kato, quando parlava di trasformare la paura in una risorsa.


NOTE FINALI

Questo è uno di quei capitoli in cui succedono un sacco di cose, forse un po' troppo lungo e me ne dolgo, ma non volevo intaccare il prossimo, che si svolge su tutt'altri toni. Spero che tutta l'introspezione di Megumi non risulti pesante ma ci tenevo a mostrarvi che per lei lo spettro di Hattori non è affatto lontano e che, proprio come accade in questi casi nella vita reale, spesso alle vittime non viene riconosciuta la ragione per via di cavilli incredibili (e spesso anche offensivi). Sono riuscita finalmente ad introdurre le vecchie amiche di Arisu che, fra parentesi, frequentano una scuola che - dai colori della divisa al nome - fa riferimento al pavone. Il nome l'ho proprio inventato male, ma non avevo altre idee su come comporre la parola, quaero veniam!
Infine, prima di salutarvi, voglio ringraziarvi per le recensioni che mi avete lasciato, nonostante non aggiornassi da una vita! Ogni segno del vostro passaggio, dall'aggiunta alle liste alle recensioni, è per me carburante preziosissimo, perché mi mettono così di buon umore che divento produttiva. Perciò vi chiedo, se vi va, di lasciarmene sempre una, anche piccina, per dirmi che ci siete e farmi sapere cosa vi è piaciuto e cosa vi aspettate.
Grazie per essere ancora qui, vi voglio bene!
Alla prossima (che sarà divertente!),
Lyra

   
 
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