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Autore: Moonfire2394    01/06/2020    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
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Capitolo 29 – La festa dello Scao Leadh pt. I

Morgana osservò pigramente, attraverso le vetrate del rosone della camera padronale, la polvere di fata che turbinava e mulinava nell’oscurità della notte, mischiando i suoi tentacoli argentati come tinte su una tela. Si accigliò mestamente quando la Comeles che le pettinava i lunghi capelli rossi come vampate di fuoco, le strappò un nutrito ciuffetto con un colpo deciso di spazzola, senza chiederle nemmeno scusa. Morgana non poté soffocare un gridolino. La piccola e vorticosa creatura delle nebbie dai contorni eterei le scoccò un’occhiataccia grinzosa nel riflesso dello specchio e sgattaiolò oltre la porta in una nuvola di fumo bianca. Gli spiriti dell’aria non erano particolarmente socievoli e Morgana lo aveva imparato a sue spese.
Prese a ripercorrere la brevissima conversazione che avevano avuto in quel pomeriggio di intense preparazioni e non riuscì a scovare nulla che avesse potuto indispettirla in quel modo. Mi odiano tutti, si disse lei remissiva, ingoiando quella triste verità, spinosa come la lisca di un pesce. Era come se tutti sapessero quello che aveva fatto, come se ce l’avesse scritto in fronte e chiunque potesse leggere l’orrore delle sue azioni. Impugnò la spazzola e terminò il lavoro incompiuto della fata dell’aria rimirando allo specchio la sua faccia da traditrice. Si detestava con tutte le sue forze, soprattutto quello spruzzo di lentiggini sulla sua pelle bianca come il latte e…quegli occhi che le ricordavano suo padre. Le sembrò quasi di affogare nel suo dolore, sentiva i lembi dello squarcio sul petto allontanarsi sempre di più, lasciando il suo cuore vulnerabile e indifeso.
Se solo non avessi parlato…sarebbe ancora vivo. L’ho ucciso io. Morgana non poteva ancora credere che il corpo del suo amato padre si stesse raffreddando sottoterra. Era troppo tardi quando le lacrime le inondarono gli occhi. Il mascara le rigò di nero la guancia, trasformandola in una maschera di Pierrot.
«Pel di carota potresti passarmi il fard per favore?» le chiese distrattamente Caterina mentre si spalmava un lucente ombretto dorato, che si sposava perfettamente con la sua carnagione abbronzata, sfumandoselo con la punta del mignolo sulla palpebra socchiusa. Si voltò con uno scatto furioso nella sua direzione quando non ricevette alcuna risposta dalla protettrice. «Ma sei sorda? Ti ho detto…Morgana ma che…?» Si affrettò a raggiungerla e nel farlo strusciò le cosce nel suo attillatissimo tubino nero, come se si stesse muovendo goffamente dentro un cilindro, e per poco non inciampò nella piega del tappeto lungo il tragitto. Si appoggiò al mobile della specchiera e le sollevò il mento per incontrare il suo sguardo. Morgana fece fatica a non sbirciare la pelle mutilata dalla cicatrice che le aveva lasciato l’artiglio della Lupa. Dall’altra parte la scollatura del vestito non lo nascondeva granché, ma a lei non sembrava dispiacerle, anzi il simbolo di quella sua prima battaglia era motivo di orgoglio per la cacciatrice di licantropi.
«Oh merda, quella nuvoletta nervosa darà di matto quando vedrà il suo capolavoro andato distrutto» disse scuotendo la folta capigliatura riccioluta con disappunto «Si può sapere cosa ti prende?».
«Preparate le scialuppe! Fra poco annegheremo in un mare di lacrime» commentò Marlena appuntandosi la crocchia bionda con un fermaglio rosso come il suo lungo vestito affollato da fronzoli e volant inutili, a dir poco appariscente.  Carlotta che le stava stringendo i lacci del corpetto sogghignò alla sua battuta.
«Chiudi quella boccaccia Marlena! Suo padre è morto da poco per la miseria, puoi smettere di fare la stronzetta almeno per un attimo o è troppo complicato per te?». Marlena roteò gli occhi verdi, per nulla interessata ai crucci della sua compagna di viaggio, e tornò a tracciare col rossetto il contorno delle sue labbra.
Morgana tirò su col naso «Non è nulla Caterina, davvero. Mi passerà» disse lei stringendosi nelle spalle e tamponandosi le guance con un fazzoletto. «I veri guerrieri non si fermano a piangere i caduti in battaglia ma raccolgono le forze e continuano a lottare per loro, affinché il loro sacrificio non sia stato vano».
«Uhm, davvero delle belle parole, ma tu continui comunque a stare uno schifo» valutò Caterina sottraendole il fazzoletto dalle mani. Frugò nel cassetto dei trucchi acciuffando un paio di matite e qualche polverina e ricominciò a impiastricciarle la faccia da capo.
«Io ti capisco, davvero. Quando mia madre è stata sbranata  da un lupo mannaro, io ci sono rimasta davvero male. Insomma non che andassimo così d’accordo, ma era pur sempre mia madre» le disse arginando le sbavature attorno agli occhi. «E poi tuo padre se ne è andato nella maniera più onorevole possibile fra quelle con cui un protettore potesse lasciare questo mondo. Sacrificarsi al posto dei propri fratelli per sottrarli alla condanna della coorte marziale…Se ci ripenso ho ancora i brividi. Questa pratica fra i protettori era in auge ai tempi dell’antica Roma. Vederla dal vivo, be’, è stato qualcosa di unico. Sei stata fortunata ad avere una guida come lui».
Se solo gli assomigliassi un po’ di più, pensò la protettrice. Poteva continuare a vivere di rimpianti?
Furono interrotte da secchi rintocchi sul legno della porta. Qualcuno sulla soglia si schiarì la voce «É permesso?». Leona fece capolino entrando timidamente nella stanza. Si appoggiò allo stipite a braccia incrociate rivolgendo un piglio austero - mascella serrata e un sopracciglio inarcato - a Marlena che la stava squadrando dalla testa ai piedi con disprezzo. Aveva ancora la tenuta di combattimento addosso. Ma se bisognava essere franchi, si sarebbe potuta permettere di presenziare alla festa anche con quegli indumenti pratici, nessuna aveva quel portamento elegante e aggraziato indossando abiti neri, così semplici. Ne sarebbe servito anche solo un pizzico a Caterina che, dentro il suo tubino che le fasciava le forme, si muoveva con la grazia di un T-rex. Le due rivali distolsero lo sguardo l’una dall’altra con una smorfia. Morgana non ne era sicura ma credeva che Leona fosse certa della colpevolezza di Marlena, che fosse lei la spia del gruppo…Se solo avesse saputo…cosa avrebbe pensato di lei?
«Che cos’hai da guardare?» la rimbeccò la bionda.
Leona fece spallucce «Pensavo che partecipassimo allo Scao Leadh, non a un ballo in maschera. Quanti chili di trucco ti sei buttata addosso?».
«Molti meno di quelli che servirebbero a te per renderla almeno decente» le rispose Marlena con tono risentito «Cos’è questa puzza terribile!» continuò tappandosi le narici.
«Già sembra cacca di Troll, è disgustoso» esclamò Carlotta sfrusciando nel pavimento l’orlo del suo abito giallo canarino.
Leona si diede una fugace annusata «Oh deve essere l’odore di Nessie. Quella bestiolina ha davvero un’alitosi tremenda» si giustificò lei.
Caterina avanzò verso di lei «Già amica, sta volta sono d’accordo con loro. Ti serve un bagno» Caterina lo disse senza implicare alcuna sfumatura offensiva nella voce.
«Caterina, quel vestito ti sta benissimo, sei una bomba sexy!» apprezzò Leona.
«Cosa? Questa specie di bardatura soffocante?» fece lei accarezzando il tessuto. «Oh, sì, mi fa un culetto niente male non trovi? Non è che ti stai innamorando di me, eh?» la provocò schiacciandole l’occhiolino. Leona le uscì una linguaccia «Non ti garantisco nulla».
«Tu sì che hai buon gusto!» considerò soddisfatta l’amica.
«Come va con la cicatrice?» chiese Leona rabbuiandosi improvvisamente.
«Brucia un pochino ma per il resto non mi lamento, se vogliamo sorvolare sul fatto che mi hai ricucito peggio di Frankenstein» la accusò Caterina fingendosi scontenta «Per favore sorella, non fare mai il chirurgo»
«Me ne ricorderò» disse Leona fra una risata e l’altra. Poi tornò subito seria e guardò le sue compagne protettrici con aria solenne. «Vi dispiace lasciarci sole» esordì lei sistemandosi, un po’ a disagio, una ciocca di capelli corvini dietro l’orecchio «Ho bisogno di scambiare due parole con Morgana in privato» terminò indicando l’uscio per invitarle ad accomodarsi fuori dalla stanza. Sorprendentemente Marlena fu la prima a captare l’antifona e si avviò verso l’uscita picchiettando i tacchi sul pavimento, seguita dalla sua fedele Carlotta. La dama e la cortigiana, pensò Morgana.
«Be’, almeno potrò tornare a respirare» le disse prima di lasciare la stanza prendendo per mano Carlotta, la sua ombra «Andiamo a farci un giretto a palazzo» ci informò svanendo dalla nostra vista. Caterina si accodò a loro, prendendo qualche storta nel tratto che l’avrebbe portata all’uscita. «Vado a cercare Ethan» disse lei in fibrillazione. Sulla soglia lanciò a Leona uno sguardo comprensivo e lasciò le due amiche sole, chiudendosi la porta alle spalle.
Lei sapeva? Era qui per dirmelo, pensò Morgana sentendosi le budella contorcersi al suo interno. Aveva capito che ero la spia di mio padre.
«Alzati» disse lei affettuosamente «fatti vedere in tutto il tuo splendore». Morgana obbedì riluttante e lasciò la sedia lentamente, attenta a non far impigliare la gonna del suo meraviglioso vestito verde come uno smeraldo. Il corpetto merlettato, stretto in vita, si apriva in una gonna a ventaglio che le sfiorava le caviglie. Sulle sue spalle nude, un velo di seta finissimo l’avvolgeva delicatamente cingendole il collo. Le due estremità del velo erano trattenute da una gemma della stessa tonalità del vestito cerimoniale che le impreziosiva la semplicità della mantellina. I capelli lisci, dopo dure ore di lavoro da parte della servitù fatata della regina, le ricadevano sulla schiena facendo risaltare il verde dell’abito. Morgana ruotò su se stessa gonfiando la gonna in un turbinio di veli e merletti.
L’amica si aprì in un sorriso sincero, un sorriso che Morgana sentiva di non meritare. Sapeva di dover essere onesta con lei, ma temeva troppo la sua reazione, il suo giudizio era un peso che non era ancora disposta a  portare. La sua amica medjai, rifletté un po’ in ansia. C’era sempre stato qualcosa di speciale in lei e Gabriel, Morgana sentiva di saperlo da tempo eppure, quel giorno, si era ritrovata impreparata di fronte a quella rivelazione. Non poteva nascondere a se stessa che fosse risentita del fatto che Leona, la sua migliore amica, glielo avesse tenuto nascosto. Poteva anche comprendere Gabriel, nonostante la faccenda la ferisse per un altro aspetto, ma non se lo sarebbe mai aspettata da lei. C’era la questione della maledizione, va bene, ma ciò non giustificava il loro silenzio. Oppure sì? Cosa avrebbe fatto, si chiese Morgana, se avesse avuto quest’informazione fra le mani?
«Sei strepitosa» disse Leona nella sua consueta trasparente sincerità. L’amica arrossì a quel complimento. Non meritava nemmeno le sue lodi. Decise che le avrebbe detto tutto, costi quel che costi. L’avrebbe battuta sul tempo, non si sarebbe lasciata accusare «Lea io devo dir…» Leona sollevò una mano per fermare qualsiasi discorso lei avesse in mente. Fu un gesto così repentino e autoritario che si costrinse a richiudere la bocca, sigillando in essa il primo tentativo di rivelarle il suo segreto. Era un duello in stile mezzogiorno di fuoco e lei aveva premuto il grilletto per prima, il suo caricatore si era inceppato…
«Morgana io ti devo delle scuse, sono giorni che sono logorata dai sensi di colpa. Mi dispiace sul serio, io non volevo ferirti. Lo so, le mie parole ti suoneranno patetiche, adesso che non c’è più nulla da fare e che vi ho costretti a farvi bandire dal campo, la nostra casa. Accettale se puoi. Ma voglio che tu sappia che te l’ho tenuto nascosto per un motivo. Più persone lo avrebbero saputo e più il rischio sarebbe cresciuto, non solo per noi, anche voi vi sareste trasformati in un facile bersaglio e questa era davvero l’ultima cosa che volevo. Io ho visto i tuoi occhi quel giorno ed è stato come se mi fossi infranta. Vi ho scorto il tradimento, non solo per il mio silenzio ma anche per quello che tu pensi avrei potuto fare. Ti giuro non sapevo nemmeno io come sarebbe andata a finire con Caterina, non l’avevo mai fatto prima d’ora e pensavo davvero di non farcela. Non che sia un capolavoro, ma almeno è viva». Leona fissò le vetrate alle spalle di Morgana con lo sguardo apparentemente perso nel vuoto.
«Non avrei potuto fare nulla per tuo padre» disse come se non avesse trovato un modo più delicato per rivelarmelo. «Anche mio zio è…andato, Morgana. Non pensi che avrei fatto qualsiasi cosa per portarlo indietro?».
«La magia, se vuoi chiamarla così, dei medjai, ha dei limiti. Possiamo ricucire le ferite, sì, ma non così in profondità. Se avessi estratto il proiettile con l’allomanzia avrei rischiato di perforare qualche altro organo interno e sai bene che non ho il pieno controllo dei miei poteri». Sorrise senza convinzione.
«Ho ridotto la cittadella in un cumulo di macerie soltanto perché non sono riuscita a controllarmi. C’è qualcosa di oscuro in me, e sento di non poterlo fermare. Le mie sofferenze non possono giustificare il male che ho fatto. A volte penso di non conoscermi abbastanza, forse non avrei mai dovuto ricevere i miei poteri» si guardò le mani inorridita da se stessa.
«Ho paura, Morgana. Ho paura di seguire a mia insaputa le orme di Odetta, la mia antenata. E io non voglio farvi del male…».
La rossa si mosse rapida in un fruscio di veli e prese le mani all'amica.
«È davvero questo che pensi di me, Lea? Credi davvero che io ce l’abbia con te perché non hai salvato mio padre con i tuoi poteri da medjai? So quello che ti ho detto, ed era dettato solo dal dolore, non pensavo davvero quelle cose. Non potrei mai incolparti per qualcosa che non potevi prevedere, e poi anche tu stavi per essere giustiziata sul patibolo. Sono stata crudele e vorrei davvero cancellare quel momento. Tu non hai proprio nulla di cui farti perdonare, piuttosto sono io a dover domandare scusa a tutti voi per quello che ho fatto…» Morgana strinse le labbra.
«Guardami Lea. Io non vedo oscurità in te. Tu sei amore, onore e sacrificio, tutto ciò che un buon protettore dovrebbe essere. Non ti permetto di offenderti a quel modo» si sentì in dovere di aggiungere vedendo l’espressione tormentata della ragazza. I suoi sensi di colpa non faceva che accrescere l’orrore per se stessa. Pensava di essere lei il problema…
Guardò Leona allontanarsi da lei per andarsi ad appollaiare con le ginocchia sotto il mento nella poltroncina accanto al letto, i lunghi capelli neri che avvolgevano come un mantello la sua figura rannicchiata.
«Tu non capisci io…» la ragazza scosse la testa «non credo più che sia una buona idea prendere quei ciondoli, non voglio dovermi trovare con quel potere fra le mani. Mi è stato predetto che presto mi sarei trovata di fronte a una scelta. E se prendessi la decisione sbagliata? E se li usassi per fini sbagliati?».
«Aspetta un momento…» esclamò Morgana corrugando la fronte. «Hai forse detto ciondoli?». Non era sicura di aver sentito bene, ma l’amica dissolse il suo dubbio annuendo decisa. Per la barba di Mayak…
«Vuoi rubare anche il ciondolo del sole alla regina?» esplose come un vulcano, sconvolta da quella dichiarazione.
«Abbassa la voce!» la riproverò Leona con un dito sulle labbra.
Morgana sospirò «Immagino che io debba sedermi…ha tutta l’aria di essere una lunga storia» disse trovando nuovamente posto nella sua sedia. Leona non dissentì e aggiornò l’amica su tutto il resto del piano che aveva tenuto nascosto persino a Fabiano e suo fratello. Le raccontò di Attilius e di sua figlia Hilde e di come tutto sia partito da quella sua folle richiesta di essere liberato da Highgate. Di quanto era successo quella notte e dell’incontro con quei vampiri. Delle sue emozioni contrastanti nei loro confronti, dell’empatia che provava per loro, della profezia della succhia sangue che vedeva nel futuro.
Non era sicura di cosa pensasse a riguardo. Insomma farsi amici dei vampiri per una cacciatrice come lei, che li aveva sempre odiati, suonava davvero strano. Ma si fidava del giudizio di Leona.  Morgana si trovò a dover digerire tutta quella mole di informazioni in un sol boccone, si sentì annaspare, rendendosi conto che, la ragazza che aveva di fronte, era molto più forte di quello che credeva. Come poteva sopportare il lutto delle zio, il peso di quegli eventi e allo stesso tempo riuscire a sorriderle? L’aveva investita della sua fiducia, come un re che nomina il suo fido consigliere. Quelle vesti le stavano strette. Quella fiducia cominciava a farle male. Leona aveva il diritto di sapere con chi aveva a che fare, specialmente dopo che l’aveva resa partecipe dei suoi segreti.
«È una follia Leona, lasciatelo dire» pronosticò Morgana.
«Lo sapremo soltanto dopo l’udienza con Delilah» disse lei un po’ sovrappensiero.
«Non potresti semplicemente chiederglielo? Insomma non farti ingannare dalle apparenze. Quella donna è potente e pericolosa, persino più di te nei tuoi momenti peggiori. E se qualcosa dovesse andare storto?».
«Per quel momento avrò un piano» la rassicurò lei.
La rossa inarcò un sopracciglio «E questo cosa dovrebbe significare?»
«Che saprò come dovranno andare le cose, fidati di me, è complicato. Ma ho già la risposta nella mia tasca». Morgana non poteva sapere che la protettrice avesse letteralmente la soluzione nella tasca dei suoi pantaloni.
«E se lasciassi perdere?» provò ancora a dissuadere l’amica.
Leona ormai si era stravaccata a suo agio con le gambe penzoloni sul bracciolo della poltrona «Ho firmato quel maledetto contratto, Morg. Sono fregata. O li prendo entrambi o morirò, atrocemente».
«Nessuno è mai riuscito a ingannare una fata o a batterla in furbizia. Specialmente Delilah».
«Forse non sarà necessario» disse la solita ottimista. Morgana lasciò che il silenzio s’impadronisse della stanza e le concedesse un trampolino di lancio per farsi avanti e finalmente liberarsi di quel peso opprimente, con la speranza che lei l’avesse compresa. Visto che era tempo di rivelazioni…
«Leona?» esordì Morgana a bassa voce, risuonando più insicura del normale.
«Uhm, sì?» disse dando l’aria di una che non stesse prestando molta attenzione, lo sguardo sperduto fra gli affreschi del soffitto.
Morgana arricciò la gonna del vestito nella sua morsa d’acciaio «Devo dirti una cosa, una cosa molto importante». Finalmente ottenne l’attenzione dei suoi occhi blu.
«Io…». Fu tutto quello che riuscì a dire quando qualcuno spalancò violentemente la porta facendo evaporare il tepore della camera da letto.
«Gabriel! Ti sei forse dimenticato di come si bussa?» lo apostrofò la gemella del ragazzo che aveva fatto irruzione nei loro alloggi seguito da tre driadi che gli ronzavano attorno nei loro abiti voluttuosi.
«È questa l’accoglienza che riservi al tuo fratellino tornato fresco, fresco dal regno dei morti?» disse con un ghigno mentre le driadi sospiravano svenevoli al suo fianco.
«Ma falla finita!» lo scacciò Leona con un gestaccio.
È così bello, si soprese a pensare Morgana contemplandolo nel suo completo nero che gli calzava a pennello. Ma quell’estasi durò ben poco. Non poté evitare di farsi travolgere da un’intensa ondata di gelosia alla vista di tutte quelle mani che si avviluppavano al suo corpo tornito e statuario. Soprattutto quella che in quel momento si intrecciava con i suoi riccioli morbidi e vorticosi, in modo così disinvolto. Era quello che aveva sempre sognato di fare, dovette ammettere con una punta di malinconia e mettendo a tacere per un attimo la sua pudica e inguaribile timidezza. Quel gioco innocente avrebbe significato così tanto per lei, eppure sapeva che non avrebbe avuto mai il coraggio di prendere una iniziativa del genere. Men che meno poggiargli una mano sulla camicia, sentendo sotto di essa la durezza dei suoi pettorali, come stava facendo quell’alberello insolente e sfacciato… Morgana a quel pensiero ebbe un piccolo mancamento, il suo mondo aveva cominciato a girare come una giostra. Poi la driade alla sua destra strusciò i suoi prosperosi seni sul braccio di lui, aggrappandosi come una ventosa, e la rossa ebbe l’istinto di cercare il suo arco e incoccare una freccia…
Gabriel stava per ribattere a sua sorella, ma qualcosa lo congelò seduta stante in una buffa posa: bocca spalancata e sopracciglia aggrottate. I loro occhi si erano intercettati in linea d’aria e da quel momento in poi non avevano smesso di scrutarsi a vicenda. Lo sguardo di lui la perlustrò con un cipiglio adorante, quasi sconvolto, come se fosse stato abbagliato da un raggio di luce. Morgana si sentì nuda in balia delle sue occhiate così intense ma lasciò che lui continuasse a guardarla con il desiderio che ardeva nel fondo dei suo occhi.
«Morgana…» disse lui deglutendo a fatica «Tu sei, tu sei…». Era raro vederlo incespicare in quel modo, lui che era sempre così arrogante e pieno di sé. Morgana però sapeva che la maschera che si era costruito non c’era più e attendeva ardentemente che terminasse la frase.
Sembrò costargli un grande sforzo ma alla fine le disse quasi bisbigliando «Tu…sei una visione». Morgana avvertì chiaramente qualcosa esplodergli nel petto quando le offrì quel sorriso spontaneo, unico nel suo genere. Aveva imprecato fra sé per il rossore che le aveva ricoperto la faccia e non solo, ma non le parve più così terribile rendere manifeste le sue emozioni a colui che, ormai ne era certa, amasse più di chiunque altro. E lei ci aveva davvero provato a non farlo. Ma adesso non ne vale più la pena: era stata sopraffatta dai suoi stessi sentimenti.
Tutto quello che riuscì a balbettare fu un «g-grazie».
Giurò di aver sentito l’amica ridacchiare soddisfatta ancora raggomitolata  nel suo morbido angolino di cuscini. Si affrettò a sferzarla con un’occhiataccia, ma lei si limitò a fare spallucce.
Gabriel riavutosi dal suo intontimento, spostò la sua attenzione su Leona, indurendo l’espressione. «E tu…» le disse con un tono di rimprovero «Sei ancora conciata così? Non hai avuto nemmeno la decenza di lavarti».
«Puzzo così tanto?» domandò lei imbronciandosi.
«Sì!» le risposero tutti all’unanimità. Lei parve voler confutare la loro opinione ma poi scelse saggiamente di battere la ritirata e arrendersi al fatto che non emanasse il suo solito dolce profumo di rose…
«Per fortuna ho portato le mie amiche con me. Affidati alle loro cure e ti rimetteranno a nuovo. C’è un abito niente male che la regina stessa sembra aver scelto per te…». Leona sollevò la testa dal cuscino sfidando le driadi ad avvicinarsi a lei, come una vipera pronta ad affondare i suoi denti velenosi.
«Pensavo fossero le tue dame da compagnia, fratello» lo provocò lei senza alcuna intenzione di scollarsi da quel divano.
«Oh no, sorella. Dovresti sapere che preferisco di gran lunga la compagnia delle rosse».
Detto questo, il giovane dai riccioli neri si fece avanti alla sua accompagnatrice, accarezzandola garbatamente con i suoi sguardi di apprezzamento alla sua beltà, e tremando visibilmente per l’emozione, le prese il polso scoccandole un bacio sul dorso latteo della sua mano scintillante di anelli.
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La nebbia fatata si rimestava fra le torri merlate del bastione d’oro, celando agli occhi di Fabiano il cielo stellato di Sirio. I venticelli formavano taciti flussi di un bianco sfavillante, come se fossero fiumi nell’aria. Tutte e sette le guglie del palazzo erano adornate di ordini curvi e serpeggianti di finestre colorate, collegate fra loro da camminamenti sopraelevati, popolati da schiere di scorribande di sentinelle reali dalle orecchie a punta. Il bagliore metallico delle loro armature illuminava gli angoli bui della fortezza di lievi balenii improvvisi che fulminavano la notte. Perché tutte quelle pattuglie di ronda? Si chiese il ragazzo, insospettito dal nutrito gruppo di fate-soldato che sorvegliava la sala da ballo dall’alto.
Fabiano cercava fra quella folla punteggiata da differenti creature fatate, i suoi amici dispersi in quella calca di visi sconosciuti. La lunga sala rettangolare, a cielo aperto, era un tripudio di decorazioni floreali e sfarzosi. Le colonne portanti dai capitelli corinzi, erano intervallati da spazi aperti che davano sul suntuoso giardino reale. Ormai quasi tutte le sette tribù principali presenziavano alla festa di quella sera, compresa una piccola minoranza di Nixies che aveva acconsentito alle insistenti suppliche di Delilah, la quale teneva all’unità delle tribù più di ogni altra cosa, in special modo per la ricorrenza dello Scao Leadh. Anche gli gnomi con i loro abiti vecchi, lisi e sporchi di fuliggine e sudore per il duro lavoro alle fucine, circuivano il banchetto rifocillandosi di dolcetti glassati e zuccotti zuccherati. Li trovava molto buffi con quelle brache tirate fin sul panciotto da delle bretelle e le camicie infilate dentro solo parzialmente. Nessuno comunque era incuriosito dal loro aspetto trasandato, erano semplicemente…gnomi. Niente a che vedere con gli abiti eleganti indossati dai membri più alti della coorte.
«Bella festa, eh?» lo stuzzicò Fabrizio giunto di soppiatto alle sue spalle nel suo tight blu scuro.
«Già la regina non ha badato a spese» assentì il protettore.
«Non di certo per la ricorrenza più importante dell’anno. Al raduno fatato partecipano tutte le tribù e anche i popoli minori. Scao Leadh nel loro antico dialetto significa  letteralmente, "liberazione dall'oscurità" in memoria dell'epica battaglia con le fate oscure di Frieda.
Vedi quelle signorine in abiti verdi e rossi? Quelle sono le Slyphs dell’aria. Hanno la capacità di tramutarsi in esili e leggiadre fanciulle, ma molto spesso preferiscono presentarsi nella loro forma di uccello. Quelle invece avvolte in vesti d’argento» proseguì indicando un altro gruppo «sono le Silfidi dell’acqua. Creature molto particolari: conoscono il futuro, il passato, ma non il presente per qualche strano motivo. È tradizione che aprano le danze con il concerto dello Scao Leadh, hanno delle voci davvero incantevoli».
«Le Driadi…be’, loro le conosciamo molto bene… ah e quelle laggiù, sì, quelle con dei bracieri al posto dei capelli, sono le Fiammelle. Assumono la loro forma mortale soltanto in questa occasione. Di solito si presentano come piccole scintille o palle di fuoco in grado di cambiare le loro dimensioni come più le aggrada. Si dice che sappiano trasformarsi anche in lucertole, ma potrebbe essere solo una diceria». Quando l’amico giunse alla descrizione delle Pixies, a Fabiano era venuto un gran mal di testa. Non era sicuro che dopo quella lezione sulle fate riuscisse a distinguerle con più facilità. Aveva ben altro per la testa.
Dalla balconata principale che dava sul giardino, la regina osservava i suoi ospiti in silenzio, i lunghi capelli dorati che ondeggiavano in balia del vento oltre il parapetto semicircolare di pietra. Due pire di fuochi danzanti, una alla sua destra, l’altro alla sua sinistra, proiettavano curiose ombre sul suo volto estasiato e sorridente, lo sguardo nutrito dalla gioia del suo popolo che si godeva la festa da lei organizzata. Leona, oltre a vederla solo come un tramite per raggiungere i suoi scopi, sospettava fortemente di lei, ma il ragazzo non ne conosceva ancora le motivazioni. Trovò difficile dubitare di una persona che si rallegrava a quel modo del benessere del suo popolo. Non era il classico reggente tiranno che sfrutta la forza lavoro dei suoi sudditi, schiacciandoli sotto il peso di tasse esorbitanti, per poi goderne lei stessa dei frutti di quegli sforzi. Dall’altra parte, però, si fidava ciecamente dell’istinto dell’amica, quindi decise di non abbassare la guardia. Fabrizio non aveva ancora smesso di sproloquiare sul suo argomento preferito. Gli dispiacque molto interromperlo.
«Dovremmo riunirci col gruppo, sarà meglio se restiamo vicini. La festa ci garantisce l’immunità della regina ma sarebbe meglio se ci guardassimo le spalle l’un l’altro» ci ragionò su Fabiano.
Il protettore occhialuto annuì connivente «Hai ragione. I ragazzi sono lì, stanno per prendere posto al banchetto. Dovrò ricordargli di non toccare nulla…» disse roteando gli occhi, impaziente.
I due sveltirono l’andatura dei loro passi quando videro dei Curatores Noctis prender posto nelle panche disposte a ventaglio davanti a un palco affollato da Silfidi allineate ordinatamente a formare un coro. Gli sguardi di tutti i presenti erano puntati sulla scalinata bronzea che portava agli alloggi reali e seguivano l’andamento dinoccolato di un figura alta e regale che la percorreva con una sorta di sinuosa leggiadria tipica di un nobile. Il giovane principe indossava con regalità un completo bianco di giacca e pantaloni, ornato da una cappa dorata che gli pendeva lungo la spalla destra. Allacciata alla sua cintura per la guardia, vi era un fioretto la cui lama sottile era rivestita da un fodero anch’esso dorato come la cappa.
Sceso l’ultimo gradino, la gente lì intorno si produsse in inchini ossequiosi e il giovane dai lunghi capelli biondi, dritti appena sopra le spalle, ricambiò quella cortesia in un gesto di quella che pareva profonda umiltà. Chiunque l’avrebbe scambiato per un umano se non fosse stato per la punta delle orecchie che sporgevano fra le ciocche dei suoi capelli.
Quello era il principe Kahel, il fratello della Kiendjar che in quel momento piluccava oziosamente il suo antipasto, sedendo scomposta accanto alla sedia vacante a capotavola. Era stato facile riconoscere la sua identità per Fabiano, era una copia sputata della madre.
La sorellastra lo guardò con manifesta invidia, poiché mai nessuno le si era rivolto con tanto rispetto nei suoi confronti, pur essendo figlia di Delilah. Fabiano non se ne intendeva molto di discendenze reali e primogeniti. Trovava comunque ingiusto, sebbene la mezza-fata in questione non brillasse per virtù, che le fosse riservato un trattamento così diverso dal fratello maggiore.
Beccò i suoi compagni protettori, vestiti anche loro di tutto punto, a bisbigliare sommessamente fra loro in un angolo della sala, all’imboccatura fra due colonne. Si guardavano attorno vigili e circospetti evitando cautamente quei vassoi ricolmi di stuzzichini esotici che gli passavano sotto il naso.
Non devo né bere né mangiare nulla di quello che mi offriranno, si ricordò il ragazzo tenendo sempre caro quel promemoria nella sua mente. E quella era soltanto una delle regole più importanti se si voleva uscire indenni dal regno delle fate.
C’erano quasi tutti: Gabriel che finalmente si era deciso a flirtare con Morgana, Norman e Caterina che commentavano sottovoce l’abbigliamento bizzarro degli invitati, Ethan che civettava attorniato da un gruppetto di Driadi, Carlotta in disparte a ridosso di una colonna che si mangiucchiava nervosamente le unghie. Che cosa le prende, si arrovellò Fabiano, impensierito dal suo insolito atteggiamento scostante. E Lea dov’era finita?
Ascanio salutò i nuovi arrivati con un cenno del capo interrompendo la conversazione piuttosto intima che stava intrattenendo con la ragazza bionda che dava le spalle a Fabiano. Marlena non sembrò molto contenta di vederlo unirsi al loro gruppo. Da quando aveva scoperto della notte che lui aveva trascorso con Leona, non gli aveva più rivolto la parola, non faceva che evitarlo, non le importava se con l’amica si fossero limitati a dormire.
Quanto gli era costata quella singola notte con Lea, aveva perso tanto eppure non riusciva a pentirsene neanche per un momento. Fabiano si lasciò avvolgere dal pensiero dei suoi capelli corvini sparpagliati in disordine sul cuscino, dall’innocenza del suo viso in preda a un sonno profondo, il suo dolce profumo di cui si erano impregnate le lenzuola…Difficilmente avrebbe rivissuto un momento felice come quello, si rese conto lui, stretto in una morsa di inquietudine. Ma lui non doveva essere felice, lo tartassava la voce affilata del padre, non con lei. Era quella dannata felicità che l’aveva condannata a morte. Ancora oggi il protettore non riusciva ad associare la morte al sorriso di quella ragazza. Gli faceva troppo male. Per lui era inconcepibile un mondo senza di lei.
Come se avesse captato i suoi pensieri, Marlena lo spiò con discrezione, lanciando brevi occhiate  cariche di gelosia nella sua direzione. Lei lo amava ancora. Perché quell’amore allora non gli bastava? Perché quando aveva creduto di essersi affezionato a lei, Leona lo stregava col suo sguardo facendogli dimenticare ogni cosa, buttando alle ortiche la sua razionalità?
Era in errore. Ancora una volta, quella ragazza gli aveva sconvolto la vita e tutti i piani che aveva programmato. Se solo non fosse tornata da Londra…Non sapeva come, ma lui doveva dimenticarla, per il suo stesso bene.
Marlena era pur sempre la sua fidanzata, anche adesso che suo padre non era lì a ricordargli i suoi doveri. Si era ripromesso che non l’avrebbe ferita, e si detestava per quello che le aveva fatto passare.
«Mi piace il tuo vestito» le aveva detto bisbigliandole a un orecchio «Il rosso è il tuo colore, ti dona». Non mentiva, lo avrebbe giurato sulla luna piena che li stava guardando nel suo flebile chiarore offuscato dalle nubi. Fabiano poté sentire la giovane protettrice tremare al suono della sua voce. Allora lui le sfiorò la parte interna del gomito con un dito, avvicinandosi a lei piano per non spaventarla. I suoi occhi verdi si serrarono su di lui, non prima di aver apprezzato quel tocco leggero che l’aveva fatta trasalire. Colse al volo lo spiraglio, e approfittò della sua vulnerabilità per farle scivolare la mano dentro quella della bionda che in quel momento accennava un piccolo sorriso su quelle labbra scarlatte. Inconsapevolmente le loro teste avevano annullato la distanza, i due potevano sentire il calore dei loro fiati sulle gote.
«Sei ingiusto». Era stato il profondo risentimento della ragazza a parlare. «Sai bene che potere eserciti su di me, sai quanto diventi malleabile fra le tue mani. Io non voglio essere la tua bambola, non più». I suoi smeraldi erano ancora più lucenti quella notte rendendo pallide le stelle al loro confronto.
«Non ho mai voluto farti del male» le disse Fabiano cercando un approccio diretto. «Tutto quello che ti chiedo è il tuo perdono, non desidero altro». Marlena ampliò ancor di più il suo sorriso e prese a lisciargli i capelli sporgenti dietro la nuca «Lo vorrei tanto Fabiano, non hai idea di quanto vorrei crederti. Ma non posso aprirmi di nuovo a te, non posso consegnarti il mio cuore, quello che tu hai frammentato, ancora una volta. Potresti provare a rimetterlo a posto, ma quanto durerebbe? No, io non posso, non posso…». Fabiano ammirò la sua grande forza di volontà nel trattenersi da una scenata disperata di fronte a tutta quella gente.
«Perché?» ritentò lui. «Ti ho già raccontato come sono andate le cose, noi non abbiamo…» Marlena gli posò un dito sulle labbra.
«Anche se ci fosse stato effettivamente qualcosa e si sarebbe trattato di un’altra ragazza, non avrei esitato un solo istante, ti avrei concesso il mio perdono mille volte, sarei passata sopra le tue debolezze e ti avrei ripreso con me, per sempre».
«Ma sappiamo entrambi che lei per te, non sarà mai una semplice debolezza passeggera. Lei non ha avuto bisogno di ammaliarti col suo bel faccino come è stato con gli altri» strascicò con rabbia. «Lei ti ha preso l’anima, te l’ha strappata dal giorno in cui l’hai vista. Ed io l’ho sempre saputo e ho voluto semplicemente ignorare la realtà, negandomela più e più volte. Non so per quale razza di scherzo meschino del destino, voi due sembrate essere fatti l’uno per l’altra. Io non posso vivere più col pensiero che un giorno ti possa portare via, non voglio restare a guardare mentre quella strega si impadronisce del mio tutto. Io la odio, con tutta me stessa. La odio perché lei non ha dovuto faticare per conquistarti. La odio perché per te stare con lei è facile come respirare. La odio perché tuo padre non ti ha mai dovuto imporre di amarla» Marlena chiuse gli occhi come per evitare che quel livore incontenibile traboccasse fuori in tutta la sua animosità.
«Quindi…per una volta nella mia vita, scelgo me, e me soltanto» sospirò. La mano tornò a penzolarle lungo il fianco. La protettrice gli apparì irremovibile nella sua decisione, non l’aveva mai trovata più risoluta. «Il tuo posto non è con me, ma con Leona».
Non appena Marlena pronunciò il suo nome, Fabiano sentì il suo sguardo attratto da una forza insovvertibile, come tutto il resto dei presenti, che lo spinse a sbirciare la sommità della scalinata e la mano affusolata che accarezzava il corrimano di bronzo. Salì lungo quel braccio nudo, tonico, teso per l’emozione, ammirandone le sfumature olivastre della pelle, lucida per gli unguenti profumati che l’avevano nutrita. Attorcigliato al suo esile polso con un fiocco, vi era un nastro rosso.
Fabiano ebbe un tuffo al cuore.
Quando incontrò il viso della ragazza, si dimenticò di respirare. Ne restò devastato, annichilito, spazzato via dall’incantevole bellezza della cacciatrice dalla lunga chioma corvina che avvolgeva il suo corpo, snello e seducente, fin oltre il bacino in boccoli vorticanti come spirali che girano su se stesse. Saziò i suoi occhi ingordi di quella visione e la impresse nella sua memoria, pezzo per pezzo. I suoi pensieri, resi folli da quella creatura, divennero un pasticcio confuso e indistricabile di desiderio. Non aveva mai provato nulla di simile con tanta veemenza: la voleva tutta per sé. Il lungo abito celeste, che le cingeva la vita, velava le sue forme gentilmente, curvandosi sui fianchi, per poi scenderle a strapiombo sulle gambe, rese visibili dagli spacchi vertiginosi aperti sulle cosce. Il ragazzo a quel punto dovette riprendere fiato, sopraffatto dall’incendio che era divampato dentro di sé. Si lasciò distrarre dallo scintillio della catena d’argento posata sul capo e dal ciondolo a forma di stella che le dondolava sulla fronte, pur di scacciare quella strana sensazione che non gli permetteva più di essere padrone del suo stesso corpo. Si tenne per la fine i suoi occhi sinceri, quelli che fin dalla prima volta lo avevano quasi costretto ad innamorarsene.
Fabiano l’aveva sempre trovata bella, nella sua semplicità, persino coi suoi capelli arruffati al primo mattino o con i suoi camicioni troppo larghi. Non aveva certo bisogno di tutto quello per apparire favolosa. Adesso però, che sembrava esserne consapevole, con le sue movenze flessuose, quasi feline, non lasciava spazio a nessun fraintendimento, aveva convinto l’intera sala che l’ammirava percorrere la gradinata con la grazia degna di una dea.
Il fascino della bella protettrice non era sfuggito nemmeno al giovane principe delle fate che l’attendeva alla fine della scalinata con un braccio proteso pronto a scortarla sulla pista da ballo. Un cantuccio ben sepolto nella mente di Fabiano gli disse che avrebbe dovuto prendere il suo posto. Ma ignorò sulle prime, quella vocina assurda.
«Che incantevole creatura» si beò lui sfiorandole appena con le labbra il dorso della mano «mi è difficile pensare che nelle tue vene non scorra sangue fatato». A quel gesto, una nuova staffilata di dolore echeggiò nel petto di Fabiano, ma si rifiutò di darle importanza ancora una volta.
Leona scosse le lunghe ciglia dandosi un’aria da civettuola che non le apparteneva «Bè, mio signore, alcune leggende vogliono che i medjai discendano direttamente dalle fate, data la loro affinità con i quattro elementi».
«Deve essere così allora» le sorrise Kahel.
«Mi chiedevo se…» fece per dirle la fata «onorereste la tradizione insieme a me, aprendo le danze di questa sera».
Leona si accigliò, un po’ restia a concedergli la sua mano. In quel momento il protettore seppe che l’amica temeva d’infrangere una delle tre regole di sopravvivenza base che vigevano in quelle terre incantate. Se avesse accettato l’invito del principe, avrebbe danzato fino alla morte.
Kahel lesse fra le righe le sue paure e squillò in una tonante risata.
«Vedo che sei bene informata sulla nostra reputazione di abili danzatori instancabili…Ma non temere, concedimi questo unico ballo e ti prometto che non ti accadrà nulla. Ballare con il sottoscritto ha i suoi privilegi. Io sono il principe, figlio di sua maestà Delilah. Costituisco un’eccezione…».
I suoi tentativi di persuasione sortirono l’effetto sperato poiché Leona si decise infine, con un lungo sospiro sofferto, di correre il rischio. I suoi occhi temerari lo sfidarono con un piglio malizioso.
«Va bene» gli concesse lei «dopotutto ci sono modi peggiori di morire che piroettare con voi nel bel mezzo di una festa» disse lasciandosi guidare al centro della sala dal suo cavaliere.
A un cenno del loro principe, i clavicembali, le arpe e i violoncelli presero a vibrare le loro corde, sotto il leggero pizzico delle dita dei musicisti e il canto delle Sifilidi si rimescolò nella sala, sollazzando gli animi del pubblico, fatato e non. E i due cominciarono a ballare, seguendo i passi di quella danza folkloristica.
Fabiano non fu capace di dare un nome all’emozione, fuori controllo, che lo punse come un ago dentro le budella. Era consapevole soltanto del fatto che non sopportava, no, anzi, detestava che quel principe toccasse la sua Leona in quel modo così spudorato, anche se lei non sembrava esserne infastidita.
Istinti sconosciuti s’impossessarono di lui in un miscuglio di rabbia, possessività e paura, paura di perderla. Nonostante la sofferenza che gli infliggeva, Fabiano si sentì quasi sollevato.
Per la prima volta la voce di suo padre aveva smesso di urlargli nella testa.
«Ecco, adesso sai cosa si prova». Fabiano sobbalzò riconoscendo il sussurro del fratello.
La bocca di Ethan, infatti, era ancora a pochi centimetri dal suo orecchio. Si voltò verso il protettore inglese e intravide nel volto del ragazzo con cui condivideva il sangue dell’ ammazza vampiri, la stessa espressione dilaniata che doveva avere lui in quel momento.
Allora, seppe come chiamare quell’emozione.
Gelosia.

ANGOLINO PICCOLINO DELL'AUTRICE: Ciao a tutti ed eccomi tornata all'arrembaggio con un nuovo lunghissimo, chilometrico capitolo T.T Davvero, io non ce la faccio. Ci provo seriamente a non dilungarmi troppo ma poi alla fine mi ritrovo sempre con un papirone colossalmente prolisso...POTERE DELLA SINTESI VIENI A ME!
Mi ero ripromessa di terminare la storia nei prossimi sette capitoli ma di questo passo non ne sono più sicura, la stima non è molto accurata xD Ho dovuto addirittura dividere questo capitolo in due parti come è stato per il "tradimento di un popolo". Uff sono senza speranza! Prometto solennemente che dal prossimo effettuerò molti più tagli in modo tale da avvicinarmi il più possibile alla fine, riesco a vedere la luce... Va be', bando alle ciance, spero che questo cambio, necessario, da prima a terza persona vi sia piaciuto. Ovviamente è momentaneo, è mi è servito per avere una visione globale della scena. Nella seconda parte, ho intenzione di scrivere altri piccoli (lo giuro) POV di altri personaggi per avere un effetto più completo. Dunque alla prossima settimana con " la festa dello scao leadh pt II"!
   
 
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