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Autore: NPC_Stories    09/06/2020    4 recensioni
Storia ambientata nei pochi mesi che Daren e Johel hanno passato nella foresta di Mir, prima che le loro strade si separassero in Ricostruire un ponte. Johel è felice di essersi riunito alla sua famiglia dopo molto tempo, e non si accorge che il suo amico ha cominciato a frequentare una ragazza.
Mi hanno chiesto in molti se Daren abbia mai avuto una relazione amorosa. Forse questa storia è più esaustiva di un semplice "no".
Genere: Fantasy, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1361 DR: Persone importanti


Il giorno dopo lady Hinistel si alzò di buon mattino, più serena e riposata dopo qualche ora di reverie. Jaylah dormiva ancora e la dama non voleva abbandonare la bambina da sola, quindi rimandò a più tardi le sue incombenze della giornata e decise di approfittare di quei tempi morti per scrivere una scaletta delle cose che avrebbe voluto dire a Tazandil in risposta alla sua lettera. Il testo principale sarebbe stato scritto da lord Fisdril perché doveva celare la vera risposta alle sue comunicazioni tattico-militari, ma lei aveva il diritto di aggiungere una nota personale.
Intinse la sua piuma preferita nel calamaio dell’inchiostro e picchiettò la punta contro un foglio di carta. La carta assorbì l’inchiostro sporcandosi di macchie circolari, ma lei non vi badò. C’erano molte cose che avrebbe voluto dire a Tazandil ma non sapeva in quale punto della lettera sarebbe riuscita ad aggiungere i suoi commenti, quindi decise di scriversi degli appunti generici, non discorsivi.
Stiamo tutti bene, scrisse, ma un momento dopo si morse un labbro per la frustrazione di aver scritto una cosa tanto banale. Per lei, leggere da Tazandil che gli elfi inviati a Shilmista stavano tutti bene era un gran sollievo, ma Tazandil non aveva motivo di temere per la salute dei suoi parenti nella città protetta. Tranne forse…
Andò a capo, lasciando un po’ di spazio sotto la prima riga.
Il tuo sostituto si sta dimostrando un buon ranger capo.
Fissò quella frase, sospirando con una punta di tristezza per aver scritto di suo figlio in modo così formale. Ma se la lettera fosse finita in mano a dei nemici degli elfi, lasciargli scoprire che a comandare i ranger c’era il figlio di Tazandil avrebbe potuto mettere Johel in pericolo. Lo avrebbe reso un bersaglio ancora più di quanto già non fosse.
Sta guadagnando il rispetto dei suoi sottoposti, persone che fino a poco fa lo vedevano solo come un compagno. Ha dovuto assumere un cipiglio più serio, non fare favoritismi a nessuno.
Intinse la penna ancora una volta, riflettendo velocemente. Alla fine aggiunse:
Il suo amico è stato collaborativo oltre le nostre previsioni.
Hinistel non era sicura che suo marito avrebbe gradito ricevere anche notizie di quel drow che sopportava a collo torto, ma non gli sarebbe sembrato strano non riceverne?
La vita, in città, si svolge in modo regolare e l’arrivo di nuovi abitanti non ha sconvolto la quotidianità… rimase con la piuma sospesa sulla carta, intrappolata nell’ennesima frase banale. Poi prese una rapida decisione e aggiunse:
Ho deciso di cercare un precettore per nostra nipote. Io non ho l’autorevolezza per insegnarle, preferisco delegare questo compito a un esterno e continuare a essere la persona che la vizia. Aggiunse quest’ultima frase con un sorriso birichino sulle labbra, pensando alla faccia che avrebbe fatto suo marito leggendola: lui era fortemente contrario a viziare i bambini, nipoti o non nipoti.
Inoltre in questi giorni mi stanco facilmente. Credo che non manchi molto e non vedo l’ora che tu torni. Temo che se i nostri doveri di alleanza si protrarranno ancora a lungo, arriverai a casa a fatto compiuto.
Rilesse alcune volte le ultime frasi, poco soddisfatta perché non voleva chiudere la lettera mettendo fretta a suo marito. Eppure non le veniva in mente niente a parte le ennesime banalità.
Jaylah si agitò nel sonno e si girò più volte su se stessa, avvoltolandosi nelle coperte fino a formare un piccolo bozzolo. Hinistel seguì i suoi movimenti con la coda dell’occhio, attenta che la bambina non cadesse dal letto o non soffocasse.
Fu a quel punto che finalmente le venne un’idea: al momento di scrivere la lettera vera, avrebbe lasciato che fosse Jaylah a chiudere con una semplice frase di saluto. Certo, la bimba non sapeva ancora scrivere, ma era possibile aiutarla guidando la sua mano o farle copiare una frase già scritta. Sarebbe bastata solo qualche lezione per raggiungere quel livello base di competenza.

Jaylah stava sognando. Era rimasta con la mamma per molto tempo, a giocare e a chiacchierare, ma ad un certo punto la strega l’aveva salutata con un bacio sulla fronte: “Ti lascio ai tuoi dolci sogni adesso, amore. Salutami il tuo papà.”
La bimba però non aveva sognato il suo papà. Il prato dove aveva giocato con la mamma si era riempito di coniglietti - Jaylah
adorava i coniglietti - ed erano di tutti i colori, come i buffi gatti di sua sorella Hilda. C’erano conigli gialli, azzurri e rossi, alcuni perfino rosa, ma il suo preferito fra tutti era un batuffolo nero. Il suo pelo era lucido come la seta e scuro come la pelle della sua mamma. Il coniglio nero la guardò con aria timida e scappò verso gli alberi. Jaylah lo inseguì, e mentre correva il coniglietto diventò un uccellino azzurro e cicciotto, e un attimo dopo l’uccellino erano i suoi amichetti di Myth Dyraalis. Jaylah aveva sempre la sensazione di rincorrere qualcosa di inafferrabile, ma l’oggetto del suo desiderio cambiava continuamente. Alla fine si ritrovò in una foresta insieme a tanti elfi, ma non riconobbe tutti i loro volti. Ce n’erano alcuni che aveva già visto, amici di suo padre, e c’era nonno Tazandil; tutti gli altri però erano facce nuove.
Alcuni di quegli elfi erano feriti, avevano delle fasciature che gli coprivano le parti del corpo scoperte dalle armature. Un’elfa, molto pallida, aveva il collo bendato e un tizio con lunghe vesti da
elfo magico le stava facendo un incantesimo per farla stare meglio.
Jaylah corse dal nonno perché non lo vedeva da molto tempo, ma lui aveva steso una mappa per terra e non le diede retta.
“Cosa guardi?” Chiese Jaylah, ma venne ignorata. La cosa non le piacque, quindi come al solito si imbronciò. “Nonno?!”
Un attimo dopo non era più Jaylah, irritata perché voleva conoscere i pensieri di Tazandil.
Era Tazandil. Aveva tutto perfettamente senso, come accade nei sogni, per quel che ne sapeva era sempre stata Tazandil. Solo che stavolta non era come nei normali sogni, in cui si diventa qualcun altro solo nell’aspetto o nella convinzione; ora stava provando emozioni e vagliando pensieri che non potevano essere suoi. Jaylah non comprendeva quei ragionamenti, erano troppo complessi, e le emozioni erano troppo stratificate. Preoccupazione, dolore, nostalgia, paura. Non paura per la propria vita, ma paura di fallire. Jaylah non aveva un nome per quelle sensazioni, non riusciva a farle proprie, e sopra a tutta questa confusione c’era il mal di testa: era concentrato sul lato destro della fronte, dove l’elfo dei boschi aveva preso un colpo di qualche genere. Aveva un livido, anzi un vero e proprio bernoccolo che tirava la pelle e faceva male; pensare diventava ogni momento più difficile, ma il cocciuto elfo tirava avanti a senso del dovere, paura e determinazione.
Stava pensando a una battaglia recente contro una
sacca di resistenza di goblinoidi, che Jaylah scoprì dai suoi pensieri non essere una borsa molto robusta, ma un gruppo di mostri asserragliati su un piccolo altipiano difendibile. Nei ricordi di Tazandil c’erano frecce che volavano e vili trappole, elfi feriti e goblin morti. C’era anche la convinzione che presto avrebbero preso quel fazzoletto di terra e liberato un’altra regione della foresta dagli invasori, ma c’era anche incertezza perché non avevano più avuto notizie da altre pattuglie e poi quel costante mal di testa che però avrebbe dovuto sopportare perché avevano un solo sacerdote e stava esaurendo gli incantesimi, almeno per quel giorno, e c’erano elfi molto più malconci di lui che necessitavano di aiuto.
A Jaylah tornarono in mente tutte quelle volte in cui era andata a sbattere contro i mobili e gli spigoli, quando viveva ancora a casa di sua madre; fin da quando aveva imparato a camminare aveva amato correre, ma una casa non è il posto migliore per farlo. Per più di due anni della sua vita aveva dovuto convivere con bernoccoli ed ematomi vari, e c’era una cosa che la sua mamma faceva sempre quando lei si faceva male, ma che cos’era?
La bambina non riusciva a ricordarselo, perché nei sogni è difficilissimo rammentare certi dettagli, ma le bastò concentrarsi sul suo passato per tornare a essere Jaylah. Ora vedeva di nuovo suo nonno dall’esterno ma aveva ancora la sensazione che tutti gli altri elfi fossero suoi amici, persone che conosceva da tanto tempo.
“Nonno, smetti di fare questa cosa della guerra e torna a casa!” Sbottò, puntando i pugnetti contro i fianchi come faceva sempre sua madre quando era davvero indignata. Lui non la udì, stava indicando qualcosa sulla mappa usando un rametto. Nella foresta era così buio che la bimba si chiese se gli altri elfi riuscissero a vedere i suoi movimenti.
Poi notò un’altra cosa curiosa: nell’oscurità della foresta riusciva a vedere un sottilissimo filo dorato che spuntava dal torace di Tazandil. Forse era una cucitura dell’armatura di pelle che si era sfilacciata, ma era quasi luminoso. Jaylah si sistemò sulle gambe del nonno (che non diede segno di averla notata) e prese fra le dita quel filo. Era sottilissimo e molto più lungo di quanto le fosse sembrato. Lo tenne fra due dita saggiandone la lunghezza, e man mano che lo faceva scorrere si accorse che sembrava non finire mai. Un capo era saldamente assicurato al petto del ranger, l’altro capo diventava visibile man mano che lei lo scopriva al tatto. A un certo punto incontrò una biforcazione e si accorse che una delle diramazioni di quel filo era collegata a
lei, più o meno all’altezza del suo cuore, mentre l’altra continuava verso il centro del cerchio di elfi.
Jaylah seguì quel filo dorato finché non si dipanò in decine di altri fili, e la piccola mezzadrow comprese che quelli erano collegati agli altri elfi lì presenti. La bimba soppesò nella mano lo snodo in cui tutti quei fili si intrecciavano e si collegavano, andando poi a perdersi nell’oscurità. Non aveva peso, ma era splendido, come una raggiera fatta di luce.
Che cos’è questa cosa? Si chiese, sentendone la consistenza fra le dita. Cosa succede se provo a rompere un filo?
“Non puoi farlo, tesoro” le comunicò una voce pacata. “Ma che cosa ci fai qui?”
Jaylah alzò lo sguardo e si rese conto di non essere più nella foresta, ma in una stanza molto grande e completamente invasa da quei fili dorati. Un elfo gigantesco con lunghi capelli d’argento e vesti multicolori le dava le spalle; stava intessendo quei fili in una sorta di arazzo, con grande cura. Non era stato lui (o lei?) a parlarle, comunque: era stata un’elfa dall’aspetto angelico e dal sorriso confortante. L’elfa aveva dimensioni normali (be’, come un normale
adulto), occhi a mandorla di un color nocciola dorato e una cascata di capelli ramati, di un arancio vivo quasi quanto quelli di nonna Hinistel.
Jaylah la fissò a bocca aperta, poco educatamente. Era molto bella ma aveva anche qualcosa di familiare. Non ricevendo risposta, il sorriso dell’elfa si fece un po’ incerto.
“Chi sei, e come sei arrivata qui, piccola?” Le domandò. “La Torre Evanescente non è posto per bambini.”
“Mandala via” fu il commento neutro della creatura che intesseva i fili. La sua voce era possente, non aggressiva ma penetrante, sembrava emanare da ogni luogo contemporaneamente. “Non è davvero qui, sta sognando.”
L’elfa davanti a Jaylah sobbalzò per lo stupore. “Come, una
tel’quess che sogna?”
Jaylah si sentiva molto intimorita dalla voce dell’elfo gigante, quindi si aggrappò alle gambe della donna con cui stava parlando, che le sembrava buona e gentile.
“Voglio tornare da nonna Hinistel” mugugnò nascondendosi fra le vesti indaco dell’elfa.
Alla menzione di questo nome, l’adulta sussultò di nuovo. “Hinistel? La piccola Hinistel A’dou’vielin?”
Jaylah la guardò senza saperle dare risposta, perché non aveva mai sentito quel nome così lungo.
“Non te lo ripeterò di nuovo, Calaerel Amarthiar A’dou’vielin” ripeté l’elfo, scandendo il nome con quella voce spaventosa. La sua servitrice rabbrividì e Jaylah si tappò le orecchie di riflesso. “La tua linea di sangue sopravvive in un’altra figlia, questa creatura non ha posto nella mia casa.”
“Ma… ha il sangue delle veggenti Amarthiar…”
“E anche il sangue di sua madre, che la porta troppo vicina ai reami divini. Per questo ci ha trovati, ma nemmeno le Amarthiar hanno il permesso di sbirciare oltre il Velo prima di morire e giungere qui.” Spiegò l’elfo gigante con uno sforzo di pazienza. “Devo ricordarti che più tempo passa qui, più rischia di perdere il senno? Quattro primavere sono troppo poche per udire la voce di un dio.”
“Quattro…” sussurrò l’elfa di nome Calaerel, impallidendo. Abbassò gli occhi su Jaylah che ancora si teneva le mani sulle orecchie, la sollevò di peso e la portò di corsa fuori da quella stanza. “Sarà meglio che impari in fretta a fare la
reverie, tesoro.”

Jaylah non afferrò dove l’elfa la stesse portando, ma un momento dopo si svegliò di colpo nel lettone dei nonni. Aveva il fiato corto e la sensazione di aver fatto sogni molto strani, ma non ricordava nulla tranne che aveva rivisto la sua mamma e nonno Tazandil.
Hinistel si accorse che la bambina sembrava turbata e corse da lei, stringendola in un abbraccio affettuoso. “Che c’è piccola, hai fatto un brutto sogno?”
Jaylah la guardò con gli occhioni spalancati, confusa, poi annuì perché le sembrava di aver fatto un brutto sogno anche se non ricordava proprio tutto.
“Ti va di raccontarmelo davanti a una tazza di tè coi biscotti?” Propose Hinistel, per tirarle su il morale.
La parola ‘biscotti’ fu sufficiente a far dimenticare a Jaylah il disagio residuo della sua avventura onirica.

Più tardi, quella mattina, Hinistel scese con cautela la scala di corda che portava dalla stanza da letto alla piattaforma principale della casa. Da lì, una comoda passerella l’avrebbe condotta ad altri alberi dove piattaforme più grandi fungevano da luogo d’incontro o di passaggio. Era possibile attraversare quasi tutta la città senza toccare terra, se si sapeva come fare, e l’elfa pesantemente incinta preferiva fare così ormai piuttosto che scendere e salire i tronchi degli alberi. Portò con sé la nipote, tenendole sempre la mano per paura che saltasse di sotto per gioco. Non avrebbe dovuto e lo sapeva, ma la prudenza non era mai troppa.
Mentre camminava su quei comodi ponti, Hinistel si domandò ancora una volta per quale vezzo del destino fosse rimasta incinta così avanti negli anni, e non uno o due secoli prima. Lei e Tazandil avevano cercato a lungo un secondo figlio, e quello… quella… era arrivata quando entrambi erano già vecchi, entrambi quasi al termine del loro quarto secolo di vita. Hinistel avrebbe compiuto quattrocento anni fra solo una ventina di lune, mentre il marito era più giovane di lei di quasi tre decenni.
Gli elfi sapevano che la loro longevità era un dono, ed erano profondamente grati di quella fortuna; ancor più che della lunga vita, erano felici della buona salute fisica e mentale che di solito li accompagnava fino a un’età veneranda. Il loro corpo appariva giovanile fin quasi al letto di morte, la maturità poteva essere intuita dal loro sguardo e dal comportamento più che dall’aspetto fisico. Questa era la ragione per cui una donna come Hinistel poteva ancora portare avanti una gravidanza. Era anche il motivo per cui la madre di Tazandil era stata un’indomita guerriera fino quasi ai suoi settecento anni.
Purtroppo non tutti loro erano baciati dalla fortuna; accadeva, raramente a dire il vero, che un elfo potesse contrarre qualche malattia o infermità invecchiando.
Era il caso di Noraemir Erlathan, un tempo sommo sacerdote di Solonor Thelandira. Si era quietamente ritirato dalla sua posizione una cinquantina di anni prima perché lo stress delle responsabilità aveva imposto un tributo alla sua salute. Ora viveva una vita tranquilla ed era un anziano rispettato e molto amato, ogni tanto il suo successore Caelim andava ancora a chiedergli consiglio, ma per sua esplicita richiesta non era più stato coinvolto nella politica della foresta.
Si occupava, curiosamente, di insegnare le antiche tradizioni elfiche ai bambini che avevano voglia di ascoltarlo. In tutta la sua lunga vita non aveva mai avuto figli suoi, ma si era occupato della comunità quasi come un padre, e adesso in vecchiaia adorava prendersi cura dei più piccoli. A volte la sua mente non si mostrava più acuta come un tempo, ma era un elfo gentile e conosceva moltissime storie.
A Jaylah era capitato qualche volta di fermarsi ad ascoltarlo, sedendosi in cerchio con gli altri ragazzini… ma spesso non riusciva a star dietro ai suoi racconti perché richiedevano una conoscenza pregressa, un’infarinatura di cultura elfica che lei non aveva. Per questo la bambina fu molto sorpresa quando, dopo colazione, nonna Hinistel la portò a trovare quell’anziano signore.

Le mani ossute di Noraemir tremarono leggermente mentre serviva una tazza di infuso alla donna e alla bambina, ma non volle farsi aiutare: era questione di rispetto per lui poter fare gli onori di casa, a costo di metterci qualche minuto in più.
Hinistel lo ringraziò con calore, poi gli espose il motivo della loro visita: cercava qualcuno a cui affidare Jaylah per renderla più elfa, qualcuno che avesse esperienza di bambini e di insegnamento e che fosse dotato di pazienza e cultura.
L’anziano elfo rimase molto colpito dalla richiesta, perché nessuno gli aveva mai chiesto di assumere il ruolo del precettore. Gli bastò uno sguardo alla bambina per capire il motivo di quella necessità.
“Intuisco che fino ad ora questa bella signorina non abbia avuto un’educazione propriamente elfica” considerò, sorridendo con indulgenza.
“La mia mamma è come un’elfa, però è nera” raccontò lei, in tono tranquillo. “Il mio papà invece vive qui e tutti gli volliono bene. Io però di più!” Rivendicò senza la minima esitazione.
Non lo stava facendo di proposito per intenerire l’adulto, ma Noraemir capitolò immediatamente davanti a quell’affermazione così spontanea e dolce.
“Mia cara Hinistel, nulla mi renderebbe più fiero che contribuire all’educazione della tua adorabile nipote, ma comincio a temere che non saprei essere imparziale” confessò con un risolino. “Potrei essere troppo indulgente.”
La dama sospirò, scuotendo leggermente la testa. “Mio vecchio amico… come ti capisco. Io non riesco a negarle mai nulla. La vizierei da mane a sera, ma poi chi lo sente Tazandil?”
“Nonno Tazandil è in guerra” interloquì Jaylah, toccando con cautela la sua tazza ancora troppo calda. “Ma la guerra no’ li piace, quand’è che torna?”
“Amore, tornerà il prima possibile” spiegò Hinistel, stringendosi nelle spalle. Era preoccupata per suo marito, ma cercò di non farlo trapelare perché non voleva allarmare la nipote. “Ho intenzione di scrivergli una lettera, mi piacerebbe che tu aggiungessi un saluto alla fine. Cosa ne dici?”
“Sì, voll… vorrei.” Si corresse, ricordando gli insegnamenti di sua nonna sull’uso della parola voglio. “Ma non so scrivere le parole elfiche” obiettò subito dopo, un po’ abbattuta.
“Per questo siamo qui. Se prometti di essere brava, rispettosa e ubbidiente, mastro Noraemir potrebbe accettare di insegnarti a scrivere e ad essere un po’ più… elfa. Uhm, non che tu non vada bene così come sei, ma a nonno Tazandil farebbe piacere vedere che ti impegni. Sarebbe una bella sorpresa per lui, al ritorno dalla guerra… potresti fargli vedere che hai imparato a parlare in elfico come si deve, come una signorina grande, e che sai come ci si comporta” concluse, con l’aria di camminare sul ghiaccio. Non le piaceva porre il discorso in quel modo, le sembrava di discriminare la bambina per la sua razza o per la sua educazione fino a quel momento, ma lei era troppo piccola per cogliere i sottintesi e offendersi.
Jaylah abbassò il capo e sporse in avanti il labbro inferiore, riflettendo profondamente.
“Tu dici che il nonno mi vorrà più bene se divento più elfa?”
Hinistel sentì il cuore affondarle nelle scarpe. Non voleva che un altro bambino sentisse di doversi guadagnare l’amore di Tazandil, non dopo il modo in cui Johel aveva guardato suo padre per tutta l’infanzia. Il vecchio ranger non era molto bravo a dimostrare affetto e non era facile per una persona così giovane capire che quell’affetto comunque c’era. La veggente aveva promesso a se stessa che avrebbe protetto il suo nuovo figlio, o figlia, da questa erronea impressione. A quanto pare avrebbe dovuto fare lo stesso con Jaylah.
“No, il nonno ti vuole già moltissimo bene, ma non è capace di esprimerlo. Se tu impari l’elfico lui sarà soddisfatto e sarà fiero di te, ma il suo amore non dipende da questo.”
“Come non è capace?” Jaylah alzò la testa di scatto, stupefatta. “Ma lui è vecchio, io pensavo che sapeva tutte le parole!” Hinistel boccheggiò, in cerca di una risposta, ma la piccola non aspettò per completare il suo pensiero: “Maestro Nomimì può insenniarmi tutte le parole che ci sono e poi può insenniare al nonno a dire ‘ti vollio bene’, ché no’ può essere tanto difficile!” Recriminò gonfiando le guance in modo buffo.
Hinistel non sapeva se quella della nipote fosse vera incredulità o una forma stranamente precoce di sarcasmo, ma si scambiò un’occhiata impotente con il vecchio Noraemir e poi, incapaci di resistere, scoppiarono entrambi a ridere.


Nel frattempo, non molto lontano

Yerkna era sempre stata una cagnolona felice, ma da quando il suo amico Raerlan l’aveva portata a vivere a Myth Dyraalis era ancora più felice. Tutti quegli elfi e gnomi simpatici a cui fare le feste! E tutti quei bambini! La sua grossa coda candida si agitava tutto il tempo senza riuscire a fermarsi.
Quella mattina Yerkna si era seduta fuori dalla porta della Casa degli Scapoli e uggiolava piano, ma sempre scodinzolando. Raerlan le aveva insegnato a non entrare in quell’edificio, perché era il territorio di un vecchio cooshee brontolone. Il cane elfico non passava tutto il suo tempo alla locanda, ma quando c’era si comportava da stronzetto territoriale e non consentiva l’ingresso a nessun altro loppide. Aveva ringhiato perfino a Yerkna, anche se fuori da quell’edificio i due cani andavano d’amore e d’accordo.
In realtà la grossa cagnona bianca come la neve era lì proprio per quello: stava cercando di richiamare all’esterno il suo amico, per giocare. Da dentro si sentiva già il rumore di zampone che grattavano contro la porta di legno. I due cani si divertivano un mondo insieme, facevano sempre lunghe corse, salti e lotte amichevoli nella foresta, sia dentro che fuori dalla città… anche se ultimamente Yerkna non era troppo in vena di lotte, e nemmeno di salti.
“Ciao, Yerkna” la salutò Amyl, quando aprì la porta della locanda per lasciar uscire il suo cooshee. La testa di Yerkna arrivava quasi alla spalla dell’elfa, sicuramente un halfling avrebbe potuto usarla come cavalcatura. Era grossa almeno quanto un pony. L’elfa allungò una mano per accarezzare la grossa testa dell’amichevole bestia gigante, ma non fece in tempo: il cooshee sgusciò accanto alle gambe di Amyl e corse da Yerkna, saltando per afferrarle un orecchio con i denti. La cagnolona ringhiò, ma per gioco, e ricambiò il finto morso cercando di ingaggiare l’amico in una lotta. Presto i due animali si allontanarono correndo e inciampando l’uno nell’altra.
Amyl li guardò allontanarsi sorridendo, chiedendosi quale sventurato passante avrebbero travolto nella loro corsa cieca. Yerkna in particolare era una creatura goffa, sembrava aver preso dal suo padrone. Tinsel, il cooshee, quantomeno era abbastanza aggraziato. Solo l’età avanzata l’aveva reso un po’ meno agile.

“Oh, il cane dell’impiastro” commentò Daren, facendo capolino dalla porta dietro Amyl. “Come mai è qui? Prima non stava a Myth Dyraalis.”
“Raerlan è stato affidato alla difesa della città e si è portato Yerkna” spiegò la rossa. “Quindi vive qui da quando Tazandil è partito. Non dico che ci sia una diretta correlazione fra queste due cose, ma nemmeno posso negare che lo sospetto!” Ridacchiò, alludendo al goffo entusiasmo dell’animale. Il vecchio ranger capo non avrebbe approvato quell’elemento di disturbo della quiete pubblica.
Daren annuì, approvando quella scelta. Non tanto la presenza molesta di Yerkna, quanto l’aver affidato Raerlan alla difesa della città. Era un lavoro a basso rischio, adatto a lui visto che per il momento l'alicorn non era in grado di affrontare pericoli veri. Doveva averlo deciso Johel.
“Johlariel è un buon ranger capo” commentò. Era un pensiero che sembrava uscito dal nulla e infatti Amyl gli rivolse un’occhiata perplessa. Il drow sorrise in tralice e si corresse subito: “Però non riferirgli che l’ho detto.”
La cameriera sbuffò una mezza risata. “E come potrei? Non lo si vede in città da settimane. Non è mai tornato neanche per stare con sua figlia. Il dovere lo tiene lontano.”
“Il dovere lo spaventa” la corresse Daren, tornando serio. “Sente di dover dare tutto se stesso e anche di più, per eguagliare suo padre, anzi crede che nemmeno questo sarà abbastanza. Di questo passo sarà esaurito fisicamente e mentalmente entro la fine dell’anno.”
Il sorriso di Amaryll prese una piega un po’ amara. Era solo un cambiamento infinitesimale rispetto a un momento prima, eppure si notava.
“E tu devi stargli vicino e supportarlo” considerò. Non era una domanda.
Daren lanciò uno sguardo alla radura di fronte alla Casa degli Scapoli; a quell’ora c’erano già alcuni elfi e gnomi impegnati nelle incombenze quotidiane. Si ritirò nell’ombra della sala del pub, lontano da sguardi indiscreti. Amyl lo seguì e si chiuse la porta alle spalle.
“Sì. Io devo dargli tutto l’aiuto possibile.” Confermò. Il suo tono, la sua espressione, in quel momento erano difficili da leggere perfino per Amyl. “Posso immaginare che tu sia contrariata per questo, ma ripartirò presto. Devo essere all’accampamento di Johel per iniziare il turno di notte al tramonto.”
La rossa sgranò gli occhi, perché in autunno inoltrato il tramonto giungeva molto presto. Anche i più vicini campi dei ranger distavano comunque qualche ora a piedi dalla città, quindi…
“Praticamente devi partire adesso” fece conto.
Il drow sospirò e affossò le spalle. “Sì, passo a salutare Jaylah per darle notizie di suo padre, ma poi parto subito. Mi spiace non poterti dedicare più tempo.”
“Non c’è problema” mentì lei, sapendo che doveva fare buon viso a cattivo gioco. “Non mi fa piacere, ma ricordo che tu dai molta importanza al poter essere utile alla foresta. E poi, noi stiamo insieme da qualche mese. Johel è il tuo valdekwen da decenni.”
“Il mio che?” L’elfo scuro sollevò un candido sopracciglio.
“Una parola antica che esprime il concetto di… persona importante. Un migliore amico, un parente o una persona amata, tutto questo è valdekwen.” Daren stava già aggrottando la fronte, ma Amyl lo fermò con un gesto della mano. “Ehi, non protestare, me lo hai detto tu. La sera che ci siamo ubriacati e ti ho chiesto se conoscevi l’amore, tu mi hai detto che anche quello per gli amici e per i parenti è amore. Ho scoperto dopo che esiste una parola in elfico antico per questo tipo di affetto, il dare importanza a qualcuno indipendentemente dal tipo di amore che si prova.”
Il drow accettò quella logica e sospirò sconsolato. “Accidenti, allora ho tantissimi valdekweni” mugugnò, declinando la parola al plurale. Non specificò se Amyl ne facesse parte, e lei decise di non chiederglielo.

           

   
 
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