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Autore: blackjessamine    12/08/2020    6 recensioni
[Homer Landmann (OC)/Ole Nissen (OC)]
Distanze fatte a brandelli con un battito di ciglia.
Parole come ricami a ricucire strappi.
Ci sono legami che sopravvivono anche al silenzio.
[Raccolta partecipante alla "Things you said – Challenge", indetta da Juriaka sul forum di EFP]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Surya Namaskara'
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Titolo: Is it better to speak or to die?
Lunghezza: one-shot
Rating: arancione
Genere: romantico, malinconico
Avvertimenti: Lime; la storia contiene spoiler del capitolo 6 di “Surya Namaskara”, ma può essere letta anche non conoscendo la storia di riferimento
Prompt: 9, things you didn’t say at all




 
 
Is it better to speak or to die?




 
Abbiamo fatto l'amore e non ce lo siamo detti.
Siamo rimasti distesi, corpi lunghi e pesanti di tensione e incertezza: siamo rimasti distesi, e non ci siamo parlati, entrambi sin troppo consapevoli del terreno cedevole su cui abbiamo poggiato i nostri silenzi.
Abbiamo fatto l’amore credendo che potesse bastare a dire ogni cosa, ma è servito soltanto a misurare la distanza che ancora non ci separa, ma che presto si prenderà tutto, anche le parole che ora non diremo, e se le prenderebbe con ancora più forza se solo ce le dicessimo.
 
Vorrei essere capace di parlarti e di non far precipitare tutto, di dirti parole che possano essere conforto e appiglio, lasciarti qualcosa che non sia solamente il vuoto di questa notte che ha cancellato i confini.
Siamo distesi vicini, supini: il tuo piede destro – vicino, così vicino come non è mai stato – fa capolino fra le lenzuola stazzonate, e anche senza guardarti riesco ad avvertire il lento sollevarsi e abbassarsi delle braccia che tieni incrociate sul petto. Vorrei dirti che tu forse non te ne sei mai reso conto, ma io lo so che le braccia incrociate a quel modo le tieni soltanto quando senti che il mondo sta girando troppo in fretta, e allora hai bisogno di tenerti stretto a te stesso, di difenderti, di farti àncora prima ancora di essere bussola.
Non te lo dico, e nemmeno mi volto a guardarti.
Se lo facessi, anche nella luce fioca di questa stanza che non conosciamo riuscirei a scorgere il lieve luccichio delle lampade riflesse nei tuoi occhi, quei tuoi occhi blu quasi trasparenti[1] che sanno guardare le cose con una morbidezza che quasi sa commuovermi. Se mi voltassi, e mi avvicinassi com’ero vicino prima – quando il mare sulle mie labbra era il mare sulle tue labbra – riuscirei anche a distinguere i contorni incerti dello sprazzo di lentiggini che dal naso scende a sfiorarti appena le gote. Sono lentiggini che si riescono a distinguere solo osservandoti a lungo, e con attenzione. Non te l’ho mai detto, ma ho sempre desiderato usarle per disegnarti sul viso costellazioni con la punta delle mie dita.
 
Abbiamo fatto l’amore, e anche se non siamo capaci di dircelo il nostro respiro ha il sapore di un viaggio che ci ha portati sull’unica strada possibile.
 
Vorrei dirti che non avevo mai conosciuto il corpo di un uomo: ho sempre pensato che non avesse importanza, che a interessarmi fossero soltanto le persone – ma tu non sei soltanto una persona, non posso ridurre quello che abbiamo fatto negli ultimi dieci anni e poi questa notte a una considerazione nata dalla noncuranza. Ho sempre pensato che non avrei avuto bisogno di dirtelo, perché non importa la mia inesperienza né la tua ritrosia, ma ora vorrei farlo: non è necessario, perché tu lo sai già, ma vorrei farlo, e parlarti, e vedere il tuo sguardo morbido mentre un pochino arrossisci e poi scoppi a ridere e ti lasci andare a quelle tue considerazioni che sembrano non avere un nesso preciso con ciò di cui parliamo. Mi porteresti ovunque, con i tuoi nessi causali storti, e io andrei alla deriva assieme a te, ricostruendo parola dopo parola tutto quel nostro capirci e inseguirci di pensieri sempre più rapidi.
Ingoio silenzio.
“Non cambierà niente, e lo sai, perché sono sempre io, e sei sempre tu, e siamo sempre noi che ci troviamo anche quando viviamo nei continenti sbagliati”.[2]
Queste parole le ho pronunciate solo una manciata di sospiri fa, e già mi sembrano così distanti da non avere più un significato incollato addosso. Credo in ognuna di queste parole, ma non bastano più neanche a me.
Ho paura, e vorrei scacciarla trovando rifugio nella curva rigida che unisce le tue spalle tese al collo. Vorrei abbracciarti e lasciarmi abbracciare, vorrei respirarti come farebbe un amante, ma aver fatto l’amore non basta a lasciarci alle spalle una vita trascorsa a fortificare i confini della nostra amicizia. Vorrei vederti scivolare nel sonno mentre una tua mano pigra si perde fra i miei capelli, e vorrei che tu mi chiedessi non permettertelo, di non lasciare che le poche ore che ci restano assieme trascorrano in un sonno complice.
 
Il tuo piede nudo, così vicino al mio e così lontano da te, è quasi un’ultima speranza. Un appiglio, il mio implorare silenzioso, la mia richiesta d’aiuto che non può essere messa in parole.
Fletto la gamba – di così poco, così poco – e il mio tallone è sul collo del tuo piede, a premere piano. A chiedere il permesso, o a mendicare una briciola di complicità. Le braccia che tieni incrociate sul petto si serrano ancora di più, mentre volti la testa per fuggire il mio sguardo.
Non fa male, perché anche se tu non lo dici, e io non lo dico, la tua paura è la stessa che mi modella il respiro.
 
Abbiamo fatto l’amore: è stato come vedere da lontano colori bellissimi e non avere il coraggio di allungare una mano a sfiorarli.
Avrei voluto essere in grado di smettere di pensare a quel che stavamo facendo e viverlo per davvero, e avrei voluto vedere la tensione abbandonarti.
 
Quando eravamo ragazzini e la notte era fatta di sussurri infiniti che si spegnevano solamente quando io scivolavo nel sonno, tu avevi la stessa espressione di oggi: ti trattenevi, irrigidivi i tratti del viso e cercavi di restare sveglio, quasi temessi che se ti fossi lasciato andare, se ti fossi addormentato prima di me, mi avresti svelato qualcosa di troppo intimo perché io potessi continuare a restarti accanto. Non ti ho mai detto dei miei risvegli morbidi, di quando aprivo gli occhi che tu ormai ti sentivi al sicuro, ed eri solo un volto rilassato e una coscienza sopita, e io potevo restare a guardare quel mezzo sorriso che ti ammorbidiva il viso. Era lo stesso abbandono che ti vedevo addosso quando eravamo soli, e riuscivi a mettere da parte le tue insicurezze e ti sentivi in grado di guardarmi e ridere e parlare senza pensare a nulla, come un fiume in piena. Era un abbandono solo nostro: saperti a tuo agio al punto da non doverti più preoccupare di tenere in piedi la tua maschera di movimenti e parole e pensieri trattenuti era una delle gioie più grandi che conoscessi.
Avrei voluto avere il tempo di fare l’amore con quel te stesso. Avrei voluto vederti sorridere e spazzare via ogni imbarazzo, vederti avvinto dal nostro piacere e dalla consapevolezza che niente di sbagliato potrà mai venire da questo piacere.
 
Avrei voluto che avessimo il tempo per riconoscere che sotto questo nuovo modo di stare assieme ci sono sempre io, e ci sei sempre tu, e ci siamo sempre noi che ci troviamo anche quando viviamo nei continenti sbagliati.
 
***
 
È un movimento lentissimo. Tanto lento che quasi non lo percepisco: non lo percepirei, se la mia attenzione non fosse tutta tesa ad ascoltare ogni tuo silenzio. È solo uno scambiarsi di equilibri: il tuo capo è ancora voltato per non vedermi – per non lasciare che io ti guardi – ma le tue braccia non sono più uno scudo levato a difenderti. Scivolano piano lungo le lenzuola accaldate, e intanto il collo del piede sotto il mio tallone smette di essere silenzio inerte: si muove, pianissimo, e mentre preme lentamente contro di me è come se il mio implorare non fosse caduto nel vuoto.
 
Il dorso delle nostre mani si sfiora appena, ma le nostre gambe sono già un intreccio saldissimo.
 
Sorrido: il silenzio ha smesso di avere peso.
 



 

Note:
Innanzitutto, il titolo: riprende in realtà un brano dell’Heptaméron, di Margherita d’Angouléme, citato in diverse scene di “Chiamami col tuo nome”: qualche tempo fa, meditando di sperimentare un pochino con le storie AU, avevo chiesto su facebook di suggerirmi dei possibili scenari (sulla falsariga di una challenge che girava tempo fa), e padme83 (che, a prescindere da tutto, vi consiglio vivamente di leggere, perché quello che scrive è meraviglioso) mi aveva suggerito proprio il contesto CMBYN: ci sono in effetti alcuni punti di contatto tra Elio e Oliver e Ole e Homer, quindi spero di riuscire davvero a scrivere questa benedetta AU, ma nel frattempo il rimando mi ha portato a questo titolo.
 
So che questo capitolo significa un po’ poco, ma è un periodo in cui la “vita reale” mi sta presentando diversi conti (e le prospettive vanno solo verso un incupirsi della situazione), quindi mi aggrappo a quel poco che riesco a scriverlo, come lo riesco a scrivere. Inizialmente volevo sperimentare un pochino con lo stile, scrivendo un’intera storia in prima persona plurale, ma poi ho accantonato l’idea: è già abbastanza complesso, per me, essere riuscita a scrivere di questo momento dal punto di vista di Homer. Pur essendo lui il personaggio “più vecchio” (nel senso che lo conosco da molto più tempo), l’affinità che provo con Ole è qualcosa di completamente diverso, quindi, insomma, non sono certa del risultato.
In ogni caso, grazie a chiunque continui a dimostrare affetto a questi due signorini: non sapete quanto mi faccia piacere.
 

[1] “Blu quasi trasparente” è il titolo di un romanzo di Ryu Murakami: lo so che non si fa, ma questo libro io non l’ho mai letto e non ho idea di quale sia l’argomento che tratta. Ho sempre trovato però questa espressione bellissima, quindi spero mi perdonerete per questa citazione alla “frase filosofica sotto l’immagine di profilo il bikini”.
[2] Citazione tratta da “Naufraghi”, il primo capitolo di questa raccolta.
   
 
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