2.
Aperta
la porta di casa dopo aver lasciato gli scarponi
nell’anticamera dell’entrata,
Mark disse a mezza voce: «Sono tornato.»
Dal
salottino che dava sul giardino – proprio a fianco
dell’ampia cucina in stile
country canadese dell’abitato – giunse la voce di
Diana Sullivan-Scott,
matrigna di Mark e seconda moglie di Donovan.
La
decennale ricerca indefessa di Donovan non aveva minato solo il
rapporto con il
figlio, ma aveva anche fatto fuggire – letteralmente
– la sua prima moglie, e
madre di Mark.
Una
mattina di dicembre, con l’albero di Natale fatto solo a
metà e le decorazioni
lasciate disordinatamente sul divano, Adele Cunningham se
n’era andata da casa,
lasciando solo un misero messaggio a chiosa del suo comportamento.
Invece
di andare a prendere il figlio all’uscita da scuola, aveva
comprato un
biglietto di sola andata per il Texas e non si era più fatta
viva – almeno fisicamente
– per diversi anni.
Per
Mark non era stata affatto una sorpresa. Sua madre si era lamentata fin
dall’inizio di quell’andirivieni, apparentemente
senza senso, da uno Stato all’altro
del nord America. I viaggi ne
avevano fiaccato la già labile pazienza e, durante una delle
ultime liti avute
con il marito, Adele si era dichiarata pentita di aver sposato Donovan solo per amore.
Era
ormai chiaro, almeno agli occhi della donna, che lui non
l’amasse come aveva
millantato, o avrebbe compreso le sue istanze. Donovan aveva replicato
in toto
alle sue accuse, addossandole la colpa di non sapersi adeguare ai
cambiamenti,
né di comprendere appieno cosa lo spingesse ad agire.
Le
liti si erano protratte per alcuni mesi ancora finché, per
l’appunto, Adele era
fuggita per raggiungere il Texas e la casa di una sua amica,
dichiaratasi
disposta ad accoglierla.
Alcuni
mesi dopo, all’interno di una capiente busta giallognola,
erano giunti i
documenti del divorzio, uniti a una lettera per Mark, in cui la donna
spiegava
al figlio i vari perché del suo gesto.
Il
ragazzo aveva badato poco alla cosa – a nove anni, le cose
apparivano per lo
più in bianco e nero, e sua madre era scappata via da lui, dopotutto, perciò non
aveva bisogno di scuse o spiegazioni –
e Donovan si era limitato a firmare ogni documento.
Adele
non aveva voluto nulla. Neppure Mark, che troppo le avrebbe ricordato
l’uomo di
cui si era innamorata e che l’aveva fatto soffrire. Aveva
chiesto solo indietro
la sua libertà.
A
Mark non era restato altro che accettare di essere un bambino senza
mamma,
ritrovandosi in una condizione ancor peggiore rispetto alla precedente,
e di
cui aveva finito con l’incolpare in gran parte il padre.
L’arrivo
di Diana nella loro vita era giunto per caso. Almeno agli occhi di
Mark, però, era
stato un dono venuto dal cielo per salvarlo dalla follia.
Al
compimento dei suoi undici anni, solo e ben più che abituato
a esserlo, si era
lasciato andare a un gesto di insubordinazione nei confronti del padre
e, senza
dire nulla, si era recato nel centro commerciale della città
in cui si
trovavano.
Pur
essendo una piccola cittadina, Wichita era pur sempre diversa dal luogo
in cui
era cresciuto e, dopo l’iniziale soddisfazione per aver
disobbedito al padre,
erano subentrate l’ansia e la paura di non saper tornare a
casa.
Tenendo
in mano il suo gelato ormai sciolto, mentre i piedi avanzavano senza
meta e
senza scopo – percorrendo in tondo il corridoio centrale del
mall – Mark si era
ritrovato a fissare con le lacrime agli occhi la dipendente di un
negozio di
articoli tecnologici.
Questa,
mossa a pietà di fronte al suo autentico panico, gli aveva
prestato aiuto e, da
quel giorno, Mark aveva trovato in Diana Scott un’amica con
cui sfogare ansie
e dolori.
Con
nessun ragazzino della sua età avrebbe mai ammesso di
sentirsi solo e isolato
dal mondo, poiché proprio
i suoi
coetanei lo facevano sentire a quel modo. Non soltanto la testardaggine
del
padre a voler proseguire nella sua folle ricerca della
verità.
Essere
sempre quello nuovo portava con
sé
un’automatica antipatia da parte di molti, e i bulli delle
scuole in cui si era
trovato a studiare suo malgrado, ben di rado si erano lasciati sfuggire
l’occasione per bastonarlo.
Il
fatto di avere i capelli rossi – e di essere il figlio
dell’insegnante nuovo –
aveva solo peggiorato la situazione, nel corso degli anni.
Suo
padre non lo aveva certo aiutato a superare quel genere di problemi.
Sentirsi
dire che, presto o tardi, quelle stupidaggini sarebbero passate, non
aveva magicamente
fatto svanire i bulli, né le prese in giro, gli spintoni o i
macabri messaggi
sugli armadietti di scuola.
Diana,
invece, gli aveva mostrato come riprendersi dalle ingiurie dei
più crudeli, e
come soprassedere a tutto il resto.
Avendo
sofferto di attacchi di panico per diversi anni, a causa di
un’aggressione in
metropolitana – per fortuna finita bene –, Diana si
era aperta con lui per
mostrargli una nuova via da seguire. Un nuovo sentiero su cui sentirsi
meno
spaesato, meno solo.
Questo
loro avvicinamento aveva dapprima preoccupato Donovan, restio a far
accostare
nuovamente una donna al figlio ma, infine, aveva accettato di conoscere
a sua
volta Diana.
Nell’anno
e mezzo in cui erano rimasti a Wichita, i due erano dappima divenuti
amici e,
infine, si erano innamorati. La decisione di lei di non abbandonarli,
una volta
scoperta la loro futura partenza, era venuta quasi naturale, senza
drammi, e
aveva reso felice Mark, non soltando Donovan.
Che
fossero o meno parenti, per lui poco contava. Diana era stata per lui
più madre
e amica della donna che l’aveva messo al mondo.
Al
solo pensare ad Adele, sua madre naturale, Mark rise tra sé.
Sua
nonna materna, Marie Sue, lo faceva sbellicare ogni volta, al telefono,
quando
gli raccontava ciò che combinavano i suoi fratellastri. Da
quel poco che
avevano ammesso con lui, i suoi nonni materni si erano assai irritati
con la
figlia, a causa del suo abbandono del focolare domestico ma, alla fine,
l’avevano perdonata.
In
fondo, avevano sempre concesso ad Adele ogni beneficio del dubbio e,
almeno in
quel caso – pur se lo aveva fatto capire nel modo sbagliato
– lei aveva avuto
delle buone ragioni per infuriarsi con Donovan.
Lui
stesso non se l’era sentita di arrabbiarsi più di
tanto con lei e, alla fine,
le cose erano andate più o meno a posto. Da quel che sapeva
Mark, si
scambiavano persino gli auguri di Natale come persone civili.
La
faccenda dei fratellastri, però, era tutt’altra
storia.
Albert
e Morris Kenyon – i figli minori di Adele e del nuovo marito,
il latifondista
Rayner Kenyon – erano due autentiche pesti bubboniche, e il
padre non faceva
che viziarli tremendamente.
Adele
aveva anche tentato di creare una grande famiglia allargata e felice,
qualche
anno addietro, invitandolo a conoscere i suoi fratellastri e pregandolo
di
raggiungerli a Houston per il Natale.
Aveva
anche esteso l’invito a Diana e Donovan, tra le altre cose.
Suo
padre non si era espresso in tal senso, troppo preso dai suoi studi e,
anche in
quel caso, era stata Diana a spingerlo a non rifiutare il tentativo di
riavvicinamento di Adele.
Mark
aveva accettato di andare da solo per avere la possibilità
di parlare con la
madre senza drammi al seguito ma, al suo ritorno, aveva riferito di non
voler
ripetere l’esperienza.
Nessuno
dei genitori aveva tentato di fargli cambiare idea, e la stessa Adele
non aveva
più spinto il figlio primogenito a tornare a Houston.
Albert, infatti, aveva
fatto i capricci per tutto il tempo, tacciando Mark di essere un ladro
di
mamme, mentre Morris aveva addirittura tentato di ucciderlo con la
pistola del
padre.
Quell’episodio,
più di tutti, aveva convinto Mark a non lasciarsi
più andare al sentimentalismo
e, pur non avendo spiegato i reali motivi di una simile scelta ai
genitori, si
era però imposto di non dare una seconda
possibilità alla madre.
Certe
volte, bisognava soltanto chiudere una porta e non riaprirla mai
più, per
quanto lo si desiderasse. Si doveva semplicemente accettare la
realtà dei
fatti.
Se
solo suo padre lo avesse fatto a sua volta, loro avrebbero potuto
vivere nuovamente
una vita normale ma, almeno per il momento, questo cambiamento non era
ancora
avvenuto.
«Allora,
com’è andato il primo giorno di scuola?»
domandò Diana levando il capo dal suo
PC portatile per sorridere al figlio.
Mark
rispose al suo sorriso con autentico piacere, dicendosi che a lui
bastava Diana,
come madre. Era perfetta in tutti i sensi, e lui le voleva un bene
infinito.
Non avrebbe smesso di mantenere i rapporti con la sua vera madre
– la stessa Diana
se ne sarebbe spiaciuta – ma lo avrebbe fatto tenendo le
distanze, ben sapendo
che a entrambi stava bene così.
«Direi
che è andata bene. Ho conosciuto diverse persone, a
scuola» asserì Mark
poggiando la sacca accanto alla sedia su cui poi si accomodò.
«Ottimo.
Ed è per questo che il cappuccio della felpa è
ancora sulla tua testa?» lo
irrise bonariamente Diana, sapendo bene che il nascondiglio preferito
del
figliastro risiedeva dietro l’onnipresente cappuccio delle
sue felpe.
Lui
rise imbarazzato, lo lasciò calare sulle spalle
perché i capelli ribelli e
ramati venissero liberati e la donna, dolcemente, aggiunse:
«Sei sicuro che sia
andato tutto bene?»
«Davvero.
Nessun problema, stavolta. Ho, per così dire, trovato una
guardia del corpo
assai singolare» ammise Mark, non sapendo quanto spingersi in
profondità nello
spiegare lo strano, sconvolgente comportamento di Liza.
Non
voleva che Diana si facesse delle strane idee, né voleva
sorbirsi il terzo
grado che sicuramente sarebbe seguito alla notizia che aveva fatto
amicizia con
una ragazza. Allo stesso modo, però, non desiderava neppure
che si preoccupasse
inutilmente per eventi che, di fatto, non erano accaduti.
Per
la prima volta in tanti anni, non era stato vittima di atti di bullismo
indiscriminato, non aveva dovuto fare a botte per difendersi
– cosa in cui era
divenuto piuttosto bravo, suo malgrado – né aveva
ravvisato pericoli in tal
senso. Poteva perciò anche festeggiare la novità,
pur se sperava davvero che Diana
non vi ricamasse sopra troppo.
Piena
di curiosità, la donna puntò i suoi caldi occhi
neri sul volto del figliastro
e, curiosa, domandò: «Ebbene? Non mi dici chi
è il nerboruto omaccione che ti
fa da spalla?»
«Ehm,
per la verità, si tratta di una ragazza. Inoltre, ci sarebbe
anche sua cugina,
o quasi. Non sono proprio cugine, ma parenti acquisite o qualcosa del
genere»
biascicò Mark, sapendo bene stare facendo un sacco di
confusione nel descrivere
sia Liza che la piccola Chelsey.
Diana
sgranò ovviamente gli occhi per la sorpresa e la confusione
e, picchiettandosi
il mento con un dito con aria dubbiosa, indagò ulteriormente
in merito a quella
frase così strana.
«Sono
per caso le figlie di un boss della malavita?»
Mark
scoppiò nuovamente a ridere, scosse il capo e
replicò: «Non credo. Liza, la
ragazza più grande, è figlia di un imprenditore
losangelino, e lei si è
trasferita qui per stare insieme a sua cugina Iris che, tra le altre
cose, è la
nostra insegnante di musica.»
«Oookay,
già qui abbiamo un intreccio
interessante…» chiosò Diana, accennando
un sorriso
divertito. «…quindi, che mi dici
dell’altra?»
«Beh,
si tratta di Chelsey. Liza e Chelsey diventeranno parenti acquisite
tramite la
professoressa Walsh, Iris per l’appunto, perché
lei sposerà entro l’anno il
padre di Chelsey.»
Aprendosi
in un sorrisone ancora più interessato, Diana allora
esalò: «Oh, cielo… meglio
di una soap opera. E quindi, è questa Chelsey a essere forte
e vigorosa? O la
beniamina della scuola?»
«Ehm,
no, non è nerboruta, né penso sia particolarmente
famosa, o famigerata. Inoltre,
ha dodici anni» ammise Mark, facendo scoppiare a ridere
Diana. «Il punto è che
hanno entrambe dei caratteri così solari e aperti che
nessuno osa criticarle o
dar loro contro perché, molto semplicemente, piacciono
a tutti e, per qualche motivo, mi hanno preso sotto la
loro ala, per così dire.»
Asciugandosi
una lacrima di ilarità, la donna esalò:
«Adoro questa cittadina. E queste due ragazze
mi piacciono già. Perché non
…»
La
loro conversazione si interruppe di colpo quando la porta
d’entrata si aprì e Diana
vide entrare il marito, di ritorno da scuola.
Mark
fece finta di nulla, tornò a sollevare il cappuccio e,
raccolta che ebbe la sua
sacca, si avviò verso la sua nuova stanza, non prima
però di essere bloccato
dal padre che, laconico, disse: «Tra un’oretta
andiamo nel bosco. Fatti trovare
pronto.»
«Certo,
papà» mugugnò Mark, preferendo non dire
altro per non dover essere costretto a
litigare dinanzi a Diana.
Rimasta
sola col marito, la donna lasciò perdere il PC –
come arredatrice d’interni,
poteva svolgere la maggior parte del suo lavoro da casa – per
dire: «Non credi
che, prima di tutto, avresti potuto chiedergli com’era andato
il suo primo
giorno di scuola?»
«Lo
so già. L’ho tenuto d’occhio per tutto
il tempo» sottolineò per contro Donovan,
poggiando le chiavi dell’auto nel piattino svuota tasche che
si trovava
all’ingresso, su una piccola cassettiera in legno di cedro.
Assottigliando
lo sguardo, la donna replicò sul chi vive: «In che
senso, scusami? Lo hai spiato?»
«Mio
fratello è morto perché non ha prestato
attenzione a se stesso e alla sua
famiglia, e io mi sto limitando a non commettere gli stessi errori,
tesoro» si
limitò a dire Donovan, avvicinandosi per darle un bacio
sulla fronte prima di
sbirciare sul notebook ancora acceso. «Bel progetto. Per chi
è?»
«L’interno
di una baita di lusso che sto progettando per i coniugi Karlson. Ti
avevo detto
che, prima di arrivare qui, mi ero messa in contatto con una locale
azienda che
si occupa di costruire case nella zona. Beh, domani parlerò
con il costruttore
della nuova villa dei Karlson, un certo Devereux Saint Clair della S.C.
Constructions, per sapere quando potrò fare un sopralluogo.
Dopotutto, ci siamo
sentiti solo per telefono, e lo sai che odio le
videochiamate» gli spiegò lei,
scrollando svogliata una spalla. Non voleva cambiare argomento e
permettere a
Donovan di farla franca ma, come Mark, non aveva molta voglia di
litigare.
«I
Karlson sono persone fortunate» chiosò Donovan,
allontanandosi per prendere dal
frigorifero un isotonico e un succo di frutta alla pesca.
Diana
lo seguì con lo sguardo e, mentre il marito preparava una
merenda leggera da
portare con sé nel bosco, lei domandò
testardamente: «Per quanto ancora
obbligherai Mark a seguirti in questa crociata? Non pensi sarebbe
più giusto
che fosse lui a scegliere?»
Donovan
bloccò per un istante le mani sopra il pacchetto del pane
morbido ma, dopo aver
sospirato fiacco, si limitò a dire: «Mark sa che
è nel suo interesse trovare il
vero assassino dei suoi zii e di sua cugina. Quel folle potrebbe
puntare a noi,
a un certo punto, e io voglio evitarlo.»
Diana
sapeva bene che quel continuo spostarsi di città in
città non dipendeva
soltanto dalla ricerca di questo fantomatico assassino, ma anche dallo
strenuo
tentativo di Donovan di tenerli al sicuro.
Adele
non aveva sopportato quel viavai senza una meta precisa e, incurante di
tutto e
tutti, se n’era andata senza più voltarsi indietro.
Personalmente,
non poteva biasimarla per essersi stancata di girovagare senza
meta,… ma per
aver abbandonato Mark, sì. Quello, non lo aveva mai
accettato, né mai lo
avrebbe fatto.
Le
spiaceva, però, che il loro tentativo di riallacciare i
rapporti non fosse
andato poi così bene ma, almeno stando alle parole di Mark,
lui non sembrava
averne sofferto troppo.
«Forse
dovrei venire io, con te, e lasciare che Mark si riposi un
po’. Dopotutto, è
ancora un ragazzo e merita di avere del tempo per
sé» gli propose la moglie,
stringendo leggermente le mani sul tessuto dei pantaloni.
Donovan,
però, scosse recisamente il capo e replicò:
«Devo ricordarti che anche tu
hai dei motivi più che validi
perché io trovi quel pazzo?»
Diana
si ritrovò a fissare gli occhi scuri e rabbiosi di Donovan,
di un blu così cupo
da sembrare nero e, con un sospiro, la mano della donna andò
alla parte bassa
della sua gambao destra, dove la carne le era stata strappata fino
all’osso.
Aveva
ricordi confusi di quel momento, il dolore aveva cancellato quasi ogni
traccia
dalla memoria di quei tragici attimi ma, a memento di ciò
che era avvenuto,
restavano un moncherino e una protesi a rammentarglielo.
Con
dita delicate si sfiorò la protesi nascosta dal pantalone e,
sospirando
leggermente, asserì: «Ho scalato il Denali, se ben
ricordi, con la mia gamba
bionica, perciò non venirmi a dire che non posso
farlo.»
Donovan
la raggiunse al tavolo, si accucciò accanto a lei e,
depositato un bacio sul
suo ginocchio destro, appena sopra l’attacco della protesi,
replicò: «Lo so
benissimo. Ma hai già pagato fin troppo, per i miei gusti, e
Mark sarà più al
sicuro, se imparerà a conoscere il più possibile
il mondo che lo circonda.»
«Papà
ha ragione, mamma. Tu hai già pagato fin troppo»
aggiunse Mark dalla porta del
soggiorno, lo sguardo puntato sulla cucina illuminata dalla luce
obliqua del sole
pomeridiano.
«Mark…»
esalò spiacente Diana.
«Sono
bravo a muovermi nella foresta. Non ti preoccupare» si
limitò a dire il
giovane, afferrando il suo zainetto dall’appendiabiti per
riempirlo con le sue
cose. «Poi, lo sai che mi piace andare per i
boschi.»
«Mi
piacerebbe che lo facessi solo per diletto, e non perché
costretto» sottolineò
la donna, lanciando un’occhiata a entrambi i suoi uomini
prima di sospirare.
Mark
fece spallucce, lasciando cadere l’argomento, e
così fece Donovan.
La
prima volta che Mark aveva scoperto il motivo per cui Diana aveva perso
la sua
gamba, era rimasto in silenzio per più di una settimana.
Venire a sapere che,
non solo le indagini del padre potevano non essere pura follia, ma
avevano
lasciato strascichi confutabili su
qualcuno, aveva lasciato senza parole il ragazzo.
Solo
a stento aveva chiesto maggiori spiegazioni a Diana e lei, con
dolcezza, gli
aveva raccontato di quel terribile giorno in cui, sola nel bosco, era
stata
aggredita da un lupo. Ricordava poco di quei momenti, ma
l’immagine del lupo
che la atterrava le si era sedimentata nella mente come una ferita
aperta e mai
più rimarginata.
Diana
aveva temuto di essere dilaniata fino a morire, ma il lupo era parso divertirsi nell’infierire su
di lei,
come se il dolore da lei provato lo stesse rinvigorendo. Si era
accanito sulle
sue carni con il preciso intento di farle provare un’agonia
terribile, senza
per questo strapparle la vita in fretta, come avrebbe fatto qualsiasi
altro
predatore.
Il
dolore era stato così forte – e imprevisto
– che le sue urla si erano levate in
aria con insolita forza e, forse proprio per questo, alcune persone nei
pressi
del luogo dell’aggressione l’avevano udita ed erano
accorsi per aiutarla.
Quelle
sue urla terrorizzate e terribili – o forse altro, almeno a
detta di Diana –
avevano spinto il lupo a ritirarsi, permettendo agli altri
escursionisti di
giungere da lei per salvarla.
Solo
a stento si era salvata da una morte per dissanguamento, e i mesi
passati in
ospedale, così come nel centro riabilitativo, erano stati
per lei un calvario
senza fine.
Quando
aveva parlato dell’aggressione di un lupo e del suo strano
comportamento, in
pochi avevano voluto crederle ma, trattandosi di ferite compatibili con
un
animale selvatico, il suo caso era stato archiviato senza alcuna
indagine.
La
colpa era stata data a un cane inselvatichito, piuttosto che a un lupo,
e la
polizia non era neppure stata chiamata per interessarsi al caso,
trattandosi di
un’aggressione da parte di un animale.
L’amputazione
sotto il ginocchio era stata la diretta conseguenza di
quell’aggressione brutale
e, da quel giorno, la sua mente aveva dovuto lottare per mettere ordine
tra i
suoi ricordi e la paura che l’aveva accecata.
Quando,
però, aveva messo assieme i radi pezzi dei ricordi di
quell’evento, scampati
alla pulizia che la sua memoria aveva compiuto per salvarla dalla
pazzia, una
cosa le era stata chiara. Quel lupo – perché di
lupo si era trattato, non certo
di un cane – si era comportato come nessun animale selvatico
avrebbe mai fatto.
La
sua aggressione le aveva ricordato ciò che aveva vissuto
anni prima, nella
metropolitana di New York, durante i suoi studi alla Columbia. Quegli
occhi
scuri di lupo, puntati su di lei, le avevano ricordato fin
troppo bene quelli dell’uomo che aveva tentato di
stuprarla e
che, solo grazie all’intervento di un poliziotto, non era
riuscito nei suoi
intenti.
No,
quelli che aveva visto in quel bosco, non erano stati gli occhi di un
animale,
ma gli occhi di un uomo invasato nel corpo di un lupo. Come farsi
credere da qualcuno,
però?
Incontrare
Mark al Centro Commerciale, così come parlare con Donovan e
conoscere lui e la
sua ricerca, erano stati due eventi che l’avevano salvata
dalla pazzia più nera.
Trovare
in Donovan un uomo disposto non soltanto a crederle, ma anche ad
aiutarla,
l’aveva spinta in prima battuta a seguirli e, in seguito, a
comprendere quanto
fosse profondo il sentimento che aveva sviluppato per entrambi.
Vedere
la sofferenza crescente di Mark, però, la angustiava, e ora
desiderava con
tutta se stessa che, primariamente, il figliastro agisse di testa
propria, e
non obbligato dal padre a seguirlo nelle sue ricerche sempre
più ai confini
dello scibile.
Mark,
però, si limitò a preparare lo zainetto da
trekking e, sulla porta che
conduceva al soggiorno, disse: «Andiamo pure. A dopo,
mamma.»
«State
attenti» mormorò la donna, salutandoli con un
sorriso.
«Come
sempre» le promise Donovan.
***
Allenarsi
con Freki non era esattamente la cosa più semplice del mondo
ma, non avendo la
possibilità di avere tutto per sé Branson
– che viveva oltreoceano, e non certo
vicino a Clearwater – Liza doveva accontentarsi.
Non
che il termine fosse adatto a Rock, viste le sue indubbie
qualità, ma allenarsi
con un licantropo non era “semplice”
come addestrarsi con un altro umano, pur se forte e competente in
materia come
Branson.
Nel
caso specifico, inoltre, allenare Liza perché divenisse
agile, veloce e
preparata a qualsiasi evenienza, era diventata per Rock una missione di
importanza quasi biblica.
Freki
desiderava con vivo fervore che lei fosse sempre pronta a tutto ma,
soprattutto,
abbastanza abile da prendere alla sprovvista anche un licantropo.
Per
questo, si era offerto volontario per fare le veci di Branson e, da
quel che
Liza sapeva, i due si tenevano assiduamente in contatto per parlare dei
suoi
progressi.
Essere
al centro dell’attenzione di due pezzi d’uomo come
Rock e Branson faceva in
qualche modo piacere ma, il primo era il compagno del loro Fenrir,
mentre il
secondo era il fedele Geri di Lady Fenrir.
Liza
era solo una pupilla, per loro, niente più di questo,
perciò il piacere di
essere al centro dei loro pensieri era controbilanciato dalla
frustrazione di
essere, alla fine, solo un’allieva.
«Ti
sei distratta» la rimproverò dolcemente Rock,
comparendole alle spalle e
attaccandole sulla spalla un adesivo a forma di smile
triste.
Liza
lo fissò disgustata – ne aveva già tre,
sulla schiena – e, squadrando
accigliata Rock, borbottò: «Ho avuto una giornata
pesante, oggi. Il primo giorno di scuola!
Non potresti
essere più magnanimo?»
«Non
puoi sapere quando il nemico calerà la sua scure su di
noi… devi sempre essere
pronta» sottolineò Rock,
attaccandole uno smile anche in
fronte al solo scopo di farla ridere.
Liza
se lo strappò con falsa irritazione e, stampandolo sul naso
di Rock, replicò:
«Guardi troppi film d’epoca. Anche quanto, ci
colpirebbero con pallettoni a
nitrato d’argento o cose simili, non con delle
asce.»
«Non
scartare mai le armi da taglio dal tuo arsenale, …non sai
mai cosa può pensare
un…» cominciò col dire Rock prima di
reclinare il capo per guardarsi lo stomaco,
dove avvertì all’improvviso un certo prurito.
Scoppiando
a ridere, annuì soddisfatto e scansò gentilmente
la mano di Liza, che teneva
saldamente in mano un corto stiletto d’argento dalle
rifiniture filigranate
sull’elsa.
«Molto,
molto brava… approfitta
sempre della
vanagloria di chi è più forte di te. Ti
sottostimeranno perché sei una ragazza e
un’umana, perciò tu usa questa
superficialità nel nemico per colpire i punti
vitali» chiosò Rock.
«Grazie,
troppo buono. Comunque, sai bene
che
non ho scartato l’idea delle armi bianche»
sottolineò Liza, rimettendo nel suo
fodero il corto stiletto.
«Oh,
lo so bene» ironizzò Rock lanciando poi uno
sguardo sopra di loro, dove Huginn
e Muninn stavano volteggiando curiosi. «Sembrano interessati
a qualcosa.»
Levando
a sua volta il viso, Liza si mise in contatto con Huginn –
abbastanza vicino
per un contatto mentale – e domandò: “Che
succede, ragazzi?”
“Ci
sono due
persone nel bosco, e una mi pare sia qualcuno di tua
conoscenza.”
Sgranando
gli occhi per la preoccupazione, Liza mormorò:
«Intrusi nel nostro campo di
addestramento. E’ il caso che noi…»
Liza
non terminò mai la frase. Rock la prese al volo,
portandosela sulle spalle come
uno zaino dopodiché, con grazia e forza ferine,
salì su un alto peccio rosso
nelle vicinanze e si nascose tra le sue fronde.
Da
lì, quindi, osservò il bosco fitto e
apparentemente tranquillo, annusando
l’aria per comprendere cosa avessero notato i due corvi.
“A
che distanza
sono, ragazzi?”
domandò Liza, guardandosi intorno con aria turbata.
“Due
miglia a
ovest”
riferì Muninn. Huginn si era alzato in aria, a diverse
decine di metri
d’altezza, per tenere d’occhio più
ampiamente il bosco, perciò Liza non poteva
più mettersi in contatto con lui.
Liza
indicò silenziosa la direzione a Rock che, imprecando tra i
denti, bofonchiò:
«Ecco perché non li ho sentiti. Hanno il vento a
favore.»
La
ragazza annuì preoccupata, appollaiata su un ramo assieme a
Rock e protetta
dall’arco delle sue braccia.
Sarebbe
scoppiata a ridere se, una cosa del genere, le fosse successa solo
l’anno addietro.
Trovarsi con un uomo affascinante, tutti soli e in un bosco, le avrebbe
dato
una scarica di adrenalina pazzesca ma, in quel momento, era soltanto in
grado
di pensare a chi potessero essere i due escursionisti.
Inoltre,
con Rock, non avrebbe potuto esserci storia a prescindere, visto quanto
lui era
innamorato del suo Lucas, quindi crogiolarsi nella bambagia sarebbe
stato
assurdo e controproducente.
Lasciati
quindi perdere quei pensieri idioti, si concentrò su coloro
che i corvi avevano
visto dall’alto.
Data
la distanza, dovettero attendere diverso tempo prima di vederli
comparire ma,
quando ciò accadde, Liza fu costretta a coprirsi la bocca
per non urlare, la
sorpresa troppo grande per essere trattenuta dalle sue labbra tremanti.
Rock
la fissò dubbioso e lei, scuotendo il capo,
disegnò un cerchio in aria con un
dito, come a indicare lo scorrere del tempo su un orologio. Gli avrebbe
spiegato tutto in un secondo momento, quando non fossero stati
più presenti i
due escursionisti ma, soprattutto, quando il suo cuore avesse
riacquistato
stabilità.
Al
momento, le stava esplodendo nelle orecchie mentre la sua mente, ai
limiti
dell’iperattività, si chiedeva come i due nuovi
arrivati, dabbasso, non
riuscissero a sentirlo tanto era assordante.
Rock
assentì in silenzio, comprendendo al volto e, attento, si
mise in ascolto del
dialogo tra i due uomini presenti nel bosco, speranzoso di poter
cogliere
qualcosa di interessante nei loro discorsi.
“E’
il tuo
compagno di classe, vero? Quello con cui eravate in compagnia oggi, tu
e
Chelsey”
domandò preoccupato Huginn, ora appollaiato sullo stesso
peccio che avevano
scelto come nascondiglio.
Liza
assentì, lo sguardo puntato sulle due teste ramate di Mark
Sullivan e di suo
padre Donovan.
Che
diavolo ci facevano così
addentro nel
bosco?! Nessuno si avventurava così tanto nella foresta,
neppure gli
escursionisti esperti! I sentieri erano ben lontani da quel luogo
inesplorato,
e proprio per questo lo avevano reputato un posto ideale per gli
allenamenti.
Quindi,
perché i due Sullivan si trovavano lì?
Bloccando
i loro passi nei pressi di una colonia di felci, Donovan Sullivan
estrasse il
proprio palmare per controllare la loro posizione con il GPS
dopodiché,
cambiata schermata, tracciò una X su una mappa virtuale e
disse: «In questa
zona non c’è assolutamente traccia di orme.
Eppure, la soffiata che avevo
ricevuto parlava chiaro. I lupi si sono mossi verso
nord-ovest.»
Sia
Rock che Liza sgranarono gli occhi, a quel commento e, ansiosi,
ascoltarono il
resto della conversazione con l’attenzione a mille.
«Come
in tutti gli altri siti,
papà. Se ben
ricordi, non abbiamo mai trovato
tracce» sottolineò Mark, irritato. «Sono
solo voci, chiacchiere da ubriachi e
poco altro, quelle che hai sempre voluto seguire. Davvero speri che
siano
credibili?»
«I
segni lasciati dalla loro fame sono credibili, e lo sai anche tu,
…non sono chiacchiere da
ubriaco» replicò aspro Donovan,
risistemando nella tasca dello zaino il proprio palmare.
«C’è qualcosa che ci
sfugge, di queste creature. Qualcosa che ha a che fare con il loro
essere così
elusive.»
Sospirando,
Mark cominciò a sgranocchiare una barretta ai cereali prima
di dire: «Non hai
mai pensato che, in realtà, ciò che stiamo
cercando non sono affatto lupi, ma
un’astuta banda di assassini
che sa mascherare bene le proprie tracce? Assassini umani,
intendo. Devo forse ricordarti che i ninja usavano armi
artigliate, per uccidere i nemici?»
«Nessun
umano potrebbe inscenare quel genere di tracce su un corpo. Ricorda la
dentatura lasciata sul braccio di Lacey. O le ferite di Diana. Non erano denti umani»
sottolineò per
contro Donovan prima di sospirare spiacente nel vedere il figlio
accigliarsi e
reclinare torvo il capo. «Scusa, Mark… non avrei
dovuto…»
Il
giovane levò una mano per scacciare qualsiasi sua scusa e,
sbuffando, borbottò:
«Non ho bisogno che mi ricordi come
è
stata massacrata mia cugina. Li trovai io,
papà. So
com’erano ridotti.»
Non
avrebbe mai potuto cancellare dalla mente il ricordo di quello scempio,
del
sangue trovato in casa dello zio, dell’apparente massacro
perpetrato da un
folle e dell’assurda spiegazione trovata dai poliziotti.
Omicidio-suicidio.
Secondo
le loro ricostruzioni, suo zio aveva inscenato una sorta di Arancia
Meccanica
con i suoi familiari, il tutto a causa di alcuni debiti di gioco di cui
neppure
la famiglia era al corrente. Dopo questo gesto inconsulto, sempre
secondo le
ricostruzioni dei detective, si era sparato un colpo in testa come atto
finale di
quella follia.
A
nulla era valso far notare le strane ferite ritrovate sui corpi della
figlia,
Lacey, o della moglie, Melanie. Erano state molto banalmente ricondotte
ad
alcuni strumenti contundenti trovati nel garage della casa, il tutto
ricoperto
di sangue.
Il
fatto che la scena del crimine apparisse fin troppo perfetta, non aveva
insospettito gli investigatori. La mancanza di un DNA estraneo alla
famiglia
non aveva fatto pensare a una messa inscena ben confezionata quanto,
piuttosto,
all’ennesimo caso di violenza domestica sfociato
nell’omicidio-suicidio.
Secondo
la prima legge di Locard, qualsiasi persona, quando compie
un’azione di
qualsiasi genere, lascia qualcosa di sé
nell’ambiente circostante, e trattiene
qualcosa per sé di tale ambiente.
Nel
caso della famiglia Sullivan, però, ciò non era
avvenuto e, proprio per queste
prove indiziarie – e la mancanza di una vera alternativa
– il caso era stato
aperto e chiuso senza ulteriori indagini.
Donovan
Sullivan aveva cercato di farle riaprire nei successivi due anni, ma
aveva
sempre ottenuto esito negativo, mancando le prove per poter procedere
in
un'altra direzione.
Ciò
aveva convinto una volta di più Donovan a muoversi in
solitudine, a seguire le
dicerie, le voci di corridoio, le leggende metropolitane che parlavano
di morti
violente e irrisolte. Mai, neppure per un istante, aveva dato credito
alle
parole del procuratore, che lo aveva spinto ad accettare il fatto che
suo
fratello si fosse tramutato in un omicida a causa dei debiti accumulati.
Preferendo
agire in solitudine – poiché nessuno gli aveva
dato retta – Donovan si era quindi
rivolto a coloro i quali avevano contratto un credito con il fratello.
In
parte, per estinguerlo e non avere problemi in futuro e, in parte, per
capire
se fossero stati loro a ordire quella strage.
Trovarli
traumatizzati dalla morte di Derek Sullivan e quasi decisi ad annullare
il
debito a prescindere dal pagamento,
lo aveva convinto della loro estraneità ai fatti,
lasciandolo quindi senza una
pista concreta da seguire.
Questa
mancanza di informazioni non aveva però scoraggiato Donovan.
Incurante dei
consigli degli amici, aveva portato la famiglia a vagare per migliaia
di
miglia, sempre alla ricerca di un indizio nuovo, di una nuova pista, di
una
speranza che potesse dar pace alla sua sete di giustizia.
Da
New York – loro luogo d’origine – si
erano spinti a nord, seguendo le tracce di
alcune voci legate a una studentessa della Anderson School
dell’Upper West Side
di Manhattan. Quest’ultima, trasferitasi coi genitori a causa
di gravi problemi
comportamentali, aveva fatto perdere le sue tracce nei pressi di
Toronto, e da
lì Donovan aveva dovuto muoversi quasi alla cieca1.
Secondo
le dicerie che lo avevano spinto a fidarsi proprio
di quella traccia, si vociferava che la ragazza avesse aggredito a morsi una compagna di classe.
L’averla
persa di vista, però, gli aveva impedito di procedere oltre
con l’indagine.
Deciso
a non scoraggiarsi, Donovan aveva allora cambiato rotta, appoggiandosi
ad altre
voci di corridoio, a blog equivoci trovati nel dark
web e, da quel momento in poi, lui e la sua famiglia non si
erano più fermati.
La
sua testardaggine nel voler seguire quelle piste inconsistenti aveva
compromesso il rapporto con la sua prima moglie ma, nonostante questo,
non
aveva comunque rinunciato.
In
dieci anni, però, non era mai riuscito a trovare –
a capire – chi si
nascondesse dietro quegli efferati omicidi che,
ogni tanto, spuntavano dal nulla, lasciando morte e dubbi al loro
passaggio.
Nessuna prova, nessuno spiraglio.
Solo
casi derubricati a omicidio-suicidio, oppure a cold
case mai più risolti per mancanza di prove.
«Per
oggi è il caso di chiudere qui. Si sta facendo buio, e non
è davvero il caso di
trovarsi a notte fonda in un bosco che non conosciamo. Siamo molto
distanti dai
sentieri» dichiarò a quel punto Donovan poggiando
una mano sulla spalla del
figlio, che però rifiutò il contatto e
ritornò sui suoi passi senza attendere
il padre.
Silenziosi,
Rock e Liza attesero che fossero abbastanza lontani prima di discendere
dal
peccio ma, una volta a terra, l’uomo fissò la
ragazza dinanzi a lui e domandò:
«Ebbene?»
Sospirando,
Liza disse mesta: «Sono il professor Donovan Sullivan, il mio
nuovo insegnante
di Storia, e suo figlio Mark.»
«Cristo
Santo!» esclamò Rock, sorpreso e irritato da
quella novità.
«Sono
Cacciatori, Rock?» domandò turbata Liza,
inorridita al solo pensiero di dover
essere costretta, un giorno, a predarli. Se uno di loro, o entrambi,
avessero
fatto del male a qualcuno del branco, lei e Rock avrebbero dovuto porvi
rimedio, anche in malo modo, e la sola idea la inorridiva.
Sospirando,
l’uomo le poggiò comprensivo una mano sulla
spalla, scrollò le proprie e
mormorò: «Non possiamo dirlo con certezza ma
è stato un dialogo davvero
surreale, il loro, e ci pone in obbligo verso il clan. Dobbiamo
avvertire i
Gerarchi.»
Già,
i Gerarchi. Ergo, Lucas, Devereux e sua cugina Iris che, pur non
essendo Hati
per diritto di nascita, ne faceva le veci grazie al suo enorme e
inquietante
potere di landvættir.
«Coraggio,
andiamo a casa anche noi. E’ ora»
mormorò lui, offrendole le spalle perché
salisse in groppa.
Liza
assentì muta e, dopo essersi sistemata sull’ampia
schiena di Rock, lasciò che
la conducesse a casa grazie alla sua falcata veloce e potente.
Quel
tempo passato a non fare nulla, se non rimanere aggrappata, le diede
l’opportunità di pensare a ciò che
avevano udito e, tra sé, si domandò se
davvero Mark fosse un Cacciatore di licantropi.
“Sai
che non
potresti evitare di difendere il clan, vero?” le ricordò turbato
Muninn.
“Lo
so. Per
questo mi sto domandando cosa fare, e come comportarmi. Mark mi sembra
un tipo
così simpatico!”
“Non
è detto che
non lo sia. Non credo che i Cacciatori siano persone crudeli in ogni
ambito
della loro vita”
sostenne benevolo il corvo. “Il
punto è
che, se loro diventeranno un pericolo per il branco, tu non dovrai
pensare alla
simpatia che provi per lui, ma solo al tuo dovere.”
“Parli
come se
avessi cent’anni, Muninn, ma tengo a rammentarti che sei un
cucciolo” brontolò
irritata Liza, pur sapendo che il suo corvo aveva ragione.
“Non
si tratta
di età, mia amata guida, ma di responsabilità.
Anche tu sei giovane, eppure ti
è stato affidato un ruolo da adulto. Non credo vi siano
molte alternative a
parte fare il proprio dovere, ti pare?” si limitò a dire il
corvo.
Liza
non seppe come replicare. Era tutto dannatamente vero.
1:
Si tratta della studentessa della Columbia con cui Brie avrà
a che fare quando conoscerà Cynthia; si tratta infatti della ragazza che la
bullizza all'università. L’abbiamo incontrata
nella mini-fic su
Jerome.