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Autore: Mary P_Stark    31/08/2020    1 recensioni
Liza Wallace è la nuova Geri del branco di Clearwater e, a discapito della sua giovane età, dimostra fin da subito di avere un potenziale enorme; il rapporto davvero unico con i suoi Huginn e Muninn, i magici corvi al servizio del Sicario Umano del branco colpisce fin dall'inizio l'intero branco. Questo suo potenziale verrà subito messo alla prova quando, a sorpresa, giungerà a Clearwater una famiglia proveniente da New York. I Sullivan sembrano una famiglia normale, almeno all'apparenza, ma il figlio Mark e suo padre Donovan metteranno in allarme il branco a causa del loro comportamento sospetto. Saranno dei temuti Cacciatori, o qualcun altro si cela nell'ombra, più pericolo e subdolo, tentando di portare lo scompiglio nel branco di Lucas, Devereux e Iris? (particolari della storia presenti nei racconti precedenti della Trilogia della Luna)
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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2.

 

 

 

Aperta la porta di casa dopo aver lasciato gli scarponi nell’anticamera dell’entrata, Mark disse a mezza voce: «Sono tornato.»

Dal salottino che dava sul giardino – proprio a fianco dell’ampia cucina in stile country canadese dell’abitato – giunse la voce di Diana Sullivan-Scott, matrigna di Mark e seconda moglie di Donovan.

La decennale ricerca indefessa di Donovan non aveva minato solo il rapporto con il figlio, ma aveva anche fatto fuggire – letteralmente – la sua prima moglie, e madre di Mark.

Una mattina di dicembre, con l’albero di Natale fatto solo a metà e le decorazioni lasciate disordinatamente sul divano, Adele Cunningham se n’era andata da casa, lasciando solo un misero messaggio a chiosa del suo comportamento.

Invece di andare a prendere il figlio all’uscita da scuola, aveva comprato un biglietto di sola andata per il Texas e non si era più fatta viva – almeno fisicamente – per diversi anni.

Per Mark non era stata affatto una sorpresa. Sua madre si era lamentata fin dall’inizio di quell’andirivieni, apparentemente senza senso, da uno Stato  all’altro del nord America. I viaggi ne avevano fiaccato la già labile pazienza e, durante una delle ultime liti avute con il marito, Adele si era dichiarata pentita di aver sposato Donovan solo per amore.

Era ormai chiaro, almeno agli occhi della donna, che lui non l’amasse come aveva millantato, o avrebbe compreso le sue istanze. Donovan aveva replicato in toto alle sue accuse, addossandole la colpa di non sapersi adeguare ai cambiamenti, né di comprendere appieno cosa lo spingesse ad agire.

Le liti si erano protratte per alcuni mesi ancora finché, per l’appunto, Adele era fuggita per raggiungere il Texas e la casa di una sua amica, dichiaratasi disposta ad accoglierla.

Alcuni mesi dopo, all’interno di una capiente busta giallognola, erano giunti i documenti del divorzio, uniti a una lettera per Mark, in cui la donna spiegava al figlio i vari perché del suo gesto.

Il ragazzo aveva badato poco alla cosa – a nove anni, le cose apparivano per lo più in bianco e nero, e sua madre era scappata via da lui, dopotutto, perciò non aveva bisogno di scuse o spiegazioni – e Donovan si era limitato a firmare ogni documento.

Adele non aveva voluto nulla. Neppure Mark, che troppo le avrebbe ricordato l’uomo di cui si era innamorata e che l’aveva fatto soffrire. Aveva chiesto solo indietro la sua libertà.

A Mark non era restato altro che accettare di essere un bambino senza mamma, ritrovandosi in una condizione ancor peggiore rispetto alla precedente, e di cui aveva finito con l’incolpare in gran parte il padre.

L’arrivo di Diana nella loro vita era giunto per caso. Almeno agli occhi di Mark, però, era stato un dono venuto dal cielo per salvarlo dalla follia.

Al compimento dei suoi undici anni, solo e ben più che abituato a esserlo, si era lasciato andare a un gesto di insubordinazione nei confronti del padre e, senza dire nulla, si era recato nel centro commerciale della città in cui si trovavano.

Pur essendo una piccola cittadina, Wichita era pur sempre diversa dal luogo in cui era cresciuto e, dopo l’iniziale soddisfazione per aver disobbedito al padre, erano subentrate l’ansia e la paura di non saper tornare a casa.

Tenendo in mano il suo gelato ormai sciolto, mentre i piedi avanzavano senza meta e senza scopo – percorrendo in tondo il corridoio centrale del mall – Mark si era ritrovato a fissare con le lacrime agli occhi la dipendente di un negozio di articoli tecnologici.

Questa, mossa a pietà di fronte al suo autentico panico, gli aveva prestato aiuto e, da quel giorno, Mark aveva trovato in Diana Scott un’amica con cui sfogare ansie e  dolori.

Con nessun ragazzino della sua età avrebbe mai ammesso di sentirsi solo e isolato dal mondo, poiché proprio i suoi coetanei lo facevano sentire a quel modo. Non soltanto la testardaggine del padre a voler proseguire nella sua folle ricerca della verità.

Essere sempre quello nuovo portava con sé un’automatica antipatia da parte di molti, e i bulli delle scuole in cui si era trovato a studiare suo malgrado, ben di rado si erano lasciati sfuggire l’occasione per bastonarlo.

Il fatto di avere i capelli rossi – e di essere il figlio dell’insegnante nuovo – aveva solo peggiorato la situazione, nel corso degli anni.

Suo padre non lo aveva certo aiutato a superare quel genere di problemi. Sentirsi dire che, presto o tardi, quelle stupidaggini sarebbero passate, non aveva magicamente fatto svanire i bulli, né le prese in giro, gli spintoni o i macabri messaggi sugli armadietti di scuola.

Diana, invece, gli aveva mostrato come riprendersi dalle ingiurie dei più crudeli, e come soprassedere a tutto il resto.

Avendo sofferto di attacchi di panico per diversi anni, a causa di un’aggressione in metropolitana – per fortuna finita bene –, Diana si era aperta con lui per mostrargli una nuova via da seguire. Un nuovo sentiero su cui sentirsi meno spaesato, meno solo.

Questo loro avvicinamento aveva dapprima preoccupato Donovan, restio a far accostare nuovamente una donna al figlio ma, infine, aveva accettato di conoscere a sua volta Diana.

Nell’anno e mezzo in cui erano rimasti a Wichita, i due erano dappima divenuti amici e, infine, si erano innamorati. La decisione di lei di non abbandonarli, una volta scoperta la loro futura partenza, era venuta quasi naturale, senza drammi, e aveva reso felice Mark, non soltando Donovan.

Che fossero o meno parenti, per lui poco contava. Diana era stata per lui più madre e amica della donna che l’aveva messo al mondo.

Al solo pensare ad Adele, sua madre naturale, Mark rise tra sé.

Sua nonna materna, Marie Sue, lo faceva sbellicare ogni volta, al telefono, quando gli raccontava ciò che combinavano i suoi fratellastri. Da quel poco che avevano ammesso con lui, i suoi nonni materni si erano assai irritati con la figlia, a causa del suo abbandono del focolare domestico ma, alla fine, l’avevano perdonata.

In fondo, avevano sempre concesso ad Adele ogni beneficio del dubbio e, almeno in quel caso – pur se lo aveva fatto capire nel modo sbagliato – lei aveva avuto delle buone ragioni per infuriarsi con Donovan.

Lui stesso non se l’era sentita di arrabbiarsi più di tanto con lei e, alla fine, le cose erano andate più o meno a posto. Da quel che sapeva Mark, si scambiavano persino gli auguri di Natale come persone civili.

La faccenda dei fratellastri, però, era tutt’altra storia.

Albert e Morris Kenyon – i figli minori di Adele e del nuovo marito, il latifondista Rayner Kenyon – erano due autentiche pesti bubboniche, e il padre non faceva che viziarli tremendamente.

Adele aveva anche tentato di creare una grande famiglia allargata e felice, qualche anno addietro, invitandolo a conoscere i suoi fratellastri e pregandolo di raggiungerli a Houston per il Natale.

Aveva anche esteso l’invito a Diana e Donovan, tra le altre cose.

Suo padre non si era espresso in tal senso, troppo preso dai suoi studi e, anche in quel caso, era stata Diana a spingerlo a non rifiutare il tentativo di riavvicinamento di Adele.

Mark aveva accettato di andare da solo per avere la possibilità di parlare con la madre senza drammi al seguito ma, al suo ritorno, aveva riferito di non voler ripetere l’esperienza.

Nessuno dei genitori aveva tentato di fargli cambiare idea, e la stessa Adele non aveva più spinto il figlio primogenito a tornare a Houston. Albert, infatti, aveva fatto i capricci per tutto il tempo, tacciando Mark di essere un ladro di mamme, mentre Morris aveva addirittura tentato di ucciderlo con la pistola del padre.

Quell’episodio, più di tutti, aveva convinto Mark a non lasciarsi più andare al sentimentalismo e, pur non avendo spiegato i reali motivi di una simile scelta ai genitori, si era però imposto di non dare una seconda possibilità alla madre.

Certe volte, bisognava soltanto chiudere una porta e non riaprirla mai più, per quanto lo si desiderasse. Si doveva semplicemente accettare la realtà dei fatti.

Se solo suo padre lo avesse fatto a sua volta, loro avrebbero potuto vivere nuovamente una vita normale ma, almeno per il momento, questo cambiamento non era ancora avvenuto.

«Allora, com’è andato il primo giorno di scuola?» domandò Diana levando il capo dal suo PC portatile per sorridere al figlio.

Mark rispose al suo sorriso con autentico piacere, dicendosi che a lui bastava Diana, come madre. Era perfetta in tutti i sensi, e lui le voleva un bene infinito. Non avrebbe smesso di mantenere i rapporti con la sua vera madre – la stessa Diana se ne sarebbe spiaciuta – ma lo avrebbe fatto tenendo le distanze, ben sapendo che a entrambi stava bene così.

«Direi che è andata bene. Ho conosciuto diverse persone, a scuola» asserì Mark poggiando la sacca accanto alla sedia su cui poi si accomodò.

«Ottimo. Ed è per questo che il cappuccio della felpa è ancora sulla tua testa?» lo irrise bonariamente Diana, sapendo bene che il nascondiglio preferito del figliastro risiedeva dietro l’onnipresente cappuccio delle sue felpe.

Lui rise imbarazzato, lo lasciò calare sulle spalle perché i capelli ribelli e ramati venissero liberati e la donna, dolcemente, aggiunse: «Sei sicuro che sia andato tutto bene?»

«Davvero. Nessun problema, stavolta. Ho, per così dire, trovato una guardia del corpo assai singolare» ammise Mark, non sapendo quanto spingersi in profondità nello spiegare lo strano, sconvolgente comportamento di Liza.

Non voleva che Diana si facesse delle strane idee, né voleva sorbirsi il terzo grado che sicuramente sarebbe seguito alla notizia che aveva fatto amicizia con una ragazza. Allo stesso modo, però, non desiderava neppure che si preoccupasse inutilmente per eventi che, di fatto, non erano accaduti.

Per la prima volta in tanti anni, non era stato vittima di atti di bullismo indiscriminato, non aveva dovuto fare a botte per difendersi – cosa in cui era divenuto piuttosto bravo, suo malgrado – né aveva ravvisato pericoli in tal senso. Poteva perciò anche festeggiare la novità, pur se sperava davvero che Diana non vi ricamasse sopra troppo.

Piena di curiosità, la donna puntò i suoi caldi occhi neri sul volto del figliastro e, curiosa, domandò: «Ebbene? Non mi dici chi è il nerboruto omaccione che ti fa da spalla?»

«Ehm, per la verità, si tratta di una ragazza. Inoltre, ci sarebbe anche sua cugina, o quasi. Non sono proprio cugine, ma parenti acquisite o qualcosa del genere» biascicò Mark, sapendo bene stare facendo un sacco di confusione nel descrivere sia Liza che la piccola Chelsey.

Diana sgranò ovviamente gli occhi per la sorpresa e la confusione e, picchiettandosi il mento con un dito con aria dubbiosa, indagò ulteriormente in merito a quella frase così strana.

«Sono per caso le figlie di un boss della malavita?»

Mark scoppiò nuovamente a ridere, scosse il capo e replicò: «Non credo. Liza, la ragazza più grande, è figlia di un imprenditore losangelino, e lei si è trasferita qui per stare insieme a sua cugina Iris che, tra le altre cose, è la nostra insegnante di musica.»

«Oookay, già qui abbiamo un intreccio interessante…» chiosò Diana, accennando un sorriso divertito. «…quindi, che mi dici dell’altra?»

«Beh, si tratta di Chelsey. Liza e Chelsey diventeranno parenti acquisite tramite la professoressa Walsh, Iris per l’appunto, perché lei sposerà entro l’anno il padre di Chelsey.»

Aprendosi in un sorrisone ancora più interessato, Diana allora esalò: «Oh, cielo… meglio di una soap opera. E quindi, è questa Chelsey a essere forte e vigorosa? O la beniamina della scuola?»

«Ehm, no, non è nerboruta, né penso sia particolarmente famosa, o famigerata. Inoltre, ha dodici anni» ammise Mark, facendo scoppiare a ridere Diana. «Il punto è che hanno entrambe dei caratteri così solari e aperti che nessuno osa criticarle o dar loro contro perché, molto semplicemente, piacciono a tutti e, per qualche motivo, mi hanno preso sotto la loro ala, per così dire.»

Asciugandosi una lacrima di ilarità, la donna esalò: «Adoro questa cittadina. E queste due ragazze mi piacciono già. Perché non …»

La loro conversazione si interruppe di colpo quando la porta d’entrata si aprì e Diana vide entrare il marito, di ritorno da scuola.

Mark fece finta di nulla, tornò a sollevare il cappuccio e, raccolta che ebbe la sua sacca, si avviò verso la sua nuova stanza, non prima però di essere bloccato dal padre che, laconico, disse: «Tra un’oretta andiamo nel bosco. Fatti trovare pronto.»

«Certo, papà» mugugnò Mark, preferendo non dire altro per non dover essere costretto a litigare dinanzi a Diana.

Rimasta sola col marito, la donna lasciò perdere il PC – come arredatrice d’interni, poteva svolgere la maggior parte del suo lavoro da casa – per dire: «Non credi che, prima di tutto, avresti potuto chiedergli com’era andato il suo primo giorno di scuola?»

«Lo so già. L’ho tenuto d’occhio per tutto il tempo» sottolineò per contro Donovan, poggiando le chiavi dell’auto nel piattino svuota tasche che si trovava all’ingresso, su una piccola cassettiera in legno di cedro.

Assottigliando lo sguardo, la donna replicò sul chi vive: «In che senso, scusami? Lo hai spiato

«Mio fratello è morto perché non ha prestato attenzione a se stesso e alla sua famiglia, e io mi sto limitando a non commettere gli stessi errori, tesoro» si limitò a dire Donovan, avvicinandosi per darle un bacio sulla fronte prima di sbirciare sul notebook ancora acceso. «Bel progetto. Per chi è?»

«L’interno di una baita di lusso che sto progettando per i coniugi Karlson. Ti avevo detto che, prima di arrivare qui, mi ero messa in contatto con una locale azienda che si occupa di costruire case nella zona. Beh, domani parlerò con il costruttore della nuova villa dei Karlson, un certo Devereux Saint Clair della S.C. Constructions, per sapere quando potrò fare un sopralluogo. Dopotutto, ci siamo sentiti solo per telefono, e lo sai che odio le videochiamate» gli spiegò lei, scrollando svogliata una spalla. Non voleva cambiare argomento e permettere a Donovan di farla franca ma, come Mark, non aveva molta voglia di litigare.

«I Karlson sono persone fortunate» chiosò Donovan, allontanandosi per prendere dal frigorifero un isotonico e un succo di frutta alla pesca.

Diana lo seguì con lo sguardo e, mentre il marito preparava una merenda leggera da portare con sé nel bosco, lei domandò testardamente: «Per quanto ancora obbligherai Mark a seguirti in questa crociata? Non pensi sarebbe più giusto che fosse lui a scegliere?»

Donovan bloccò per un istante le mani sopra il pacchetto del pane morbido ma, dopo aver sospirato fiacco, si limitò a dire: «Mark sa che è nel suo interesse trovare il vero assassino dei suoi zii e di sua cugina. Quel folle potrebbe puntare a noi, a un certo punto, e io voglio evitarlo.»

Diana sapeva bene che quel continuo spostarsi di città in città non dipendeva soltanto dalla ricerca di questo fantomatico assassino, ma anche dallo strenuo tentativo di Donovan di tenerli al sicuro.

Adele non aveva sopportato quel viavai senza una meta precisa e, incurante di tutto e tutti, se n’era andata senza più voltarsi indietro.

Personalmente, non poteva biasimarla per essersi stancata di girovagare senza meta,… ma per aver abbandonato Mark, sì. Quello, non lo aveva mai accettato, né mai lo avrebbe fatto.

Le spiaceva, però, che il loro tentativo di riallacciare i rapporti non fosse andato poi così bene ma, almeno stando alle parole di Mark, lui non sembrava averne sofferto troppo.

«Forse dovrei venire io, con te, e lasciare che Mark si riposi un po’. Dopotutto, è ancora un ragazzo e merita di avere del tempo per sé» gli propose la moglie, stringendo leggermente le mani sul tessuto dei pantaloni.

Donovan, però, scosse recisamente il capo e replicò: «Devo ricordarti che anche tu hai dei motivi più che validi perché io trovi quel pazzo?»

Diana si ritrovò a fissare gli occhi scuri e rabbiosi di Donovan, di un blu così cupo da sembrare nero e, con un sospiro, la mano della donna andò alla parte bassa della sua gambao destra, dove la carne le era stata strappata fino all’osso.

Aveva ricordi confusi di quel momento, il dolore aveva cancellato quasi ogni traccia dalla memoria di quei tragici attimi ma, a memento di ciò che era avvenuto, restavano un moncherino e una protesi a rammentarglielo.

Con dita delicate si sfiorò la protesi nascosta dal pantalone e, sospirando leggermente, asserì: «Ho scalato il Denali, se ben ricordi, con la mia gamba bionica, perciò non venirmi a dire che non posso farlo.»

Donovan la raggiunse al tavolo, si accucciò accanto a lei e, depositato un bacio sul suo ginocchio destro, appena sopra l’attacco della protesi, replicò: «Lo so benissimo. Ma hai già pagato fin troppo, per i miei gusti, e Mark sarà più al sicuro, se imparerà a conoscere il più possibile il mondo che lo circonda.»

«Papà ha ragione, mamma. Tu hai già pagato fin troppo» aggiunse Mark dalla porta del soggiorno, lo sguardo puntato sulla cucina illuminata dalla luce obliqua del sole pomeridiano.

«Mark…» esalò spiacente Diana.

«Sono bravo a muovermi nella foresta. Non ti preoccupare» si limitò a dire il giovane, afferrando il suo zainetto dall’appendiabiti per riempirlo con le sue cose. «Poi, lo sai che mi piace andare per i boschi.»

«Mi piacerebbe che lo facessi solo per diletto, e non perché costretto» sottolineò la donna, lanciando un’occhiata a entrambi i suoi uomini prima di sospirare.

Mark fece spallucce, lasciando cadere l’argomento, e così fece Donovan.

La prima volta che Mark aveva scoperto il motivo per cui Diana aveva perso la sua gamba, era rimasto in silenzio per più di una settimana. Venire a sapere che, non solo le indagini del padre potevano non essere pura follia, ma avevano lasciato strascichi confutabili su qualcuno, aveva lasciato senza parole il ragazzo.

Solo a stento aveva chiesto maggiori spiegazioni a Diana e lei, con dolcezza, gli aveva raccontato di quel terribile giorno in cui, sola nel bosco, era stata aggredita da un lupo. Ricordava poco di quei momenti, ma l’immagine del lupo che la atterrava le si era sedimentata nella mente come una ferita aperta e mai più rimarginata.

Diana aveva temuto di essere dilaniata fino a morire, ma il lupo era parso divertirsi nell’infierire su di lei, come se il dolore da lei provato lo stesse rinvigorendo. Si era accanito sulle sue carni con il preciso intento di farle provare un’agonia terribile, senza per questo strapparle la vita in fretta, come avrebbe fatto qualsiasi altro predatore.

Il dolore era stato così forte – e imprevisto – che le sue urla si erano levate in aria con insolita forza e, forse proprio per questo, alcune persone nei pressi del luogo dell’aggressione l’avevano udita ed erano accorsi per aiutarla.

Quelle sue urla terrorizzate e terribili – o forse altro, almeno a detta di Diana – avevano spinto il lupo a ritirarsi, permettendo agli altri escursionisti di giungere da lei per salvarla.

Solo a stento si era salvata da una morte per dissanguamento, e i mesi passati in ospedale, così come nel centro riabilitativo, erano stati per lei un calvario senza fine.

Quando aveva parlato dell’aggressione di un lupo e del suo strano comportamento, in pochi avevano voluto crederle ma, trattandosi di ferite compatibili con un animale selvatico, il suo caso era stato archiviato senza alcuna indagine.

La colpa era stata data a un cane inselvatichito, piuttosto che a un lupo, e la polizia non era neppure stata chiamata per interessarsi al caso, trattandosi di un’aggressione da parte di un animale.

L’amputazione sotto il ginocchio era stata la diretta conseguenza di quell’aggressione brutale e, da quel giorno, la sua mente aveva dovuto lottare per mettere ordine tra i suoi ricordi e la paura che l’aveva accecata.

Quando, però, aveva messo assieme i radi pezzi dei ricordi di quell’evento, scampati alla pulizia che la sua memoria aveva compiuto per salvarla dalla pazzia, una cosa le era stata chiara. Quel lupo – perché di lupo si era trattato, non certo di un cane – si era comportato come nessun animale selvatico avrebbe mai fatto.

La sua aggressione le aveva ricordato ciò che aveva vissuto anni prima, nella metropolitana di New York, durante i suoi studi alla Columbia. Quegli occhi scuri di lupo, puntati su di lei, le avevano ricordato fin troppo bene quelli dell’uomo che aveva tentato di stuprarla e che, solo grazie all’intervento di un poliziotto, non era riuscito nei suoi intenti.

No, quelli che aveva visto in quel bosco, non erano stati gli occhi di un animale, ma gli occhi di un uomo invasato nel corpo di un lupo. Come farsi credere da qualcuno, però?

Incontrare Mark al Centro Commerciale, così come parlare con Donovan e conoscere lui e la sua ricerca, erano stati due eventi che l’avevano salvata dalla pazzia più nera.

Trovare in Donovan un uomo disposto non soltanto a crederle, ma anche ad aiutarla, l’aveva spinta in prima battuta a seguirli e, in seguito, a comprendere quanto fosse profondo il sentimento che aveva sviluppato per entrambi.

Vedere la sofferenza crescente di Mark, però, la angustiava, e ora desiderava con tutta se stessa che, primariamente, il figliastro agisse di testa propria, e non obbligato dal padre a seguirlo nelle sue ricerche sempre più ai confini dello scibile.

Mark, però, si limitò a preparare lo zainetto da trekking e, sulla porta che conduceva al soggiorno, disse: «Andiamo pure. A dopo, mamma.»

«State attenti» mormorò la donna, salutandoli con un sorriso.

«Come sempre» le promise Donovan.

***

Allenarsi con Freki non era esattamente la cosa più semplice del mondo ma, non avendo la possibilità di avere tutto per sé Branson – che viveva oltreoceano, e non certo vicino a Clearwater – Liza doveva accontentarsi.

Non che il termine fosse adatto a Rock, viste le sue indubbie qualità, ma allenarsi con un licantropo non era “semplice” come addestrarsi con un altro umano, pur se forte e competente in materia come Branson.

Nel caso specifico, inoltre, allenare Liza perché divenisse agile, veloce e preparata a qualsiasi evenienza, era diventata per Rock una missione di importanza quasi biblica.

Freki desiderava con vivo fervore che lei fosse sempre pronta a tutto ma, soprattutto, abbastanza abile da prendere alla sprovvista anche un licantropo.

Per questo, si era offerto volontario per fare le veci di Branson e, da quel che Liza sapeva, i due si tenevano assiduamente in contatto per parlare dei suoi progressi.

Essere al centro dell’attenzione di due pezzi d’uomo come Rock e Branson faceva in qualche modo piacere ma, il primo era il compagno del loro Fenrir, mentre il secondo era il fedele Geri di Lady Fenrir.

Liza era solo una pupilla, per loro, niente più di questo, perciò il piacere di essere al centro dei loro pensieri era controbilanciato dalla frustrazione di essere, alla fine, solo un’allieva.

«Ti sei distratta» la rimproverò dolcemente Rock, comparendole alle spalle e attaccandole sulla spalla un adesivo a forma di smile triste.

Liza lo fissò disgustata – ne aveva già tre, sulla schiena – e, squadrando accigliata Rock, borbottò: «Ho avuto una giornata pesante, oggi. Il primo giorno di scuola! Non potresti essere più magnanimo?»

«Non puoi sapere quando il nemico calerà la sua scure su di noi… devi sempre essere pronta» sottolineò Rock, attaccandole uno smile anche in fronte al solo scopo di farla ridere.

Liza se lo strappò con falsa irritazione e, stampandolo sul naso di Rock, replicò: «Guardi troppi film d’epoca. Anche quanto, ci colpirebbero con pallettoni a nitrato d’argento o cose simili, non con delle asce.»

«Non scartare mai le armi da taglio dal tuo arsenale, …non sai mai cosa può pensare un…» cominciò col dire Rock prima di reclinare il capo per guardarsi lo stomaco, dove avvertì all’improvviso un certo prurito.

Scoppiando a ridere, annuì soddisfatto e scansò gentilmente la mano di Liza, che teneva saldamente in mano un corto stiletto d’argento dalle rifiniture filigranate sull’elsa.

«Molto, molto brava… approfitta sempre della vanagloria di chi è più forte di te. Ti sottostimeranno perché sei una ragazza e un’umana, perciò tu usa questa superficialità nel nemico per colpire i punti vitali» chiosò Rock.

«Grazie, troppo buono. Comunque, sai bene che non ho scartato l’idea delle armi bianche» sottolineò Liza, rimettendo nel suo fodero il corto stiletto.

«Oh, lo so bene» ironizzò Rock lanciando poi uno sguardo sopra di loro, dove Huginn e Muninn stavano volteggiando curiosi. «Sembrano interessati a qualcosa.»

Levando a sua volta il viso, Liza si mise in contatto con Huginn – abbastanza vicino per un contatto mentale – e domandò: “Che succede, ragazzi?”

“Ci sono due persone nel bosco, e una mi pare sia qualcuno di tua conoscenza.”

Sgranando gli occhi per la preoccupazione, Liza mormorò: «Intrusi nel nostro campo di addestramento. E’ il caso che noi…»

Liza non terminò mai la frase. Rock la prese al volo, portandosela sulle spalle come uno zaino dopodiché, con grazia e forza ferine, salì su un alto peccio rosso nelle vicinanze e si nascose tra le sue fronde.

Da lì, quindi, osservò il bosco fitto e apparentemente tranquillo, annusando l’aria per comprendere cosa avessero notato i due corvi.

“A che distanza sono, ragazzi?” domandò Liza, guardandosi intorno con aria turbata.

“Due miglia a ovest” riferì Muninn. Huginn si era alzato in aria, a diverse decine di metri d’altezza, per tenere d’occhio più ampiamente il bosco, perciò Liza non poteva più mettersi in contatto con lui.

Liza indicò silenziosa la direzione a Rock che, imprecando tra i denti, bofonchiò: «Ecco perché non li ho sentiti. Hanno il vento a favore.»

La ragazza annuì preoccupata, appollaiata su un ramo assieme a Rock e protetta dall’arco delle sue braccia.

Sarebbe scoppiata a ridere se, una cosa del genere, le fosse successa solo l’anno addietro. Trovarsi con un uomo affascinante, tutti soli e in un bosco, le avrebbe dato una scarica di adrenalina pazzesca ma, in quel momento, era soltanto in grado di pensare a chi potessero essere i due escursionisti.

Inoltre, con Rock, non avrebbe potuto esserci storia a prescindere, visto quanto lui era innamorato del suo Lucas, quindi crogiolarsi nella bambagia sarebbe stato assurdo e controproducente.

Lasciati quindi perdere quei pensieri idioti, si concentrò su coloro che i corvi avevano visto dall’alto.

Data la distanza, dovettero attendere diverso tempo prima di vederli comparire ma, quando ciò accadde, Liza fu costretta a coprirsi la bocca per non urlare, la sorpresa troppo grande per essere trattenuta dalle sue labbra tremanti.

Rock la fissò dubbioso e lei, scuotendo il capo, disegnò un cerchio in aria con un dito, come a indicare lo scorrere del tempo su un orologio. Gli avrebbe spiegato tutto in un secondo momento, quando non fossero stati più presenti i due escursionisti ma, soprattutto, quando il suo cuore avesse riacquistato stabilità.

Al momento, le stava esplodendo nelle orecchie mentre la sua mente, ai limiti dell’iperattività, si chiedeva come i due nuovi arrivati, dabbasso, non riuscissero a sentirlo tanto era assordante.

Rock assentì in silenzio, comprendendo al volto e, attento, si mise in ascolto del dialogo tra i due uomini presenti nel bosco, speranzoso di poter cogliere qualcosa di interessante nei loro discorsi.

“E’ il tuo compagno di classe, vero? Quello con cui eravate in compagnia oggi, tu e Chelsey” domandò preoccupato Huginn, ora appollaiato sullo stesso peccio che avevano scelto come nascondiglio.

Liza assentì, lo sguardo puntato sulle due teste ramate di Mark Sullivan e di suo padre Donovan.

Che diavolo ci facevano così addentro nel bosco?! Nessuno si avventurava così tanto nella foresta, neppure gli escursionisti esperti! I sentieri erano ben lontani da quel luogo inesplorato, e proprio per questo lo avevano reputato un posto ideale per gli allenamenti.

Quindi, perché i due Sullivan si trovavano lì?

Bloccando i loro passi nei pressi di una colonia di felci, Donovan Sullivan estrasse il proprio palmare per controllare la loro posizione con il GPS dopodiché, cambiata schermata, tracciò una X su una mappa virtuale e disse: «In questa zona non c’è assolutamente traccia di orme. Eppure, la soffiata che avevo ricevuto parlava chiaro. I lupi si sono mossi verso nord-ovest.»

Sia Rock che Liza sgranarono gli occhi, a quel commento e, ansiosi, ascoltarono il resto della conversazione con l’attenzione a mille.

«Come in tutti gli altri siti, papà. Se ben ricordi, non abbiamo mai trovato tracce» sottolineò Mark, irritato. «Sono solo voci, chiacchiere da ubriachi e poco altro, quelle che hai sempre voluto seguire. Davvero speri che siano credibili?»

«I segni lasciati dalla loro fame sono credibili, e lo sai anche tu, …non sono  chiacchiere da ubriaco» replicò aspro Donovan, risistemando nella tasca dello zaino il proprio palmare. «C’è qualcosa che ci sfugge, di queste creature. Qualcosa che ha a che fare con il loro essere così elusive.»

Sospirando, Mark cominciò a sgranocchiare una barretta ai cereali prima di dire: «Non hai mai pensato che, in realtà, ciò che stiamo cercando non sono affatto lupi, ma un’astuta banda di assassini che sa mascherare bene le proprie tracce? Assassini umani, intendo. Devo forse ricordarti che i ninja usavano armi artigliate, per uccidere i nemici?»

«Nessun umano potrebbe inscenare quel genere di tracce su un corpo. Ricorda la dentatura lasciata sul braccio di Lacey. O le ferite di Diana. Non erano denti umani» sottolineò per contro Donovan prima di sospirare spiacente nel vedere il figlio accigliarsi e reclinare torvo il capo. «Scusa, Mark… non avrei dovuto…»

Il giovane levò una mano per scacciare qualsiasi sua scusa e, sbuffando, borbottò: «Non ho bisogno che mi ricordi come è stata massacrata mia cugina. Li trovai io, papà. So com’erano ridotti.»

Non avrebbe mai potuto cancellare dalla mente il ricordo di quello scempio, del sangue trovato in casa dello zio, dell’apparente massacro perpetrato da un folle e dell’assurda spiegazione trovata dai poliziotti.

Omicidio-suicidio.

Secondo le loro ricostruzioni, suo zio aveva inscenato una sorta di Arancia Meccanica con i suoi familiari, il tutto a causa di alcuni debiti di gioco di cui neppure la famiglia era al corrente. Dopo questo gesto inconsulto, sempre secondo le ricostruzioni dei detective, si era sparato un colpo in testa come atto finale di quella follia.

A nulla era valso far notare le strane ferite ritrovate sui corpi della figlia, Lacey, o della moglie, Melanie. Erano state molto banalmente ricondotte ad alcuni strumenti contundenti trovati nel garage della casa, il tutto ricoperto di sangue.

Il fatto che la scena del crimine apparisse fin troppo perfetta, non aveva insospettito gli investigatori. La mancanza di un DNA estraneo alla famiglia non aveva fatto pensare a una messa inscena ben confezionata quanto, piuttosto, all’ennesimo caso di violenza domestica sfociato nell’omicidio-suicidio.

Secondo la prima legge di Locard, qualsiasi persona, quando compie un’azione di qualsiasi genere, lascia qualcosa di sé nell’ambiente circostante, e trattiene qualcosa per sé di tale ambiente.

Nel caso della famiglia Sullivan, però, ciò non era avvenuto e, proprio per queste prove indiziarie – e la mancanza di una vera alternativa – il caso era stato aperto e chiuso senza ulteriori indagini.

Donovan Sullivan aveva cercato di farle riaprire nei successivi due anni, ma aveva sempre ottenuto esito negativo, mancando le prove per poter procedere in un'altra direzione.

Ciò aveva convinto una volta di più Donovan a muoversi in solitudine, a seguire le dicerie, le voci di corridoio, le leggende metropolitane che parlavano di morti violente e irrisolte. Mai, neppure per un istante, aveva dato credito alle parole del procuratore, che lo aveva spinto ad accettare il fatto che suo fratello si fosse tramutato in un omicida a causa dei debiti accumulati.

Preferendo agire in solitudine – poiché nessuno gli aveva dato retta – Donovan si era quindi rivolto a coloro i quali avevano contratto un credito con il fratello. In parte, per estinguerlo e non avere problemi in futuro e, in parte, per capire se fossero stati loro a ordire quella strage.

Trovarli traumatizzati dalla morte di Derek Sullivan e quasi decisi ad annullare il debito a prescindere dal pagamento, lo aveva convinto della loro estraneità ai fatti, lasciandolo quindi senza una pista concreta da seguire.

Questa mancanza di informazioni non aveva però scoraggiato Donovan. Incurante dei consigli degli amici, aveva portato la famiglia a vagare per migliaia di miglia, sempre alla ricerca di un indizio nuovo, di una nuova pista, di una speranza che potesse dar pace alla sua sete di giustizia.

Da New York – loro luogo d’origine – si erano spinti a nord, seguendo le tracce di alcune voci legate a una studentessa della Anderson School dell’Upper West Side di Manhattan. Quest’ultima, trasferitasi coi genitori a causa di gravi problemi comportamentali, aveva fatto perdere le sue tracce nei pressi di Toronto, e da lì Donovan aveva dovuto muoversi quasi alla cieca1.

Secondo le dicerie che lo avevano spinto a fidarsi proprio di quella traccia, si vociferava che la ragazza avesse aggredito a morsi una compagna di classe. L’averla persa di vista, però, gli aveva impedito di procedere oltre con l’indagine.

Deciso a non scoraggiarsi, Donovan aveva allora cambiato rotta, appoggiandosi ad altre voci di corridoio, a blog equivoci trovati nel dark web e, da quel momento in poi, lui e la sua famiglia non si erano più fermati.

La sua testardaggine nel voler seguire quelle piste inconsistenti aveva compromesso il rapporto con la sua prima moglie ma, nonostante questo, non aveva comunque rinunciato.

In dieci anni, però, non era mai riuscito a trovare – a capire – chi si nascondesse dietro quegli efferati omicidi che, ogni tanto, spuntavano dal nulla, lasciando morte e dubbi al loro passaggio. Nessuna prova, nessuno spiraglio.

Solo casi derubricati a omicidio-suicidio, oppure a cold case mai più risolti per mancanza di prove.

«Per oggi è il caso di chiudere qui. Si sta facendo buio, e non è davvero il caso di trovarsi a notte fonda in un bosco che non conosciamo. Siamo molto distanti dai sentieri» dichiarò a quel punto Donovan poggiando una mano sulla spalla del figlio, che però rifiutò il contatto e ritornò sui suoi passi senza attendere il padre.

Silenziosi, Rock e Liza attesero che fossero abbastanza lontani prima di discendere dal peccio ma, una volta a terra, l’uomo fissò la ragazza dinanzi a lui e domandò: «Ebbene?»

Sospirando, Liza disse mesta: «Sono il professor Donovan Sullivan, il mio nuovo insegnante di Storia, e suo figlio Mark.»

«Cristo Santo!» esclamò Rock, sorpreso e irritato da quella novità.

«Sono Cacciatori, Rock?» domandò turbata Liza, inorridita al solo pensiero di dover essere costretta, un giorno, a predarli. Se uno di loro, o entrambi, avessero fatto del male a qualcuno del branco, lei e Rock avrebbero dovuto porvi rimedio, anche in malo modo, e la sola idea la inorridiva.

Sospirando, l’uomo le poggiò comprensivo una mano sulla spalla, scrollò le proprie e mormorò: «Non possiamo dirlo con certezza ma è stato un dialogo davvero surreale, il loro, e ci pone in obbligo verso il clan. Dobbiamo avvertire i Gerarchi.»

Già, i Gerarchi. Ergo, Lucas, Devereux e sua cugina Iris che, pur non essendo Hati per diritto di nascita, ne faceva le veci grazie al suo enorme e inquietante potere di landvættir.

«Coraggio, andiamo a casa anche noi. E’ ora» mormorò lui, offrendole le spalle perché salisse in groppa.

Liza assentì muta e, dopo essersi sistemata sull’ampia schiena di Rock, lasciò che la conducesse a casa grazie alla sua falcata veloce e potente.

Quel tempo passato a non fare nulla, se non rimanere aggrappata, le diede l’opportunità di pensare a ciò che avevano udito e, tra sé, si domandò se davvero Mark fosse un Cacciatore di licantropi.

“Sai che non potresti evitare di difendere il clan, vero?” le ricordò turbato Muninn.

“Lo so. Per questo mi sto domandando cosa fare, e come comportarmi. Mark mi sembra un tipo così simpatico!”

“Non è detto che non lo sia. Non credo che i Cacciatori siano persone crudeli in ogni ambito della loro vita” sostenne benevolo il corvo. “Il punto è che, se loro diventeranno un pericolo per il branco, tu non dovrai pensare alla simpatia che provi per lui, ma solo al tuo dovere.”

“Parli come se avessi cent’anni, Muninn, ma tengo a rammentarti che sei un cucciolo” brontolò irritata Liza, pur sapendo che il suo corvo aveva ragione.

“Non si tratta di età, mia amata guida, ma di responsabilità. Anche tu sei giovane, eppure ti è stato affidato un ruolo da adulto. Non credo vi siano molte alternative a parte fare il proprio dovere, ti pare?” si limitò a dire il corvo.

Liza non seppe come replicare. Era tutto dannatamente vero.

 

 

 

 

1: Si tratta della studentessa della Columbia con cui Brie avrà a che fare quando conoscerà Cynthia; si tratta infatti della ragazza che la bullizza all'università. L’abbiamo incontrata nella mini-fic su Jerome.


 

  
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