Capitolo 38
Il vuoto d’amore
“Mai in vita mia dimenticherò la tua presenza. Tu mi
hai presa quando ero spezzata e mi hai riparata. Su questa terra troppo piccola
dove potrei mai voltare il mio sguardo?”
Frida
Immagine dal film “Il club del libro e della torta di
bucce di patata di Guernsey”
“Dove
sei stata?” le domandò Matteo, dandosi un tono autoritario e recitando
malamente una parte che qualcun altro gli aveva imposto.
Sarah
si portò una mano alla testa e, aggiustandosi il fermaglietto argentato che
adornava su un lato i capelli, prese del tempo per regolare i battiti del cuore
e quietare il turbamento dell’animo che, altrimenti, le avrebbe spezzato la
voce e mozzato il respiro, mentre diceva: “Al lavoro e dopo mi sono fermata a
parlare con Davide del matrimonio.”
“Abbracciati?”
Un tremolio nella voce tradì il suo ostentato atteggiamento pungente e
inquisitorio che Sarah capì subito essere frutto dell’assillo di parenti e
amici e, con un tono inasprito da tale consapevolezza, rispose: “Davide potrebbe
essere mio padre.”
“è un uomo ed è un’offesa al mio onore
farti vedere dalla gente in atteggiamenti compromettenti e neanche mi piace la
tua decisione di continuare a lavorare dopo il matrimonio.” In un crescendo
d’impetuosità, visibilmente forzata, le parole di Matteo avevano il suono di
catene legate ai polsi e il sapore amaro di una delusione che riempì i suoi
occhi di lacrime e spezzò la sua flebile voce in singulti.
“La
cosa che più mi rattrista è che tutto questo ragionamento non è farina del tuo
sacco”, prese a dirgli, mentre lui, tornato in sé, aveva già capito la gravità
dell’errore commesso, dando scioccamente retta ai consigli di chi lo aveva
esortato a comportarsi da uomo. “Chi ti ha suggerito di maltrattarmi e di
parlarmi così? Tua madre? Il tuo compare?” proseguì Sarah in tono alterato,
provocatoria e lo sguardo gli si inumidì per il timore di perderla. “Io ho
bisogno di un uomo che sappia ragionare con la propria testa.”
Sulle
ultime parole, si sfilò dal dito l’anello di fidanzamento e, lanciandoglielo
contro, fece della paura di Matteo una realtà, devastante per entrambi. “è finita”, gli disse in un impeto
d’ira, senza tuttavia crederci troppo e, voltandogli le spalle, si preparò a
fuggire dal suo sogno spezzato.
I
piedi di Matteo si cementarono in terra al porticato e le parole di scusa gli
morirono in gola, dalla quale uscì soltanto flebile il suo nome. “Sarah”, la
chiamò, tendendo la mano come a implorarla di tornare indietro, ma lei era già
lontana.
Alle
sue spalle, nessun forsennato inseguimento, nessuna parola urlata al vento che
tentasse di persuaderla a restare e, quando ebbe varcato e sbattuto la porta di
casa, appoggiandovi bruscamente la schiena, la delusione dell’abbandono lasciò
il posto al senso di colpa e alla paura della solitudine. Prese fiato,
guardandosi attorno. Le luci spente indicavano l’assenza di una spalla amica su
cui piangere, ma del resto Hannah non l’avrebbe nemmeno capita, pensò.
Si
sentì soffocare tra le mura di una casa vuota e stringere il cuore nella morsa
del pentimento per l’errore che credeva aver commesso. E fu l’ultimo frammento
di orgoglio rimastole a impedire al suo bisogno d’amore, mascherato dal
desiderio di amare, di ritornare subito da Matteo e chiedere, anziché offrire,
un perdono.
Campo
di Fossoli, 23 febbraio 1944
~
Il giorno dopo la partenza per Auschwitz ~
Sarah
chiuse la porta dietro di sé e, appoggiandovi contro le spalle, si fermò a
guardare l’interno della baracca, dove non vi era più nessuno. Nessuna voce
pregna di disperata speranza, nessuna risata di ingenua fanciullezza e il
motivetto allegro che aveva in testa dal risveglio mattutino lasciò il posto al
suono triste del silenzio. Nessuna piccola anima di cui prendersi cura, nessun
cuore saggio a cui raccontare la nascita di un sentimento amoroso che, forse,
Maria non avrebbe neanche appoggiato e, davanti alla prospettiva del vuoto, le
farfalle che libravano nello stomaco per il primo bacio chiusero le loro ali.
Altre
persone sarebbero arrivate, intrecciando storie di vita e destini, poi mandate
via e il senso di solitudine che iniziava ad attanagliarla non generò
sconforto, bensì un’incalzante, soffocante voglia di tornare tra le braccia di
Hermann. E visse con tormento le ore che la separavano dalla fine del giorno,
reso ancor più lungo dal peggioramento del dolore al braccio.
“Cos’hai?
Sei pallida.” A Hermann non era sfuggita l’espressione sofferente di Sarah che
aveva spento il colorito della sua pelle olivastra. La divisa scura da
cameriera e le ciocche dei capelli neri, sfuggite da un più morbido chignon,
facevano sembrare il suo viso ancor più cereo. Preoccupato, inarcò un
sopracciglio, mentre la guardava reggersi il braccio contuso e sedette sul
letto accanto a lei.
Adesso
che lo aveva di fianco, in camicia e bretelle, disinvoltamente seduto con una
gamba piegata sotto l’altra, il dolore le impediva di concentrarsi sulla sua
agognata presenza. “Mi fa troppo male”, rispose con la voce spezzata da un
brivido di freddo, reso visibile dall’improvviso tremolio del corpo.
“Hai
fatto qualche sforzo?” incalzò e l’accento grave non tradì il suo tono
apprensivo.
Sarah
dissentì, scuotendo lievemente la testa, con occhi persi da bambina, stanca e
febbricitante ed Hermann riprese, dicendo: “Quel medico non mi piace. Fa’
vedere a me.” Per renderle più convincenti, accompagnò tali parole con un
movimento della mano verso di sé. “Non sarò un dottore, ma molte cose le ho
imparate sulla mia pelle.”
Si
sforzò di non deviare lo sguardo su quanto traspariva dalla sottoveste bianca,
mentre Sarah, toltasi con il suo aiuto la camicetta, mostrava un braccio gonfio
e bluastro a causa dell’eccessiva compressione del bendaggio. Lo aveva
immaginato.
“La
fasciatura è troppo stretta”, le disse serio e, con espressione concentrata,
iniziò a sciogliere il bendaggio, “ti sta bloccando la circolazione del
sangue.”
Seguirono
attimi di silenzio, di parole dette con gli sguardi. Gli occhi di Sarah si
chinarono sulle dita ben curate di Hermann, intente a toglierle con delicatezza
le bende, per poi sollevarsi alle sue ciglia chiare e incrociarne lo sguardo
velato da un’ombra di dispiacere. Si sentì confortata dall’empatia che seppe
cogliere nel verde dei suoi occhi e lo guardò con gratitudine.
Lentamente,
un bacio umido si posò sul braccio contuso a lenire il dolore e una carezza del
pollice sulla guancia livida fu medicina alla ferita dell’anima. Un senso di
protezione s’effuse dallo sguardo, adesso, amorevole di Hermann e Sarah si
lasciò andare, appoggiando la testa sulla sua spalla, una mano sul suo cuore.
Le braccia forti che dolcemente la cinsero, attente a non stringerla troppo,
empirono il vuoto di entrambi.
Napoli,
ottobre 1946
Il
paese ancora dormiva, quando lei uscì alle prime timide luci dell’alba, diretta
verso la banchina. Seduta sui gradini della loro casa, avrebbe atteso Matteo al
ritorno dalla pesca e, vedendolo attraccare al molo la barca, con un balzo, si
sarebbe alzata per corrergli incontro. Temeva che non l’avrebbe perdonata.
Invece,
da lontano, vide lui sui gradini del portico, seduto con la testa tra le
ginocchia. Aveva vegliato tutta la notte sulle ceneri del loro amore, aveva
pianto tutte le lacrime, sue e quelle da Sarah trattenute, girando e rigirando
tra le dita l’anello di fidanzamento.
La
sua figura rannicchiata incarnava la disperazione dell’abbandono e Sarah si
sentì ancora più in colpa. Rallentò i celeri passi e, avvicinatasi senza che
lui se ne accorgesse, gli sedette accanto.
Allo
scricchiolio del legno, Matteo sussultò e, vedendola dietro il velo di lacrime
e torpore, pronunciò debolmente il suo nome. “Mi dispiace, Sarah”, proseguì con
enfasi sempre più incalzante di rammarico, “non so cosa mi sia preso. Scusami,
sono un idiota.” Concluse, passandosi le mani fra i capelli ricci e tirandoli
un po’, come a volerseli strappare.
Sarah
gli pose le punte delle dita sul braccio, poi salì lentamente più su,
appoggiandogli il palmo sul dorso della mano per confortarlo, per farsi
confortare.
Intrecciò
le dita alle sue e, guidando la sua mano verso il proprio viso, gli disse:
“Scusami tu, non volevo metterti in ridicolo davanti alla gente né parlarti in
quel modo”, fece una pausa e lasciò scivolare la testa sulla sua spalla, “ho
riflettuto e credo che smetterò di lavorare, quando avremo un figlio.”
Senza
che lui glielo chiedesse esplicitamente, sottomise se
stessa e la propria volontà a un compromesso per timore di perderlo.
“Perché
vuoi ancora sposarmi, vero?” La paura traspariva chiaramente dalla voce
tremolante, spezzata e gli occhi di Sarah, tristi e socchiusi, non riuscirono
ad aggrapparsi a quelli di Matteo, stanchi e vaganti nel vuoto. Qualcosa si era
spezzato ed entrambi lo sapevano, pur ignorandolo.
“Certo”,
le rispose con un sospiro liberatorio. “Certo che lo voglio.” Ribadì più
determinato, abbracciandola e posandole un lieve bacio sulla testa.
E
Sarah si aggrappò a lui con tutte le forze, premendo il viso contro il suo
petto e stringendogli la camicia, disperatamente grata per quel vuoto d’amore
che credeva potesse Matteo colmare.
“Per
pesare il cuore con entrambe le mani
ci
vuole coraggio e occhi bendati,
su
un cielo girato di spalle.
La
pazienza, casa nostra, il contatto, il tuo conforto
ha
a che fare con me,
è
qualcosa che ha a che fare con me.”
Tiziano
Ferro & Carmen Consoli, Il conforto