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Autore: Nadine_Rose    11/09/2020    2 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 38

 

Il vuoto d’amore

 

“Mai in vita mia dimenticherò la tua presenza. Tu mi hai presa quando ero spezzata e mi hai riparata. Su questa terra troppo piccola dove potrei mai voltare il mio sguardo?”

Frida

 


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Immagine dal film “Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”

 

“Dove sei stata?” le domandò Matteo, dandosi un tono autoritario e recitando malamente una parte che qualcun altro gli aveva imposto.

Sarah si portò una mano alla testa e, aggiustandosi il fermaglietto argentato che adornava su un lato i capelli, prese del tempo per regolare i battiti del cuore e quietare il turbamento dell’animo che, altrimenti, le avrebbe spezzato la voce e mozzato il respiro, mentre diceva: “Al lavoro e dopo mi sono fermata a parlare con Davide del matrimonio.”

“Abbracciati?” Un tremolio nella voce tradì il suo ostentato atteggiamento pungente e inquisitorio che Sarah capì subito essere frutto dell’assillo di parenti e amici e, con un tono inasprito da tale consapevolezza, rispose: “Davide potrebbe essere mio padre.”

è un uomo ed è un’offesa al mio onore farti vedere dalla gente in atteggiamenti compromettenti e neanche mi piace la tua decisione di continuare a lavorare dopo il matrimonio.” In un crescendo d’impetuosità, visibilmente forzata, le parole di Matteo avevano il suono di catene legate ai polsi e il sapore amaro di una delusione che riempì i suoi occhi di lacrime e spezzò la sua flebile voce in singulti.

“La cosa che più mi rattrista è che tutto questo ragionamento non è farina del tuo sacco”, prese a dirgli, mentre lui, tornato in sé, aveva già capito la gravità dell’errore commesso, dando scioccamente retta ai consigli di chi lo aveva esortato a comportarsi da uomo. “Chi ti ha suggerito di maltrattarmi e di parlarmi così? Tua madre? Il tuo compare?” proseguì Sarah in tono alterato, provocatoria e lo sguardo gli si inumidì per il timore di perderla. “Io ho bisogno di un uomo che sappia ragionare con la propria testa.”

Sulle ultime parole, si sfilò dal dito l’anello di fidanzamento e, lanciandoglielo contro, fece della paura di Matteo una realtà, devastante per entrambi. “è finita”, gli disse in un impeto d’ira, senza tuttavia crederci troppo e, voltandogli le spalle, si preparò a fuggire dal suo sogno spezzato.

I piedi di Matteo si cementarono in terra al porticato e le parole di scusa gli morirono in gola, dalla quale uscì soltanto flebile il suo nome. “Sarah”, la chiamò, tendendo la mano come a implorarla di tornare indietro, ma lei era già lontana.

 

Alle sue spalle, nessun forsennato inseguimento, nessuna parola urlata al vento che tentasse di persuaderla a restare e, quando ebbe varcato e sbattuto la porta di casa, appoggiandovi bruscamente la schiena, la delusione dell’abbandono lasciò il posto al senso di colpa e alla paura della solitudine. Prese fiato, guardandosi attorno. Le luci spente indicavano l’assenza di una spalla amica su cui piangere, ma del resto Hannah non l’avrebbe nemmeno capita, pensò.

Si sentì soffocare tra le mura di una casa vuota e stringere il cuore nella morsa del pentimento per l’errore che credeva aver commesso. E fu l’ultimo frammento di orgoglio rimastole a impedire al suo bisogno d’amore, mascherato dal desiderio di amare, di ritornare subito da Matteo e chiedere, anziché offrire, un perdono.

 

Campo di Fossoli, 23 febbraio 1944

~ Il giorno dopo la partenza per Auschwitz ~

 

Sarah chiuse la porta dietro di sé e, appoggiandovi contro le spalle, si fermò a guardare l’interno della baracca, dove non vi era più nessuno. Nessuna voce pregna di disperata speranza, nessuna risata di ingenua fanciullezza e il motivetto allegro che aveva in testa dal risveglio mattutino lasciò il posto al suono triste del silenzio. Nessuna piccola anima di cui prendersi cura, nessun cuore saggio a cui raccontare la nascita di un sentimento amoroso che, forse, Maria non avrebbe neanche appoggiato e, davanti alla prospettiva del vuoto, le farfalle che libravano nello stomaco per il primo bacio chiusero le loro ali.

Altre persone sarebbero arrivate, intrecciando storie di vita e destini, poi mandate via e il senso di solitudine che iniziava ad attanagliarla non generò sconforto, bensì un’incalzante, soffocante voglia di tornare tra le braccia di Hermann. E visse con tormento le ore che la separavano dalla fine del giorno, reso ancor più lungo dal peggioramento del dolore al braccio.

 

“Cos’hai? Sei pallida.” A Hermann non era sfuggita l’espressione sofferente di Sarah che aveva spento il colorito della sua pelle olivastra. La divisa scura da cameriera e le ciocche dei capelli neri, sfuggite da un più morbido chignon, facevano sembrare il suo viso ancor più cereo. Preoccupato, inarcò un sopracciglio, mentre la guardava reggersi il braccio contuso e sedette sul letto accanto a lei.

Adesso che lo aveva di fianco, in camicia e bretelle, disinvoltamente seduto con una gamba piegata sotto l’altra, il dolore le impediva di concentrarsi sulla sua agognata presenza. “Mi fa troppo male”, rispose con la voce spezzata da un brivido di freddo, reso visibile dall’improvviso tremolio del corpo.

“Hai fatto qualche sforzo?” incalzò e l’accento grave non tradì il suo tono apprensivo.

Sarah dissentì, scuotendo lievemente la testa, con occhi persi da bambina, stanca e febbricitante ed Hermann riprese, dicendo: “Quel medico non mi piace. Fa’ vedere a me.” Per renderle più convincenti, accompagnò tali parole con un movimento della mano verso di sé. “Non sarò un dottore, ma molte cose le ho imparate sulla mia pelle.”

Si sforzò di non deviare lo sguardo su quanto traspariva dalla sottoveste bianca, mentre Sarah, toltasi con il suo aiuto la camicetta, mostrava un braccio gonfio e bluastro a causa dell’eccessiva compressione del bendaggio. Lo aveva immaginato.

“La fasciatura è troppo stretta”, le disse serio e, con espressione concentrata, iniziò a sciogliere il bendaggio, “ti sta bloccando la circolazione del sangue.”

Seguirono attimi di silenzio, di parole dette con gli sguardi. Gli occhi di Sarah si chinarono sulle dita ben curate di Hermann, intente a toglierle con delicatezza le bende, per poi sollevarsi alle sue ciglia chiare e incrociarne lo sguardo velato da un’ombra di dispiacere. Si sentì confortata dall’empatia che seppe cogliere nel verde dei suoi occhi e lo guardò con gratitudine.

Lentamente, un bacio umido si posò sul braccio contuso a lenire il dolore e una carezza del pollice sulla guancia livida fu medicina alla ferita dell’anima. Un senso di protezione s’effuse dallo sguardo, adesso, amorevole di Hermann e Sarah si lasciò andare, appoggiando la testa sulla sua spalla, una mano sul suo cuore. Le braccia forti che dolcemente la cinsero, attente a non stringerla troppo, empirono il vuoto di entrambi.

 

Napoli, ottobre 1946

 

Il paese ancora dormiva, quando lei uscì alle prime timide luci dell’alba, diretta verso la banchina. Seduta sui gradini della loro casa, avrebbe atteso Matteo al ritorno dalla pesca e, vedendolo attraccare al molo la barca, con un balzo, si sarebbe alzata per corrergli incontro. Temeva che non l’avrebbe perdonata.

Invece, da lontano, vide lui sui gradini del portico, seduto con la testa tra le ginocchia. Aveva vegliato tutta la notte sulle ceneri del loro amore, aveva pianto tutte le lacrime, sue e quelle da Sarah trattenute, girando e rigirando tra le dita l’anello di fidanzamento.

La sua figura rannicchiata incarnava la disperazione dell’abbandono e Sarah si sentì ancora più in colpa. Rallentò i celeri passi e, avvicinatasi senza che lui se ne accorgesse, gli sedette accanto.

Allo scricchiolio del legno, Matteo sussultò e, vedendola dietro il velo di lacrime e torpore, pronunciò debolmente il suo nome. “Mi dispiace, Sarah”, proseguì con enfasi sempre più incalzante di rammarico, “non so cosa mi sia preso. Scusami, sono un idiota.” Concluse, passandosi le mani fra i capelli ricci e tirandoli un po’, come a volerseli strappare.

Sarah gli pose le punte delle dita sul braccio, poi salì lentamente più su, appoggiandogli il palmo sul dorso della mano per confortarlo, per farsi confortare.

Intrecciò le dita alle sue e, guidando la sua mano verso il proprio viso, gli disse: “Scusami tu, non volevo metterti in ridicolo davanti alla gente né parlarti in quel modo”, fece una pausa e lasciò scivolare la testa sulla sua spalla, “ho riflettuto e credo che smetterò di lavorare, quando avremo un figlio.”

Senza che lui glielo chiedesse esplicitamente, sottomise se stessa e la propria volontà a un compromesso per timore di perderlo.

“Perché vuoi ancora sposarmi, vero?” La paura traspariva chiaramente dalla voce tremolante, spezzata e gli occhi di Sarah, tristi e socchiusi, non riuscirono ad aggrapparsi a quelli di Matteo, stanchi e vaganti nel vuoto. Qualcosa si era spezzato ed entrambi lo sapevano, pur ignorandolo.

“Certo”, le rispose con un sospiro liberatorio. “Certo che lo voglio.” Ribadì più determinato, abbracciandola e posandole un lieve bacio sulla testa.

E Sarah si aggrappò a lui con tutte le forze, premendo il viso contro il suo petto e stringendogli la camicia, disperatamente grata per quel vuoto d’amore che credeva potesse Matteo colmare.

 

“Per pesare il cuore con entrambe le mani

ci vuole coraggio e occhi bendati,

su un cielo girato di spalle.

La pazienza, casa nostra, il contatto, il tuo conforto

ha a che fare con me,

è qualcosa che ha a che fare con me.”

 

Tiziano Ferro & Carmen Consoli, Il conforto

 

   
 
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