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Autore: Moonfire2394    12/09/2020    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
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Capitolo 37 – Toccata e fuga in re minore

Avevano ragione. Il portone d’ingresso era socchiuso, una lama di luce tremolante proiettava un cono sulle assi del pavimento del portico. Da dove proveniva quella luce soffusa? Avrebbe dovuto chiedersi suo fratello, invece di sgusciarci dentro oltrepassando con un balzo le scale. Lei e Fabiano non poterono fare a meno di stargli dietro e nemmeno la pavimentazione mancante riuscì ad ostacolarli. Il forte tanfo d’umidità e di legno marcio andato a male gli intasò le narici una volta varcata la soglia e si richiusero la porta alle spalle. Come era prevedibile, l’ambiente interno non era che uno specchio di quei giardini abbandonati in cortile. Una lampada a olio attaccata al muro da un supporto d’ottone risplendeva nella stanza adombrata disegnando sugli oggetti e sulle pareti crepate scene che si prestavano a molteplici interpretazioni. Quando la luce le catturava, figure indistinte fatte di oro e oscurità facevano capolino per poi fuggire assecondando il moto ondulatorio della fiammella singhiozzante per via degli spifferi che ululavano fra i vetri rotti delle imposte delle finestre. L’indistinto suono di uno squittio disperato fece sobbalzare improvvisamente Fabiano.
«Cos’è stato?» esclamò torcendo la schiena in direzione del rumore di una porta che sbatte con un cigolio sofferente.
«E’ solo Edna» lo tranquillizzò Leona dando una sbirciata al cincillà che le si inerpicava affannosamente su per la sua gamba. Il roditore continuò la sua scalata appendendosi ai lembi sfilacciati della sua maglietta fino a raggiungerle la spalla, dove si accovacciò rimpicciolendosi più che poteva con le guancette paffutelle tremanti. Edna si strofinò contro il suo collo soffiandole rapidi respiri sulla pelle e Leona inclinò la testa verso di lei, toccandole affettuosamente la testa col suo zigomo.
Fabiano le annuì con un mezzo sorriso di sollievo.
«Morgana!» si sgolò Gabriel, non appena ebbe messo piede nell’atrio. La sua voce si disperse fra i cumuli accatastati di mobili. Di Morgana nessuna traccia. Allora Leona giunse le mani a coppa sotto la lanterna e attese che la fiamma zompasse giù dalla sua candela. Con un timido saltello la piccola vampa si accucciò in quella culla improvvisata e prese a brillare più intensamente crescendo fra le sue mani. Si guardò lentamente attorno fino a individuare una stufa a legna costretta fra la morsa di una vecchia credenza e un cassettiera sulla cui superficie era stato intarsiato un delicato e sinuoso arabesco di fogliame rigoglioso. Gli si accostò a piccoli passi, per paura che il pavimento sotto di lei cedesse, e gli depositò il fuocherello, che si rimestava giocoso, all’imboccatura del caminetto.
 Le tenebre che si erano impadronite della stanza si ritirarono negli angoli più remoti e irraggiungibili fuggendo la luce del fuoco che scoppiettava piano come a non voler svegliare gli abitanti invisibili di quella casa abbandonata.
Quello che a Leona ricordò vagamente un salotto, era privo di qualsiasi calore o cura umana. A testimonianza di ciò, i precedenti abitanti avevano costruito torri di mobili addossandoli alle pareti, incastrandoli in modo tale da scongiurarne il crollo. La polvere regnava incontrastata ammantando ogni cosa riuscisse a ingurgitare con la sua sudicia patina grigiastra. Intervallato dal picchiettio rosicchiante dei tarli, l’eco della lancetta di un orologio a cucù incassato nel muro si accodava a quella cacofonia di suoni sinistri e snervanti. Una spola d’oro altalenava fedele al suo compito di scandire ogni singolo secondo trascorso lì dentro. Le bastò una attenta perizia per accertarsi che molti degli oggetti residenti  in quella camera da ricevimento avevano perso la loro integrità o la funzione per cui erano stati creati: tazzine da tè sbeccate, quadri che pendevano da un lato solo, sedie con tre gambe tenute in piedi da chissà quale scherzo della gravità, tavolini rovesciati a testa in giù, tende aggrovigliate confusamente ricoperte da ciò che rimaneva della tappezzeria esfoliata dalle pareti su cui la muffa si diffondeva come una macchia untuosa e verdastra, comodi divani dall’imbottitura lacera e malconcia cosparsi di piume, intelaiature scardinate dalle imposte e pezzi di vetro affilati sparsi su un pavimento di parquet pericolante. Raccolse da terra un samovar arrugginito e corroso dallo scorrere impietoso del tempo, sollevò il coperchio e avvicinò un occhio all’apertura per sbirciare al suo interno. Fu sorpresa di scorgere due occhietti neri e intelligenti luccicare nel buio del recipiente. Il topino gli squittì contro una serie di ingiurie petulanti che la fecero subito pentire di aver disturbato il suo riposino. Lo richiuse in fretta poggiandolo sul comodino più vicino, leggermente risentita dal linguaggio particolarmente colorito del roditore e stupita dalla vasta gamma di insulti di cui si serviva per intimorire gli ospiti più invadenti. Si spinse in mezzo a quel labirinto confuso di mobilio che di per certo doveva aver visto giorni migliori lasciandosi sporcare le dita dalla polvere. Se Morgana era entrata là, non aveva lasciato alcun segnale del suo presunto passaggio. Le uniche impronte che si sollevavano con sbuffi nebulosi di polvere erano le sue, di Gabriel e Fabiano. Un tremolio l’attirò e il suo sguardo sfrecciò dove terminavano le ombre delle fiamme del camino per depositarsi sull’unico telone bianco della stanza che non era ancora stato preso dal lerciume di quel luogo. Il lenzuolo appeso alla parete a mo’ di tenda avvolgeva i contorni di quella che a Leona parvero  le merlature di una torre di misure differenti che raggiungevano il picco più alto per poi scalare ai lati. Il resto che si trovava alla base e al centro non aveva idea di cosa si potesse trattare.
Era un’illusione davvero ben fatta, se ne sorprese la protettrice. Sembrava tutto così…reale e tangibile.
Attratta sempre di più da ciò che si celava dietro il lenzuolo, ballonzolò cauta fra le cassettiere evitando le assi mal messe, infracidite dall’umidità.
«L’hai fatta scappare di nuovo» constatò seccatamente.
Il fratello che si rigirava fra le mani un posacenere di vetro smerigliato, sollevò uno sguardo adirato su di lei ma non colse la sua provocazione. Si limitò a muoversi attorno al tavolo apparecchiato con un passo felpato che tradiva un certo nervosismo, alla ricerca di qualche indizio che potesse suggerirgli qualcosa di più sulla misteriosa sparizione di Morgana.
Di solito non perdeva occasione per controbattere con le sue infelici ma argute battute. Edna sbirciò attraverso i suoi lunghi capelli, tesa quanto lei per l’insolito silenzio del padroncino. Non lo aveva mai visto così preoccupato. Le sue sopracciglia erano così raggrinzite che al centro si era originato un crepaccio. Leona si sentì soffocare dalle stessa tensione che percorreva da un estremità all’altra il corpo del suo gemello. Nonostante tutto, non aveva desistito dal tacerle le sue emozioni o forse era così concentrato nel suo intento da dimenticarsi dello spiraglio di cui si sarebbe potuta servire per scrutarlo nel suo intimo. Ma lei non aveva alcuna intenzione di violare il suo domicilio mentale per paura di condividere la sua angoscia attanagliante.
Giunta a pochi passi dal suo obiettivo, si affrettò fin troppo coinvolta dalla sua curiosità e s’impietrì al rintocco del pendolo. Producendo un suono gracchiante e stridente lo sportellino impolverato girò sul cardine lasciando intravedere gli ingranaggi rotanti al suo interno. Poi qualcosa lacerò l’aria e Leona sollevò una mano tesa a combattere una tensione invisibile ad occhio umano. Una piccola lama dentata era sfrecciata dal ventre aperto dell’orologio e si era infranta sull’onda d’urto provocata dalla ragazza munita di riflessi infallibili. Seguì un secondo sfreccio dal lato opposto della stanza ma questa volta un bagliore argenteo si parò davanti a lei tracciando un arco luminescente.
Fabiano la stringeva ancora a sé con fare protettivo, il piatto della lama a pochi pollici dal suo petto. Leona dissipò il controllo del muro d’aria e il primo coltello cadde a terra con un tonfo. Deglutì per l’intensa scarica di adrenalina. Il cincillà tremava ancora di paura con gli occhi bicromatici nascosti fra le sue zampette.
«Questo deve essere il karma. Credo che mi deciderò a votarmi prima o poi a i precetti dei druidi » si beò quel deficiente di suo fratello. La ragazza roteò gli occhi infastidita dalla sua apparente insensibilità. Non si degnò nemmeno di rivolgergli la parola, piuttosto allungò una mano verso il suo salvatore per toccargli la spalla con fare rassicurante.
«Sto bene» gli disse per incoraggiarlo a mollare la presa su di lei anche se stava benissimo accoccolata contro il suo petto. Girò il mento per osservarlo da dietro la sua spalla commettendo l’errore  imperdonabile di incontrare i suoi occhi. Non poté far a meno di arrossire sotto la morsa crudele delle sue budella. Fino a pochi minuti prima si era dichiarata apertamente in un momentaneo lapsus di follia rivelatrice e non poteva tornare più indietro…forse non voleva. Meritava di sapere. Quando adorava inebriarsi del suo profumo…
Fabiano si accigliò ma non l’allontanò dal suo abbraccio come si era aspettata che facesse. Invece di darsela a gambe levate come era solito fare quando la sfiorava anche solo per sbaglio, abbassò piano la sua spada e fece scorrere le sue dita lungo il braccio quasi come ad accarezzarla, assicurandosi che fosse illesa come gli aveva detto.
«E’ dura e sfiancante starti accanto. Fai uno strano effetto all’universo: è come se volesse costantemente metterti alla prova. Tu vanifichi tutte le leggi statiche delle catastrofi» disse scuotendo la testa e con essa la frangetta castana.
«Già. Comincio a dubitare anch’io di questa mirabolante “immunità”».
«Tu non ne hai mai avuto bisogno» ridacchiò fra sé.
«Se è come dici tu, allora perché sei intervenuto?».
Lui si separò da Leona quel poco che bastava per guardarla in viso con gli zaffiri che splendevano dentro le orbite «So che sei forte abbastanza, anche più di quello che mi piacerebbe ammettere. Ma non posso restare semplicemente a guardare se qualcosa o qualcuno ha intenzione di farti del male».
Dall’altro capo della sala, suo fratello si schiarì la voce «Quando avete finito di flirtare, qui ci sarebbe qualcosa che potrebbe interessarvi».
Acciambellato e sonnecchiante sul cornicione di una finestra, una piccola figura eterea come un velo trasparente, li osservava dall’alto con palpebre pesanti che gli pendeva sugli occhi. Sul profilo corpulento del fantasma si andava delineando una collina lì dove avrebbe dovuto esserci lo stomaco. Al posto delle gambe, il suo corpo terminava a cono d’imbuto.
«Sta…dormendo?» si domandò Gabriel.
«Stavo» lo corresse una voce lontana e ibernante come un iceberg in mezzo all’oceano.
I tre protettori si guardarono sconcertati dall’indifferente indolenza che gli mostrava lo spettro.
«Oh! Per tutti gli spiriti malakhi, non guardatemi con quell’aria di sufficienza. Vi siete visti ultimatamente allo specchio? Be’, scommetto di no. Avete l’innocente aria arruffata di un troll che non si è alzato col piede giusto. Tze, come se quei orribili giganti conoscessero il buon umore».
Fabiano si avvicinò cauto verso la finestra e disse «Chi sei tu?» rivolgendosi al fantasma comodamente sdraiato sul cornicione.
A quella domanda gli occhi acquosi dell’incorporeo s’incresparono sotto forma di onde tremolanti «Chi sono io? Chi sono io? La domanda giusta da porre è: chi sei tu?» strepitò collerico il fantasma in sovrappeso. «Ragazzo, ti sei appena intrufolato in casa mia! Dovrei essere io chiedervelo, o tua madre non ti ha insegnato le buone maniere? Ah, protettori! Sentivo la vostra puzza già da quando avete iniziato ad appestare il mio giardino come  zizzania! Non avrete messo le vostre luride manacce sul mio set di gnomi mi auguro!»
«Che cosa volete, eh? Siete venuti per cimentarvi nel recupero del ciondolo blu? Mi dispiace deludervi miei cari ma oggi il museo è chiuso. Perché non provate a morire un’altra volta? Che so, giovedì? Sì, giovedì è un ottimo giorno per tirare le cuoia. La prossima volta siete pregati di prendere un appuntamento. Ora se non vi dispiace non vi accompagnerò all’uscio, confido però che sappiate come raggiungere la porta. Ciao. Baci. Ciao».
Il dispettoso padrone di casa si rivoltò dalla parte opposta mostrandogli la schiena trasparente attraverso cui si poteva benissimo osservare il suo viso imbronciato. Avvertendo chiaramente che nessuno dei tre si sarebbe schiodato da lì, si premurò di incitarli a raggiungere l’uscita con più fervore.
«Sciò, sciò» ripeté affettando l’aria con un gesto secco della manina paffutella.
Leona prese un respiro per respingere l’irritazione che le montava dentro e pensò di formalizzare le presentazioni «Siamo davvero spiacenti di averla disturbata. Io sono Leona, lui è mio fratello Gabriel e…»
Lo spettro bianco si puntellò sui gomiti simulando la sua illusoria attenzione sull’interlocutrice sotto di lui.
«Ah, davvero…interessante!» la frenò portandosi una mano sulla bocca come se fosse affascinato dalle sue parole. Poi tornò ad afflosciarsi, annoiato più che mai. «No, non me ne frega un ficco secco. Sono rammaricato deliziosa signorinella ma non farò eccezioni di alcun tipo. Sono stanco delle continue incursioni di voi poveri idioti orgogliosi che vi credete i padroni del mondo accecati dalla bramosia di potere. E’ impossibile impadronirsi del ciondolo, la mia signora è stata molto astuta nel costruirci attorno questa fortezza piena d’insidie. Sono morti a flotte di quelli come voi, e pensate che un quartetto di marmocchi mocciolosi possa riuscire nell’intento? Non ci crederei nemmeno se lo vedessi…».
Voleva sputare fuoco su di lui. Quell’insulso spettruncolo da quattro soldi era così indisponente che Leona stava meditando se demolecolizzarlo o spazzarlo via con una folata di vento.
«Scusi ha detto quartetto? Morgana è passata di qui?» lo interruppe Gabriel protendendosi verso il fantasma chiacchierone. Il ciccione si contorse nell’aria circolando circospetto fra loro e grugnendo per la frustrazione di aver rivelato troppo.
«Può darsi, non le ho mica chiesto la carta d’identità» uggiolò navigando a pancia in giù per aria con le braccia sotto la testa. «Devo dedurre che quella ragazzina col fuoco in testa al posto dei capelli appartenga al vostro patetico corteo d’imbecilli».
«Dove è andata?» lo fulminò con quella domanda. La stanza si riempì delle sue risate riecheggianti e ovattate dai suoi contorni indefiniti.
«Ah, voi medjai… Sì, so cosa siete!» aggiunse fiero, per rispondere alla perplessità dei tre. «Soltanto un cieco non noterebbe l’insegna a caratteri cubitali che pende sopra le vostre teste. Siete creature così cocciute! Complicate all’inverosimile! Un prodotto della natura così diabolicamente ingegnoso e apparentemente privo di qualsiasi difetto ma…d’altra parte c’è sempre una contropartita. Una volta tolto uno dall’equazione, è come prendere due piccioni con una fava» disse il fantasma suscitandole il suo interesse.
«E con questo cosa vorresti dire?»
«Come dico sempre: esiste un solo bene, la conoscenza e un solo male, l’ignoranza. Sembra quasi che qui nessuno di voi mocciosi abbia frequentato l’accademia dei protettori. Ah, quando capiranno che l’istruzione e l’organizzazione didattica stanno alla base per la coltivazione di una nuova classe emergente! Una negligenza simile non si sarebbe mai verificata nell’ordine scolastico degli alchimisti…L’ignoranza sui vostri antenati è incredibile».
«Va al dunque nuvoletta dispettosa» s’irrigidì lei. Lui la occhieggiò bruscamente, ma si decise lo stesso a proseguire.
«Be’…i medjai condividono un profondo legame che va oltre lo psichico e lo spirituale. Basta ucciderne uno per far fuori anche il gemello, perché la vita di uno appartiene anche all’altro».
«Quindi, se ho ben capito, se io muoio trascinerei mia sorella con me e viceversa? E’ questo il concetto?» sbottò Gabriel ancora incredulo.
Lo spettro lo ignorò, esacerbato dall’interruzione, e specificò ancora «I medjai nascono con un difetto genetico che ha del miracoloso. I vostri cuori sono incompleti, sono esattamente, dal punto di vista anatomico, divisi a metà. Il vostro legame però inspiegabilmente continua a farli funzionare come se aveste dei ventricoli fantasma, il destro sostiene il sinistro e viceversa anche se alloggiati in corpi diversi». Gabriel le parve più confuso di un groviglio di fili di lana.
«Perché nessuno ha mai pensato di dircelo!».
«La cosa sconcerta più me che te, credimi giovanotto» lo appoggiò lo spettro.
Leona si mordicchiò le labbra riflettendo su quell’assurdità che rasentava l’impossibile, anche se in fondo credeva di averlo sempre saputo «Ecco perché allora sapevo con assoluta certezza che non ti fosse accaduto nulla, intendo al lago quando hai scatenato la furia di Nessie…perché io lo sentivo».
«Cosa?» domandò Fabiano.
«Il battito del mio cuore. Proprio qui» disse Gabriel perforandosi il petto con un dito. I due gemelli si guardarono a lungo con occhi dello stesso colore dell’oceano. Avrebbero dovuto considerare che da quel momento in poi niente sarebbe stato come prima e le loro vite avrebbero assunto un significato completamente diverso. Il desiderio vicendevole di proteggersi si rafforzò e s’inspessì come il più duro acciaio di Hijir. Ogni scelta, ogni strada che avrebbero percorso in futuro non sarebbe stata imboccata a cuor leggero, spinta da incoscienza o dalla foga del momento. Dovevano percepirsi come un unico essere, sapendo che ciò che avrebbe nociuto ad uno lo avrebbe fatto anche all’altro. Sebbene quella scoperta avrebbe dovuto invalidare la coscienza di entrambi, erano sicuri del fatto che nessuno dei due avrebbe privato l’altro della libertà, né ora né mai. Erano medjai, e anche se non ci sarebbe mai stato nulla di più importante della loro sicurezza, non avrebbero smesso di lottare o di cacciarsi nei guai.
I due rimasero in ascolto nella ritmicità che gli rimbombava nella cassa toracica consci che quel suono non sarebbe stato più scontato, e che quella piacevole aritmia gli avrebbe costantemente ricordato di non essere soli. Ma, soprattutto, erano lieti che non avrebbero mai provato cosa volesse significare vivere l’una senza l’altro. Quando il momento sarebbe giunto, se ne sarebbero andati insieme, persino anche dopo la morte.
«Cosa ben peggiore però» petulò lo spettro indispettito con i pugni seppelliti fra i fianchi « è che voi non avete la più pallida idea di chi sono io…andiamo, la mia padrona non può avervi omesso la mia identità. Io sono il suo braccio destro, il suo servitore preferito» gongolò gettandosi in picchiata sulla ragazza. S’intrufolò fra i suoi lunghi capelli e sbucò all’altezza della spalla, vicino a Edna che tentava invano di rosicchiargli la guancia evanescente. Il fantasma la osservò a testa in giù in tutta la sua pinguedine.
«Il divoratore di segreti» bisbigliò con voce rauca la protettrice.
Vedendosi riconosciuto, l’ospite incorporeo piroetto allargando le braccia giovialmente.
«Allora non siete stolti come avevo pensato» disse incrociando le braccia al petto lattescente.
«La mia merce non è affatto economica» li redarguì esibendosi in quella danza fluttuante «Mi reputo un onesto venditore di informazioni, le mie contrattazioni sono alquanto vantaggiose per entrambe le parti barattanti. Benvenuti nel tempio dei segreti! Un luogo mistico di cui le pareti e le fondamenta stesse trasudano di parole non dette,  ed emanano rimpianti e verità nascoste. Sì, avete sentito bene, i vostri segreti equivalgono a moneta di scambio. Un segreto prezioso per un altro di pari valore. Se volete sapere dove è la vostra rossa amichetta, dovreste pagarmi adeguatamente» finì con un sorrisetto malizioso «In ogni caso, non ho alcuna intenzione di negoziare con dei piccoli monelli alla ricerca di un gingillo di cui non conoscono nemmeno lontanamente il potenziale. No, no, la vostra gitarella finisce qui».
«Forse sei un po’ duro di comprendonio. Ma non abbiamo alcuna intenzione di andarcene senza di lei» decretò Gabriel inamovibile come una roccia.
«E tu credimi quando ti dico che trovo più interessante le previsioni meteo che le tue insulse pretese e quelle di quell’ammasso arruffato di capelli neri di tua sorella. Cos’è ti è morto il parrucchiere? Ah, ma che m’importa. Sparite dalla mia vista, prima che la mia signora lo venga a sapere. E vi avverto, non è molto magnanima con gli intrusi».
«Noi non ce ne andiamo» ribatté Gabriel scandendo ogni parola.
«Oh, ma che scocciatura! E’ davvero così importante per te la rossa?» domandò avvicinandosi a un palmo dal naso di suo fratello.
Al culmine della rabbia, gli vomitò addosso un singolo monosillabo che bruciò nell’aria come mille soli ardenti «Sì».
Il suo interlocutore sbruffò, ricolmò di scetticismo «Sono sicuro che là fuori ci sia qualcosa di meglio che te la faccia dimenticare nel men che non si dica. Dall’altra parte voi adolescenti siete così volubili. Cresci ragazzo e fattene una ragione, la tua amichetta oggi ha varcato il portone sbagliato e ne pagherà le conseguenze».
«Nessuna» bisbigliò Gabriel.
«Cosa?» domandò lo spettro scavando cerume invisibile dentro il suo orecchio.
«Nessuna è come lei» chiarì Gab alzando la voce, chiara e stentorea «Potrei cercare all’infinito, avventurarmi fino in capo al mondo, fino a consumarmi le scarpe, ma non troverò mai un sorriso così sinceramente puro come quello. Non troverò mai nel volto di nessun’altra ragazza dei timidissimi ma vispi occhi da cerbiatta come i suoi da cui traspare arguzia e acuta intelligenza». Prese un lungo respiro e sorrise con aria sognante «Cazzo, niente brilla come i suoi occhi…Dove potrei mai trovare un’altra psicopatica del suo calibro capace in un attimo di trasformarsi da timorosa e impacciata mangiatrice di unghie in una brutale e violenta amazzone spacca ossa? Chi mai potrebbe sembrare più bella di lei quando la sua pelle si accende del colore del fuoco, simile a quello dei suoi capelli? Chi potrebbe mai animarsi così ardentemente come lei nel raccontare le antiche leggende del nostro popolo? Chi mai più di lei potrebbe venerare il sacro legame della famiglia, e guardare, nonostante tutto, con sconfinata ammirazione, un padre che l’ha fatta costantemente sentire inadeguata e indegna del nome che porta? Abbiamo tutti dei buoni motivi per lottare per lei. Morgana non teme alcuna umiliazione, non ha paura quando si tratta di venire in soccorso della sua migliore amica, si farebbe ammazzare piuttosto che tradirci, incoccherebbe senza esitazione i suoi dardi contro la creatura più invincibile del pianeta se significherebbe darci anche solo una possibilità in più…».
Gabriel strinse forte i pugni lungo i fianchi fino a far scrocchiarne le ossa. Il suo corpo era scosso da impercettibili tremori.
«Io non posso accettare di non poter più vedere le sue buffe smorfie, il delizioso arricciarsi del suo naso quando capisce che la sto prendendo in giro, o al rossore dei suoi imbarazzi o l’esplosione della sua testa calda…Potrei proseguire ancora a lungo, ma nessuna di queste motivazioni sarà mai sufficiente a descrivere quanta meraviglia sgorghi dal ogni poro della mia Morgana. Perciò non ne vale solo la pena. Se la lasciassi qui, se le voltassi le spalle ora senza prima essermi scusato per averla ferita…non potrei mai perdonarmelo».
Seguì un silenzio sepolcrale. Il vento sembrava timoroso di fare rumore sfrecciando fra i vetri rotti delle finestre, e anche i tarli parevano aver terminato l’appetito, cessando il loro perpetuo scricchiolio. Il blocco di pietra che gravava sul petto della sorella estinse ogni suo respiro. Conosceva Gab come se stessa…e nessuno poteva avere la più pallida idea di quanto avesse sofferto nel pronunciare quelle parole, sbrigliando finalmente la verità chiusa nel suo cuore. Sapeva anche, che un evento del genere, non si sarebbe ripetuto in un prossimo futuro tanto facilmente e se ne rammaricò che la protagonista di quegli elogi non fosse lì per ascoltarli. Suo fratello era un detestabile rompiscatole, un pazzo sconsiderato mosso solo dagli impulsi del suo innato istinto di andare a passeggio coi guai, ma,… in quel preciso instante, l’avrebbe stretto a sé più forte che poteva.
Al fantasma non restò che tossire, un po’ in imbarazzo, balbettando cose senza senso.
«…Ciò nonostante» emerse da quel borbottio sommesso «non posso lasciarvi entrare senza il permesso della signora, non senza avere la certezza che vi reputi degni di giungere nel cuore del tempio dove risiede il ciondolo della luna da più di mille anni…il fatto che la vostra compagna fosse in possesso di questo» disse esponendo alla luce del camino l’ampolla conquistata da Leona «non dimostra la vostra sincerità. Potreste anche, in una improbabile ipotesi, avergliela rubata o sottratta con l’inganno».
«Con la vostra signora…Vi riferite alla regina Delilah?» chiese prudentemente Fabiano.
Il fantasma si stizzì storcendo il naso paffutello «E a chi altri se no?».
«In tal caso, credo di poter fugare ogni suo dubbio» gli assicurò ancora il ragazzo. Detto questo, si accostò con fluida silenziosità verso Leona. In un attimo le sue dita le raggiunsero il collo facendole slittare i polpastrelli sulla pelle al di sotto del colletto della maglietta. Leona trattenne il respiro, sbalordita dall’audace sfrontatezza di quel ragazzo che per una vita intera non le aveva mai nemmeno lanciato un’occhiata provocatoria o lasciva, figuriamoci palpeggiarla davanti a tutti…Un irrefrenabile brivido la fece tremare come una foglia sferzata dal vento al ricordo del tocco delicato delle sue mani che poco prima l’avevano quasi condotta alla follia, e il suo cuore prese prepotentemente a galopparle contro le costole. Quando la sua mano si avvolse attorno alla catena del ciondolo per tirarla fuori dal suo nascondiglio, Leona imprecò fra sé per essere stata così imbecille da aver mal interpretato il gesto del ragazzo.
«La regina si scusa per non avervi avvisato del nostro arrivo, ma senz’altro comprenderete che l’invasione all’interno delle sue terre l’ha tenuta parecchio occupata».
«Un’invasione?» sbottò allibito lo spettro. Fabiano annuì.
«Nessuno si aspettava il ritorno della sorella della regina. La comparsa di Frieda e del suo manipolo di abomini, di cui avrà sicuramente sentito parlare, è stato un shock per tutti noi».
«Frieda? Per la barba di Merlino…ma è impossibile?».
«Vorrei sostenerlo anch’io» si accigliò con una posa meticolosamente triste il ragazzo. Leona restò in ascolto delle sue spudorate bugie come un serpente incantato dalle note di un flauto. Incantata e anche un po’ spaventata da come gli venisse facile recitare la subdola parte dell’ambasciatore che non porta pena.
«E’ stata la stessa Delilah in persona a consegnarglielo come prova del suo consenso alla nostra impresa». Senza sfilarglielo dal collo, Fabiano sollevò più in alto il ciondolo del sole che rosseggiava liquidamente ai riflessi scoppiettanti delle lingue infuocate del focolare e lo mostrò al guardiano del tempio. Il fantasma, visibilmente turbato da quella svolta inaspettata, frugò fra le pieghe della sua pancia con aria concentratissima. In mezzo ai rotoli di lipidi vaporosi, sbucò fuori un monocolo che non tardò a infilarsi in un occhio, indurendo l’espressione in una raccapricciante smorfia da scienziato pazzo. Fluttuò verso di lei e cominciò la perizia.
«Sembra autentico» chiosò sorreggendosi uno dei tanti menti fra le mani prive di dita.
«Certo che lo è» ribatté quasi offeso Fabiano. «Leona perché non glielo dimostri?».
La protettrice cercò nei suoi occhi qualsiasi cenno di follia, ma lui non tradiva alcuna emozione, tutto quello che vi trovò fu solo forte determinazione. Allora si arrese con un sospiro e decise di fidarsi di lui. Portò lentamente l’indice al centro della pietra rossa. Non appena l’ebbe sfiorata, uno strano calore le si irradiò nella carne e l’aria sfrigolò. Un raggio fotonico si propagò dritto davanti a lei vorticando in cerchi concentrici rossi come la gemma e si abbatté impetuoso sul primo mobile che incontrò nel suo cammino riducendolo in un’unica vampata in un cumulo di cenere. Leona non si accorse di aver spalancato la bocca finché Fabiano non le sistemò gentilmente la mascella al proprio posto.
Il gemello emise un fischio di approvazione «Bel giocattolino! Se avessi abbassato un po’ la temperatura, la cottura sarebbe stata perfetta» disse baciandosi la punta delle dita.
«Forse avresti dovuto attivare l’altro potere del ciondolo del sole» le suggerì innocentemente Fabiano pizzicandole il naso.
«Non c’è più alcun dubbio. Credo di dovervi delle scuse…» sbiascicò lo spiritello grassoccio.
«Nah! Parliamo subito di affari» lo interruppe Gab, tornato alla sua irritante versione originale. «Hai detto di volere un segreto? Tutto qui?» sminuì suo fratello. «Oh be’, sembra facile» esclamò scrollando le spalle. Il sopracciglio informe del fantasma guizzò all’insù per la sorpresa.
«Bene, tieniti forte fantasmino!» cominciò Gabriel strofinandosi le mani. Si arcuò con la schiena in avanti con fare cospiratorio e parandosi dagli sguardi curiosi dei suoi amici confidò piano al compratore di segreti:
«Be’ è un po’ imbarazzante in realtà…» fece per tirarsi indietro. «Ma…ogni mattina al campo, prima che mia sorella si sedesse a fare colazione, sputavo dentro la sua tazza di latte».
La sberla fu così potente che lo schiocco rimbalzò contro le pareti dell’atrio «Gabriel, che schifo!» sbraitò furiosa la sua gemella. Fabiano si mostrò costernato tanto quanto lei.
Il fantasma rise a crepapelle cercando di trattenersi all’insù le innumerevoli trippe che sfuggivano dalla sua presa come anguille. Si asciugò finte lacrime dagli occhi ed esclamò «Avevo dimenticato cosa voleva dire aver a che fare con dei bambini. No, mio caro medjai, se pensi che il tuo segretuccio possa bastare per appagarmi ti stai sbagliando di grosso. Su andiamo, la vita della vostra amica deve valere più di così».
Dopo gli episodi frenetici che si erano susseguiti in quella folle settimana di atrocità e sconvolgenti scoperte, Leona trovava inaccettabile le burlate puerili di quello sciocco cumulo di particelle gassose che si dilettava senza alcuna remora a spassarsela con una vita umana appesa a un filo. Per di più se si trattava di una vita a lei molto più che cara.
Era semplicemente stanca, stufa marcia di rimanere invischiata in quelle situazioni che sballottolavano dal grottesco al surreale, sentiva che da un momento all’altro i suoi nervi sarebbero semplicemente esplosi in milioni di pezzi lasciando ben poco di razionale in lei, cosa che non avrebbe fatto altro che far emergere la tanto celata oscurità che negli ultimi tempi riusciva a stento a tenere a bada. Più cercava di rimanere disperatamente a galla da quel mare di tenebre, più le sue vene si trasformavano in un condotto idraulico di puro odio  bruciando ogni singola terminazione nervosa. Non voleva gettare alle ortiche l’ultimo ed estremo tentativo diplomatico di Fabiano di accaparrarsi la fiducia di quell’etereo matto da internare ma alla fine non poté che far defluire tutta la sua frustrazione come un magma covato da secoli all’interno di un vulcano dormiente.
Lo zoologo gli aveva impartito numerose lezioni sull’arte della pazienza, lezioni che stava gettar via come spazzatura fra tre, due, uno…
 «Non so voi, ma per la miseria, qui ci siamo divertiti abbastanza. Davvero non capisco» sberciò pizzicandosi l’arco nasale con le dita «Ti abbiamo assecondato a dovere, mi sembra, ti abbiamo dimostrato le nostre buone intenzioni e il benestare di quella bionda psicopatica con le ali con un’insana ossessione per i giochetti» continuò stringendo in un pugno la gemma del sole che le penzolava sul petto «stavi per assassinarmi con quel fottuto coltello volante e perseveri con quell’atteggiamento sostenuto del cazzo? Dimmi immediatamente dove l’hai nascosta o giuro su quello che ho di più caro di farti crollare addosso il tuo bel tempio e sai che posso farlo».
«Non oseresti…non sacrificheresti mai la possibilità di arrivare alla stanza del ciondolo» la sfidò facendo evaporare sempre di più i suoi lineamenti.
«Alla peste quel ciondolo, rivoglio indietro la mia amica. Io non rischierei se fossi in te, ho un serio problema di gestione della rabbia e questa storia dei segreti è davvero l’ultima goccia che farà traboccare il vaso. Oh, no, no, no. Non voltarmi le spalle, se non vuoi che ti pianti una kopis in mezzo alle scapole».
«A che pro» rise sguaiatamente «mi passerebbe attraverso…».
 «So come renderti corporeo quel tanto che basta per infilzarti come uno spiedino» lo zittì.
«Stai bluffando»
«Se lo dici tu» disse agitando le dita come piccoli tentacoli «Ogni cosa vivente e non, è impregnata di materia, persino il mondo degli spiriti ha una consistenza. E tu panzone…»
«Ehi, questo è offensivo»
«Non costituisci un eccezione all’ordine naturale. E poi non sei un vero spirito, tu non sei morto»
«Ma cosa…» sbottò improvvisamente. Leona lo ignorò tenendolo ancora sulle spine e prese a sgranchirsi le gambe per la stanza sotto lo sguardo stupito di suo fratello e Fabiano.
«Se le mie reminiscenze non m’ingannano, quella che vediamo è soltanto una proiezione della tua essenza. La tua forma astratta è legata al nucleo del tempio e più specificatamente al ciondolo della luna. Una maledizione della tua sgradevole padroncina biondina, immagino, che ti sta usando come semplice guardiano del suo inestimabile tesoro. Una volta recuperato, avrai assolto al tuo compito e sarai finalmente libero di tornare nel tuo vero corpo. A giudicare da come ti vantavi così tanto dell’istituto degli alchimisti scommetto che eri un mago, e anche molto potente».
«Come hai fatto a capirlo?» strillò con il finto pomo d’Adamo che gli schizzava su per la gola.
«Ma come?» esclamò inarcando un sopracciglio. «Queste sono le basi del misticismo. Lo sanno tutti che i fantasmi hanno in tutto e per tutto una forma umanoide. E tu, senza offesa, assomigli più al bolo informe vomitato da un gatto» postillò lisciandosi i capelli, districandosi i nodi fra le dita. Edna squittì in segno di approvazione.
«Ma veniamo al dunque. Per poter estrarre l’essenza di un mago, si deve necessariamente legarla ad un àncora, un contenitore adatto che funga da recipiente per il vero corpo da umano, che suppongo tu abbia nascosto con estrema cura. Ma dove sarà?» si chiese picchiettandosi con un dito la guancia completamente assorta nelle sue elucubrazioni. Fu interrotta dalle risa singhiozzanti del fantasma.
«Mi hai proprio fregato ragazza mia, ti avevo scambiato per una stupida ochetta senza cervello. Invece ti sei dimostrata molto più fastidiosa del previsto. Ma le tue illazioni sono vane, mia bella signorina. Con tutti gli oggetti presenti in questa stanza dubito che tu riesca a trovarla prima che per la tua amica sia troppo tardi».
«Ah, quindi, l’ancora è qui?» domandò Leona.
«Dannazione» imprecò il fantasma mordendosi la lingua.
«Ingegnoso in verità, anche io la vorrei vicina, così la terrei costantemente sott’occhio e fuorvierebbe certamente l’attenzione altrove». Il fantasma cominciò a trasudare nervosamente gocce dense di vapore acqueo mentre lo sguardo di Leona vagava in lungo e largo attorno alla stanza. Si districò fra il colonnato diroccato attenta ad evitare i pezzi di calcinacci che cadevano dal soffitto e per qualche motivo perlustrò, particolarmente interessata, la natura morta di uno dei quadri che pendeva in diagonale dalla parete. Non soddisfatta di quello che vi trovò, passò in rassegna anche le altre opere esposte nella galleria, sgusciando da un dipinto a un altro con le mani dietro la schiena. Sgambettò decisa fino all’ultima arcata, un passo dietro l’altro, sbirciando ogni tanto in direzione del divoratore di segreti cercando di captare qualsiasi cambiamento conturbante che tradisse agitazione.   
E se fosse uno degli autoritratti? le suggerì Edna all’orecchio con uno squittio nervoso. Leona considerò seriamente l’idea. Nella galleria di destra ve ne erano appesi due, in quello dell’ala sinistra cinque, compreso quello poggiato dietro l’armadio di legno di frassino. Escludendo le tre donne…ne rimaneva soltanto quattro in tutto.
«Cosa ha detto Edna?» chiese Fabiano muovendo qualche passo verso di loro. Leona portò le braccia dietro la schiena e sfilò le spade dalle loro guarnizioni di cuoio facendole stridere con un secco suono metallico. E sorrise.
«Credo che abbia appena avuto un’ottima intuizione» disse tracciando un arco con le kopis, raggiungendo la sommità della testa. Osservò per l’ultima volta l’uomo arabeggiante seduto passivamente su un cumulo di cuscini e materassi, offuscato da nuvole di incenso,  e squarciò la tela vibrando le sue spade di ghiaccio al centro del quadro.
«Ti ha dato di volta il cervello? Hai idea di quanto valgano quei capolavori? Te lo dico io! Molto più delle tue chiappe da medjai! E sì, se te lo stessi chiedendo, sono degli originali!». Il fantasma si era decisamente agitato troppo per quell’atto di incauto vandalismo, perciò si fece sorda ai suoi rimproveri squillanti e decise di continuare a impersonare il boia. Fu il turno di un cavaliere dai lunghi baffi a manubrio ben impomatati, irto fieramente sulle ceneri di una battaglia, bardato di cotta di maglia. Leona fece ruotare l’elsa scoccando un’occhiata eloquente alle sue spalle e infierì anche su lui, facendo a brandelli il dipinto all’altezza del collo dello spadaccino serioso. Il vessillo della casata reale si afflosciò su se stesso.
«Ne mancano solo dueee» cantilenò con un tono irrispettoso la ragazza.
«Va bene, va bene. Hai vinto!» si allarmò lo spettro sbracciandosi come un naufrago su un isola deserta che ha avvistato un peschereccio in lontananza.
Leona, segretamente soddisfatta, rinfoderò le armi al proprio posto «Scelta saggia, mago».
Il fantasma ribollì di rabbia e prese a gonfiarsi come una mongolfiera borbottando frasi di scherno come diabolica, manipolatrice, e donnaccia da postribolo. Avrebbe volentieri risposto per le rime, rendendo la madre del mago la protagonista dei suoi oltraggi pittoreschi, ma non sarebbe caduta così in basso.
Poi lo sguardo turbolento dello spiritello si posò in cima al soffitto e pronunciò una formula magica sottovoce. Scintille di una forte tonalità di arancione gli lambirono il suo tozzo corpo informe e si aprì una voragine in cima alla tetto, dove un enorme octopode, nero e peloso, con i cheliceri piegati verso l’esterno, cercava di emergere da una polla nera senza fine. Li osservava a testa in giù da otto angolazioni differenti eppure tutte estremamente minacciose. La sua cuticola color del petrolio lucido era disseminata da milioni setole, simili a una raccapricciante pelliccia unticcia che andava a coronargli la testa terrificante. In mezzo alla fronte affioravano quattro paia di ocelli tenebrosi dentro cui potevi affondarci con la certezza di non far mai ritorno. Appeso a un labile filo setoso, il ragno si staccò leggiadro dalla parete zampettando a mezz’aria con le sue otto appendici filiformi. Vorticò a diversi metri delle loro teste. Dall’addome del mostruoso aracnide spuntavano quattro disgustosi tubicini grondanti di un rivoltante liquido bianco che a contatto con l’aria si solidificava all’istante prendendo la forma di un corda. L’apparato boccale scattò con un soffio e vomitò un bozzolo che si srotolò a partire dal suo apice sfrusciando con leggeri fischi. Quell’ingarbugliata trama di bava sericea che si avviluppava a spirale dal basso verso l’alto culminava con una fontana di ciocche rosse come una torcia accesa. Fra una benda e l’altra si riuscivano a scorgere a malapena scorci del viso di Morgana. Le sue urla erano soffocate dal fazzoletto che le correva da un orecchio all’altro, stretto con un nodo dietro la nuca.
Leona sentì svuotarsi le vene del suo stesso sangue. Attorno alle sue caviglie si erano materializzate delle zavorre pesantissime che le impedivano qualsiasi movimento brusco.
Il fratello accanto a lei scoppiettò iracondo come una teiera bollente, sbuffando come un comignolo sulla sommità di un tetto. «Che cos’è quella cosa?» sibilò in un misto fra rabbia e terrore.
«Quello è il suo famiglio. E ti sconsiglio caldamente di non darle della cosa una seconda volta, Gab » lo informò Edna facendo scattare gli incisi verso il mostro.
«E’ una vera fortuna che Gilda non l’abbia ancora digerita. La vostra amica deve essere piuttosto indigesta per i suoi gusti» ghignò malignamente il fantasma, strofinandosi le mani.
«Dio mio, Morgana! Stai bene?» le urlò Leona dal basso. L’amica languì fra i rotoli di seta appiccicosa.
«Che razza di domanda sarebbe? Come ti sembra che stia una che è appena stata mummificata da un ragno gigante? Vuoi fare a cambio? Magari ti chiarisce le idee!» sbraitò il gemello.
«Smettetela di litigare voi due! Avrete tempo di prendervi a sberle dopo. Abbiamo qualcosa di più impellente da risolvere al momento» s’intromise Fabiano.
«Oh grazie, amico. Senza il tuo intervento non me ne sarei mai accorto. Che sbadato!» ironizzò Gab con il veleno sulla punta della lingua.
Il fantasmino rise a bocca chiusa. Gli occhi si rimpicciolivano sempre di più in quella nuvola gassosa che contornava il suo corpo. «Allora, vediamo se adesso sarete più propensi a rivelarmi i vostri inconfessati in cambio del mio segreto. Qualcosa mi dice che siete più che interessati alla risoluzione pacifica della faccenda e che pagherete qualsiasi prezzo pur di ottenerla. Avanti su, un bel segretuccio e vi dirò come placare la fame del mio famiglio. Ovviamente non rifilatemi una quisquilia qualunque che non valga il mio prezioso tempo, anzi il suo prezioso tempo» disse lanciando un’occhiata in direzione del bozzolo che pendeva dai cheliceri del ragno mastodontico «E non pensare nemmeno per un attimo di fregarmi col trucco del quadro dolcezza. Se io dovessi morire, la mia Gilda finirà quello che ha iniziato. Non potrò trattenerlo ancora a lungo».
Gabriel s’inumidì le labbra passandovici sopra la lingua e deglutì. Non smetteva neanche per un attimo di sbeccarsi le unghie contro la stoffa dei pantaloni gettando sguardi inquieti verso il soffitto.
«Bene, un segreto…un segreto» si corrucciò al tal punto da scavarsi una voragine nel cervello, il sudore che gli imperlava la fronte e colava sugli zigomi, frutto di quella angosciosa concentrazione.
«Un segreto…» recitò Leona con i pensieri raccolti altrove. Nessuno dei due medjai riusciva a portare a termine quella richiesta, semplice in confronto alla ricompensa che li aspettava. Entrambi amavano la ragazza appesa a quel filo eppure né Leona né Gabriel parevano avere abbastanza ossigeno nei polmoni per poter parlare. Come se detestassero la vulnerabilità scaturita dal denudarsi dalle loro maschere bugiarde più di ogni altra cosa. Il fantasma non si sarebbe accontentato di un segreto qualunque e loro lo sapevano fin troppo bene. Lui voleva quei segreti che una volta pronunciati avrebbero mescolato le carte in tavola mettendo in discussione tutti i legami saldati fino a quel momento, vanificando tutta la fatica che gli era costata per costruirgli attorno quella corazza impenetrabile e incorruttibile pur di proteggerli. Proprio quelli che non ti avrebbero più permesso di tornare indietro.
Leona prese un bel respiro, ricacciandosi indietro le lacrime che promettevano di rigarle il viso. Guardò la sua migliora amica, quella che le era sempre stata vicina anche quando nessuno voleva farlo, quella che aveva curato le sue ferite e che aveva passato notti insonni ad ascoltare i suoi folli pensieri notturni, la prima persona in quel guazzabuglio di protettori ipocriti ad averle teso una mano sincera, quella a cui aveva promesso di girare il mondo con un solo zaino in spalla...La stessa ragazza di cui suo fratello era innamorato…Smise di pensare e scollegò la bocca dal cervello. Invece di rivolgersi al divoratore di segreti, ruotò la testa verso Gabriel. Il battito impennò e si preparò a perdere la cosa più importante della sua vita senza conservare un briciolo di coscienza.
«Gab io…» cominciò a dire senza avere mai la possibilità di finire. Anche il gemello stava per rivelarle qualcosa del suo passato, ma quella sincronia, quel fortuito tempismo li frenò come se avessero sbattuto contro un muro di mattoni. Le dita di Fabiano le strinsero forte la spalla e la fecero indietreggiare.
«Sono pronto a rivelare il mio segreto in cambio del tuo, spettro» dichiarò chiaro e tondo Fabiano, con una sicurezza di cui Leona non lo avrebbe fatto capace.
«Io ho un fratello» disse tutto d’un fiato, gli occhi sbarrati, acqua marina che dardeggiava nel nulla.
Gli occhi di Leona, invece, si strinsero in due fessure su di lui mentre Gab finì per grattarsi i riccioli con fare pensieroso.
Un fratello? Ma di che diamine stava parlando?
Il fantasmino distese la faccia nella smorfia più perplessa e delusa di cui fosse capace «Be’, tanti auguri. Mi fa piacere. Anch’io avevo un fratello prima che se lo pappasse un drago ma questa è la vita» disse facendo spallucce. Aleggiò intorno al ragazzo «Cosa dovrei farmene di questa inform…»
«Mio fratello è frutto di una relazione extraconiugale fra mio padre, il sire di Betelgeuse e Riley la sire del campo londinese. Nessuno è a conoscenza che Ethan è un discendente di mio padre, legittimo quanto me per ereditare il nome della nostra casata. Hanno taciuto questa verità per non incorrere in un incidente diplomatico che avrebbe messo in cattiva luce entrambi e avrebbe gettato un’ombra sulle loro carriere. All’epoca Riley non era nemmeno stata nominata sire e l’infedeltà di mio padre sarebbe risultata ancora più scandalosa».
Leona fu colta da un insano attacco di risate. Tentò con tutte le sue forze di respingerle dentro si sé, non voleva che Fabiano pensasse che i suoi drammi familiari fossero così divertenti per lei. Lei non rideva per quello, ma per il forte e meschino sollievo che la pervase. Ethan era suo fratello. E lei che aveva pensato che fra i due potesse esserci qualcosa che andava oltre una semplice e reciproca simpatia…Quanto era stata ridicola! Era la risposta che aveva sempre avuto al suo fianco ma di cui non si era mai resa conto. Ecco perché quella vaga somiglianza, il suo viso sofferente e il continuo ronzare di Tiziano attorno al protettore inglese. Adesso tutto aveva un senso e…come poteva pensare solo a ciò che provava lei e ignorare quanto quella rivelazione gli pesasse sulle spalle? In che razza di egoista si era trasformata?
«Quindi era questo il contenuto della lettera che hai portato con te dal sotterraneo di tuo padre. Ma perché non me lo hai detto? Non ti fidavi di me» chiese Gab con una profonda delusione a macchiargli la voce. In realtà, risuonò più come una affermazione laconica.
«Nient’affatto. Volevo solo tenerti lontano dagli stupidi impicci di mio padre, se mio padre avesse scoperto che tu sapevi qualcosa, si sarebbe accanito su di te».
«Lo sfido a provarci! Non ho paura di lui, Fabiano. Non mi sarei lasciato catturare facilmente e questo lo sai. Pensavo di essere tuo amico, credevo che ci dicessimo ogni cosa…»
«E tu sei certo di poter affermare lo stesso a parti inverse? Saresti disposto a raccontarmi ogni cosa che ti riguarda? I segreti fanno parte di noi, e non te faccio una colpa se vuoi tenermi nascosto qualcosa, so che hai le tue ragioni e questo mi basta. Rendere partecipi le persone a cui vogliamo bene non sempre si dimostra una prova di fiducia. Anzi a volte tacere per paura di ferire quel qualcuno è il più grande atto d’amicizia che si possa mostrare».
«Io non scambierei la compassione con l’amicizia».
«Non si tratta di scambiarle o sovrapporle, ma saresti in grado di confessarmi qualcosa di cui certamente sai che possa farmi del male?»
«Sì, perché non ti avrei lasciato solo in compagnia delle mie schifose verità. Sarei rimasto lì con te ad affrontare le tue paure. E’ questo che fanno gli amici». I due si scrutarono per qualche secondo, il primo a cedere fu Fabiano.
«Adesso sai, spettro. Fanne ciò che vuoi, ricatta anche mio padre se devi ma lascia andare Morgana».
«Be’» ci rifletté su «penso che sia un compenso più che adeguato».
«Un baratto, è un baratto. Quindi perché non sbirciate cosa c’è sotto il telone?».
Il medjai non perse nemmeno un secondo in più in chiacchiere e trascinò i piedi lì dove il fantasma gli aveva detto. Finalmente quella strana curiosità di Leona sarebbe stata soddisfatta, quella bizzarra attrazione avrebbe avuto fine. Il ragazzo afferrò il lembo del lenzuolo consunto vicino agli orli e tirò verso il basso con gesto svelto del polso.
Una volta tirato giù, i tre protettori si trovarono al cospetto del “mobile” più strano di tutta l’intera stanza. Strano perché non avrebbe dovuto essere lì, almeno che stessero solcando il suolo di una chiesa o una basilica. Leona si aspettò di udire un coro gregoriano rimbombare leggero contro il soffitto a volta della sala da un momento all’altro. Invece non giunse nessuna eco del genere.
Il monumentale organo si stagliava in tutta la sua sontuosità occupando gran parte della parete, soprattutto in altezza. Quello strumento propizio alla ricerca dell'armonia assoluta delle note, si componeva di  facciate costituite dall'alternarsi di canneti a triangolo e semicircolari e di statue dell’arte sacra e stucchi, tipica della tradizione tedesca. Le guglie che si intravedevano da sotto il lenzuolo non erano altro che canne d’ottone di lunghezze differenti, raggruppate in file ordinate dietro le due tastiere alla base dello strumento, con lo scopo di favorirne meglio l’acustica. I tasti di un bianco immacolato, brillavano alla luce del fuoco che esaltava il distacco dalle ottave di un nero opacizzato. Sembrava trasudare antichità ma non per questo si presentava malmesso, impolverato o rovinato. Leona non seppe decifrare i pensieri di suo fratello che era rimasto lì impalato a fissare quello che lui di per certo considerava un ‘pianoforte gigante’.
«E’ uno scherzo? Perché se è così, ammazzo il tuo stupido ragno e ripropongo la proposta di mia sorella di buttare giù questa baracca».
«Che testa calda che siete voi medjai! Frena la tua sete di distruzione babbeo, se non vuoi perdere la tua unica possibilità di salvare Morgana. Non è affatto uno scherzo. L’organo serve a placare i nervi della mia povera Gilda! Sono sicuro che qualche strimpellata possa convincere a lasciare andare quel insulso mucchietto di ossa».
«Dunque suono la ninna nanna e ce ne andiamo tutti a casa? Lo giuri divoratore di segreti?»
«Perché non provi?» lo provocò il fantasma. Gabriel parve incenerire i tasti con il solo potere dello sguardo.
«Non ho mai suonato questa roba, non ho la più pallida idea di come si faccia. Ma credo che la ragnetta non abbia gusti così difficili…» disse avvicinando cautamente le dita callose alla tastiera.
Il sorrisetto malevolo che bazzicò sul viso dello spettro fece immediatamente ricredere Leona, ma non fece il tempo a fermarlo perché già suo fratello si stava accanendo in maniera morbosa contro l’aerofono  pestando a casaccio i pedali e tirando a fantasia le leve. Quello che uscì dalle canne per poco non fece sanguinare le sue orecchie. Gab non aveva il minimo senso della ritmica, delle note e della pause, dava giusto l’idea di un polpo di mare che lascia scorrere le ventose sui tasti di un pianoforte. Era un vero e proprio assassinio efferato della musica. Da buon intenditrice qual era il famiglio del mago, a dispetto di quello che credeva Gab, urlò con un suono graffiante dal fondo del suo addome, un grido agghiacciante che scoraggiò il fratello nel proseguire ulteriormente in quel supplizio. 
Il ragno gigante prese ad agitarsi violentemente e con esso il bozzolo contente Morgana. Il soffitto cominciò a creparsi piano, una gara fra linee decise a tagliare il traguardo. Quando venne giù un intero pezzo di tetto, Leona chiuse istintivamente gli occhi, sperando di sopravvivere all’impatto. I rumori della notte si erano acuiti fra il canto cristallino delle civette e il fruscio delle foglie secche. Il profumo delle orchidee che aveva fatto crescere in giardino, si fece più intenso.
Niente però li schiacciò e nel momento in cui sbriciò fra le palpebre, tutto ciò che vide fu un’ombra. Fabiano era lì accanto a lei inspiegabilmente senza nemmeno un graffio e fissava sbalordito la schiena del fratello fare da pilastro con le sue stesse braccia sorreggendo il soffitto che gli era precipitato addosso. Non mostrava alcuno sforzo o fatica. I muscoli perfettamente definiti sotto la pelle delle sue braccia sembravano fatti di puro acciaio e luccicavano di sudore. Sulla sua schiena, dietro il fodero della spada,  il trapezio si era inspessito al punto da stringergli la maglietta in maniera asfissiante sul petto. Gli aveva detto che era troppo piccola per lui…
Non c’era alcun dubbio. Quella era la benedizione della forza, si ricordò Leona. Nemmeno tutto il suo mana concentrato avrebbe potuto reggere il confronto.
Con un gemito sofferto, Gab distese ancor di più le braccia verso il cielo, e con le vene del collo che parevano esplodergli da un secondo all’altro, lanciò le macerie del tetto dietro di loro, schiantandosi con un gran fracasso. Con i riccioli sparpagliati sulla fronte e il fiatone, piegato sulle ginocchia, guardò in su dardeggiando pericolosamente lo spettro ridacchiante. La sua maglietta era così sudata che non aveva più senso indossarla, delineava con precisione meticolosa ogni solco fra i muscoli, disegnandogli un gran bel esemplare di tartaruga. In un attimo fulmineo, impugnò Symphony.
«Seimortoooo» gli urlò sguainando fendenti a caso contro il fantasmino che faceva slalom fra un colpo di spada e l’altro.
«Certo Don Chisciotte, come se fosse colpa mia se sei un pessimo musicista!»
«Ci hai inculato!»
«Oh ma che boccaccesco! Sono innocente!»
«Bene allora, inizia a spiegare anche a me, perché iniziano a prudermi le mani e muoio dalla voglia di infilzarti» gli fece presente Leona.
«Va bene, va bene! Calma» sospirò «Diciamo che Gilda predilige soltanto un certo tipo di musica, in particolare quella classica»
«E ti sembra questo il momento di dircelo?»
«Ma non mi avete dato modo di finire!»
«Comunque musica classica è molto vago…» chiosò ancora la protettrice. «Quindi ti conviene parlare o io…».
«Tu cosa, Lea?» chiese Gab.
«Ma certo! Come ho fatto a non pensarci subito!» esclamò spiattellandosi un pugno sul palmo aperto.
«Ehm, sei sicuro che non gli sia finito qualche calcinaccio sulla testa?» domandò Gab in un bisbiglio a Fabiano.
Ignorando l’insinuazione di Gabriel, Leona si fiondò dritta verso l’organo. Si guardò a destra e a sinistra individuando uno sgabello che avrebbe potuto fare al caso suo e strisciandolo rumorosamente sulle assi del pavimento si piazzò davanti alla tastiera. Non aveva più lo spartito con lei, ma non ne aveva più bisogno. Durante quell’unica lezione di Ethan lo aveva imparato a memoria per intero, immagazzinandolo per sicurezza con l’effetto osmosi.
Gab lanciò un’imprecazione «Ma cosa hai intenzione di fare? Non hai mai suonato niente del genere in vita tua e…»
«Stai zitto»
«Ok, non fiato» si rimpicciolì all’aura minacciosa emanata dalla sorella.
Favorita dal silenzio che era calato sulla stanza, Leona si sfilacciò il nastro scarlatto dal polso e si legò i capelli in una coda bassa. Si scrocchiò le dita e si inebriò della frigida aria notturna che si era infiltrata dal soffitto mancante. I battiti del suo cuore le ronzavano nei timpani.
«Gilda» la chiamò Leona senza alzare la testa dal pianoforte. L’ottetto di occhietti di un profondo nero liquido le squadrò la schiena e si velò di eccitazione.
«Mi auguro che Johann Sebastian Bach sia di tuo gradimento». Si schiarì la gola e aggiunse «Toccata e fuga in re minore».
Sprofondata nel buio offertogli dalle palpebre, consultando il suo spartito interiore, stese le mani affusolate sulla tastiera e cominciò a suonare, sperando con tutto il suo cuore che la memoria non le giocasse brutti scherzi.
   
 
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