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Autore: Mary P_Stark    28/12/2020    2 recensioni
Liza Wallace è la nuova Geri del branco di Clearwater e, a discapito della sua giovane età, dimostra fin da subito di avere un potenziale enorme; il rapporto davvero unico con i suoi Huginn e Muninn, i magici corvi al servizio del Sicario Umano del branco colpisce fin dall'inizio l'intero branco. Questo suo potenziale verrà subito messo alla prova quando, a sorpresa, giungerà a Clearwater una famiglia proveniente da New York. I Sullivan sembrano una famiglia normale, almeno all'apparenza, ma il figlio Mark e suo padre Donovan metteranno in allarme il branco a causa del loro comportamento sospetto. Saranno dei temuti Cacciatori, o qualcun altro si cela nell'ombra, più pericolo e subdolo, tentando di portare lo scompiglio nel branco di Lucas, Devereux e Iris? (particolari della storia presenti nei racconti precedenti della Trilogia della Luna)
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'TRILOGIA DELLA LUNA'
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19.

 

 

 

 

La forza con cui Diana sbatté la porta di casa fece sobbalzare Donovan, assiso su una poltrona nei pressi del bow window e con il volto racchiuso dalle mani tremanti.

L’abitazione era avvolta nel buio più totale – le luci avevano così urtato Donovan da averlo spinto a spegnere tutto – e, quando Diana pigiò l’interruttore del salotto, l’uomo socchiuse dolente le palpebre di fronte al lampadario nuovamente acceso.

Nel vederlo pallido e smunto, Diana provò un moto istintivo di pena ma, pur amando l’uomo che stava squadrando da capo a piedi, si convinse a essere dura quanto decisa. Ne andava della salute mentale di Mark, e non solo del marito.

«Dovrei riempirti di calci sul sedere, Donovan Amedeus Sullivan, perché non meriteresti altro che questo e, se non fosse che mi rovinerei la protesi nel farlo, comincerei dal mio piede dominante, anche se non ce l’ho più!» sbottò la donna, gettando la borsetta sul divano per poi affrontare il marito a muso duro.

Donovan non sollevò lo sguardo per affrontarla, limitandosi a sospirare fiacco. Erano quattro giorni che tentava di uscire dall’incubo in cui era caduto, non appena aveva saputo la potenziale verità su Mark, ma nulla era valso allo scopo.

Stando a Christal, così come agli altri licantropi – dio, licantropi! – che avevano parlato con lui in quegli interminabili giorni passati dall’incidente, Mark sarebbe diventato un amarok al prossimo cambio di luna.

La stessa creatura che aveva dilaniato suo fratello, sua cognata e la sua amata nipote.

La stessa creatura che aveva strappato la gamba a Diana e che, per poco, non l’aveva uccisa.

La stessa creatura che lo aveva spinto per anni e anni in giro per mezzo continente, nel vano tentativo di trovarla e ucciderla.

Non poteva accettarlo. Era davvero troppo, per lui, e poco importava se altri lupi lo tenevano d’occhio perché non perdesse la testa e si mettesse a parlare in giro di mannari grandi come cavalli, o quant’altro.

Che lo divorassero pure, se lo ritenevano un pericolo. A quel punto, non sapeva più cosa farne della propria vita.

Aveva cercato per anni l’assassino di suo fratello, e ora che aveva rinunciato a tutto e aveva ritrovato suo figlio, Mark sarebbe divenuto come quell’essere spregevole, che si cibava di carne umana per sopravvivere.

Lo schiaffo di Diana giunse a sorpresa, facendogli sollevare di colpo il viso per poi costringerlo a fissarla con aria addolorata e persa.

Lei non si fece però impietosire da quello sguardo – nonostante stesse bruciando dentro per la rabbia e il rimorso – e, furiosa, gli urlò contro: «Tuo figlio pensa che lo odi! Se non fosse per quelle due ragazze che lo tengono lontano dal baratro, lo avremmo già perso!»

«Non ce la faccio, Diana…» mormorò lui, atono.

Diana sgranò gli occhi in preda all’ira più nera e, ancor più forte, gridò: «Non ce la fai?! Cosa dovrebbe dire, Mark?! Cosa dovrebbe dire, tuo figlio, che si ritrova a dover diventare una bestia dissennata senza averlo mai voluto?! Liza si è sacrificata per salvarmi, per salvare tuo figlio, e tu non l’hai neppure ringraziata, e ora anche lei dovrà soccombere alla stessa sorte del nostro ragazzo!»

«Ci ha mentito! A questo non pensi?!» sbottò a quel punto Donovan, levandosi in piedi per poi camminare nervosamente avanti e indietro per il salotto.

Diana si incupì in volto e asserì caustica, ma con tono più controllato: «Lo avresti fatto anche tu, per difendere chi ami. Inoltre, ha dimostrato di tenere molto a Mark, visto che lui sapeva tutto

Donovan la squadrò più che mai sorpreso e lei, annuendo, proseguì nel suo dire.

«Me lo ha confessato Mark, mentre Liza combatteva per salvarci. Si confidò con lui proprio perché non voleva più mentirgli. Con la tua crociata personale hai messo in pericolo un sacco di persone che, per parte loro, si sono dovute difendere in qualche modo ma che, messe di fronte a un nemico comune, non hanno badato a nascondersi pur di proteggerti. E lo devi a Liza. Lei ha spinto perché ti proteggessero.»

L’uomo si azzittì di colpo, di fronte a quella confessione e Diana, ora più calma, terminò la sua arringa con un mormorio sommesso e a capo chino, stanca di affrontare quella stessa litania ormai da giorni.

«Tutti noi stiamo aspettando e pregando che coloro che si stanno prendendo cura dei nostri ragazzi riescano a capire come aiutarli, ma sarebbe importante che dessi anche tu il tuo sostegno, e non ti limitassi a piangerti addosso. Non era un vile, l’uomo di cui mi innamorai.»

Ciò detto sospirò e se ne andò in cucina per preparare qualcosa per cena, non avendo più a cuore di rimanere nella stessa stanza assieme al marito.

Ricordava più che bene il giorno in cui si erano conosciuti, e come lui le fosse sembrato un padre attento e amorevole. Aveva redarguito Mark per la marachella commessa, ma si era poi premurato di accertarsi che stesse bene e che non si fosse spaventato troppo.

Dopo quel primo episodio, si era poi preso il tempo di accompagnarlo ogni giorno a fare dei brevi giri nel centro commerciale dove lei lavorava e, da quel momento, avevano potuto approfondire la loro conoscenza.

Solo in seguito aveva scoperto a cosa Donovan si fosse dedicato per tanti anni e, complice il sentimento di rivalsa che l’aveva mossa fin dal giorno dell’incidente, si era detta disposta ad aiutarlo.

Insieme avevano lavorato spalla a spalla per mesi, studiando su libri e riviste, consultando internet e sfogliando vecchi articoli di giornale raccolti nelle biblioteche.

Diana aveva avuto così modo di innamorarsi della sua grinta e della sua perseveranza, dei suoi modi gentili con il figlio e delle attenzioni che lui le tributava. Allo stesso modo, Donovan aveva aperto il proprio cuore a un nuovo amore e, quando la pista si era raffreddata e avevano dovuto decidere sul da farsi, per entrambi era stato semplice.

A lui, di chiedere che partisse con loro, a lei, di partire lasciandosi tutto alle spalle.

Aveva mollato tutto e si era unita a Donovan e alla sua causa. Era diventata a tutti gli effetti la madre che Mark aveva perso a causa di quella crociata e, insieme, avevano girovagato per gli Stati Uniti in cerca di prove.

Della verità.

Ogni volta, avevano ricominciato a vivere in un posto diverso, con persone sempre nuove ma, volendo così bene sia a Donovan che a Mark, non le era mai pesato.

Vederlo ora, distrutto e senza più valori in cui credere, la faceva soffrire più del sapere Mark in ospedale e pronto a diventare una creatura di cui nessuno sapeva nulla.

Capiva, coscientemente, quanto il sapere suo figlio destinato a diventare la stessa creatura che aveva distrutto la sua famiglia, lo turbasse, ma non poteva cedere proprio in quel momento. Mark aveva bisogno di lui, di saperlo dalla sua parte.

***

“Come stai, mamma?” domandò Muninn, appollaiato fuori dalla stanza d’ospedale dove si trovavano Liza e Chanel.

Liza aprì gli occhi con calma, riprendendosi dal dormiveglia che l’aveva presa dopo aver chattato con suo padre e sua sorella per almeno un’ora.

Aveva dovuto insistere fino allo sfinimento, perché non partissero da L.A. per raggiungerla e, pur se comprendeva la loro ansia, non li voleva lì a preoccuparsi. Desiderava che si concentrassero sul lavoro, e che portassero avanti la loro vita senza metterla in stand by a causa sua. Finché non avessero saputo qualcosa di più preciso, era perfettamente inutile che la seguissero in quell’incubo assurdo.

Bastava sua madre a renderla più tranquilla, a farle capire coi fatti quanto tutti loro fossero emotivamente coinvolti dall’accaduto.

Sorridendo spontaneamente nel volgersi a mezzo, la guardò con dolcezza, addormentata su una poltrona dell’ospedale mentre teneva tra le mani un libro aperto più o meno a metà e che, entro breve, sarebbe crollato a terra.

Scivolando fuori dal letto, perciò, glielo tolse lentamente dalle mani per poggiarlo sul comodino dopodiché, con un sorriso rivolto alla finestra, disse: “Tutto sommato, mi sento bene. I punti tirano da impazzire, ma gli antidolorifici sono una manna dal cielo. Il dottor Cooper mi ha detto che mi resteranno delle affascinanti cicatrici di battaglia.”

“Huginn era preoccupato che tu potessi non dormire, visto che… insomma…”

“Visto che non abbiamo la più pallida idea di quel che mi succederà?” disse per lui Liza, sorridendo nell’oscurità della stanza. “Dov’è, tra l’altro, adesso?”

“Pattuglia costantemente la foresta, visto che io non posso ancora volare bene” le spiegò Muninn. “Ha il terrore che quella bestia dissennata possa tornare ma, forse, non sopporta l’idea che io sia stato ferito. Tende a essere un fratello piuttosto protettivo.”

Il tono di Muninn fece sorridere divertita Liza, che assentì tra sé. Dei due, Huginn era sicuramente il corpo più maturo, e non faceva specie che si preoccupasse tanto per il gemello.

Volgendo lo sguardo per scrutare la sua compagna di stanza, la trovò saporitamente addormentata, forse aiutata dai calmanti che il dottore le aveva prescritto. Oppure – ed era anche possibile – Chanel era così stordita dall’intera situazione da non avere più le forze per reggere una veglia prolungata.

“Noi ti staremo comunque accanto” sottolineò Muninn con tono convinto.

“Te ne sono grata, ma non sappiamo come sarò dopo, amico mio” sottolineò lei, tirandosi le ginocchia al petto per poi poggiarvi sopra il mento.

“Sarai sempre la nostra mamma” precisò Muninn.

Liza allora sorrise mesta, si deterse una lacrima ribelle dalla gota e disse: “Farò di tutto perché voi continuiate a essere i miei corvi.”

Il corvo gracchiò dolente e si involò a fatica per tornare a casa; era ancora convalescente dopo le ferite subite dall’amarok, e nessuno in famiglia voleva che rimanesse lontano per troppo tempo.

Pur se era stato curato egregiamente dal dottor Johnson, Muninn doveva lasciare tempo al tempo e pregare che l’ala riprendesse forza in fretta.

Con un sospiro, Liza percepì distintamente il collegamento con Muninn farsi sempre più labile e, dentro di sé, pregò che non dovesse succedere per sempre.

Sarebbe stato uno shock perdere i suoi corvi.

Tentando quindi di rilassarsi contro i cuscini – era inutile congetturare a vuoto – sobbalzò sorpresa, però, quando vide Mark spuntare sulla soglia della stanza.

Sibilò per lo sgomento, sgusciò fuori dal letto per poi zoppicare fino a raggiungerlo e lì, afferratolo per i bordi della felpa che portava sulle spalla, borbottò: «Che ci fai fuori dal letto?! Ti ricordi che ti hanno ricucito l’addome, o no?!»

Scortatolo poi fuori dalla camera, raggiunsero in silenzio la sala d’aspetto – in quel momento vuota – e, sotto lo sguardo indulgente di un paio di infermiere, lì si sedettero.

«Che avevi in mente di fare, sentiamo?!» protestò in un sibilo Liza.

Lui non disse nulla, limitandosi ad abbracciarla e la giovane, con un sospiro tremulo, si lasciò andare contro di lui, trovando il suo calore e la sua sola presenza davvero insostituibili.

In quei giorni, complice le loro condizioni, il via vai di medici e parenti, avevano avuto davvero poco tempo per stare assieme, perciò Liza apprezzò in particolar modo quella piccola fuga dalla camera. Desiderava stare con lui, condividere tutto con lui, e quella separazione forzata le pesava, perciò era felice che Mark avesse evidentemente corrotto le infermiere per venire a farle visita fuori dall’orario consentito.

«Altri dieci minuti, poi vi rispedisco in camera, va bene?» sussurrò loro un’infermiera di passaggio.

I due assentirono, limitandosi a rimanere stretti l’un l’altra. Cosa potevano dirsi, d’altronde, in quel luogo in cui le infermiere presenti potevano sentirli?

Non potevano parlare dei loro dubbi, delle paure che li tenevano svegli la notte, o del dolore che Mark stava provando a causa della mancanza di suo padre.

Personalmente, Liza avrebbe voluto prenderlo per i capelli e trascinarlo di peso in ospedale, ma a lui aveva preferito non dirlo. Trovava che il professor Sullivan si stesse comportando in modo scorretto, con il figlio che, dopotutto, pagava a causa del suo affetto per lei, ma di certo non meritava un simile ostracismo.

«Sai una cosa?»

«Dimmi» mormorò Liza, levando il viso a scrutarlo.

«Non ti ho ancora invitato fuori a mangiare qualcosa» disse lui, sorridendole nel darle un bacio sulla punta del naso.

Lei sorrise, apprezzando quel suo tentativo di voler apparire tranquillo e pronto ad affrontare la loro novella storia d’amore con fiducia e serenità. Sapeva comunque quanto tutto ciò fosse un mascheramento, quanto le sue parole intendessero tranquillizzare lei, non tanto se stesso.

Annuendo, lei poggiò quindi il capo contro la sua spalla e ammise: «Mi piacerebbe andare dove Iris ha fatto il suo addio al nubilato. Io non potei andare perché organizzarono uno spogliarello e, visto che…»

Spalancando occhi e bocca in quel preciso istante, si raddrizzò di colpo e disse sgomenta: «Oddio! Domani compi diciassette anni!»

Lui le sorrise divertito, un po’ sorpreso che se lo fosse ricordato, mentre un’infermiera alla reception le sorrideva complice e con aria ammiccante, facendole cenno di non alzare troppo la voce.

«Già. Finalmente ti ho raggiunto» dichiarò lui, sottolineando in modo ironico quel particolare sull’età.

Liza assottigliò immediatamente le palpebre per fissarlo malissimo e borbottò: «Con questo, cosa vorresti insinuare?»

«Io? Nulla. Ho solo notato che sei più vecchia di me di nove mesi, tutto qui» ironizzò lui, ammiccando al suo indirizzo.

«Non è colpa mia se li compio a gennaio» brontolò lei, intrecciando le braccia sotto i seni con fare sostenuto.

«Lo so…infatti, la mia era solo una constatazione.»

«Siamo nati nello stesso anno, perciò non fare tanto il sostenuto» disse lei, spiccia.

«Sì, ma tu saresti un anno avanti a me, se non avessi ricominciato la prima liceo. Comunque, per me va benissimo. Ho sempre sognato di mettermi con una donna più vecchia di me» disse ancora lui, sempre più vicino a uno scoppio di risa.

«Vecchia?!» sibilò Liza, facendo tanto d’occhi di fronte a quell’esternazione. «Tu guarda cosa…»

Non giunse mai alla fine della frase.

Mark la colse di sorpresa, baciandola con un certo trasporto e togliendole di fatto tutto il fiato che aveva nei polmoni. Lei ansimò per la sorpresa, avvampò a causa della presenza delle infermiere – che tentarono in tutti i modi di rendersi invisibili – e, ormai allo stremo, si scostò da lui ed esalò: «Ma che fai?!»

«Mi andava di farlo, scusa. Non siamo mai soli, ultimamente, e allora…»

«Neppure ora, lo siamo» sottolineò lei, coprendosi il volto con le mani. Ma perché si imbarazzava tanto? Dopotutto, non avevano fatto nulla di male.

«Lo vorrò anche dopo… sempre» le sussurrò lui all’orecchio, raggelandola.

«Mark…» esalò lei, mentre il giovane si levava dalla poltroncina per tornare nella sua stanza.

Lui ammiccò al suo indirizzo e, senza darle il tempo di replicare, se ne andò.

Liza rimase ferma a guardarlo allontanarsi e, per un istante, temette che fosse un addio. Forse Mark temeva che, una volta divenuto un amarok, anche i suoi sentimenti per lei sarebbero mutati, facendogli dimenticare ciò che li legava e, con quel bacio, aveva voluto rassicurare entrambi in qualche modo.

Sospirando affranta, Liza si strinse le braccia al petto e, silenziosa, tornò in camera a sua volta. Anche lei sperava con tutto il cuore che, una volta compiuto ciò che si doveva compiere, i sentimenti per lui non mutassero.

Il punto, però, era un altro. Se anche si fossero voluti ancora bene, sarebbero diventati schiavi di akhlut?

***

Nuda nel fiordo, akhlut stava rigenerandosi con le poche energie che era riuscita ad acculumare dentro di sé, tramite il collegamento simbiotico con il suo amarok. Prima della sua morte, lui aveva divorato quel giovane e, grazie al loro legame, lei aveva potuto incanalare dentro di sé quell’energia, portarla fino al nido per trasmutarla e ritemprare così le sue forze.

Aver intrapreso prima del tempo quella campagna contro i licantropi, si era dimostrato un errore. Non era stata in grado di trasmutare totalmente l’energia raccolta dall’amarok in linfa vitale per sé, e questo l’aveva resa più debole e sì, sciocca.

La scelta, però, era stata sua. Il desiderio di uccidere prede tanto succulente – e che le avrebbero donato una forza immensa – era stato troppo, per lei, e così era giunta a peccare.

La presenza di una divinità Tuatha, poi, l’aveva colta di sorpresa, scombussolando ulteriormente i suoi piani.

Ora, però, grazie ai ragazzi feriti dal suo amarok, avrebbe avuto la possibilità di avere al suo comando almeno un nuovo schiavo. Quando aveva avvertito sulla lingua il sapore del sangue di quei giovani – attraverso il legame con il suo servo – aveva compreso. Sarebbero mutati, di questo era stata subito certa.

Ben presto, avrebbe perso la possibilità di allontanarsi dal nido, di predare da sola le creature umane e, senza un amarok, sarebbe tornata a riprendere le sembianze di una comune orca. Quei ragazzi erano la sua ultima speranza di rimanere sulla terraferma.

Per quanto l’irritasse ammetterlo, l’età era ormai un peso immane, per lei, e non aveva più la forza di apporre la propria magia sugli umani predestinati perché divenissero amarok. Quanto a quelli creati da Qiugyat, erano diventati così rari da essere praticamente introvabili, e perciò a lei del tutto banditi.

Non voleva tornare a essere un’orca dalla vita limitata! Se proprio doveva morire, lo avrebbe fatto come il suo antico e amato compagno.

Sakar era morto in età avanzata, ma ancora in grado di prendere la forma di lupo. Il suo ultimo amarok era deceduto da tempo, impedendogli di fatto di proseguire oltre con la sua vita sulla terraferma, e lei non aveva potuto offrirgli i servigi del proprio schiavo perché si salvasse.

A causa del legame di sangue con cui l’umano prescelto veniva mutato in bestia, un amarok poteva infatti seguire un solo padrone, durante il corso della propria esistenza.

Pur di non tornare all’acqua e alla vita mortale di un’orca qualunque, Sakar si era quindi dato la morte onorevolmente, lasciando che la sua lunga esistenza si interrompesse solo per sua mano, e non per volere del Fato.

Sakar aveva vissuto per quasi diciottomila anni, aveva visto crescere e distruggersi centinaia di civiltà umane, si era scontrato coi fomoire per il predominio sui mari ma, infine, si era stabilito definitivamente sulla terraferma come lupo.

Si era impadronito di diversi amarok figli di Qiugyat e, bevendo il sangue di quelle creature primigenie, era divenuto depositario dei loro segreti e perciò in grado di crearne altri.

Qiugyat nulla aveva potuto, di fronte alla sua forza. Lei si era dimostrata debole, al suo confronto, legata all’amore delle genti come loro, invece, non avevano mai avuto bisogno di essere.

L’energia vitale degli umani era la sola cosa di cui avevano bisogno, per rimanere lupi dalla lunga vita. Il loro unico scorno – e limite – era sempre stato il legame indissolubile con il mare e con il fiordo in cui erano nati come orche.

Nessuno di loro aveva mai potuto abbandonare quei luoghi se non per brevissime battute di caccia e, ogni volta, l’acqua era stata il catalizzatore per poter utilizzare l’energia delle prede divorate sulla terraferma.

Sakar e altri akhlut, però, avevano scoperto che, tramite gli amarok, avrebbero potuto allontanarsi maggiormente dal nido, oltre a potersi cibare di una quantità maggiore di energia umana. Rimanere al nido durante le gelide notti d’inverno, però, era rimasto un imperativo per non perdere potere sugli amarok.

Durante un qualsiasi altro periodo dell’anno, avrebbero potuto andare e venire a piacimento dal nido, dopo esserci cibati, ma non in inverno, perciò gli akhlut avevano fatto in modo di tornarvi solo in quei lunghi mesi di oscurità.

Durante le notti invernali, infatti, l’energia di Qiugyat interferiva con quella degli akhlut – nonostante la dea avesse perso molti dei suoi poteri –, rendendo più debole il legame con gli amarok. L’unico modo per non perderli, era rimanere al nido e consolidare il legame con l’amarok.

Quando lei era nata, Sakar l’aveva voluta al suo fianco come compagna, le aveva insegnato a legarsi agli amarok che lui ancora non aveva catturato e, così facendo, avevano prosperato per millenni.

Ben di rado si erano dati personalmente alla caccia degli umani, poiché i loro amarok erano bastati per mantenerli sani e vitali.

La loro lunga vita, però, non era infinita e, col passare dei millenni, Sakar non era più riuscito a sostituire gli amarok morti con altri nuovi. Lei era stata costretta a vederlo deperire sempre più finché, un giorno, lo aveva visto prendere la via del Denali per darsi la morte.

Silente e disperata, lo aveva visto lasciarsi morire a causa di una valanga. Quando lo aveva trovato a pezzi e ormai morto, lei lo aveva vegliato, lasciando che le sue preghiere si materializzassero sul suo scheletro come un feretro protettivo.

Stremata, aveva quindi mandato la sua ultima amarok a caccia, così da riprendersi dallo stress causato da quella cerimonia, tutt’altro che semplice da portare a termine. Mente e corpo ne avevano così sofferto da aver avuto bisogno di una nuova iniziazione di energia e così, da quel giorno, lei e la sua amarok erano rimaste sole.

La sua vita era dunque proseguita con l’unica compagnia della sua serva, una giovane umana di nome Abegail che lei aveva mutato poco prima della morte del suo compagno, e che si era rivelata una brava e devota schiava.

Il tutto era proseguito così per alcuni decenni finché, a sorpresa, una troupe di studiosi umani aveva trovato lo scheletro del suo compagno, lo aveva indebitamente prelevato dal suo luogo di sepoltura e lo aveva portato via da lei.

Questo l’aveva fatta infuriare non poco ma, prima ancora di poter inviare la sua amarok a cercare i resti dell’amato, quest’ultima era morta, investita da un treno merci e letteralmente fatta a pezzi davanti ai suoi occhi.

Nella foga della caccia, non si era accorta del sopraggiungere di quell’enorme mezzo umano che, come uno schiacciasassi, le aveva frantumato ossa e carni, divellendole purtroppo la testa dal resto del corpo. Questo aveva decretato la sua fine, e aveva impedito a lei di salvarla.

Nell’osservare i resti frammentati di colei che le era stata accanto per così tanto tempo, si era pentita non poco di averle impedito di crearsi un compagno. Se ciò fosse accaduto, lei avrebbe avuto un nuovo servo con cui sostituirla.

A quel punto, si era vista costretta a dare la morte a diversi esseri umani entro i territori ristretti della sua casa natia, dopodiché si era spinta a sud per cercare i resti del compagno con le sue uniche forze.

Concentrandosi al massimo per non sprecare una sola stilla di energia più del necessario, aveva vagato per mesi e mesi e, quasi allo stremo, aveva infine trovato il suo antico amore.

Il bisogno di energia, però, era stato tale da costringerla a creare un amarok nuovo di zecca ma, per la prima volta in vita sua, non vi era riuscita.

Questo le aveva fatto comprendere quanto, anche lei come Sakar, fosse vicina a diventare così debole da non avere più speranza di vivere sulla terraferma. Fortunatamente, però, aveva trovato Cody, morente in un vicolo di New York e disposto a tutto pur di vivere ancora.

La debolezza del suo cuore le aveva permesso, per l’ultima volta, di avere la meglio sulla carne umana e, così facendo, aveva dato vita al suo nuovo amarok.

Da lì in poi, lei aveva potuto rinascere e tornare ad assaporare appieno l’energia vitale degli esseri umani, tanto più saporita e piacevole della semplice carne di pesce che avrebbe dovuto mangiare nella sua forma basale di orca.

No, l’oceano non l’avrebbe avuta ancora per molti secoli, o forse mai.

Grazie a Cody e alla sua innata sete di sangue, aveva potuto godere di una vendetta in grande stile ma, quando si era resa conto dello stato di contaminazione delle ossa di Sakar, aveva rinunciato a ricondurle a casa.

Ormai, il compagno era perso per sempre, ma lei poteva continuare a vivere e prosperare, grazie alla presenza del suo giovane amarok.

Tutto sommato, aveva gradito correre con Cody, fare sesso e predare con lui. Non si era comunque arrischiata a chiedere a Cody di ferire degli umani perché diventassero a loro volta amarok – cosa che loro potevano fare agevolmente. Per assoggettare un amarok, occorreva avere potere a sufficienza perché non sfuggisse al legame, potere che lei, ormai, non possedeva più.

Se n’era resa conto suo malgrado quando, in più di un’occasione, aveva dovuto richiamare all’ordine Cody e punirlo fisicamente, reo di aver predato senza il suo consenso.

Per troppe volte aveva dovuto attendere impaziente di scoprire se, gli atti inconsulti di Cody, avessero fatto nascere nuovi amarok da sottomettere ma, per sua fortuna, il suo servo aveva colpito persone impossibilitate a diventare tali.

Ora, però, doveva approfittare a qualsiasi costo dei giovani che Cody aveva ferito. Se anche uno solo di loro avesse ceduto al suo controllo, avrebbe potuto ritenersi soddisfatta. Quanto agli altri, li avrebbe uccisi.

Era questo il prezzo per la sopravvivenza, se voleva vivere come una dea. Non aveva bisogno delle preghiere delle genti, per camminare tra i vivi, ma doveva cibarsi della loro energia vitale, se voleva continuare a farlo.

Se solo avesse avuto maggiore forza, non avrebbe atteso che i giovani feriti dal suo amante compissero la mutazione. Avrebbe trovato un giovane qualsiasi e lo avrebbe fatto suo, ma era ormai troppo debole, troppo vecchia per poter essere ancora una Creatrice.

No, doveva attendere il giorno del plenilunio e, in quel momento, avrebbe apposto il suo sigillo di sangue sui giovani virgulti che sarebbero diventati i suoi amarok.

***

«Litha… Litha!» esclamò Rohnyn, scuotendo la spalla dell’addormentata sorella.

La pendola suonò le cinque del mattino e la dea, ridestandosi da un sonno agitato e costellato da incubi, spalancò gli occhi per la sorpresa. Turbata, si volse a mezzo per capire chi l’avesse chiamata e, nel vedere il fratello, visibilmente stanco ma apparentemente eccitato, si stropicciò gli occhi, borbottando: «Che succede? Va a fuoco la casa?»

«Niente del genere. Penso di aver trovato la soluzione ai nostri problemi, però.»

Quelle parole la risvegliarono del tutto e, balzando in piedi, esalò: «Cosa? Dimmi!»

Indicandole il tavolo della cucina – dove sembrava essere stata scaricata l’intera biblioteca di Alessandria d’Egitto – Rohnyn la scortò fino a una pergamena in particolare e lì, soddisfatto, disse: «Avrai i tuoi primi sudditi, dopotutto.»

«Che? Il troppo leggere ti ha forse rimbecillito?» gracchiò lei, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del fratello.

«Sempre la solita elegantona. No, mia cara. Intendo dire che, purtroppo, gli amarok hanno bisogno di una dea, o un dio, per poter camminare su questa terra, visto che come servitori sono nati e tali rimarranno fino alla fine dei tempi ma, non necessariamente, questa divinità deve essere akhlut.»

«Come come?» si incuriosì a quel punto Litha.

«Mi aveva incuriosito il fatto che i primi amarok fossero nati da Qiugyat ma che, solo in seguito, fossero divenuti schiavi di akhlut. Perciò mi sono chiesto se questo tipo di conversione potesse avvenire ancora e, nel leggere alcuni resoconti di Muath, ho scoperto che sì, può accadere.»

Accigliandosi immediatamente nell’udire il nome della madre adottiva, Litha borbottò: «Non dirmi che quella strega si era fatta un amarok solo per vedere se ci riusciva?!»

«In pratica, sì. Rubò letteralmente un amarok a un akhlut e, facendogli bere il suo sangue, lo rese schiavo. A quanto pare, il sangue fomoriano batte quello degli akhlut. Comunque, lo tenne avvinto a lei fino alla sua morte – perché gli amarok non sono beneficiati di lunga vita come gli akhlut, pur se hanno un’ottima aspettativa di vita. Non sapendo di cosa farsene di un simile servo, lasciò perdere ulteriori mutazioni e scrisse soltanto questo breve resoconto su come si fossero svolte le cose.»

«Mi scoccia dover dire grazie a Muath» brontolò suo malgrado Litha.

«Resta solo da chiarire la cosa con i ragazzi… e da comprendere cosa succederà quando berranno il tuo sangue, e tu berrai il loro» sottolineò Rohnyn, scrollando le spalle.

Litha sospirò sconsolata, lanciò un’occhiata al piano superiore – dove ancora dormivano Dev, Iris e Chelsey – e borbottò: «Dev si incazzerà di brutto, scoprendo che non potrà essere il mio seguace più fedele.»

***

L’arrivo di Litha in ospedale fu fonte di molti torcicollo da parte dei medici, così come di diverse occhiate velenose.

Era infatti indubbio quanto, il suo essere una dea, la rendesse l’oggetto del desiderio degli esseri umani, indipendentemente dal fatto che lei usasse o meno i propri poteri, o che gli umani stessi si rendessero conto di essere rimasti incantati da lei.

La sua bellezza aveva qualcosa di ultraterreno che veniva percepito a pelle, ed era quasi impossibile non rimanerne vittime. Inoltre, il suo portamento fiero, così come la sua altezza invidiabile, oltre allo sguardo magnetico, la rendevano indiscutibilmente una creatura da idolatrare.

Per Iris e Dev fu assai divertente notare come nessuno, invece, si rendesse conto della loro presenza. Era come essere invisibili, quando Litha era nei paraggi, ma non era necessariamente un male.

La scoperta fatta da Rohnyn aveva colto di sorpresa la famiglia Saint Clair, ma aveva anche dato loro la speranza di poter salvare dalla prigionia a vita i tre ragazzi tutt’ora in ospedale.

Di buon passo, quindi, si erano diretti verso il Dr. Helmcken Memorial Hospital – dove lavorava il Dr. Cooper – per informarli in merito al loro piano. Dopo aver oltrepassato le porte a vetri del piccolo complesso ospedaliero, avevano imboccato il corridoio che conduceva nel loro reparto, lasciando per l’appunto dietro di loro occhiate liquide e sospiri affranti.

Finalmente di fronte alla stanza delle ragazze, Litha bussò discretamente alla porta prima di entrare insieme al resto del gruppo e, non trovandovi persone estranee, annuì soddisfatta.

Preventivamente,Dev chiuse la porta alle loro spalle dopodiché dichiarò entusiasta: «Abbiamo novità interessanti, ragazze.»

Le due giovani posarono immediatamente i cellulari che stavano utilizzando per messaggiare con gli amici e, attente, convogliarono i loro sguardi su Litha.

Lei, a quel punto, le squadrò ombrosa per alcuni istanti, quasi non fosse pronta per ciò che stava per dire ma, alla fine, dichiarò: «Voi sarete il mio piccolo, cazzutissimo esercito, ragazze.»

«Come?» esalarono all’unisono le due, guardandosi vicendevolmente con aria confusa prima di tornare a posare lo sguardo sulla donna.

«Purtroppo, gli amarok sono destinati a non essere liberi, e necessitano di una divinità che li guidi perciò, se non conoscete nessun altro dio da queste parti, …e non mi proponete Chris Hemsworth che, pur se bello come un dio, purtroppo per voi non lo è davvero, …» motteggiò Litha, strizzando l’occhio alle due giovani, che sorrisero tese ma speranzose. «… dovrete accontentarvi di me.»

«Intendi scalzare il potere che gli akhlut detengono sugli amarok?» domandò a quel punto Liza.

Sollevando un sopracciglio con aria curiosa, Litha le domandò: «Ci avevi pensato anche tu?»

«La mia, più che altro, era una speranza, ma aveva senso, visto che sapevamo del loro cambio di bandiera da Qiugyat ad akhlut. Solo, non avevo la più pallida idea se la cosa avrebbe potuto funzionare, con un dio non appartenente a quel pantheon, né tanto meno come metterlo in pratica… o, in ogni caso, se a te sarebbe stato bene» scrollò le spalle Liza.

Litha sorrise a una orgogliosa Iris, asserendo: «Mi piace, questa ragazza. Potrei anche portarmela in Irlanda come consigliera, dopotutto.»

Liza impallidì leggermente, a quella notizia e Iris, scoppiando a ridere di fronte al suo fondato timore, esalò: «Oddio, credo che Lucas si infurierebbe, se tu gli portassi via la sua nuova Geri 2.0. E poi, c’è anche un problema sentimentale di mezzo.»

«Oh, già… il ragazzo ferito» ammise Litha, pensierosa. «Comunque, manie di possesso a parte, dovrete mandare giù una pillola amara, per poter ottenere la libertà da quella akhlut. In tutti i sensi.»

«Se servirà a salvarci da quella strega, sarei disposta anche a camminare nuda in mezzo al paese» borbottò Chanel prima di sorridere speranzosa in direzione di Litha e aggiungere: «Senza di lei, io non sarei qui e, anche solo per questo, le devo la mia gratitudine a vita. Se, come ci sta dicendo, esiste la possibilità di evitare di diventare schiavi di quella pazza, allora le sarò doppiamente grata e farò tutto quello che ci chiederà, senza alcun problema.»

Iris e Dev le tributarono un caloroso sorriso e Litha, scossa suo malgrado dall’enorme fiducia che quella giovane le stava concedendo, le si avvicinò per carezzarle una spalla con fare confortante e dichiarò: «Mi piacciono sempre di più, queste ragazze. Potrei davvero abituarmi male, con voi due. Inoltre, cara Chanel, dammi pure del tu. Non c’è alcun bisogno di essere formali.»

«Di’ loro quello che le aspetta, invece di gongolare» le ricordò simpaticamente Dev.

«Non volevo sgomentarle immediatamente ma, visto quanto mi sembrano determinate, non ha senso procrastinare oltre» ammise Litha, tornando seria. «Visto che siete state ferite dall’amarok di quella tizia, lei avrebbe un diritto di prelazione su di voi, per così dire ma, impedendole di compiere il rito di Iniziazione con lei, spezzeremo questo vincolo. Al suo posto, ne creeremo uno nuovo con me, perciò dovrete bere il mio sangue, così che io sia legata a voi, e io dovrò bere il vostro perché il cerchio si completi.»

Liza e Chanel si guardarono dubbiose per alcuni attimi senza fiatare dopodiché, con un cenno di assenso, dichiararono: «Okay. Se basta questo…»

A quel punto, Litha le fissò allibite e domandò: «Ma… vi rendete conto di quello che ho detto? Non ho parlato di Coca-Cola, o di Brunello di Montalcino.»

Chanel a quel punto si fece malinconica e replicò: «Fergus avrebbe donato anche un rene, pur di non rimanere vittima di quei mostri, perciò io posso ben passare sopra a qualche goccio di sangue, le… ti pare? Lo devo anche a lui.»

Litha, allora, la strinse in un abbraccio caloroso e mormorò roca: «Renderemo onore insieme al coraggio dimostrato dal tuo amico, te lo prometto, e stavolta non fallirò. La distruggerò per te e per lui.»

«Grazie» sussurrò Chanel, tremando tra le braccia della dea.

Nell’annuire, Litha si volse a mezzo per scrutare Iris, che assentì e, rivolta alle due ragazze, definì con loro il piano che avrebbero seguito.

«La notte del plenilunio, se tutto va come deve, muterete in amarok e Litha vi sigillerà. E’ anche probabile che l’akhlut tenti di colpirci proprio durante il vostro primo mutamento per poter procedere alla medesima cerimonia, ma ci sarò io a proteggervi.»

«Userai il potere del lændvettir?» domandò turbata Liza.

Iris annuì recisamente, lo sguardo ora cupo e determinato e, rivolta a Chanel, aggiunse: «Ti ritroverai a essere testimone di qualcosa di molto simile a un uragano controllato, perciò non ti spaventare. L’energia che sprigionerò rimarrà saldamente nelle mie mani, perciò non ti succederà nulla.»

Lei assentì coraggiosamente, pur tremando tra le braccia di Litha e, con un mezzo sorriso, domandò: «C’è la possibilità che, una volta mutata in… in un lupo, io possa tentare di farvi del male?»

«Purtroppo non lo sappiamo, Chanel ma, qualsiasi cosa succeda prima del sigillo di Litha, non dovrai preoccuparti di nulla. Saremo lì per aiutarvi, e non avrà importanza se, nel farlo, ci scapperà anche qualche graffio» le rispose rassicurante Iris, avvicinandosi per stringerle con forza una mano.

Chanel vi si aggrappò come se temesse di affogare e, con un sospiro tremulo, mormorò: «Vorrei davvero dirlo almeno a mia madre ma, finché non sarò sicura di ciò che diverrò, non metterò mai in pericolo i miei genitori.»

«In ogni caso, qualsiasi cosa succeda, noi saremo sempre e comunque la tua famiglia acquisita» dichiarò Dev, annuendo fiducioso al suo indirizzo. «Nel branco ci si aiuta sempre e, anche se voi sarete lupi un po’ diversi, ne farete comunque parte. Non sarete mai soli

Chanel annuì più volte mentre Liza, scendendo dal letto per raggiungerla, la abbracciò a sua volta e disse: «Vedrai che andrà bene. Ce la faremo.»

Lei mormorò un assenso contro la sua spalla prima di risollevarsi coraggiosamente e dire: «Andiamo a dirlo a Mark. Lui è quello nella situazione peggiore, per via di suo padre, perciò dovremo sostenerlo noi.»

Litha non poté che annuire orgogliosa, e tenendola sottobraccio, la accompagnò con passi cauti fino all’ala dove si trovava Mark. Dopotutto, la ferita alla testa era ancora in via di guarigione, e non era davvero il caso di farla sforzare più del necessario.

Inoltre, nei confronti di Chanel, Litha si sentiva particolarmente in dovere di essere protettiva e gentile. Da ciò che aveva saputo per bocca di Iris, quella ragazza non soltanto aveva appena perso il ragazzo di cui era innamorata, ma si era dovuta scontrare nel modo peggiore con segreti e bugie in cui tutti loro vivevano da sempre.

Era stata sbalzata al suo interno con uno spintone ben piazzato, e con ferite che avrebbero sgomentato persone ben più adulte di lei ma, nonostante tutto, aveva accettato e compreso. Non era impazzita per l’ansia o l’incredulità, aveva dato piena fiducia all’amica e ai suoi tutori e, non da ultimo, ora aveva messo nelle mani di una sconosciuta la sua stessa esistenza.

Anche solo per questo, Litha avrebbe messo in gioco tutta se stessa, per darle la migliore qualità di vita possibile.

Non appena raggiunsero la stanza di Mark, quindi, la dea le diede un bacetto sui capelli a mo’ di incoraggiamento, dopodiché aprì la porta e scrutò all’interno.

Trovandovi una donna bruna che, sorpresa, si levò dalla sedia dov’era accomodata per salutarli, la dea entrò al pari degli altri dopodiché, nel chiudere la porta, domandò: «Posso parlare liberamente?»

Iris e Dev assentirono mentre Liza e Chanel si recavano caracollanti fino al letto di Mark. Diana, a quel punto, li fissò con espressione speranzosa e chiese: «Avete scoperto qualcosa?»

Litha, allora, si presentò sia a Diana e che a Mark – che ancora non l’aveva vista – e, dopo aver brevemente presentato il problema in merito al legame obbligato che l’amarok doveva avere con un dio, espose la sua proposta.

Ovviamente, sapere della divinità di Litha portò a numerosi sospiri increduli e diverse occhiate sconcertate ma, alla fine, Diana mormorò: «Se qualcuno mi avesse detto che avrei fatto così tante scoperte in merito a un mondo parallelo che ci camminava a fianco, lo avrei preso per matto. Neppure vado in chiesa, io!»

Ciò detto, rise nervosamente nel lasciarsi cadere sulla sedia che aveva occupato fino ad alcuni minuti addietro e Litha, dandole una pacca sulla spalla, asserì gentilmente: «Se la può consolare, signora Sullivan, la sottoscritta neppure sapeva di avere sangue divino nelle vene, perciò si figuri.»

Stretto alle mani di Chanel e Liza, Mark allora domandò teso: «Quindi, se ho capito bene, noi diverremmo il suo… ehm, tuo lungo braccio?»

«In linea teorica, sì. In realtà, sarete soltanto liberi dal giogo di akhlut, perché io non vi imporrò mai nessun tipo di restrizione, se non evitare di fare del male alla gente» sottolineò Litha, scrollando le spalle.

«E, in merito alla nostra… dieta?» chiese preoccupato il giovane, mettendo a parole le paura di tutti.

«Intendi la carne umana? Quella serve ad akhlut per immagazzinare energia. Lei necessita di carne umana per sopravvivere sulla terraferma, ma non in maniera diretta. Per questo non caccia praticamente mai. Lo fa solo quando è strettamente necessario, e solo attorno al suo nido, per così dire» spiegò loro Litha, sorprendendo tutti i presenti. «Le serve l’energia vitale sviluppata dall’amarok, che lui le dona a ogni loro ritorno al nido. Lui, perciò, si ciba di proteine umane perché akhlut ne ha bisogno, ma gli amarok non hanno simili restrizioni alimentari.»

Chanel deglutì a fatica, rammentando fin troppo bene quando l’amarok aveva affondato il muso nel ventre di Fergus e Litha, spiacente, aggiunse: «Mi rincresce essere stata così diretta, ma era il modo migliore per comprendere il meccanismo che lega amarok e akhlut. Tolta la necessità di fornire energia vitale ad akhlut, viene meno anche il primo punto. Io non ho bisogno di voi, per sopravvivere, perciò la vostra dieta sarà normalissima.»

«Beh, se anche avessero dovuto recarsi in Alaska per forza, non sarebbe stato un grosso peso da sopportare» dichiarò Diana, sorridendo speranzosa al figlio.

Lui assentì e, nel sorridere a Liza, mormorò: «Forse, dopotutto, non diventeremo belve sanguinarie.»

«Forse…» mormorò lei prima di volgere pensierosa lo sguardo verso la finestra della stanza per scrutare il bosco che si estendeva oltre Clearwater.

Mark si avvide subito del suo incupimento ma, trattandosi di una riunione fin troppo affollata, preferì non chiederle subito i motivi di un tale cambiamento d’umore.

Quanto a lui, era rasserenato all’idea di non dover diventare lo schiavo di colei che aveva ordito la morte di suo zio e il ferimento di sua madre e, per quanto la mancanza del padre gli pesasse, non aveva davvero tempo per preoccuparsene.

Gli eventi che lo avevano portato in quell’ospedale si stavano rincorrendo a una velocità folle, ed era difficile star loro appresso senza impazzire. Era stato già complesso accettare la verità sul mondo in cui viveva Liza, ma entrare a farne parte a gamba tesa come avrebbero fatto loro, era a dir poco incredibile.

Ovviamente, lui sapeva poco o nulla in merito a Litha macElathain. Avendo però la totale fiducia di persone molto più addentro di lui in quel mondo di misteri, era dell’idea che non lo avrebbero mandato allo sbaraglio con una persona non meritevole.

Inoltre, gli occhi di quella donna gli sembravano buoni e gentili, e il modo in cui si era presa cura di Chanel durante tutta la sua dissertazione, lo aveva rasserenato.

Non riusciva neppure a immaginare cosa volesse dire, per l’amica, aver perso Fergus in modo così brutale, e scoprire tra capo e collo dell’esistenza di un intero universo che camminava – non conosciuto – proprio accanto a loro.

Chanel, però, si era mantenuta stoica e forte e, pur se prevedeva che, prima o poi, un crollo sarebbe giunto, Mark confidò che lui e Liza avrebbero potuto, in qualche modo, esserle d’aiuto.

Dopotutto, non sarebbe diventata un’amarok in totale solitudine. Anche lui e…

Nel concepire quell’ultimo pensiero, Mark si bloccò per scrutare il profilo ancora pensieroso di Liza, iniziando a subodorare le motivazioni della preoccupazione che l’avevano ammutolita di colpo.

Fu comunque dopo l’uscita degli adulti – impegnati in una discussione su come predisporre al meglio la cerimonia al Vigrond – che Mark si arrischiò a chiedere: «Hai paura di non diventare un amarok

Liza sobbalzò a quella domanda e Chanel, scrutando curiosamente sia l’amico che l’amica, chiese a sua volta: «Perché dovresti pensarlo, scusa? Ormai è assodato che il problema che aveva con il DNA dei licantropi, non esiste con quello dell’amarok.»

La giovane Geri sospirò demoralizzata, si appoggiò al letto di Mark per reclinare il capo contro la spalla di lui e, rivolta a Chanel, disse: «So che tutti continuano a dire che anche il mio odore è mutato e che percepiscono in me un cambiamento, ma la paura di… fallire è ancora tanta.»

Chanel le sorrise comprensiva, replicando: «Ma non dovrebbe renderti felice, l’eventualità di poter evitare questo problema?»

«So che è sciocco, ma…» sospirò Liza, nascondendo il viso tra le mani e cercando di trattenersi dal piangere.

Era davvero da sciocchi impuntarsi su un particolare simile, eppure non riusciva a scacciare il pensiero che se, anche in quel caso, la mutazione non fosse avvenuta, lei si sarebbe sentita menomata.

Chanel, allora, le sfiorò una spalla con la mano e, sorridendole comprensiva, mormorò: «Non so ancora molto del mondo in cui hai vissuto tu da un anno a questa parte, ma immagino che avere un ruolo come il tuo, e addestrarsi per combattere contro creature tanto più potenti di te, ti faccia sentire in qualche modo inferiore… non abbastanza adatta al compito. Per questo vorresti riuscire a mutare, giusto?»

Liza risollevò il capo per scrutarla piena di contrizione ed esalò: «Non dovresti essere tu, a consolarmi, Chanel! Sei tu quella che ha subito il colpo più duro di tutti.»

Lei allora si assise sul letto accanto all’amica, scrollò una spalla e ribatté: «Forse. Ma va detto che tu stessa hai subìto un colpo durissimo. Hai affrontato, da sola, un mostro di cui non conoscevi nulla, e l’unica arma adatta ad abbatterlo ti ha costretto ad avvicinarti in maniera orribile al tuo nemico. Ti sei scontrata in ogni caso contro di lui per salvare tre persone con le tue sole forze, pur sapendo di essere più debole del tuo avversario. Sei rimasta ferita e hai rischiato di perdere il ragazzo che ti piace, oltre alla tua stessa vita. Non è stata una passeggiata neppure per te, credimi.»

«Eppure, riesco a essere abbastanza egoista da sperare di diventare un lupo» sbuffò Liza, accigliandosi.

Chanel, allora, sorrise divertita e, ammiccando a Mark, disse: «Credo sarebbe meglio anche per il tuo ragazzo, se tu fossi come lui.»

«Già, è vero» ammise Liza, arrossendo suo malgrado. «Mi sto abbattendo per nulla… l’ospedale mi fa un effetto schifoso.»

«Oh, credimi. Non sei l’unica a sentirsi strana» dichiarò Chanel sollevando le mani leggermente tremanti per mostrarle agli amici. «Sono convinta che, non appena questa fase di ansia perenne sarà scemata, crollerò in un angolo e piangerò per settimane ma ora, semplicemente, non riesco a farlo. E’ come se tutto si fosse bloccato dentro di me, come se non fossi ancora in grado di piangere per Fergus, o per me stessa.»

Il quieto bussare alla porta della stanza di Mark li portò a volgere il capo all’unisono, bloccando di fatto qualsiasi replica. Quando poi, sull’entrata, videro la figura alta e slanciata del dottor Cooper fare capolino, la sorpresa si rese manifesta sui loro giovani volti.

Il sorriso sincero del medico li tranquillizzò – evidentemente, non c’erano brutte notizie nell’aria – e, quando egli si fu lasciato la porta alle spalle, esordì dicendo: «Ai vostri familiari l’ho appena detto, ma è giusto che sappiate anche voi.»

Curiosi, i tre giovani lo scrutarono pieni di aspettativa e Douglas, ammiccando loro, picchiettò un dito sulla cartella che teneva in mano e aggiunse: «Sono arrivati i risultati delle analisi comparative che ho spedito a Brianna, e pare si sia riusciti finalmente a capire come – e perché – l’amarok abbia mutato solo voi e non le altre vittime sopravvissute agli attacchi.»

Liza e Chanel corsero a guardare Mark che, turbato, domandò: «E’… è una cosa brutta? Non essere stati mutati, intendo.»

Accentuando il proprio sorriso, Douglas scosse il capo e replicò: «Tranquillizzati. Tua madre è sana come un pesce. E’ piuttosto una questione di sangue, ragazzi. Voi tre, siete AB positivi.»

Strabuzzando gli occhi per la sorpresa, i tre si fissarono increduli e il dottore, mostrando loro i risultati delle analisi, terminò di dire: «Siete dei riceventi universali, come ovviamente saprete già ma, a quanto pare, è anche il viatico necessario perché un amarok possa mutare un umano. Tua madre, Mark, è A positivo, mentre gli altri tre uomini colpiti dall’amarok erano, rispettivamente, B e 0. Solo in questo modo, l’amarok ha potuto mutarvi.»

Chanel scoppiò in una risatina isterica, si coprì la bocca per non esplodere in una risata più forte e, nell’abbracciare gli amici, si sentì un po’ meno confusa, un po’ meno persa in quell’universo assurdo.

Almeno in quel particolare caso, poteva capire e assimilare senza difficoltà le nozioni che le erano state snocciolate con tono pratico e scientifico. Erano cose tutto sommato …normali.

Spontanee, le mani di Mark e Liza la strinsero a sua volta e Chanel, sorridendo grata, si appoggiò all’amica creando un cerchio ideale tra loro.

Dopotutto, forse, non sarebbe impazzita e, nella sua nuova vita come amarok, avrebbe avuto due persone sincere al suo fianco, persone che riusciva a capire, ad apprezzare. Ad amare.

Se tutto il resto fosse venuto a mancare, la loro amicizia sarebbe comunque perdurata.



 

 

 

 

 




N.d.A.:  Finalmente si scopre perché i ragazzi hanno potuto essere mutati dall'amarok, ma questo non dissipa del tutto le paure di Liza, Mark e Chanel, che hanno ancora molto a cui pensare. Davvero saranno costretti a diventare belve dissennate, o basterà sul serio l'intervento di Litha, per eliminare questa variabile?

  
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