19.
La
forza con cui Diana sbatté la porta di casa fece sobbalzare
Donovan, assiso su
una poltrona nei pressi del bow window
e con il volto racchiuso dalle mani tremanti.
L’abitazione
era avvolta nel buio più totale – le luci avevano
così urtato Donovan da averlo
spinto a spegnere tutto – e, quando Diana pigiò
l’interruttore del salotto,
l’uomo socchiuse dolente le palpebre di fronte al lampadario
nuovamente acceso.
Nel
vederlo pallido e smunto, Diana provò un moto istintivo di
pena ma, pur amando
l’uomo che stava squadrando da capo a piedi, si convinse a
essere dura quanto
decisa. Ne andava della salute mentale di Mark, e non solo del marito.
«Dovrei
riempirti di calci sul sedere, Donovan Amedeus Sullivan,
perché non meriteresti
altro che questo e, se non fosse che mi rovinerei la protesi nel farlo,
comincerei dal mio piede dominante, anche se non ce l’ho
più!» sbottò la donna,
gettando la borsetta sul divano per poi affrontare il marito a muso
duro.
Donovan
non sollevò lo sguardo per affrontarla, limitandosi a
sospirare fiacco. Erano
quattro giorni che tentava di uscire dall’incubo in cui era
caduto, non appena
aveva saputo la potenziale verità su Mark, ma nulla era
valso allo scopo.
Stando
a Christal, così come agli altri licantropi – dio,
licantropi! – che avevano
parlato con lui in quegli interminabili giorni passati
dall’incidente, Mark
sarebbe diventato un amarok al
prossimo cambio di luna.
La
stessa creatura che aveva dilaniato suo fratello, sua cognata e la sua
amata
nipote.
La
stessa creatura che aveva strappato la gamba a Diana e che, per poco,
non
l’aveva uccisa.
La
stessa
creatura
che lo aveva spinto per anni e anni in giro per mezzo continente, nel
vano
tentativo di trovarla e ucciderla.
Non
poteva accettarlo. Era davvero troppo, per lui, e poco importava se
altri lupi
lo tenevano d’occhio perché non perdesse la testa
e si mettesse a parlare in
giro di mannari grandi come cavalli, o quant’altro.
Che
lo divorassero pure, se lo ritenevano un pericolo. A quel punto, non
sapeva più
cosa farne della propria vita.
Aveva
cercato per anni l’assassino di suo fratello, e ora che aveva
rinunciato a
tutto e aveva ritrovato suo figlio, Mark sarebbe divenuto come
quell’essere
spregevole, che si cibava di carne umana per sopravvivere.
Lo
schiaffo di Diana giunse a sorpresa, facendogli sollevare di colpo il
viso per
poi costringerlo a fissarla con aria addolorata e persa.
Lei
non si fece però impietosire da quello sguardo –
nonostante stesse bruciando
dentro per la rabbia e il rimorso – e, furiosa, gli
urlò contro: «Tuo figlio
pensa che lo odi! Se non fosse per quelle due ragazze che lo tengono
lontano
dal baratro, lo avremmo già perso!»
«Non
ce la faccio, Diana…» mormorò lui,
atono.
Diana
sgranò gli occhi in preda all’ira più
nera e, ancor più forte, gridò: «Non ce la fai?! Cosa dovrebbe dire,
Mark?! Cosa dovrebbe dire, tuo figlio,
che si ritrova a dover diventare una bestia dissennata senza averlo mai
voluto?! Liza si è sacrificata per salvarmi, per
salvare tuo figlio, e tu non l’hai neppure
ringraziata, e ora
anche lei dovrà soccombere alla stessa sorte del nostro
ragazzo!»
«Ci
ha mentito! A questo non pensi?!» sbottò a quel
punto Donovan, levandosi in
piedi per poi camminare nervosamente avanti e indietro per il salotto.
Diana
si incupì in volto e asserì caustica, ma con tono
più controllato: «Lo avresti
fatto anche tu, per difendere chi ami. Inoltre, ha dimostrato di tenere
molto a
Mark, visto che lui sapeva tutto.»
Donovan
la squadrò più che mai sorpreso e lei, annuendo,
proseguì nel suo dire.
«Me
lo ha confessato Mark, mentre Liza combatteva per salvarci. Si
confidò con lui proprio
perché non voleva più mentirgli.
Con la tua crociata personale hai messo in pericolo un sacco di persone
che,
per parte loro, si sono dovute difendere in qualche modo ma che, messe
di
fronte a un nemico comune, non hanno badato a nascondersi pur di proteggerti. E lo devi a Liza. Lei ha spinto perché ti
proteggessero.»
L’uomo
si azzittì di colpo, di fronte a quella confessione e Diana,
ora più calma,
terminò la sua arringa con un mormorio sommesso e a capo
chino, stanca di
affrontare quella stessa litania ormai da giorni.
«Tutti
noi stiamo aspettando e pregando che coloro che si stanno prendendo
cura dei nostri
ragazzi riescano a capire come aiutarli, ma sarebbe importante che
dessi anche tu il tuo sostegno, e
non ti
limitassi a piangerti addosso. Non era un vile, l’uomo di cui
mi innamorai.»
Ciò
detto sospirò e se ne andò in cucina per
preparare qualcosa per cena, non
avendo più a cuore di rimanere nella stessa stanza assieme
al marito.
Ricordava
più che bene il giorno in cui si erano conosciuti, e come
lui le fosse sembrato
un padre attento e amorevole. Aveva redarguito Mark per la marachella
commessa,
ma si era poi premurato di accertarsi che stesse bene e che non si
fosse
spaventato troppo.
Dopo
quel primo episodio, si era poi preso il tempo di accompagnarlo ogni
giorno a
fare dei brevi giri nel centro commerciale dove lei lavorava e, da quel
momento, avevano potuto approfondire la loro conoscenza.
Solo
in seguito aveva scoperto a cosa Donovan si fosse dedicato per tanti
anni e,
complice il sentimento di rivalsa che l’aveva mossa fin dal
giorno
dell’incidente, si era detta disposta ad aiutarlo.
Insieme
avevano lavorato spalla a spalla per mesi, studiando su libri e
riviste,
consultando internet e sfogliando vecchi articoli di giornale raccolti
nelle
biblioteche.
Diana
aveva avuto così modo di innamorarsi della sua grinta e
della sua perseveranza,
dei suoi modi gentili con il figlio e delle attenzioni che lui le
tributava.
Allo stesso modo, Donovan aveva aperto il proprio cuore a un nuovo
amore e,
quando la pista si era raffreddata e avevano dovuto decidere sul da
farsi, per entrambi
era stato semplice.
A
lui, di chiedere che partisse con loro, a lei, di partire lasciandosi
tutto
alle spalle.
Aveva
mollato tutto e si era unita a Donovan e alla sua causa. Era diventata
a tutti
gli effetti la madre che Mark aveva perso a causa di quella crociata e,
insieme, avevano girovagato per gli Stati Uniti in cerca di prove.
Della
verità.
Ogni
volta, avevano ricominciato a vivere in un posto diverso, con persone
sempre
nuove ma, volendo così bene sia a Donovan che a Mark, non le
era mai pesato.
Vederlo
ora, distrutto e senza più valori in cui credere, la faceva
soffrire più del
sapere Mark in ospedale e pronto a diventare una creatura di cui
nessuno sapeva
nulla.
Capiva,
coscientemente, quanto il sapere suo figlio destinato a diventare la
stessa
creatura che aveva distrutto la sua famiglia, lo turbasse, ma non
poteva cedere
proprio in quel momento. Mark aveva bisogno di lui, di saperlo dalla
sua parte.
***
“Come
stai,
mamma?”
domandò Muninn, appollaiato fuori dalla stanza
d’ospedale dove si trovavano
Liza e Chanel.
Liza
aprì gli occhi con calma, riprendendosi dal dormiveglia che
l’aveva presa dopo
aver chattato con suo padre e sua sorella per almeno un’ora.
Aveva
dovuto insistere fino allo sfinimento, perché non partissero
da L.A. per
raggiungerla e, pur se comprendeva la loro ansia, non li voleva
lì a preoccuparsi.
Desiderava che si concentrassero sul lavoro, e che portassero avanti la
loro
vita senza metterla in stand by a
causa sua. Finché non
avessero saputo
qualcosa di più preciso, era perfettamente inutile che la
seguissero in
quell’incubo assurdo.
Bastava
sua madre a renderla più tranquilla, a farle capire coi fatti quanto tutti loro fossero
emotivamente coinvolti
dall’accaduto.
Sorridendo
spontaneamente nel volgersi a mezzo, la guardò con dolcezza,
addormentata su
una poltrona dell’ospedale mentre teneva tra le mani un libro
aperto più o meno
a metà e che, entro breve, sarebbe crollato a terra.
Scivolando
fuori dal letto, perciò, glielo tolse lentamente dalle mani
per poggiarlo sul
comodino dopodiché, con un sorriso rivolto alla finestra,
disse: “Tutto sommato, mi sento
bene. I punti
tirano da impazzire, ma gli antidolorifici sono una manna dal cielo. Il
dottor
Cooper mi ha detto che mi resteranno delle affascinanti cicatrici di
battaglia.”
“Huginn
era
preoccupato che tu potessi non dormire, visto che…
insomma…”
“Visto
che non
abbiamo la più pallida idea di quel che mi
succederà?” disse per lui
Liza, sorridendo nell’oscurità della stanza. “Dov’è, tra
l’altro, adesso?”
“Pattuglia
costantemente la foresta, visto che io non posso ancora volare
bene”
le spiegò
Muninn. “Ha il terrore che quella
bestia
dissennata possa tornare ma, forse, non sopporta l’idea che
io sia stato
ferito. Tende a essere un fratello piuttosto protettivo.”
Il
tono di Muninn fece sorridere divertita Liza, che assentì
tra sé. Dei due, Huginn
era sicuramente il corpo più maturo, e non faceva specie che
si preoccupasse
tanto per il gemello.
Volgendo
lo sguardo per scrutare la sua compagna di stanza, la trovò
saporitamente
addormentata, forse aiutata dai calmanti che il dottore le aveva
prescritto.
Oppure – ed era anche possibile – Chanel era
così stordita dall’intera
situazione da non avere più le forze per reggere una veglia
prolungata.
“Noi
ti staremo
comunque accanto” sottolineò
Muninn con tono convinto.
“Te
ne sono
grata, ma non sappiamo come sarò dopo, amico
mio” sottolineò lei, tirandosi le
ginocchia al petto per poi
poggiarvi sopra il mento.
“Sarai
sempre la
nostra mamma” precisò
Muninn.
Liza
allora sorrise mesta, si deterse una lacrima ribelle dalla gota e
disse: “Farò di tutto
perché voi continuiate a
essere i miei corvi.”
Il
corvo gracchiò dolente e si involò a fatica per
tornare a casa; era ancora
convalescente dopo le ferite subite dall’amarok,
e nessuno in famiglia voleva che rimanesse lontano per troppo
tempo.
Pur
se era stato curato egregiamente dal dottor Johnson, Muninn doveva
lasciare
tempo al tempo e pregare che l’ala riprendesse forza in
fretta.
Con
un sospiro, Liza percepì distintamente il collegamento con
Muninn farsi sempre
più labile e, dentro di sé, pregò che
non dovesse succedere per sempre.
Sarebbe
stato uno shock perdere i suoi corvi.
Tentando
quindi di rilassarsi contro i cuscini – era inutile
congetturare a vuoto –
sobbalzò sorpresa, però, quando vide Mark
spuntare sulla soglia della stanza.
Sibilò
per lo sgomento, sgusciò fuori dal letto per poi zoppicare
fino a raggiungerlo
e lì, afferratolo per i bordi della felpa che portava sulle
spalla, borbottò:
«Che ci fai fuori dal letto?! Ti ricordi che ti hanno
ricucito l’addome, o
no?!»
Scortatolo
poi fuori dalla camera, raggiunsero in silenzio la sala
d’aspetto – in quel
momento vuota – e, sotto lo sguardo indulgente di un paio di
infermiere, lì si
sedettero.
«Che
avevi in mente di fare, sentiamo?!» protestò in un
sibilo Liza.
Lui
non disse nulla, limitandosi ad abbracciarla e la giovane, con un
sospiro
tremulo, si lasciò andare contro di lui, trovando il suo
calore e la sua sola
presenza davvero insostituibili.
In
quei giorni, complice le loro condizioni, il via vai di medici e
parenti,
avevano avuto davvero poco tempo per stare assieme, perciò
Liza apprezzò in
particolar modo quella piccola fuga dalla camera. Desiderava stare con
lui,
condividere tutto con lui, e quella separazione forzata le pesava,
perciò era
felice che Mark avesse evidentemente corrotto le infermiere per venire
a farle
visita fuori dall’orario consentito.
«Altri
dieci minuti, poi vi rispedisco in camera, va bene?»
sussurrò loro
un’infermiera di passaggio.
I
due assentirono, limitandosi a rimanere stretti l’un
l’altra. Cosa potevano
dirsi, d’altronde, in quel luogo in cui le infermiere
presenti potevano
sentirli?
Non
potevano parlare dei loro dubbi, delle paure che li tenevano svegli la
notte, o
del dolore che Mark stava provando a causa della mancanza di suo padre.
Personalmente,
Liza avrebbe voluto prenderlo per i capelli e trascinarlo di peso in
ospedale,
ma a lui aveva preferito non dirlo. Trovava che il professor Sullivan
si stesse
comportando in modo scorretto, con il figlio che, dopotutto, pagava a
causa del
suo affetto per lei, ma di certo non meritava un simile ostracismo.
«Sai
una cosa?»
«Dimmi»
mormorò Liza, levando il viso a scrutarlo.
«Non
ti ho ancora invitato fuori a mangiare qualcosa» disse lui,
sorridendole nel
darle un bacio sulla punta del naso.
Lei
sorrise, apprezzando quel suo tentativo di voler apparire tranquillo e
pronto
ad affrontare la loro novella storia d’amore con fiducia e
serenità. Sapeva
comunque quanto tutto ciò fosse un mascheramento, quanto le
sue parole
intendessero tranquillizzare lei,
non
tanto se stesso.
Annuendo,
lei poggiò quindi il capo contro la sua spalla e ammise:
«Mi piacerebbe andare
dove Iris ha fatto il suo addio al nubilato. Io non potei andare
perché organizzarono
uno spogliarello e, visto che…»
Spalancando
occhi e bocca in quel preciso istante, si raddrizzò di colpo
e disse sgomenta:
«Oddio! Domani compi diciassette anni!»
Lui
le sorrise divertito, un po’ sorpreso che se lo fosse
ricordato, mentre
un’infermiera alla reception le sorrideva complice e con aria
ammiccante,
facendole cenno di non alzare troppo la voce.
«Già.
Finalmente ti ho raggiunto» dichiarò lui,
sottolineando in modo ironico quel
particolare sull’età.
Liza
assottigliò immediatamente le palpebre per fissarlo
malissimo e borbottò: «Con
questo, cosa vorresti insinuare?»
«Io?
Nulla. Ho solo notato che sei più vecchia di me di nove
mesi, tutto qui»
ironizzò lui, ammiccando al suo indirizzo.
«Non
è colpa mia se li compio a gennaio»
brontolò lei, intrecciando le braccia sotto
i seni con fare sostenuto.
«Lo
so…infatti, la mia era solo una constatazione.»
«Siamo
nati nello stesso anno, perciò non fare tanto il
sostenuto» disse lei, spiccia.
«Sì,
ma tu saresti un anno avanti a me, se non avessi ricominciato la prima
liceo.
Comunque, per me va benissimo. Ho sempre sognato di mettermi con una
donna più
vecchia di me» disse ancora lui, sempre più vicino
a uno scoppio di risa.
«Vecchia?!»
sibilò Liza, facendo tanto
d’occhi di fronte a quell’esternazione.
«Tu guarda cosa…»
Non
giunse mai alla fine della frase.
Mark
la colse di sorpresa, baciandola con un certo trasporto e togliendole
di fatto
tutto il fiato che aveva nei polmoni. Lei ansimò per la
sorpresa, avvampò a
causa della presenza delle infermiere – che tentarono in
tutti i modi di
rendersi invisibili – e, ormai allo stremo, si
scostò da lui ed esalò: «Ma che
fai?!»
«Mi
andava di farlo, scusa. Non siamo mai soli, ultimamente, e
allora…»
«Neppure
ora, lo siamo» sottolineò lei, coprendosi il volto
con le mani. Ma perché si
imbarazzava tanto? Dopotutto, non avevano fatto nulla di male.
«Lo
vorrò anche dopo… sempre»
le sussurrò
lui all’orecchio, raggelandola.
«Mark…»
esalò lei, mentre il giovane si levava dalla poltroncina per
tornare nella sua
stanza.
Lui
ammiccò al suo indirizzo e, senza darle il tempo di
replicare, se ne andò.
Liza
rimase ferma a guardarlo allontanarsi e, per un istante, temette che
fosse un
addio. Forse Mark temeva che, una volta divenuto un amarok,
anche i suoi sentimenti per lei sarebbero mutati,
facendogli dimenticare ciò che li legava e, con quel bacio,
aveva voluto
rassicurare entrambi in qualche modo.
Sospirando
affranta, Liza si strinse le braccia al petto e, silenziosa,
tornò in camera a
sua volta. Anche lei sperava con tutto il cuore che, una volta compiuto
ciò che
si doveva compiere, i sentimenti per lui non mutassero.
Il
punto, però, era un altro. Se anche si fossero voluti ancora
bene, sarebbero
diventati schiavi di akhlut?
***
Nuda
nel fiordo, akhlut stava
rigenerandosi con le poche energie che era riuscita ad acculumare
dentro di sé,
tramite il collegamento simbiotico con il suo amarok.
Prima della sua morte, lui aveva divorato quel giovane e,
grazie al loro legame, lei aveva potuto incanalare dentro di
sé quell’energia,
portarla fino al nido per trasmutarla e ritemprare così le
sue forze.
Aver
intrapreso prima del tempo quella campagna contro i licantropi, si era
dimostrato un errore. Non era stata in grado di trasmutare totalmente
l’energia
raccolta dall’amarok in
linfa vitale
per sé, e questo l’aveva resa più
debole e sì, sciocca.
La
scelta, però, era stata sua. Il desiderio di uccidere prede
tanto succulente –
e che le avrebbero donato una forza immensa – era stato
troppo, per lei, e così
era giunta a peccare.
La
presenza di una divinità Tuatha, poi, l’aveva
colta di sorpresa, scombussolando
ulteriormente i suoi piani.
Ora,
però, grazie ai ragazzi feriti dal suo amarok,
avrebbe avuto la possibilità di avere al suo comando almeno
un nuovo schiavo.
Quando aveva avvertito sulla lingua il sapore del sangue di quei
giovani –
attraverso il legame con il suo servo – aveva compreso.
Sarebbero mutati, di
questo era stata subito certa.
Ben
presto, avrebbe perso la possibilità di allontanarsi dal
nido, di predare da
sola le creature umane e, senza un amarok,
sarebbe tornata a riprendere le sembianze di una comune orca. Quei
ragazzi
erano la sua ultima speranza di rimanere sulla terraferma.
Per
quanto l’irritasse ammetterlo, l’età era
ormai un peso immane, per lei, e non
aveva più la forza di apporre la propria magia sugli umani
predestinati perché
divenissero amarok. Quanto a
quelli
creati da Qiugyat, erano diventati
così rari da essere praticamente introvabili, e
perciò a lei del tutto banditi.
Non
voleva tornare a essere un’orca dalla vita limitata! Se
proprio doveva morire,
lo avrebbe fatto come il suo antico e amato compagno.
Sakar
era morto in età avanzata, ma ancora in grado di prendere la
forma di lupo. Il
suo ultimo amarok era deceduto da
tempo, impedendogli di fatto di proseguire oltre con la sua vita sulla
terraferma, e lei non aveva potuto offrirgli i servigi del proprio
schiavo
perché si salvasse.
A
causa del legame di sangue con cui l’umano prescelto veniva
mutato in bestia, un amarok
poteva infatti seguire un solo padrone, durante il corso
della propria
esistenza.
Pur
di non tornare all’acqua e alla vita mortale di
un’orca qualunque, Sakar si era
quindi dato la morte onorevolmente, lasciando che la sua lunga
esistenza si
interrompesse solo per sua mano, e non per volere del Fato.
Sakar
aveva vissuto per quasi diciottomila anni, aveva visto crescere e
distruggersi
centinaia di civiltà umane, si era scontrato coi fomoire per il predominio sui mari ma,
infine, si era stabilito definitivamente
sulla terraferma come lupo.
Si
era impadronito di diversi amarok
figli di Qiugyat e, bevendo il
sangue
di quelle creature primigenie, era divenuto depositario dei loro
segreti e
perciò in grado di crearne altri.
Qiugyat
nulla
aveva
potuto, di fronte alla sua forza. Lei si era dimostrata debole, al suo
confronto, legata all’amore delle genti come loro, invece,
non avevano mai
avuto bisogno di essere.
L’energia
vitale degli umani era la sola cosa di cui avevano bisogno, per
rimanere lupi dalla
lunga vita. Il loro unico scorno – e limite – era
sempre stato il legame indissolubile
con il mare e con il fiordo in cui erano nati come orche.
Nessuno
di loro aveva mai potuto abbandonare quei luoghi se non per brevissime
battute
di caccia e, ogni volta, l’acqua era stata il catalizzatore
per poter
utilizzare l’energia delle prede divorate sulla terraferma.
Sakar
e altri akhlut, però,
avevano
scoperto che, tramite gli amarok,
avrebbero potuto allontanarsi maggiormente dal nido, oltre a potersi
cibare di
una quantità maggiore di energia umana. Rimanere al nido
durante le gelide
notti d’inverno, però, era rimasto un imperativo
per non perdere potere sugli amarok.
Durante
un qualsiasi altro periodo dell’anno, avrebbero potuto andare
e venire a
piacimento dal nido, dopo esserci cibati, ma non in inverno,
perciò gli akhlut
avevano fatto in modo di tornarvi
solo in quei lunghi mesi di oscurità.
Durante
le notti invernali, infatti, l’energia di Qiugyat
interferiva con quella degli akhlut
– nonostante la dea avesse perso molti dei suoi poteri
–, rendendo
più debole il legame con gli amarok.
L’unico modo per non perderli, era rimanere al nido e
consolidare il legame con l’amarok.
Quando
lei era nata, Sakar l’aveva voluta al suo fianco come
compagna, le aveva
insegnato a legarsi agli amarok che
lui ancora non aveva catturato e, così facendo, avevano
prosperato per
millenni.
Ben
di rado si erano dati personalmente alla caccia degli umani,
poiché i loro amarok erano
bastati per mantenerli sani
e vitali.
La
loro lunga vita, però, non era infinita e, col passare dei
millenni, Sakar non
era più riuscito a sostituire gli amarok
morti con altri nuovi. Lei era stata costretta a vederlo deperire
sempre più
finché, un giorno, lo aveva visto prendere la via del Denali
per darsi la
morte.
Silente
e disperata, lo aveva visto lasciarsi morire a causa di una valanga.
Quando lo
aveva trovato a pezzi e ormai morto, lei lo aveva vegliato, lasciando
che le
sue preghiere si materializzassero sul suo scheletro come un feretro
protettivo.
Stremata,
aveva quindi mandato la sua ultima amarok
a caccia, così da riprendersi dallo stress causato da quella
cerimonia,
tutt’altro che semplice da portare a termine. Mente e corpo
ne avevano così
sofferto da aver avuto bisogno di una nuova iniziazione di energia e
così, da
quel giorno, lei e la sua amarok
erano rimaste sole.
La
sua vita era dunque proseguita con l’unica compagnia della
sua serva, una
giovane umana di nome Abegail che lei aveva mutato poco prima della
morte del
suo compagno, e che si era rivelata una brava e devota schiava.
Il
tutto era proseguito così per alcuni decenni
finché, a sorpresa, una troupe di
studiosi umani aveva trovato lo scheletro del suo compagno, lo aveva
indebitamente prelevato dal suo luogo di sepoltura e lo aveva portato
via da
lei.
Questo
l’aveva fatta infuriare non poco ma, prima ancora di poter
inviare la sua amarok a cercare i
resti dell’amato, quest’ultima
era morta, investita da un treno merci e letteralmente fatta a pezzi
davanti ai
suoi occhi.
Nella
foga della caccia, non si era accorta del sopraggiungere di
quell’enorme mezzo
umano che, come uno schiacciasassi, le aveva frantumato ossa e carni,
divellendole purtroppo la testa dal resto del corpo. Questo aveva
decretato la
sua fine, e aveva impedito a lei di salvarla.
Nell’osservare
i resti frammentati di colei che le era stata accanto per
così tanto tempo, si
era pentita non poco di averle impedito di crearsi un compagno. Se
ciò fosse
accaduto, lei avrebbe avuto un nuovo servo con cui sostituirla.
A
quel punto, si era vista costretta a dare la morte a diversi esseri
umani entro
i territori ristretti della sua casa natia, dopodiché si era
spinta a sud per
cercare i resti del compagno con le sue uniche forze.
Concentrandosi
al massimo per non sprecare una sola stilla di energia più
del necessario,
aveva vagato per mesi e mesi e, quasi allo stremo, aveva infine trovato
il suo
antico amore.
Il
bisogno di energia, però, era stato tale da costringerla a
creare un amarok nuovo di zecca ma,
per la prima
volta in vita sua, non vi era riuscita.
Questo
le aveva fatto comprendere quanto, anche lei come Sakar, fosse vicina a
diventare così debole da non avere più speranza
di vivere sulla terraferma.
Fortunatamente, però, aveva trovato Cody, morente in un
vicolo di New York e
disposto a tutto pur di vivere ancora.
La
debolezza del suo cuore le aveva permesso, per l’ultima
volta, di avere la
meglio sulla carne umana e, così facendo, aveva dato vita al
suo nuovo amarok.
Da
lì in poi, lei aveva potuto rinascere e tornare ad
assaporare appieno l’energia
vitale degli esseri umani, tanto più saporita e piacevole
della semplice carne
di pesce che avrebbe dovuto mangiare nella sua forma basale di orca.
No,
l’oceano non l’avrebbe avuta ancora per molti
secoli, o forse mai.
Grazie
a Cody e alla sua innata sete di sangue, aveva potuto godere di una
vendetta in
grande stile ma, quando si era resa conto dello stato di contaminazione
delle
ossa di Sakar, aveva rinunciato a ricondurle a casa.
Ormai,
il compagno era perso per sempre, ma lei poteva continuare a vivere e
prosperare, grazie alla presenza del suo giovane amarok.
Tutto
sommato, aveva gradito correre con Cody, fare sesso e predare con lui.
Non si
era comunque arrischiata a chiedere a Cody di ferire degli umani
perché
diventassero a loro volta amarok
–
cosa che loro potevano fare agevolmente. Per assoggettare un amarok, occorreva avere potere a
sufficienza perché non sfuggisse al legame, potere che lei,
ormai, non
possedeva più.
Se
n’era resa conto suo malgrado quando, in più di
un’occasione, aveva dovuto
richiamare all’ordine Cody e punirlo fisicamente, reo di aver
predato senza il
suo consenso.
Per
troppe volte aveva dovuto attendere impaziente di scoprire se, gli atti
inconsulti di Cody, avessero fatto nascere nuovi amarok
da sottomettere ma, per sua fortuna, il suo servo aveva
colpito persone impossibilitate a diventare tali.
Ora,
però, doveva approfittare a qualsiasi costo dei giovani che
Cody aveva ferito.
Se anche uno solo di loro avesse ceduto al suo controllo, avrebbe
potuto
ritenersi soddisfatta. Quanto agli altri, li avrebbe uccisi.
Era
questo il prezzo per la sopravvivenza, se voleva vivere come una dea.
Non aveva
bisogno delle preghiere delle genti, per camminare tra i vivi, ma
doveva
cibarsi della loro energia vitale, se voleva continuare a farlo.
Se
solo avesse avuto maggiore forza, non avrebbe atteso che i giovani
feriti dal
suo amante compissero la mutazione. Avrebbe trovato un giovane
qualsiasi e lo
avrebbe fatto suo, ma era ormai troppo debole, troppo vecchia
per poter essere ancora una Creatrice.
No,
doveva attendere il giorno del plenilunio e, in quel momento, avrebbe
apposto
il suo sigillo di sangue sui giovani virgulti che sarebbero diventati i
suoi amarok.
***
«Litha…
Litha!» esclamò Rohnyn, scuotendo la spalla
dell’addormentata sorella.
La
pendola suonò le cinque del mattino e la dea, ridestandosi
da un sonno agitato
e costellato da incubi, spalancò gli occhi per la sorpresa.
Turbata, si volse a
mezzo per capire chi l’avesse chiamata e, nel vedere il
fratello, visibilmente
stanco ma apparentemente eccitato, si stropicciò gli occhi,
borbottando: «Che
succede? Va a fuoco la casa?»
«Niente
del genere. Penso di aver trovato la soluzione ai nostri problemi,
però.»
Quelle
parole la risvegliarono del tutto e, balzando in piedi,
esalò: «Cosa? Dimmi!»
Indicandole
il tavolo della cucina – dove sembrava essere stata scaricata
l’intera biblioteca
di Alessandria d’Egitto – Rohnyn la
scortò fino a una pergamena in particolare e
lì, soddisfatto, disse: «Avrai i tuoi primi
sudditi, dopotutto.»
«Che?
Il troppo leggere ti ha forse rimbecillito?»
gracchiò lei, guadagnandosi
un’occhiataccia da parte del fratello.
«Sempre
la solita elegantona. No, mia cara. Intendo dire che, purtroppo, gli amarok hanno bisogno di una dea, o un
dio, per poter camminare su questa terra, visto che come servitori sono
nati e
tali rimarranno fino alla fine dei tempi ma, non
necessariamente, questa divinità deve essere akhlut.»
«Come
come?» si incuriosì a quel punto Litha.
«Mi
aveva incuriosito il fatto che i primi
amarok fossero nati da Qiugyat
ma
che, solo in seguito, fossero divenuti schiavi di akhlut.
Perciò mi sono chiesto se questo tipo di conversione
potesse avvenire ancora e, nel leggere alcuni resoconti di Muath, ho
scoperto
che sì, può accadere.»
Accigliandosi
immediatamente nell’udire il nome della madre adottiva, Litha
borbottò: «Non
dirmi che quella strega si era fatta un amarok
solo per vedere se ci riusciva?!»
«In
pratica, sì. Rubò letteralmente un amarok
a un akhlut e, facendogli bere il
suo
sangue, lo rese schiavo. A quanto pare, il sangue fomoriano batte
quello degli akhlut. Comunque, lo
tenne avvinto a lei
fino alla sua morte – perché gli amarok
non
sono beneficiati di lunga vita come gli akhlut,
pur se hanno un’ottima aspettativa di vita. Non sapendo di
cosa farsene di un
simile servo, lasciò perdere ulteriori mutazioni e scrisse
soltanto questo
breve resoconto su come si fossero svolte le cose.»
«Mi
scoccia dover dire grazie a Muath» brontolò suo
malgrado Litha.
«Resta
solo da chiarire la cosa con i ragazzi… e da comprendere
cosa succederà quando
berranno il tuo sangue, e tu berrai il loro»
sottolineò Rohnyn, scrollando le
spalle.
Litha
sospirò sconsolata, lanciò un’occhiata
al piano superiore – dove ancora
dormivano Dev, Iris e Chelsey – e borbottò:
«Dev si incazzerà di brutto,
scoprendo che non potrà essere il mio seguace più
fedele.»
***
L’arrivo
di Litha in ospedale fu fonte di molti torcicollo da parte dei medici,
così
come di diverse occhiate velenose.
Era
infatti indubbio quanto, il suo essere una dea, la rendesse
l’oggetto del
desiderio degli esseri umani, indipendentemente dal fatto che lei
usasse o meno
i propri poteri, o che gli umani stessi si rendessero conto di essere
rimasti
incantati da lei.
La
sua bellezza aveva qualcosa di ultraterreno che veniva percepito a pelle, ed era quasi impossibile non
rimanerne vittime. Inoltre, il suo portamento fiero, così
come la sua altezza
invidiabile, oltre allo sguardo magnetico, la rendevano
indiscutibilmente una
creatura da idolatrare.
Per
Iris e Dev fu assai divertente notare come nessuno, invece, si rendesse
conto
della loro presenza. Era come essere invisibili, quando Litha era nei
paraggi,
ma non era necessariamente un male.
La
scoperta fatta da Rohnyn aveva colto di sorpresa la famiglia Saint
Clair, ma
aveva anche dato loro la speranza di poter salvare dalla prigionia a
vita i tre
ragazzi tutt’ora in ospedale.
Di
buon passo, quindi, si erano diretti verso il Dr. Helmcken Memorial
Hospital –
dove lavorava il Dr. Cooper – per informarli in merito al
loro piano. Dopo aver
oltrepassato le porte a vetri del piccolo complesso ospedaliero,
avevano
imboccato il corridoio che conduceva nel loro reparto, lasciando per
l’appunto
dietro di loro occhiate liquide e sospiri affranti.
Finalmente
di fronte alla stanza delle ragazze, Litha bussò
discretamente alla porta prima
di entrare insieme al resto del gruppo e, non trovandovi persone
estranee,
annuì soddisfatta.
Preventivamente,Dev
chiuse la porta alle loro spalle dopodiché
dichiarò entusiasta: «Abbiamo novità
interessanti, ragazze.»
Le
due giovani posarono immediatamente i cellulari che stavano utilizzando
per
messaggiare con gli amici e, attente, convogliarono i loro sguardi su
Litha.
Lei,
a quel punto, le squadrò ombrosa per alcuni istanti, quasi
non fosse pronta per
ciò che stava per dire ma, alla fine, dichiarò:
«Voi sarete il mio piccolo,
cazzutissimo esercito, ragazze.»
«Come?»
esalarono all’unisono le due, guardandosi vicendevolmente con
aria confusa
prima di tornare a posare lo sguardo sulla donna.
«Purtroppo,
gli amarok sono destinati a non
essere liberi, e necessitano di una divinità che li guidi
perciò, se non
conoscete nessun altro dio da queste parti, …e non mi
proponete Chris Hemsworth
che, pur se bello come un dio, purtroppo per voi non lo è
davvero, …» motteggiò
Litha, strizzando l’occhio alle due giovani, che sorrisero
tese ma speranzose.
«… dovrete accontentarvi di me.»
«Intendi
scalzare il potere che gli akhlut
detengono sugli amarok?»
domandò a
quel punto Liza.
Sollevando
un sopracciglio con aria curiosa, Litha le domandò:
«Ci avevi pensato anche
tu?»
«La
mia, più che altro, era una speranza, ma aveva senso, visto
che sapevamo del loro
cambio di bandiera da Qiugyat ad akhlut. Solo, non avevo la più
pallida
idea se la cosa avrebbe potuto funzionare, con un dio non appartenente
a quel
pantheon, né tanto meno come metterlo in pratica…
o, in ogni caso, se a te
sarebbe stato bene» scrollò le spalle Liza.
Litha
sorrise a una orgogliosa Iris, asserendo: «Mi piace, questa
ragazza. Potrei
anche portarmela in Irlanda come consigliera, dopotutto.»
Liza
impallidì leggermente, a quella notizia e Iris, scoppiando a
ridere di fronte
al suo fondato timore, esalò: «Oddio, credo che
Lucas si infurierebbe, se tu gli
portassi via la sua nuova Geri 2.0. E poi, c’è
anche un problema sentimentale
di mezzo.»
«Oh,
già… il ragazzo ferito» ammise Litha,
pensierosa. «Comunque, manie di possesso
a parte, dovrete mandare giù una pillola amara, per poter
ottenere la libertà
da quella akhlut. In tutti i
sensi.»
«Se
servirà a salvarci da quella strega, sarei disposta anche a
camminare nuda in
mezzo al paese» borbottò Chanel prima di sorridere
speranzosa in direzione di
Litha e aggiungere: «Senza di lei, io non sarei qui e, anche
solo per questo,
le devo la mia gratitudine a vita. Se, come ci sta dicendo, esiste la
possibilità
di evitare di diventare schiavi di quella pazza, allora le
sarò doppiamente
grata e farò tutto quello che ci chiederà, senza
alcun problema.»
Iris
e Dev le tributarono un caloroso sorriso e Litha, scossa suo malgrado
dall’enorme fiducia che quella giovane le stava concedendo,
le si avvicinò per
carezzarle una spalla con fare confortante e dichiarò:
«Mi piacciono sempre di
più, queste ragazze. Potrei davvero abituarmi male, con voi
due. Inoltre, cara
Chanel, dammi pure del tu. Non c’è alcun bisogno
di essere formali.»
«Di’
loro quello che le aspetta, invece di gongolare» le
ricordò simpaticamente Dev.
«Non
volevo sgomentarle immediatamente ma, visto quanto mi sembrano
determinate, non
ha senso procrastinare oltre» ammise Litha, tornando seria.
«Visto che siete
state ferite dall’amarok
di quella
tizia, lei avrebbe un diritto di prelazione su di voi, per
così dire ma,
impedendole di compiere il rito di Iniziazione con lei, spezzeremo
questo
vincolo. Al suo posto, ne creeremo uno nuovo con me, perciò
dovrete bere il mio sangue, così
che io sia legata a
voi, e io dovrò bere il vostro perché il cerchio
si completi.»
Liza
e Chanel si guardarono dubbiose per alcuni attimi senza fiatare
dopodiché, con
un cenno di assenso, dichiararono: «Okay. Se basta
questo…»
A
quel punto, Litha le fissò allibite e domandò:
«Ma… vi rendete conto di quello
che ho detto? Non ho parlato di Coca-Cola, o di Brunello di
Montalcino.»
Chanel
a quel punto si fece malinconica e replicò:
«Fergus avrebbe donato anche un
rene, pur di non rimanere vittima di quei mostri, perciò io
posso ben passare
sopra a qualche goccio di sangue, le… ti
pare? Lo devo anche a lui.»
Litha,
allora, la strinse in un abbraccio caloroso e mormorò roca:
«Renderemo onore
insieme al coraggio dimostrato dal tuo amico, te lo prometto, e
stavolta non
fallirò. La distruggerò per te e per
lui.»
«Grazie»
sussurrò Chanel, tremando tra le braccia della dea.
Nell’annuire,
Litha si volse a mezzo per scrutare Iris, che assentì e,
rivolta alle due
ragazze, definì con loro il piano che avrebbero seguito.
«La
notte del plenilunio, se tutto va come deve, muterete in amarok
e Litha vi sigillerà. E’ anche probabile che
l’akhlut tenti di colpirci
proprio durante
il vostro primo mutamento per poter procedere alla medesima cerimonia,
ma ci
sarò io a proteggervi.»
«Userai
il potere del lændvettir?»
domandò
turbata Liza.
Iris
annuì recisamente, lo sguardo ora cupo e determinato e,
rivolta a Chanel,
aggiunse: «Ti ritroverai a essere testimone di qualcosa di
molto simile a un
uragano controllato, perciò non ti spaventare.
L’energia che sprigionerò
rimarrà saldamente nelle mie mani, perciò non ti
succederà nulla.»
Lei
assentì coraggiosamente, pur tremando tra le braccia di
Litha e, con un mezzo
sorriso, domandò: «C’è la
possibilità che, una volta mutata in… in un lupo,
io
possa tentare di farvi del male?»
«Purtroppo
non lo sappiamo, Chanel ma, qualsiasi cosa succeda prima del sigillo di
Litha,
non dovrai preoccuparti di nulla. Saremo lì per aiutarvi, e
non avrà importanza
se, nel farlo, ci scapperà anche qualche graffio»
le rispose rassicurante Iris,
avvicinandosi per stringerle con forza una mano.
Chanel
vi si aggrappò come se temesse di affogare e, con un sospiro
tremulo, mormorò:
«Vorrei davvero dirlo almeno a mia madre ma,
finché non sarò sicura di ciò che
diverrò, non metterò mai in pericolo i miei
genitori.»
«In
ogni caso, qualsiasi cosa succeda, noi saremo sempre e comunque la tua
famiglia
acquisita» dichiarò Dev, annuendo fiducioso al suo
indirizzo. «Nel branco ci si
aiuta sempre e, anche se voi sarete lupi un po’ diversi, ne
farete comunque
parte. Non sarete mai soli.»
Chanel
annuì più volte mentre Liza, scendendo dal letto
per raggiungerla, la abbracciò
a sua volta e disse: «Vedrai che andrà bene. Ce la
faremo.»
Lei
mormorò un assenso contro la sua spalla prima di
risollevarsi coraggiosamente e
dire: «Andiamo a dirlo a Mark. Lui è quello nella
situazione peggiore, per via
di suo padre, perciò dovremo sostenerlo noi.»
Litha
non poté che annuire orgogliosa, e tenendola sottobraccio,
la accompagnò con
passi cauti fino all’ala dove si trovava Mark. Dopotutto, la
ferita alla testa
era ancora in via di guarigione, e non era davvero il caso di farla
sforzare
più del necessario.
Inoltre,
nei confronti di Chanel, Litha si sentiva particolarmente in dovere di
essere
protettiva e gentile. Da ciò che aveva saputo per bocca di
Iris, quella ragazza
non soltanto aveva appena perso il ragazzo di cui era innamorata, ma si
era
dovuta scontrare nel modo peggiore con segreti e bugie in cui tutti
loro
vivevano da sempre.
Era
stata sbalzata al suo interno con uno spintone ben piazzato, e con
ferite che
avrebbero sgomentato persone ben più adulte di lei ma,
nonostante tutto, aveva
accettato e compreso. Non era impazzita per l’ansia o
l’incredulità, aveva dato
piena fiducia all’amica e ai suoi tutori e, non da ultimo,
ora aveva messo
nelle mani di una sconosciuta la sua stessa esistenza.
Anche
solo per questo, Litha avrebbe messo in gioco tutta se stessa, per
darle la
migliore qualità di vita possibile.
Non
appena raggiunsero la stanza di Mark, quindi, la dea le diede un
bacetto sui
capelli a mo’ di incoraggiamento, dopodiché
aprì la porta e scrutò all’interno.
Trovandovi
una donna bruna che, sorpresa, si levò dalla sedia
dov’era accomodata per
salutarli, la dea entrò al pari degli altri
dopodiché, nel chiudere la porta,
domandò: «Posso parlare liberamente?»
Iris
e Dev assentirono mentre Liza e Chanel si recavano caracollanti fino al
letto
di Mark. Diana, a quel punto, li fissò con espressione
speranzosa e chiese:
«Avete scoperto qualcosa?»
Litha,
allora, si presentò sia a Diana e che a Mark – che
ancora non l’aveva vista –
e, dopo aver brevemente presentato il problema in merito al legame
obbligato
che l’amarok doveva avere
con un dio,
espose la sua proposta.
Ovviamente,
sapere della divinità di Litha portò a numerosi
sospiri increduli e diverse
occhiate sconcertate ma, alla fine, Diana mormorò:
«Se qualcuno mi avesse detto
che avrei fatto così tante scoperte in merito a un mondo
parallelo che ci
camminava a fianco, lo avrei preso per matto. Neppure vado in chiesa,
io!»
Ciò
detto, rise nervosamente nel lasciarsi cadere sulla sedia che aveva
occupato
fino ad alcuni minuti addietro e Litha, dandole una pacca sulla spalla,
asserì
gentilmente: «Se la può consolare, signora
Sullivan, la sottoscritta neppure
sapeva di avere sangue divino nelle vene, perciò si
figuri.»
Stretto
alle mani di Chanel e Liza, Mark allora domandò teso:
«Quindi, se ho capito
bene, noi diverremmo il suo… ehm, tuo
lungo braccio?»
«In
linea teorica, sì. In realtà, sarete soltanto
liberi dal giogo di akhlut,
perché io non vi imporrò mai
nessun tipo di restrizione, se non evitare di fare del male alla
gente»
sottolineò Litha, scrollando le spalle.
«E,
in merito alla nostra… dieta?»
chiese
preoccupato il giovane, mettendo a parole le paura di tutti.
«Intendi
la carne umana? Quella serve ad akhlut
per immagazzinare energia. Lei necessita di carne umana per
sopravvivere sulla
terraferma, ma non in maniera diretta. Per questo non caccia
praticamente mai.
Lo fa solo quando è strettamente necessario, e solo attorno
al suo nido, per così
dire» spiegò loro Litha,
sorprendendo tutti i presenti. «Le serve l’energia
vitale sviluppata dall’amarok,
che lui le dona a ogni loro
ritorno al nido. Lui, perciò, si ciba di proteine umane
perché akhlut ne ha
bisogno, ma gli amarok non hanno
simili restrizioni
alimentari.»
Chanel
deglutì a fatica, rammentando fin troppo bene quando
l’amarok aveva affondato
il muso nel ventre di Fergus e Litha,
spiacente, aggiunse: «Mi rincresce essere stata
così diretta, ma era il modo
migliore per comprendere il meccanismo che lega amarok
e akhlut. Tolta la
necessità di fornire energia vitale ad akhlut,
viene meno anche il primo punto. Io non ho bisogno di voi, per
sopravvivere,
perciò la vostra dieta sarà
normalissima.»
«Beh,
se anche avessero dovuto recarsi in Alaska per
forza, non sarebbe stato un grosso peso da
sopportare» dichiarò Diana,
sorridendo speranzosa al figlio.
Lui
assentì e, nel sorridere a Liza, mormorò:
«Forse, dopotutto, non diventeremo
belve sanguinarie.»
«Forse…»
mormorò lei prima di volgere pensierosa lo sguardo verso la
finestra della
stanza per scrutare il bosco che si estendeva oltre Clearwater.
Mark
si avvide subito del suo incupimento ma, trattandosi di una riunione
fin troppo
affollata, preferì non chiederle subito i motivi di un tale
cambiamento
d’umore.
Quanto
a lui, era rasserenato all’idea di non dover diventare lo
schiavo di colei che
aveva ordito la morte di suo zio e il ferimento di sua madre e, per
quanto la
mancanza del padre gli pesasse, non aveva davvero tempo per
preoccuparsene.
Gli
eventi che lo avevano portato in quell’ospedale si stavano
rincorrendo a una
velocità folle, ed era difficile star loro appresso senza
impazzire. Era stato
già complesso accettare la verità sul mondo in
cui viveva Liza, ma entrare a
farne parte a gamba tesa come avrebbero fatto loro, era a dir poco
incredibile.
Ovviamente,
lui sapeva poco o nulla in merito a Litha macElathain. Avendo
però la totale
fiducia di persone molto più addentro di lui in quel mondo
di misteri, era
dell’idea che non lo avrebbero mandato allo sbaraglio con una
persona non
meritevole.
Inoltre,
gli occhi di quella donna gli sembravano buoni e gentili, e il modo in
cui si
era presa cura di Chanel durante tutta la sua dissertazione, lo aveva
rasserenato.
Non
riusciva neppure a immaginare cosa volesse dire, per l’amica,
aver perso Fergus
in modo così brutale, e scoprire tra capo e collo
dell’esistenza di un intero
universo che camminava – non conosciuto – proprio
accanto a loro.
Chanel,
però, si era mantenuta stoica e forte e, pur se prevedeva
che, prima o poi, un
crollo sarebbe giunto, Mark confidò che lui e Liza avrebbero
potuto, in qualche
modo, esserle d’aiuto.
Dopotutto,
non sarebbe diventata un’amarok
in
totale solitudine. Anche lui e…
Nel
concepire quell’ultimo pensiero, Mark si bloccò
per scrutare il profilo ancora
pensieroso di Liza, iniziando a subodorare le motivazioni della
preoccupazione
che l’avevano ammutolita di colpo.
Fu
comunque dopo l’uscita degli adulti – impegnati in
una discussione su come
predisporre al meglio la cerimonia al Vigrond – che Mark si
arrischiò a
chiedere: «Hai paura di non diventare un amarok?»
Liza
sobbalzò a quella domanda e Chanel, scrutando curiosamente
sia l’amico che
l’amica, chiese a sua volta: «Perché
dovresti pensarlo, scusa? Ormai è assodato
che il problema che aveva con il DNA dei licantropi, non esiste con
quello
dell’amarok.»
La
giovane Geri sospirò demoralizzata, si appoggiò
al letto di Mark per reclinare
il capo contro la spalla di lui e, rivolta a Chanel, disse:
«So che tutti
continuano a dire che anche il mio odore è mutato e che
percepiscono in me un
cambiamento, ma la paura di… fallire
è ancora tanta.»
Chanel
le sorrise comprensiva, replicando: «Ma non dovrebbe renderti
felice,
l’eventualità di poter evitare questo
problema?»
«So
che è sciocco, ma…» sospirò
Liza, nascondendo il viso tra le mani e cercando di
trattenersi dal piangere.
Era
davvero da sciocchi impuntarsi su
un
particolare simile, eppure non riusciva a scacciare il pensiero che se,
anche
in quel caso, la mutazione non fosse avvenuta, lei si sarebbe sentita
menomata.
Chanel,
allora, le sfiorò una spalla con la mano e, sorridendole
comprensiva, mormorò:
«Non so ancora molto del mondo in cui hai vissuto tu da un
anno a questa parte,
ma immagino che avere un ruolo come il tuo, e addestrarsi per
combattere contro
creature tanto più potenti di te, ti faccia sentire in
qualche modo inferiore…
non abbastanza adatta al compito. Per questo vorresti riuscire a
mutare,
giusto?»
Liza
risollevò il capo per scrutarla piena di contrizione ed
esalò: «Non dovresti
essere tu, a consolarmi, Chanel! Sei tu quella che ha subito il colpo
più duro
di tutti.»
Lei
allora si assise sul letto accanto all’amica,
scrollò una spalla e ribatté:
«Forse. Ma va detto che tu stessa hai subìto un
colpo durissimo. Hai
affrontato, da sola, un mostro di
cui
non conoscevi nulla, e l’unica arma adatta ad abbatterlo ti
ha costretto ad
avvicinarti in maniera orribile al tuo nemico. Ti sei scontrata in ogni
caso
contro di lui per salvare tre persone con le tue sole forze, pur
sapendo di
essere più debole del tuo avversario. Sei rimasta ferita e
hai rischiato di
perdere il ragazzo che ti piace, oltre alla tua stessa vita. Non è stata una passeggiata
neppure per
te, credimi.»
«Eppure,
riesco a essere abbastanza egoista da sperare
di diventare un lupo» sbuffò Liza, accigliandosi.
Chanel,
allora, sorrise divertita e, ammiccando a Mark, disse: «Credo
sarebbe meglio
anche per il tuo ragazzo, se tu
fossi
come lui.»
«Già,
è vero» ammise Liza, arrossendo suo malgrado.
«Mi sto abbattendo per nulla…
l’ospedale mi fa un effetto schifoso.»
«Oh,
credimi. Non sei l’unica a sentirsi strana»
dichiarò Chanel sollevando le mani
leggermente tremanti per mostrarle agli amici. «Sono convinta
che, non appena
questa fase di ansia perenne sarà scemata,
crollerò in un angolo e piangerò per
settimane ma ora, semplicemente, non riesco a farlo. E’ come
se tutto si fosse bloccato dentro
di me, come se non fossi
ancora in grado di piangere per Fergus, o per me stessa.»
Il
quieto bussare alla porta della stanza di Mark li portò a
volgere il capo
all’unisono, bloccando di fatto qualsiasi replica. Quando
poi, sull’entrata,
videro la figura alta e slanciata del dottor Cooper fare capolino, la
sorpresa
si rese manifesta sui loro giovani volti.
Il
sorriso sincero del medico li tranquillizzò –
evidentemente, non c’erano brutte
notizie nell’aria – e, quando egli si fu lasciato
la porta alle spalle, esordì
dicendo: «Ai vostri familiari l’ho appena detto, ma
è giusto che sappiate anche
voi.»
Curiosi,
i tre giovani lo scrutarono pieni di aspettativa e Douglas, ammiccando
loro,
picchiettò un dito sulla cartella che teneva in mano e
aggiunse: «Sono arrivati
i risultati delle analisi comparative che ho spedito a Brianna, e pare
si sia
riusciti finalmente a capire come – e perché
– l’amarok abbia
mutato solo voi e non le altre vittime sopravvissute
agli attacchi.»
Liza
e Chanel corsero a guardare Mark che, turbato, domandò:
«E’… è una cosa brutta?
Non essere stati mutati, intendo.»
Accentuando
il proprio sorriso, Douglas scosse il capo e replicò:
«Tranquillizzati. Tua
madre è sana come un pesce. E’ piuttosto una
questione di sangue, ragazzi. Voi
tre, siete AB positivi.»
Strabuzzando
gli occhi per la sorpresa, i tre si fissarono increduli e il dottore,
mostrando
loro i risultati delle analisi, terminò di dire:
«Siete dei riceventi
universali, come ovviamente saprete già ma, a quanto pare,
è anche il viatico
necessario perché un amarok possa
mutare un umano. Tua madre, Mark, è A positivo, mentre gli
altri tre uomini
colpiti dall’amarok erano,
rispettivamente, B e 0. Solo in questo modo, l’amarok
ha potuto mutarvi.»
Chanel
scoppiò in una risatina isterica, si coprì la
bocca per non esplodere in una
risata più forte e, nell’abbracciare gli amici, si
sentì un po’ meno confusa,
un po’ meno persa in quell’universo assurdo.
Almeno
in quel particolare caso, poteva capire e assimilare senza
difficoltà le
nozioni che le erano state snocciolate con tono pratico e scientifico.
Erano
cose tutto sommato …normali.
Spontanee,
le mani di Mark e Liza la strinsero a sua volta e Chanel, sorridendo
grata, si
appoggiò all’amica creando un cerchio ideale tra
loro.
Dopotutto,
forse, non sarebbe impazzita e, nella sua nuova vita come amarok, avrebbe avuto due persone sincere
al suo fianco, persone
che riusciva a capire, ad apprezzare. Ad amare.
Se
tutto il resto fosse venuto a mancare, la loro amicizia sarebbe
comunque
perdurata.
N.d.A.: Finalmente si scopre perché i ragazzi hanno potuto essere mutati dall'amarok, ma questo non dissipa del tutto le paure di Liza, Mark e Chanel, che hanno ancora molto a cui pensare. Davvero saranno costretti a diventare belve dissennate, o basterà sul serio l'intervento di Litha, per eliminare questa variabile?