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Autore: Gaia Bessie    29/12/2020    2 recensioni
Lei lo sa. Neri gli occhi, nera l’anima che cruda avanza nella boscaglia, che dolcemente scivola sotto i piedi e mai riposa – Rodolphus non ama, non è in grado, ma cerca il conforto di altre donne su letti che non siano di spine.
[Bellatrix | Bellatrix/Voldemort e Bellatrix/Rodolphus]
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Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Narcissa Malfoy, Rodolphus Lestrange, Voldemort | Coppie: Bellatrix/Voldemort, Rodolphus/Bellatrix
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, II guerra magica/Libri 5-7
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Parte II: Soffro, non lo capisci che soffro?
 
 
Soffro, lo capite che soffro,
patimenti che strappano le urla.
Maledetti figli di una madre detestabile
possiate crepare, voi e vostro padre,
e che questa casa precipiti in rovina
 
 
Soffro, lo capisci che soffro?
Gli anni ad Azkaban, la convivenza forzata con i pensieri di suo marito che le avvelenavano la mente, l’han ridotta in un’ombra che affamata cerca di sopravvivere d’infelicità: che ne sanno, i Dissennatori, di quanto l’infelicità possa nutrire una persona. E lei è infelice – e piena di rancorosa vendetta – e può solamente masticare la propria rabbia, raffreddatasi in un lago di saliva e dimenticanza.
Non è morto, certo che non lo è, e se non lo è non ha nemmeno dimenticato: ha bisogno di lei, la sua migliore Mangiamorte, e la verrà a prendere. E, quando lo farà, Rodolphus Lestrange verrà spolpato in un vortice di sussurri – Avada Kedavra, dirà il suo e il loro Signore, ponendo fine a un’esistenza ignobile e dimenticata da tutti. Ma mai da lei.
Lei non dimentica, seduta sul pavimento sudicio della propria cella, con il volto sul muro che la separa da Rodolphus, Bellatrix lo pensa e lo vuole morto. Lo vuole morto e lo vuole uccidere lei, con lo stesso pugnale con cui s’è liberata dell’esistenza ingrata di un feto deforme, incapace a vivere. Lo vuole uccidere lei ma non con un incanto o una ferita grave, lei lo vuole sbocconcellare, fino a lasciarne le ossa nude all’aria.
Vuole andare dal suo Signore – no, lei vuole il suo Signore – e dirgli che tutto s’è sfumato in una pioggia di sangue ed è colpa sua. Che non ha accettato, che li avrebbe consegnati a Malocchio Moody e lei lo sapeva, in qualche modo l’ha presofferto, e allora ha salvato la cosa più di valore (lei stessa).
Nella sua mente, però, quell’esserino deforme e minuscolo vive ancora: e lei lo prende tra le braccia per consegnarlo a lui, avvolto in un lembo di tessuto rossosangue, il martirio di un essere che non ha vissuto abbastanza per respirare la sua prima aria.
Nella sua mente – ch’è imbellettata e sorridente come la giovane di belle speranze che non è mai stata, che non sarà mai – Bellatrix gli consegna sempre un maschio. Un erede pronto a imparare, com’è pronta lei, e che mai li chiamerà madre e padre.
Generato ma non creato, dalla sostanza di chi sta più in alto di tutti: che paternità ci sarà mai, in tutto questo?
Non come il figlio di Rodolphus, che adesso ha quattordici anni e va ad Hogwarts, e ha un nome che suona ridicolo e un cognome che appartiene a un uomo che, a quarantacinque anni, è già vecchio. Theodore Nott senior ha chiuso gli occhi – azzurri ma mai neri: gli occhi – di fronte all’infedeltà della moglie, e ha dato il proprio cognome e il proprio nome a un moccioso dallo sguardo scuro come l’inferno.
Bellatrix ride: non lo vedi, quanto sto soffrendo?
Neri sono gli occhi, ma adesso dimmi un po’ di più: dove lo posso trovare, quel ragazzo perduto, quel ragazzo dimenticato? Harry Potter al Signore Oscuro, Theodore Nott a lei: due morti inutili, ma necessarie – Rodolphus ama l’idea di quel figlio che non ha avuto da lei, e, allora, lei glielo toglierà come quei frammenti di pensiero che gli estrapola dal cranio con uno sguardo.
«Pace, Bellatrix» commenta l’Oscuro Signore, alzando una mano nella sua direzione. «Il tempo ti sarà debitore».
Lei pensa che il tempo è per i deboli – e Lord Voldemort la guarda, scontento, cogliendole quel pensiero come lei fa con Rodolphus, come lui le ha insegnato – e che lei, debole come suo marito, mai lo sarà. Lei pensa che vuole quel quattordicenne morto, trucidato davanti ai piedi del suo vero padre.
Pensa che lo vuole accoltellato come quel feto morto e soffocato dentro di lei, che ancora ha quella cicatrice che duole al pensiero – e al pensiero l’Oscuro Signore rabbrividisce e s’arrabbia, di fronte a quel ricordo macchiato di sangue.
Neri gli occhi, avrebbe avuto, e neri pensieri: e avrebbe sofferto, come soffrono tutti, come soffre anche lei al pensiero che Rodolphus potrebbe sopravviverle senza quel dolore esistenziale, annichilente, che scuote lei come un’onda d’urto.
«Non c’è pace, mio Signore» risponde lei, atona, ha lo sguardo che s’affila contro i suoi stessi pensieri. «Non ce ne sarà mai più».
E Rodolphus Lestrange si scioglierà in un fiume di lacrime amarissime, senza senso, di fronte al cadavere di quel figlio che non ha mai potuto riconoscere.
Soffrirà, eccome se soffrirà – e occhi neri annacquati su viso scarnificato dalla sofferenza – e come se ne caverà fuori?
«Rodolphus mi serve, Bellatrix» risponde Voldemort, atono. «Non prenderti libertà che non ti sono concesse».
Lei china il capo di fronte al suo signore, così che i riccioli scuri le coprono il volto e gli zigomi taglienti sulla pelle troppo fragile, la bocca protesa su un dente scheggiato e su pensieri sfuggenti. Rodolphus con un bicchiere di vino rosso, tristemente finito, e un quattordicenne scuro e ombroso alle spalle.
«Non oserei mai, mio signore» risponde Bellatrix, senza rialzare il capo. «Non metto in dubbio le vostre decisioni».
Le rispetta, ma non le condivide: teme persino di pensarlo, perché quel pensiero glielo strapperebbe dal cranio come una ciocca di capelli durante un amplesso, e allora china il capo persino nei propri pensieri.
«Ucciderò Potter alla finale del Torneo» comanda, con un sibilo a metà tra le parole e il serpentese. «Poi, torneremo a pensare dei nostri piani. Mi aspetto la tua collaborazione, Bellatrix».
Lei sorride, di aspettative: si vede nuovamente stesa su un tavolo, a gambe aperte, ad accogliere il seme del suo Signore come fosse una benedizione (forse un po’ lo è). E lei gli darà l’erede, sarà la madre di colui che è – generato ma non creato – della stessa sostanza del padre.
«L’avrà, mio signore» risponde Bellatrix, adorante. «Avrà tutto ciò che vorrà, da me».
Questo e molto altro: gli lancia uno sguardo indecifrabile – neri gli occhi – e sorride.
Rodolphus Lestrange è fuori dalla porta, in attesa del colloquio con il Signore Oscuro, e nel mentre sua moglie è china al suo cospetto e sorride come se gli stesse promettendo il mondo.
Soffro, non lo capisci che soffro?
 
***
 

«Ultime parole, mammina?» Bellatrix punta la bacchetta contro la fronte della donna, facendola tremare.
Hogwarts crolla a pezzi. Polvere e sangue si mischiano in un miscuglio orribile, ferroso, che insozza abiti e vestiti e s’attacca al naso facendolo storcere dal disgusto. Bellatrix sorride – un bicchiere di vino e lo vedi come soffro? – e incide quella fronte bianchissima, con una singola ruga che l’increspa e la deforma. Non lo vedi, come soffro?
Elenie Nott la guarda, e occhi azzurri si squarciano in lacrime al suo cospetto, e inghiotte un singhiozzo che le sconquassa il petto. Sta supplicando, no, sta pregando e sta pregando lei che la guarda, con l’odio tra le mani come una sfera di cristallo.
«Ti prego» sussurra, con le mani giunte. «Lasciami andare. Tu… sei come me».
La voce di Alice Longbottom riemerge dai suoi ricordi, prepotentemente, e le squarcia il cervello con la potenza di un sussurro – sei madre anche tu.
Bellatrix si sfiora il ventre ancora gonfio, ancora sformato e pensa a quella bambina inutile che ha messo al mondo in uno scroscio di lacrime. Sua sorella – stanca e palesemente disgustata – le ha tenuto la mano e l’ha ascoltata urlare fino a squarciarsi in due.
S’è infranto in una nube di sangue condensato, il mondo pieno di bioccoli di Cissy, s’è spanato e sfilacciato sulla potenza velenosa della realtà: e ha scoperto molte cose, e la sofferenza s’è incisa nel suo viso rovinandone l’artisticità. È il quadro di un artista triste e di un poeta maledetto, dove la vita è blu scuro e la morte è rossa, e la sofferenza è solamente il retroscena della morte che parla.
«Io non sono come te» risponde Bellatrix, con sdegno. «Io non sono come voi».
Alice Longbottom le sorride, in un angolo della sua mente, e culla un bambino invisibile tra le braccia scoperte dal completo da Strega estivo. Sei madre anche tu.
«No» sussurra Elenie Nott, con un fremito pieno di orgoglio. «Tu non sei nemmeno riuscita a dargli un maschio».
Bellatrix pensa a Delphini. L’ha chiamata così perché le stelle non mentono, ai Black, e lei ha ancora nero l’animo. L’ha chiamata perché l’Oscuro Signore ha deciso così in virtù di conoscenze arcaiche che le ha insegnato, una donna serpente figlia della Terra, e Bellatrix ha chinato il capo e ha obbedito.
Bellatrix pensa a quell’inutile fagottino piangente che ha lasciato agli Elfi di Villa Malfoy, e storce la bocca in una smorfia piena di disappunto: avrebbe voluto dargli un maschio, mettergli davanti ai piedi un erede degno del suo nome.
E, invece, le ha dovuto dare il nome di Rodolphus: Delphini Lestrange, quindi, e Bellatrix ha chinato il capo e ha accettato come s’accetta la sofferenza e un bicchiere di vino.
«Avada Kedavra» urla, lei, ricacciandole quelle parole in gola.
Elenie Nott ricade indietro, con gli occhi vetrificati spalancati, e ha la bocca aperta in una risata mai uscita da lì. Non gli hai nemmeno dato un maschio, sei madre anche tu.
Lei le odia, le madri: ha tolto quello status a sua sorella Andromeda – madre di un abominio, ora è di nuovo pura – e adesso ne ha uccisa una seconda. E ne cerca il figlio con urgenza, un ragazzo di appena diciassette anni come suo nipote Draco (e potendo ucciderebbe anche lui), una chioma castano scura su pelle diafana. E neri gli occhi.
Neri gli occhi di Rodolphus su un viso che non è il suo, e Theodore Nott è in Sala Grande a combattere dal lato sbagliato del tavolo – ma suo padre lo guarda, senza orgoglio, parando quelle maledizioni che non lo sfioreranno mai quanto la consapevolezza che suo figlio lo combatte in prima linea.
Bellatrix ride, osserva la battaglia come se le appartenesse. È a suo agio, quando la sofferenza non la riguarda, e l’osserva come se potesse dirigerla con un filo di pensiero.
«Spostati» sibila, deviando una maledizione del ragazzino, e spingendo via suo marito con una spallata. «Ci penso io, qui».
Rodolphus la guarda – non vedi come soffre? – e ha un dolore primordialmente profondo nello sguardo. Lei lo sa, che non vuole far male a quel figlio che non ha mai conosciuto, che in lui alberga un minimo della disgustosa bontà che lei rifugge come una maledizione.
«Bellatrix» sussurra lui, come una preghiera. «Ci penso io, qui. È solamente un ragazzino».
Lei ride, squarcia l’aria e il braccio di Theodore con una maledizione. «No» risponde, agitando la bacchetta con maestria. «Papà».
Theodore la guarda, ha uno sguardo imperdonabilmente simile a quello di Rodolphus, e si tiene il braccio ferito mentre lei si volta e, con un sorriso della dolcezza dolceamara ch’è di Narcissa e anche di Andromeda, schianta suo marito contro un muro.
«Sei coraggioso, per essere un moccioso» sibila, altera. «Lasciati distruggere da me. Cercherò di farti abbastanza male, te lo prometto: giochiamo?».
«Tu hai ucciso mia madre» risponde lui, in un sussurro pieno di rabbia, stringe la bacchetta come se potesse opporsi alla sua morte.
Bellatrix ride, facendo tremare le pareti della Sala, facendo tremare il giovane Nott fin dentro le ossa.
«Io ucciderò anche te» risponde, sorridendo. «Sarai presto da mammina, Theodore, e ti assicuro che anche tuo padre ti raggiungerà presto».
Lui alza la bacchetta, ma lei è più veloce.
«Sectumsempra» urla, facendolo crollare di fianco a Rodolphus. «Hai qualche ultima parola, caro?».
Theodore Nott sputa sul pavimento, davanti ai suoi piedi, scatenando un attacco di risa isteriche e acute.
Lo guarda dissanguarsi lentamente, sporcando il padre di quel sangue che lo stesso Rodolphus ha contribuito a donargli e lei ride, ride, ride.
«Innerva» sussurra, ridestando suo marito. «Ecco, Rod. Goditi pure gli ultimi istanti di vita di tuo figlio, non ti disturberò».
Rodolphus china il capo, stringendo i pugni per la frustrazione – la odia così tanto da farsi male: non se ne accorge, di quanto soffre?
Theodore lo guarda, incerto, ma le espressioni sul suo volto si spengono velocemente man mano che il sangue fluisce.
«Non ti salverà» sussurra Bellatrix, voltando le spalle al ragazzo. «Non se vuole sopravvivere alle ire del Signore Oscuro».
I passi risuonano nella mente di Rodolphus, mentre il suo unico figlio esala il proprio precoce ultimo respiro.
Neri gli occhi. Un po’ slavati.
 
***
 

«Lasciatemi uccidere il ragazzo, mio signore» sussurra Bellatrix, con passione. «Lasciatelo a me». Rodolphus s’è defilato, probabilmente è fuggito come il codardo, e nessuno lo troverà mai più: si sarà nascosto sottoterra, in un campo sterminato e santificato dai respiri di chi v’è sepolto sotto, ma a Bellatrix non importa ritrovarlo: ciò che poteva togliergli gliel’ha tolto, il cuore gliel’ha spezzato definitivamente.
Non pensa a Theodore Nott, morto d’una morte indegna e insanguinata, ma pensa a quel feto minuscolo e deforme che ha pugnalato nel suo stesso ventre – l’omicidio di Nott è solamente la pallida replica di un infanticidio passato, e Bellatrix ride adesso delle risate che il dolore non le ha fatto pronunciare anni fa.
Voldemort lo sente e storce il viso in una smorfia, pensando a quell’occasione mancata che Bellatrix s’è pugnalata in grembo senza rimorsi o rimpianti, solamente per due motivi che lui non comprende. Per amore e desiderio, verso di lui (che non può amare o desiderare), e per odio verso suo marito. Gli ha sottratto la chiave di volta per la salvezza, e diciassette anni dopo ne ride ancora, alle sue spalle, certa che Rodolphus la possa sentire.
«Bella, smettila» sussurra Narcissa, con urgenza. «Lo capisci che Potter è sparito e Draco… Merlino, Draco è ancora a Hogwarts».
Bellatrix ride, nuovamente, facendo arrossire sua sorella dalla rabbia fino alla punta dei capelli biondissimi.
«Dracuccio è scappato, Cissy?» le domanda, sfiorandole il viso con il dorso della mano. «Dici che sarà finito come il suo amico Theo?».
Lo sguardo che Narcissa le dedica è di ghiaccio, velato di lacrime e numerose incrinature. «Taci» le sibila, con dignità. «Tu non lo sai, cosa vuol dire».
«Sono madre anch’io» cantilena Bellatrix, sorridendo con finta dolcezza. «Te lo sei dimenticata? Hai fatto mille moine a quella bambina inutile».
Cissy guarda sua sorella – come sei diventata, Bella – e china il capo, sebbene dentro di sé la rabbia bruci ancora. Pensa a quella bambina, inutile, e forse persino orfana: perché a Narcissa questo è chiaro ed evidente.
Lei sopravvivrà anche a questa guerra, e porterà Draco in salvo, se glielo permetteranno adotterà quella bambina (inutile). E la crescerà con amore, pregando che il sangue dei genitori non si manifesti mai in lei, lasciandola pura come cotone incontaminato.
Sei madre per davvero, Bellatrix, ma prego che Delphini non sia figlia – creata e non generata, da alcuna sostanza corruttibile che possa contaminarla.
Narcissa sospira: è un pensiero sciocco e insensato, che l’infetta come dolorosa ferita, ma quello è uno di quei momenti in cui pensa d’esser corsa dietro alla sorella sbagliata. Che Andromeda, che pur l’ha abbandonata in casa loro, era piena di difetti ma avrebbe avuto cura di Draco e di lei. Se sopravvivranno, si ripromette, andrà a cercarla.
Andrà a cercarla e le dirà che era tutto sbagliato, tutto incerto, e bisogna ricominciare d’accapo: piangeranno sinceramente la morte di Bellatrix – morirà, Cissy non nutre alcun dubbio in merito – come se fosse defunta loro sorella e non quell’involucro di follia condensata che l’ha sostituita negli ultimi anni.
Un bicchiere di vino, signora Malfoy?
Lei lo prenderebbe e ne sorbirebbe un sorso generoso, perché il vino è dimenticanza di quel sorriso che sua sorella le rivolge, del menefreghismo con cui parla del suo (unico) nipote, della ferita che le causa al cuore.
«Mostra devozione al tuo Signore» le sibila Bellatrix, con sguardo duro. «A nessuno importa del tuo inutile figlio. Avrai tempo per cercarlo quando avremo preso Potter».
Narcissa si sforza di sorridere ma, sul suo volto ancora bello e ancora poetico, risulta solamente l’ennesima maschera di tragedia mal cominciata. È grottesco quasi quanto la risata di sua sorella, quel sorriso, mentre si volta a cercare con lo sguardo un punto indefinito dello spazio che pian piano si ripiega e dolcemente s’addormenta.
«Non tornerà, Bellatrix» l’ammonisce il suo Signore, atono. Freme in attesa di Harry Potter, ma sua è l’attesa insensata e priva di speranza di chi sa che non verrà accontentato. «Rodolphus dovrà morire».
Lei ride. Sembra ubriaca, pensa Cissy, ha il viso colorato d’ebbrezza e di sangue raggrumato: lei l’ha vista, commettere l’omicidio più brutale di tutti, quello per cui suo marito non la perdonerà mai. Ha visto cadere Theodore Nott, Narcissa.
Era ancora nella prima infanzia, un bambino che impara a camminare (e, adesso, non potrà farlo mai più) e ingenuamente crede ancora nella speranza.
Era il figlio dell’uomo cui aveva giurato amore eterno – ma chi ci crede più, ci ha mai creduto lei, nell’amore eterno? – e Bellatrix l’ha dissanguato con insospettabile perizia, con pazienza, osservando il medesimo sangue defluire dal volto di suo marito.
«Lo ucciderò io stessa» commenta, lei, ancora affamata di quella morte che Narcissa rifugge. «Solo per voi».
Narcissa non commenta, nemmeno al sicuro tra i propri pensieri: Rodolphus Lestrange sarà solamente l’ennesimo martire sacrificato sull’altare delle cause perse di Bellatrix, sulla sua devozione insensata per una divinità mancata. Ma, svestito della propria anima frammentata, Lord Voldemort preserva vestigia umane.
E, questo, è per ogni Mangiamorte totalmente imperdonabile: vi saranno fiumi di pentiti, pensa Cissy guardando quel suo marito che trema come un invasato, e Mangiamorte morti. Sopravvissuti, non se ne vedranno, non si sopravvive alla sconfitta di un Dio.
«Ti concedo l’onore» ribatte Voldemort, chinando magnanimamente il capo in direzione della sua serva più fedele. «Una morte dolorosa, Bellatrix: non c’è spazio per la clemenza, nei traditori».
Bellatrix ride, facendo scuotere l’intera radura in cui aspettano che Harry Potter si consegni a loro: è solamente l’ennesimo campo, profano, in cui potranno rifugiarsi dalla prospettiva d’un tempo che scorre.
E lei pregusta già il capo riverso di Rodolphus, abbandonato sul terreno, e quegli occhi nerissimi che pian piano si lasciano scivolar via.
«Sarà fatto, mio signore» sussurra, con passione. «Per voi lo farò».
Lui nemmeno dà segno d’averla udita, ma china il capo come per concederle una cortesia: è sciocca, Bellatrix, pensa Narcissa. S’è piegata, lei che era la più dritta di tutti.
Nera la sua volontà ferrea, ma ormai s’è solamente arrugginita.
 
***
 

«Ha ucciso Theodore» la voce di Draco è un sussurro che spazza le tenebre, mentre sua madre lo stringe al proprio petto. «L’ho vista».
Narcissa annuisce, non ha più forza dentro di sé: soffre, è chiaro che soffre, e un bicchiere di vino non basterebbe a lenire quel rimescolio doloroso che le incendia il cuore in una morsa ch’è inestinguibile. Ha ucciso, Bellatrix, è stata uccisa.
Mai nella propria vita candida, cotonosa, Narcissa Black-Malfoy avrebbe pensato di dover essere grata di qualcosa a Molly Weasley. Soprattutto se la gratitudine in questione dovesse riguardare l’omicidio della propria sorella.
Bellatrix è caduta a pochi metri dal suo Signore e Narcissa – la bambolina, la sorella minore – l’ha osservata con freddo distacco. Mai una lacrima, mai un’espressione avrebbe potuto stravolgerne il viso e turbarne l’artisticità.
«Ormai è finita, tesoro» sussurra, carezzando il capo di quel suo figlio spezzato. «L’hai vista anche tu».
Cadere come cadono i corpi morti, all’indietro, privata del proprio peso che la gravità le ha restituito solamente nell’impatto finale con il pavimento. Ingloriosa, la fine di Bellatrix Black, forse persino immeritata. Ma, allora, perché sua sorella si sente così dolorosamente sollevata?
Bellatrix non è solamente caduta, s’è infranta in un sussurro e ha infranto il Signore Oscuro nel grido che ha lanciato vedendola crollare sul pavimento, priva di ogni scintilla.
Non v’era alcuna traccia d’amore in lui, ma in un modo che Cissy si rifiuta di comprendere, Voldemort era ossessionato da sua sorella. E lei l’amava, in una maniera altrettanto insensatamente sbagliata, al punto di gettar via la propria natura come una veste stracciata e riscoprirsi pronta a esser madre.
Madre senza amore, amante quello sì. Le sembra di vederla ancora lì, nella Sala Grande, camminare in mezzo ai feriti con aria svagata e il ventre ancora deformato da una gravidanza mai voluta, forse nemmeno mai accettata, mal sopportata per quella fantasia che nutriva per il suo unico Signore.
Le sembra di vederla a bacchetta sguainata mentre insegue suo marito in ogni pensiero, senza dargli tregua.
S’è consegnato, Rodolphus. A mani alzate e bacchetta gettata sul pavimento, ha chinato il capo di fronte a Harry Potter e ha chiesto perdono per i suoi peccati (speranza debolissima su occhi troppo neri). Attenderò il verdetto, ha detto, mi rimetto a tutti voi.
Dentro di sé, le parole erano altre: che senso ha vivere, adesso?
Adesso che il proprio idolo s’è avviato oltre il crepuscolo, adesso che il suo unico figlio è l’ennesimo corpo da seppellire in questa giornata indimenticabile.
Ha ucciso due bambini, un ragazzo, Bellatrix, solamente per vendicarsi di lui: Rodolphus alza le mani e si rimette alla clemenza di Harry Potter.
Sua cognata gli sfiora la spalla, con fare consolatorio, i bioccoli son tornati candidi, forse con degli aloni che ne simulano delle cicatrici.
Neri gli occhi, non l’anima, su mani tremanti che s’avvicinano a coprirli: nel silenzio della Sala Grande, Rodolphus Lestrange si copre il volto con le mani e finalmente si concede di piangere.
Neri gli occhi, anche annacquati.
 
***

 
Nessuno dei mortali è felice: quando abbonda la prosperità, uno può essere fortunato più di un altro, ma felice mai.
(Euripide, Medea)
 
Le hanno dato una casa, una tomba, e altro amore: Bellatrix riposa, forse non in pace, ma comunque ha gli occhi chiusi sotto un cumulo di terra smossa nel giardino della villa di famiglia Black. Ora di Narcissa – Andromeda non l’ha mai voluta – la casa di Druella e Cignus giace abbandonata, con il cadavere della figlia mezzana a fare la guardia alle erbacce.
Narcissa sorride, di fronte alla pietra spoglia che segnala la sepoltura di sua sorella. Hanno messo una vecchia foto, dove una Bella diciottenne sorride forzatamente all’obbiettivo, al braccio del proprio futuro marito.
Non era felice, ma forse non l’è mai stata: si può davvero esserlo, in questa vita, o la felicità l’abbiamo sempre confusa con la fortuna?
Rodolphus Lestrange respira infelicità – quella esiste per davvero – ad Azkaban: così sia, ha detto ad Harry Potter. Farò ammenda dei miei peccati: ma voi non perdonate, o dimenticate, odiamola per sempre.
Non ha voluto salutare la figlia di sua moglie, prima che venisse rapita da un fuggitivo Rabastan, ancora pieno di speranze. Non ha voluto vedere un essere indifeso che avrebbe desiderato uccidere per vendicarsi di sua moglie – come ha fatto lei, per due volte. Fuga negata, amore anche, non lo vedi che adesso soffro anche io?
«Ormai è ora di pranzo, Cissy» Andromeda la scuote per la spalla, facendola sobbalzare. «Torniamo a casa».
Narcissa sorride alla sorella perduta, alla sorella ritrovata: mai più bruciature, si sono dette, mai più fili tagliati si vite scomposte. Andromeda l’ha riaccolta tra le sue braccia, donandole quella serenità che Bellatrix aveva stracciato e, adesso, famiglia è una parola che ha acquisito significato.
«Draco ci aspetta» aggiunge, la signora Tonks, gettando un’occhiata in tralice alla tomba della sorella. «E Teddy lo starà facendo impazzire».
Cissy sorride: forse la felicità non esiste per davvero, ma quella stretta al cuore, quella fortuna, vi si avvicina.
Andromeda ricambia il sorriso, illuminando lo sguardo di luce riflessa.
Neri gli occhi, forse incrinati su lacrime non versate, ma mai slavati e sbiaditi e pieni di terra come quelli di Bellatrix.


 
Buongiorno a tutti.
Per prima cosa mi scuso se ancora non ho risposto alle recensioni, lo farò oggi pomeriggio, promesso. Sono contenta di aver terminato questa storia, che ho amato scrivere, e spero che qualcuno abbia amato leggere.
Grazie per essere arrivati qui.
Gaia

 
   
 
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