Dopo
aver vinto il campionato del Kentucky, i confini scacchistici di Beth
si erano allargati. Aveva scoperto che, sì, lei era
l'incontrastata regina dello stato, ma esisteva una gerarchia dei
campioni, esattamente come nei pezzi. Essere il campione dello stato
era come essere un alfiere: forte,
certo, ma ce ne sono di molto più importanti. Come, ad
esempio,
il campione nazionale, paragonabile a una torre, oppure il campione del
mondo, la potente
regina. E il campione del mondo, da anni, era un russo di nome
Vasily Borgov.
Non appena aveva compreso questa grande verità aveva deciso di darsi un traguardo importante, un traguardo che molti non avrebbero neanche osato formulare: diventare il miglior giocatore del mondo. D'altronde, perché non puntare in alto? Era giovane e talentuosa, e gli scacchi le venivano naturali come respirare. Ma era perfettamente conscia che per raggiungere il suo scopo avrebbe dovuto per forza battere Vasily Borgov, lui che aveva conquistato quel titolo e poteva sfoggiarlo con orgoglio. E così Beth aveva iniziato a raccogliere qualunque tipo di informazione su di lui che potesse racimolare: articoli, libri — ma non il suo, no, troppo terrore reverenziale solo a guardare la copertina — e fotografie. Aveva ricostruito in questa maniera un'idea delle sue origini e di chi fosse: nato a Leningrado, bambino prodigio come lei, era diventato Gran Maestro a soli venti anni e da allora era una delle figure di spicco della scuola sovietica; aveva conquistato il titolo di campione del mondo dalle mani di Petrosian tre anni prima e, fino a quel momento, nessuno era riuscito a strapparglielo. Prediligeva uno stile tecnico, la teoria sulla creatività. Luchenko lo definiva un "dio dei finali" poiché era perfetto, implacabile nell'inseguire un vantaggio minuscolo e inflessibile nella difesa.
Vasily Borgov era il suo opposto, il rovescio della sua medaglia, ma anche il suo simile. Solo a pensarci le veniva la pelle d'oca e le mani le tremavano.
Aveva studiato tutte le sue partite su cui era riuscita a mettere le mani e ogni analisi la lasciava a bocca aperta: un gioco così pulito, preciso, era una gioia per i suoi occhi; era ogni volta rapita dalla magia che riusciva a creare sulla scacchiera, poiché le sue non erano semplici partite ma opere d'arte. E lei non poteva far altro che ammirarle con reverenza, come un fedele che rimane estasiato davanti a un dipinto religioso, il cuore in gola.
La decisione di iscriversi a un corso di russo era stata naturale: gli scacchi erano il gioco dei sovietici da vent'anni. Beth avrebbe imparato a parlare la stessa lingua del loro re.
Lo aveva visto di persona la prima volta a Città del Messico, quando aveva 17 anni.
Era una mattinata piovosa e sua madre l'aveva convinta a prendere una boccata d'aria prima del suo primo match. Rilassarsi, secondo lei, l'avrebbe aiutata a giocare meglio e non lo studio dell'ultimo minuto per colmare le lacune nella sua preparazione dei finali. Beth voleva accontentarla, nella speranza che le prestasse le attenzioni che ora erano rivolte soltanto a Manuel, perciò decise di fare una passeggiata nel parco Chapultepec: le era stato assicurato che le sarebbe piaciuto, grande e rigoglioso com'era, ma ciò che alla fine aveva veramente apprezzato era il fatto che nessuno le chiedesse l'età quando ordinava da bere. Non appena l'alcol le era entrato in circolo aveva pensato che sì, forse Alma aveva ragione, si sentiva molto meglio ora che non aveva più la mente occupata dal pensiero del suo avversario del pomeriggio. Era entrata nel padiglione delle scimmie, incuriosita da questi animali così simili all'uomo, anche per trovare un minimo di riparo dalla pioggia che aveva aumentato d'intensità e lì, mentre guardava un esemplare in particolare muoversi con agilità per la teca, i suoi occhi colsero un movimento sulla sua destra.
Beth Harmon vide per la prima volta Vasily Borgov nello zoo di Chapultepec.
Come non riconoscere l'uomo di cui aveva studiato avidamente ogni gioco, la cui foto era quasi sempre presente su ogni numero di Chess Review? Era lì, a malapena cinque metri da lei.
La prima sensazione fu di delusione, quasi. Era un uomo normale. Portava i capelli laccati e pettinati di lato come ogni uomo sopra i trent'anni che consocesse, sembrava alto, sì, ma non aveva una fisicità imponente, e indossava un completo scuro — marrone, forse? Nero? Aveva la vista un po' annebbiata... — come chiunque. Con una famiglia qualunque, una famiglia che si sarebbe aspettata di avere come vicina di casa a Lexington: una moglie più giovane di lui, in un vestito giallo e un cappello coordinato, e un figlioletto al quale si chinava per dire qualcosa all'orecchio. Spiegazioni sulle scimmie, chi lo sa, era troppo lontana per capire.
Vasily Borgov, il re degli scacchi, era un uomo ordinario.
Se n'era andata — fuggita? — subito dopo questa rivelazione, senza voltarsi indietro, avvertendo il suo sguardo su di sé. Tutto d'un tratto studiare i finali le sembrava un'idea molto più allettante della birra e, persino, delle pillole.
Aveva cercato il suo sguardo per tutto l'Invitational di Città del Messico.
Era l'unica cosa che non aveva potuto osservare da quel incontro fugace allo zoo e forse era proprio quello che lo distingueva dai giocatori comuni, quelli che stava distruggendo nei vari turni. Aveva cercato di giocare con lo stile più aggressivo che potesse architettare in modo da attirare la sua attenzione, così spietato che aveva portato quasi alle lacrime un giocatore austriaco che aveva osato opporsi a lei. Ma Borgov aveva continuato a concentrarsi solo sul suo torneo, senza mai abbassarsi a guardare le scacchiere altrui.
Quando aveva visto i loro nomi vicini, per la partita dell'ultimo giorno, aveva avuto le vertigini: avrebbe finalmente giocato contro il campione del mondo. Borgov avrebbe dovuto per forza guardarla. Al solo pensiero aveva sentito lo stomaco chiudersi e un nodo formarsi in gola.
Si era vestita per fare bella figura, con uno dei suoi completi preferiti: voleva che si ricordasse di Elizabeth Harmon, la giovane promessa degli Stati Uniti, così come lui occupava spesso la sua mente. Era persa in questi pensieri leggermente egocentrici quando vide i russi entrare nell'ascensore, ma non abbastanza distratta da non sentire come i due uomini che fiancheggiavano Borgov la stessero denigrando: un'ubriacona, si dice; si arrabbia quando sbaglia, ma è comprensibile visto che è una donna... Non si era mai sentita così umiliata in vita sua e il nodo alla gola si era sciolto in una fiamma che le bruciava in petto. Tuttavia, fra tutti, fu proprio Borgov a interrompere i due, senza sapere che la ragazza di cui aveva preso le difese era a neanche due metri di distanza; o forse lo sapeva, poiché non appena finì di parlare lanciò un'occhiata dietro di sé, verso di lei. Beth era stata rapida a distogliere lo sguardo dai russi e fingere innocenza, ma forse non abbastanza. Erano usciti velocemente dall'ascensore e lei li aveva seguiti a debita distanza, senza mai togliere gli occhi dalla schiena di Borgov. Ora la voglia di guardarlo negli occhi era diventata una vera e propria necessità: doveva sapere cosa realmente pensava di lei e lo avrebbe capito così, visto che parlare con lui era fuori discussione.
Ma Borgov evitò il suo sguardo per tutta la partita, il viso che assomigliava a una maschera di ghiaccio. E Beth comprese che nulla al mondo gli avrebbe mai fatto cambiare espressione, a parte mettere appositamente in presa la regina o lanciargli in faccia il pezzo, ma quest'ultima opzione non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua già pessima reputazione. Se solo avesse avuto le sue pillole non si sarebbe sentita così irrequieta, così frustrata dall'impossibilità di suscitare la benché minima emozione in lui, solo la più completa apatia. Questa idea la faceva ribollire e non l'aiutava di certo la posizione sulla scacchiera - terribile, con tutti i suoi pezzi in un angolo, raccolti attorno al re nella vana speranza di difenderlo - né l'espressione sconsolata dei gemelli. Né la sedia vuota che avevano riservato per sua madre.
Era sola, di nuovo. Sola contro il campione del mondo, che più che un uomo assomigliava a una macchina progettata dai sovietici per il controllo assoluto del gioco.
Se solo avesse avuto le sue pillole...
Ma era perfettamente consapevole che neanche loro l'avrebbero potuta salvare e l'unica cosa giusta da fare era abbandonare. Era una questione di sportività e rispetto dell'avversario, la prima lezione del signor Shaibel.
Borgov non la guardò neanche quando si rifiutò di stringergli la mano.
A Parigi avrebbe pagato qualunque cifra purché la smettesse di fissarla.
Sapeva di puzzare, se lo sentiva. Sapeva che l'odore di alcol, sesso e vomito essiccato non erano andati via magicamente quando si era spruzzata addosso quanto più profumo potesse mentre cercava le scarpe. Sapeva che tutti avevano intuito cosa non andasse in lei, perché avesse chiesto la terza caraffa d'acqua in un'ora.
Se tutti sapevano, perché umiliarla ancora di più fissandola? Borgov era un uomo crudele.
L'unica volta che si era azzardata a guardarlo, all'inizio del mediogioco, era quasi caduta dalla sedia per l'intensità che i suoi occhi di ghiaccio erano in grado di convergere. Ed erano pieni di disgusto, per il suo stato e per il suo gioco indecente. Non poteva neanche fargliene una colpa poiché era vero, era tutto vero, e se ne vergognava: come era potuta cadere così in basso dopo tutti i sacrifici fatti? Aveva deluso Benny, che l'aveva aiutata a disintossicarsi e a prepararsi per questo torneo, e aveva deluso se stessa. Apparentemente aveva deluso anche Borgov, che la guardava alla ricerca del motivo dietro la sua spirale autodistruttiva. Perché dietro al disgusto — una reazione fisica comprensibile — aveva visto anche un'ombra di preoccupazione.
Forse era ancora troppo ubriaca e si stava solo immaginando le cose.
Ciò che sicuramente non si stava immaginando erano gli sguardi di pietà degli spettatori, che la fissavano avidamente, ansiosi di vedere il declino di una promessa. Un giorno si sarebbero vantati di aver assistito al tracollo di Elizabeth Harmon in diretta, di quanto fosse penosa, aggrappata al bicchiere d'acqua come a un salvagente, e di quanto talento avesse sprecato in alcolici e tranquillizzanti. Il destino dei geni, no? Stavano tutti pensando questo, in una misura o in un'altra, sembravano quasi degli avvoltoi pronti a banchettare sul cadavere della sua carriera scacchistica. Nessuno, in quella folla, era lì per appoggiarla: era sola, un'altra volta, dall'altra parte del mondo.
Borgov, invece, aveva qualcuno lì a fare il tifo per lui. Lui non era solo. Lui aveva una famiglia che era lì per supportarlo. Aveva un figlio dagli occhi vispi e una bella moglie che di sicuro non passava le notti a bere per colmare i suoi vuoti. Una bella moglie che non si imbottiva di tranquillanti fin dall'infanzia.
Si era accorta di star piangendo solo quando la lacrima le arrivò sull'angolo delle labbra. Aveva abbandonato prima che si asciugasse.
Beth era consapevole di avere un'ossessione per Vasily Borgov.
L'aveva ridimensionata nel corso degli anni, questo sì, ma era abbastanza autocritica da vedere quanto spazio nei suoi pensieri occupasse ancora il campione del mondo. Non aveva mai smesso completamente di cercare informazioni su di lui, convinta che la chiave per svelare l'arcano della sua mente fosse lì da qualche parte: vedeva Borgov come una posizione da analizzare, la più complessa che avesse mai visto, e Beth non aveva ancora finito di trovare varianti. Era semplicemente affascinante, come solo gli scacchi potevano essere.
Erano i suoi occhi quello che l'avevano colpita di più: blu ghiaccio e intensi, Beth poteva ancora sentirli su di sé mesi dopo Parigi, specialmente quando cercava sollievo con una mano fra le gambe.
Gli occhi di Borgov la seguirono per tutto l'internazionale di Mosca.
Questa volta non lo stava immaginando, il campione del mondo spesso lanciava occhiate nella sua direzione: che fosse durante l'esibizione di giovani prodigi musicali o prima di entrare nella sala di gioco, Beth sentiva il suo sguardo fisso su di sé. Era sicura che fosse il suo, solo Borgov la elettrizzava così. Solo lui, nessun altro.
Quando lo vide alzarsi — nel mezzo della partita con quel irritabile giocatore svedese — per controllare la sua posizione sulla scacchiera, capì che finalmente era entrata nella sua mente. Vasily Borgov la riconosceva come sua rivale, come sua eguale.
L'eccitazione che aveva provato in quel preciso momento era impareggiabile, si sentiva invincibile, niente e nessuno poteva fermarla ora.
Il suo trionfo fu assoluto quando Borgov le offrì il suo re, alla fine della loro partita. Beth lo prese, la sua mano sorprendentemente ferma, alzandosi in piedi. Era quasi disorientata dal fragore dell'applauso e da ciò che era appena successo sulla scacchiera, ma era proprio Borgov a mantenerla coi piedi per terra: le stava ancora tenendo la mano e la guardava con un sorriso gentile. Aveva vinto lei, ma lui le sorrideva come se fosse orgoglioso di lei.
Poi, davanti a tutti, Vasily Borgov l'abbracciò e Beth ricambiò subito, appoggiando la testa sulla sua spalla; in questa posizione, poteva avvertire il suo cuore battere furiosamente, esattamente come il proprio.
Quando si separarono lo poteva intuire dalla linea tremante della sua bocca e dal mondo in cui si rifiutava di lasciarla andare: lo sentiva anche lui, quel fuoco che aveva alimentato il suo desiderio di spingersi oltre i suoi limiti.
Guardandolo negli occhi, Elizabeth Harmon realizzò che Vasily Borgov, il campione del mondo, era ossessionato da lei.
Note dell'Autrice:
Non appena aveva compreso questa grande verità aveva deciso di darsi un traguardo importante, un traguardo che molti non avrebbero neanche osato formulare: diventare il miglior giocatore del mondo. D'altronde, perché non puntare in alto? Era giovane e talentuosa, e gli scacchi le venivano naturali come respirare. Ma era perfettamente conscia che per raggiungere il suo scopo avrebbe dovuto per forza battere Vasily Borgov, lui che aveva conquistato quel titolo e poteva sfoggiarlo con orgoglio. E così Beth aveva iniziato a raccogliere qualunque tipo di informazione su di lui che potesse racimolare: articoli, libri — ma non il suo, no, troppo terrore reverenziale solo a guardare la copertina — e fotografie. Aveva ricostruito in questa maniera un'idea delle sue origini e di chi fosse: nato a Leningrado, bambino prodigio come lei, era diventato Gran Maestro a soli venti anni e da allora era una delle figure di spicco della scuola sovietica; aveva conquistato il titolo di campione del mondo dalle mani di Petrosian tre anni prima e, fino a quel momento, nessuno era riuscito a strapparglielo. Prediligeva uno stile tecnico, la teoria sulla creatività. Luchenko lo definiva un "dio dei finali" poiché era perfetto, implacabile nell'inseguire un vantaggio minuscolo e inflessibile nella difesa.
Vasily Borgov era il suo opposto, il rovescio della sua medaglia, ma anche il suo simile. Solo a pensarci le veniva la pelle d'oca e le mani le tremavano.
Aveva studiato tutte le sue partite su cui era riuscita a mettere le mani e ogni analisi la lasciava a bocca aperta: un gioco così pulito, preciso, era una gioia per i suoi occhi; era ogni volta rapita dalla magia che riusciva a creare sulla scacchiera, poiché le sue non erano semplici partite ma opere d'arte. E lei non poteva far altro che ammirarle con reverenza, come un fedele che rimane estasiato davanti a un dipinto religioso, il cuore in gola.
La decisione di iscriversi a un corso di russo era stata naturale: gli scacchi erano il gioco dei sovietici da vent'anni. Beth avrebbe imparato a parlare la stessa lingua del loro re.
Lo aveva visto di persona la prima volta a Città del Messico, quando aveva 17 anni.
Era una mattinata piovosa e sua madre l'aveva convinta a prendere una boccata d'aria prima del suo primo match. Rilassarsi, secondo lei, l'avrebbe aiutata a giocare meglio e non lo studio dell'ultimo minuto per colmare le lacune nella sua preparazione dei finali. Beth voleva accontentarla, nella speranza che le prestasse le attenzioni che ora erano rivolte soltanto a Manuel, perciò decise di fare una passeggiata nel parco Chapultepec: le era stato assicurato che le sarebbe piaciuto, grande e rigoglioso com'era, ma ciò che alla fine aveva veramente apprezzato era il fatto che nessuno le chiedesse l'età quando ordinava da bere. Non appena l'alcol le era entrato in circolo aveva pensato che sì, forse Alma aveva ragione, si sentiva molto meglio ora che non aveva più la mente occupata dal pensiero del suo avversario del pomeriggio. Era entrata nel padiglione delle scimmie, incuriosita da questi animali così simili all'uomo, anche per trovare un minimo di riparo dalla pioggia che aveva aumentato d'intensità e lì, mentre guardava un esemplare in particolare muoversi con agilità per la teca, i suoi occhi colsero un movimento sulla sua destra.
Beth Harmon vide per la prima volta Vasily Borgov nello zoo di Chapultepec.
Come non riconoscere l'uomo di cui aveva studiato avidamente ogni gioco, la cui foto era quasi sempre presente su ogni numero di Chess Review? Era lì, a malapena cinque metri da lei.
La prima sensazione fu di delusione, quasi. Era un uomo normale. Portava i capelli laccati e pettinati di lato come ogni uomo sopra i trent'anni che consocesse, sembrava alto, sì, ma non aveva una fisicità imponente, e indossava un completo scuro — marrone, forse? Nero? Aveva la vista un po' annebbiata... — come chiunque. Con una famiglia qualunque, una famiglia che si sarebbe aspettata di avere come vicina di casa a Lexington: una moglie più giovane di lui, in un vestito giallo e un cappello coordinato, e un figlioletto al quale si chinava per dire qualcosa all'orecchio. Spiegazioni sulle scimmie, chi lo sa, era troppo lontana per capire.
Vasily Borgov, il re degli scacchi, era un uomo ordinario.
Se n'era andata — fuggita? — subito dopo questa rivelazione, senza voltarsi indietro, avvertendo il suo sguardo su di sé. Tutto d'un tratto studiare i finali le sembrava un'idea molto più allettante della birra e, persino, delle pillole.
Aveva cercato il suo sguardo per tutto l'Invitational di Città del Messico.
Era l'unica cosa che non aveva potuto osservare da quel incontro fugace allo zoo e forse era proprio quello che lo distingueva dai giocatori comuni, quelli che stava distruggendo nei vari turni. Aveva cercato di giocare con lo stile più aggressivo che potesse architettare in modo da attirare la sua attenzione, così spietato che aveva portato quasi alle lacrime un giocatore austriaco che aveva osato opporsi a lei. Ma Borgov aveva continuato a concentrarsi solo sul suo torneo, senza mai abbassarsi a guardare le scacchiere altrui.
Quando aveva visto i loro nomi vicini, per la partita dell'ultimo giorno, aveva avuto le vertigini: avrebbe finalmente giocato contro il campione del mondo. Borgov avrebbe dovuto per forza guardarla. Al solo pensiero aveva sentito lo stomaco chiudersi e un nodo formarsi in gola.
Si era vestita per fare bella figura, con uno dei suoi completi preferiti: voleva che si ricordasse di Elizabeth Harmon, la giovane promessa degli Stati Uniti, così come lui occupava spesso la sua mente. Era persa in questi pensieri leggermente egocentrici quando vide i russi entrare nell'ascensore, ma non abbastanza distratta da non sentire come i due uomini che fiancheggiavano Borgov la stessero denigrando: un'ubriacona, si dice; si arrabbia quando sbaglia, ma è comprensibile visto che è una donna... Non si era mai sentita così umiliata in vita sua e il nodo alla gola si era sciolto in una fiamma che le bruciava in petto. Tuttavia, fra tutti, fu proprio Borgov a interrompere i due, senza sapere che la ragazza di cui aveva preso le difese era a neanche due metri di distanza; o forse lo sapeva, poiché non appena finì di parlare lanciò un'occhiata dietro di sé, verso di lei. Beth era stata rapida a distogliere lo sguardo dai russi e fingere innocenza, ma forse non abbastanza. Erano usciti velocemente dall'ascensore e lei li aveva seguiti a debita distanza, senza mai togliere gli occhi dalla schiena di Borgov. Ora la voglia di guardarlo negli occhi era diventata una vera e propria necessità: doveva sapere cosa realmente pensava di lei e lo avrebbe capito così, visto che parlare con lui era fuori discussione.
Ma Borgov evitò il suo sguardo per tutta la partita, il viso che assomigliava a una maschera di ghiaccio. E Beth comprese che nulla al mondo gli avrebbe mai fatto cambiare espressione, a parte mettere appositamente in presa la regina o lanciargli in faccia il pezzo, ma quest'ultima opzione non avrebbe fatto altro che peggiorare la sua già pessima reputazione. Se solo avesse avuto le sue pillole non si sarebbe sentita così irrequieta, così frustrata dall'impossibilità di suscitare la benché minima emozione in lui, solo la più completa apatia. Questa idea la faceva ribollire e non l'aiutava di certo la posizione sulla scacchiera - terribile, con tutti i suoi pezzi in un angolo, raccolti attorno al re nella vana speranza di difenderlo - né l'espressione sconsolata dei gemelli. Né la sedia vuota che avevano riservato per sua madre.
Era sola, di nuovo. Sola contro il campione del mondo, che più che un uomo assomigliava a una macchina progettata dai sovietici per il controllo assoluto del gioco.
Se solo avesse avuto le sue pillole...
Ma era perfettamente consapevole che neanche loro l'avrebbero potuta salvare e l'unica cosa giusta da fare era abbandonare. Era una questione di sportività e rispetto dell'avversario, la prima lezione del signor Shaibel.
Borgov non la guardò neanche quando si rifiutò di stringergli la mano.
A Parigi avrebbe pagato qualunque cifra purché la smettesse di fissarla.
Sapeva di puzzare, se lo sentiva. Sapeva che l'odore di alcol, sesso e vomito essiccato non erano andati via magicamente quando si era spruzzata addosso quanto più profumo potesse mentre cercava le scarpe. Sapeva che tutti avevano intuito cosa non andasse in lei, perché avesse chiesto la terza caraffa d'acqua in un'ora.
Se tutti sapevano, perché umiliarla ancora di più fissandola? Borgov era un uomo crudele.
L'unica volta che si era azzardata a guardarlo, all'inizio del mediogioco, era quasi caduta dalla sedia per l'intensità che i suoi occhi di ghiaccio erano in grado di convergere. Ed erano pieni di disgusto, per il suo stato e per il suo gioco indecente. Non poteva neanche fargliene una colpa poiché era vero, era tutto vero, e se ne vergognava: come era potuta cadere così in basso dopo tutti i sacrifici fatti? Aveva deluso Benny, che l'aveva aiutata a disintossicarsi e a prepararsi per questo torneo, e aveva deluso se stessa. Apparentemente aveva deluso anche Borgov, che la guardava alla ricerca del motivo dietro la sua spirale autodistruttiva. Perché dietro al disgusto — una reazione fisica comprensibile — aveva visto anche un'ombra di preoccupazione.
Forse era ancora troppo ubriaca e si stava solo immaginando le cose.
Ciò che sicuramente non si stava immaginando erano gli sguardi di pietà degli spettatori, che la fissavano avidamente, ansiosi di vedere il declino di una promessa. Un giorno si sarebbero vantati di aver assistito al tracollo di Elizabeth Harmon in diretta, di quanto fosse penosa, aggrappata al bicchiere d'acqua come a un salvagente, e di quanto talento avesse sprecato in alcolici e tranquillizzanti. Il destino dei geni, no? Stavano tutti pensando questo, in una misura o in un'altra, sembravano quasi degli avvoltoi pronti a banchettare sul cadavere della sua carriera scacchistica. Nessuno, in quella folla, era lì per appoggiarla: era sola, un'altra volta, dall'altra parte del mondo.
Borgov, invece, aveva qualcuno lì a fare il tifo per lui. Lui non era solo. Lui aveva una famiglia che era lì per supportarlo. Aveva un figlio dagli occhi vispi e una bella moglie che di sicuro non passava le notti a bere per colmare i suoi vuoti. Una bella moglie che non si imbottiva di tranquillanti fin dall'infanzia.
Si era accorta di star piangendo solo quando la lacrima le arrivò sull'angolo delle labbra. Aveva abbandonato prima che si asciugasse.
Beth era consapevole di avere un'ossessione per Vasily Borgov.
L'aveva ridimensionata nel corso degli anni, questo sì, ma era abbastanza autocritica da vedere quanto spazio nei suoi pensieri occupasse ancora il campione del mondo. Non aveva mai smesso completamente di cercare informazioni su di lui, convinta che la chiave per svelare l'arcano della sua mente fosse lì da qualche parte: vedeva Borgov come una posizione da analizzare, la più complessa che avesse mai visto, e Beth non aveva ancora finito di trovare varianti. Era semplicemente affascinante, come solo gli scacchi potevano essere.
Erano i suoi occhi quello che l'avevano colpita di più: blu ghiaccio e intensi, Beth poteva ancora sentirli su di sé mesi dopo Parigi, specialmente quando cercava sollievo con una mano fra le gambe.
Gli occhi di Borgov la seguirono per tutto l'internazionale di Mosca.
Questa volta non lo stava immaginando, il campione del mondo spesso lanciava occhiate nella sua direzione: che fosse durante l'esibizione di giovani prodigi musicali o prima di entrare nella sala di gioco, Beth sentiva il suo sguardo fisso su di sé. Era sicura che fosse il suo, solo Borgov la elettrizzava così. Solo lui, nessun altro.
Quando lo vide alzarsi — nel mezzo della partita con quel irritabile giocatore svedese — per controllare la sua posizione sulla scacchiera, capì che finalmente era entrata nella sua mente. Vasily Borgov la riconosceva come sua rivale, come sua eguale.
L'eccitazione che aveva provato in quel preciso momento era impareggiabile, si sentiva invincibile, niente e nessuno poteva fermarla ora.
Il suo trionfo fu assoluto quando Borgov le offrì il suo re, alla fine della loro partita. Beth lo prese, la sua mano sorprendentemente ferma, alzandosi in piedi. Era quasi disorientata dal fragore dell'applauso e da ciò che era appena successo sulla scacchiera, ma era proprio Borgov a mantenerla coi piedi per terra: le stava ancora tenendo la mano e la guardava con un sorriso gentile. Aveva vinto lei, ma lui le sorrideva come se fosse orgoglioso di lei.
Poi, davanti a tutti, Vasily Borgov l'abbracciò e Beth ricambiò subito, appoggiando la testa sulla sua spalla; in questa posizione, poteva avvertire il suo cuore battere furiosamente, esattamente come il proprio.
Quando si separarono lo poteva intuire dalla linea tremante della sua bocca e dal mondo in cui si rifiutava di lasciarla andare: lo sentiva anche lui, quel fuoco che aveva alimentato il suo desiderio di spingersi oltre i suoi limiti.
Guardandolo negli occhi, Elizabeth Harmon realizzò che Vasily Borgov, il campione del mondo, era ossessionato da lei.
Note dell'Autrice:
È interessante
tornare a scrivere dopo tanti anni, ma questa serie tv mi ha travolta
come un treno e quindi eccomi qua.
Se ho deciso di pubblicare questa storia su EFP è tutto merito di V a l y, che mi ha convinto a creare un nuovo account su questo sito. Perciò grazie, come al solito ti devo tantissimo.
Tutto sommato, devo ammettero, è bello essere tornati~
Se ho deciso di pubblicare questa storia su EFP è tutto merito di V a l y, che mi ha convinto a creare un nuovo account su questo sito. Perciò grazie, come al solito ti devo tantissimo.
Tutto sommato, devo ammettero, è bello essere tornati~