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Autore: ely_trev    16/01/2021    0 recensioni
Improvvisamente sento di aver perso la mia identità e sono sola in quella stanza così impersonale, in compagnia solo di un passato che, per sua natura, è destinato a non esserci più. Ho sempre pensato che le persone siano la somma delle esperienze vissute e allora perché io, nonostante sia circondata da una montagna di ricordi, mi sento vuota come se fossi un contenitore di cartone pronto per essere gettato via? Cosa sono diventata oggi? Chi sono?
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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OGGI
Quante ore ho passato su quella panchina quel giorno! La stessa panchina dove sono seduta ora. Però, quella giornata di mancate parole mi è servita lo stesso per capire che forse aveva ragione chi considerava lei e il marito due mezzi matti, anche perché mi sembra che i problemi che avevano con noi, con tutti noi, fossero solo loro… A ripensarci, con il senno di poi, quel folle di Franco sembra ridicolo mentre si faceva bello davanti ai miei occhi di adolescente che lo idolatrava, dicendo apertamente di essere migliore degli altri, perché lasciava i nipoti fuori dalle liti, quando poi è stato il primo a mettere in mezzo me e poi i suoi stessi nipoti, che diceva di voler proteggere. Ma va bene, evidentemente era un ramo secco che andava tagliato per continuare ad andare avanti.
Raccolgo tutte le mie cose e torno da dove sono partita.
Cara Maria, guarda che treno che hai messo in moto richiamandomi qui! Un treno fatto di ricordi, di domande e anche di qualche di rimpianto. Il più grande di tutti, forse, è quello di non essermi mai saputa godere il tempo al momento giusto. Parola d’ordine, per quello che mi riguardava, era responsabilità.
La mia famiglia soleva ripetermi “non ti chiediamo niente, ma…”. Che è risaputo che dopo un “ma” c’è sempre la fregatura. La mia era che non dovevo dare fastidio. Non dovevo creare problemi. Praticamente, non dovevo esistere. E, in un certo senso, questa è la fine che ho fatto… Io, a cinque anni, venivo già lasciata in casa da sola; a sei andavo e tornavo da scuola oppure a nuoto; arrivata ai quattordici anni, venivo considerata così matura persino a scuola, che mi prendevo le pagelle da sola. E poi accudivo mio nipote appena nato. Questo non lo rimpiango, mi ha permesso di crescere insieme a lui e di creare un legame molto forte, come non esiste con nessun altro. Ma, a quattordici anni, un adolescente medio pensa a divertirsi, io pensavo a cambiare pannolini. E questo mi ha portato inevitabilmente a scontrarmi con Alessandro e con i miei compagni di scuola.
Per me, esistevano le responsabilità: innanzi tutto, quelle della scuola, poi quelle economiche, con il peso delle scelte dei miei genitori che loro non mi spiegavano ma che davano per scontato che io comprendessi, e, non ultimo, quelle di quel fagottino che mi ha riempito talmente tanto l’esistenza da essere arrivata a considerarlo un po’ anche figlio mio.
Fintanto che restavo in questi canoni, andava tutto bene, non appena ne uscivo era problemi infiniti. “E tu non vuoi crearci problemi…” mi dicevano per instillare in me quel senso di colpa capace di bloccare ogni mio volere. Il paragone era spesso fatto con mio fratello, uno scapestrato senza cervello che ne combinava di tutti i colori. Senza voler paragonarmi a lui, io ero meglio semplicemente perché non avevo personalità e, comunque, non avevo nessuna intenzione di mostrarla perché, in ogni caso, non venivo ascoltata. Per mio padre e mia madre, ad esempio, la casa era loro, non era mai nostra. Che valore poteva mai avere la mia opinione?
Camminando per la strada dove ho risieduto per anni, alzo lo sguardo verso i due palazzi che ospitano i due appartamenti dove ho vissuto per tanto tempo. Sorrido; ripensando al passato c’è sempre quel pizzico di nostalgia. L’appartamento con il terrazzo, soprattutto, attira la mia attenzione con maggiore prepotenza. Durante quelli che i miei definirebbero “tempi d’oro”, lì sono stati organizzate decine e decine di feste, complice la gioventù di mia sorella e la voglia di stare in mezzo alla gente di mio padre. Io li ho vissute da piccina, da non partecipante ai giochi, ma ricordo comunque l’atmosfera gioiosa che si creava in casa. A parte una, una maledetta estate, quando, proprio il giorno del mio compleanno (e del compleanno di mio padre), mi sono ritrovata segregata in una stanza con il corpo coperto di bolle a causa della varicella e tutti gli invitati fuori, sul terrazzo, a divertirsi insieme. Erano i miei cinque anni… Ma, a parte la casualità dell’evento in sé, di feste ce ne furono tante altre, fino a quando occupammo la casa.
Ma lì, per me, ci furono anche momenti di paura. Era un caldo pomeriggio di inizio estate ed io, che non avevo ancora compiuto quattordici anni, stavo facendo addormentare mio nipote Leonardo cantandogli una canzone mentre eravamo sdraiati sul lettone dei miei genitori. Ad un certo punto squilla il telefono e Maria, con voce spaventata, mi dice di non aprire assolutamente a mio fratello Massimo che, lasciato il negozio di mia madre, dall’altra parte della strada, stava venendo a casa. Non capisco cosa sta succedendo, ma capisco che qualcosa non torna. Ho paura per me e per il bambino che non ha neanche un mese. Massimo arriva alla porta di casa, suona, ma io, come mi avevano detto, non gli apro. Allora, inizia a dargli calci e pugni e ad urlare nel portone per un paio di minuti. Io prendo in braccio Leonardo e tremo come una foglia. Le urla di mio fratello si interrompono all’improvviso, ma la pace dura poco perché, nel giro di cinque minuti, sento una persiana sollevarsi dall’esterno. Era lui che era entrato dal balcone. Nel frattempo, rientra mia madre e riprende la lite che avevano iniziato poco prima nel negozio. Avevano sempre discusso, ma così animatamente mai. Io sono sempre chiusa in camera da letto, da sola con il neonato, che percepisce la mia paura ed è spaventato a sua volta. Vorrei essere consolata ma mi trovo nella condizione di dover consolare. E sinceramente non so che pensare. Ricordo solo la sensazione di terrore. Da quel giorno, con mio fratello, si alterneranno periodi di pace a periodi di lite, che, quando capitano, compromettono anche il rapporto tra mia madre e mio padre e, per finire, con me, almeno fino a quando non sono cresciuta e non ho deciso che, per quello che mi riguardava, non ne potevo più. Basta. Ognuno per la sua strada. Non gli auguro il male, ma non lo voglio nella mia vita.
Abbasso lo sguardo e decido di farmi un altro giro per il quartiere. Arrivo di fronte il mio vecchio liceo, che oggi è diventato un tutt’uno con l’istituto tecnico dirimpettaio (anzi, a dirla tutta, l’istituto tecnico ha inglobato il liceo) e penso che, forse, la comodità di avere questa scuola vicino casa mi abbia indirizzato verso una scelta sbagliata; non sulla tipologia, che mi era congeniale, ma sulla qualità dell’insegnamento purtroppo sì.
Continuo a passeggiare fino alla stazione, fermata di quartiere del trenino metropolitano, e ripenso a quando, da piccoli, venivamo qua, molte volte, la sera, ad aspettare il papà di Alessandro che tornava dal lavoro. All’epoca, la stazione vera e propria non esisteva e io ed Alessandro, in attesa del treno, giocavamo sui binari incustoditi, raccogliendo quei sassi marroni sfidandoci a chi li lanciava più lontano. Oggi sarebbe impensabile.
Comincio a tornare indietro e mi soffermo davanti a quella scuola che incontravamo quando andavamo a prendere Mario, la scuola dei grandi, la scuola media che abbiamo frequentato tutti. Lì ho conosciuto Marco.
   
 
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