Serie TV > La regina degli scacchi
Segui la storia  |       
Autore: acchiappanuvole    03/02/2021    1 recensioni
“Non sono tanto piccola dopotutto. A volte lo sembro anche a me stessa, mi guardo e rimpicciolisco ai miei occhi. Ma ora non ne sono sicura. Forse sono grande e sei tu a rimpicciolire.”
Genere: Drammatico, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La casa di Rostokino affacciava sulla riva grigia del fiume Jauza, le basse finestre incorniciavano vetri sottili attraversati da arabeschi di ghiaccio, dai camini delle case circostanti pulviscoli di fuliggine sporcavano il paesaggio bianco a ridosso dell’acqua. A Vasily quella vista piaceva, era una posizione eccellente per tenere sotto controllo la possibilità di accampamenti tedeschi dall’altra parte del fiume. “Che ci sarà mai di interessante da farti stare tutto il giorno appollaiato a quella finestra!” chiedeva suo padre infastidito e Vasily indicava le fioche luci a oriente “potrebbero essere i tedeschi?” in risposta l'uomo lanciava occhiate distratte sbuffando “gli europei non hanno mai imparato che il generale inverno non lascia passare nessuno. Se laggiù ci fossero veramente i mangia crauti farebbero la fine che hanno fatto tutti quelli che hanno provato a invaderci. Ed ora scendi da lì ed aiuta tua madre.”
Quando Lyubim Borgov parlava del generale inverno, la mente di Vasily proiettava l’immagine di un grosso uomo di ghiaccio vestito con l’uniforme da generale zarista che brandendo una saska faceva scempio delle avanzate nemiche. Fantasticava su questa figura mitica, e non importava che sua madre gli ripetesse che non c’era alcun uomo di ghiaccio ma semplicemente un inverno gelido al quale nessun tedesco sarebbe sopravvissuto.  Kalisa era infatti una donna pratica, per natura poco incline alle fantasie e terribilmente concreta, era sopravvissuta alla fame della rivoluzione, aveva perso i suoi genitori e i suoi fratelli mandati alla morte in una guerra insensata ed ora scandiva il suo tempo in meccanicismi che riguardavano il mantenere la casa e assicurarsi ci fosse un piatto di minestra caldo ogni sera. Aspettava il secondo figlio, il ventre era gonfio dell’ottavo mese e lei toccandolo sorrideva “sarà di certo un altro maschio.” Aveva trenta cinque anni all’epoca, una donna di corporatura esile, il viso pallido ed occhi azzurri, una cascata di capelli rossicci che raccoglieva in una grossa treccia. La sera si accostava sempre al caminetto della piccola sala da pranzo, avvolta in un doppio scialle di lana grezza chiamava accanto a se il figlio pregandolo di leggere per lei. Kalisa non aveva infatti potuto proseguire gli studi, la sua alfabetizzazione era minima, pertanto, quando la stanchezza non le chiudeva gli occhi, spronava Vasily a leggerle qualcosa. “Non prendere quei libroni complicati” diceva “quei fratelli…i Karamazov …parole troppo complesse. Leggimi un dramma teatrale, quello del giardino,” Vasily l’accontentava “il giardino dei ciliegi?” e Kalisa annuiva soddisfatta “quello. mi piace tanto. Un giorno vorrei avere anch’io un bel giardino di ciliegi.” Lo ripeteva ogni volta e ogni volta dopo averlo detto s’incupiva “che sciocchezza. Morirò in queste quattro mura. Dai leggi.” Vasily prendeva il testo teatrale, un regalo del professor Borislav, l’insegnante di letteratura, un’edizione di quarta mano, in alcuni punti strappata e con lettere slavate.
Vasily leggeva, ormai aveva imparato quel testo a memoria, inventandosi parole e situazioni laddove mancava una pagina o il testo risultava incomprensibile, aveva all’epoca un’ottima capacità mnemonica, gli bastava leggere o osservare anche per una sola volta senza sforzo.
“Lo stai facendo diventare una donnetta” Lyubim solitamente non disturbava il momento di lettura, ma in quella sera di gennaio il suo umore era più cupo e dispotico del solito “ a cosa serve leggere tutte quelle sciocchezze.”
“Sei ubriaco?” chiedeva rassegnata Kalisa, notando la tazza fumante, probabilmente latte allungato con vodka, “quell’intruglio ti fa male.”
“Comprerei di meglio se avessi i soldi” sbottava “Vasily da domani verrai con me al lavoro. E’ ora che ti dia da fare anche tu per questa famiglia.”
“E’ un bambino” protestava Kalisa ma senza troppa convinzione.
“Io alla sua età lavoravo.”
“E la scuola?” chiedeva Vasily, stringendo più forte il testo logoro.
“Se ti insegnano quella scemenza è inutile. Oramai sai scrivere e far di conto, è quanto basta sapere.”
“Non voglio lasciare la scuola.”
Lyubim si era drizzato come un gallo “tu fai quello che dico io! E ora a letto.”
Notando il moto di protesta che stava nascendo sulle labbra del bambino, Kalisa pensò di alzarsi e spegnere l’incendio prima che divampasse “hai sentito, andiamo a letto.” Lo prese per mano, trascinandoselo dietro fino allo stanzino dove stava una brandina e uno scaldaletto “questo apparteneva allo Zar in persona” diceva soddisfatta.
“E perché ce l’hai tu?”
“Beh l’ho comprato.”
“E come fai a sapere che era dello Zar?”
“Perché così ha detto la donna che me l’ha venduto. Suo figlio era un bolscevico, quando entrarono nel Palazzo d’Inverno presero tante cose, e questo, mi ha assicurato la babushka, viene dalla stanza dello Zar.”
“Quindi è stato rubato.”
“I bolscevichi non hanno rubato.”
“Se prendi qualcosa dalla casa di qualcun altro si chiama rubare.”
“Tutta quella roba apparteneva al popolo, è sul nostro sangue che lo zar poteva permettersi tante ricchezze. Davvero la scuola non ti serve a nulla se non ti hanno ancora insegnato i valori della rivoluzione.”
“Il professor Borislav dice che le cose bisogne vederle da più angolazioni, che quello che sembra giusto per alcuni non sempre lo è per altri.”
“Dì a Borislav di far quattro chiacchiere con me. A parte questo vedrai che tuo padre cambierà idea sulla scuola, era solo nervoso. Anche se qualche lavoretto male non ti farebbe.” Lo aiutò a sistemarsi sotto le coperte, “domani continuerai a leggere per me?”
“Sono stanco di leggere sempre la stessa cosa, ci sono anche altri drammi sai.”
“Ma a me piace quello,” lo baciava sulla punta del naso “Kalinka, kalinka, kalinka moja! V sadu jagoda malinka, malinka moja!”
Ogni sera Kalisa intonava la kalinka, metteva il viso sul cuscino, accanto a quello di Vasily, e con la voce un po’ rauca ma dolce scandiva le parole finché gli occhi del bambino non si chiudevano.
 
L’indomani alle 6 del mattino, Lyubim l’aveva tirato giù dal letto impartendogli di vestirsi in fretta; assonnato Vasily obbediva, l’acqua fredda con la quale si era lavato il viso l’aveva fatto lacrimare dal freddo. In cucina una tazza di latte e pane, fuori un cielo opaco striato dalle prime schegge di luce del  mattino.
“I tuoi crucchi sono arrivati?” scherzava il padre allacciandosi gli stivali e Vasily lanciava occhiate ansiose alla finestra, l’occhio a scrutare oltre il fiume “non si vede nulla, ieri sera c’erano luci ora non c’è nulla.”
“Figlio mio se laggiù c’era davvero qualcuno ora fa parte integrante della tundra. Su sbrigati dobbiamo andare alla stazione.
“Dov’è mamma?”
“Non ti deve interessare,” e schiacciandogli il colbacco sulla testa l’aveva praticamente spinto fuori l’uscio. Il gelo rattrappiva le dita della mani tanto che Vasily credeva di averne perso la sensibilità; la stazione era un  nembo nero di carbone, parole condensate nell’aria e vestiti rattoppati, facce che guardavano le proprie scarpe e procedevano arrese verso i vagoni lungo i binari. Uomini ubriachi addormentati e addossati agli scompartimenti, donne giovani con fronti solcate troppo prematuramente e con uno o più bambini premuti contro, come chiocce costrette con pulcini pigolanti; gli fu impossibile non pensare a sua madre e al nuovo venuto che di lì a poco avrebbe strillato nelle anguste stanze della loro casa, una nuova bocca da sfamare per Lyubim Borgov.
“Scenderemo  alla prossima, vedi di non stare indietro.”
Incastrato tra il corpo robusto di suo padre ed il vetro sporco del vagone, Vasily osservava la tundra scorrergli sotto gli occhi, il mondo ignoto ai confini di Mosca, di tanto in tanto si scorgeva qualche sovchoz, un estenuante tentativo dell’uomo di ricavare qualcosa di commestibile dal terreno ghiacciato. Sua madre gli ripeteva che la vita dei contadini era la condizione peggiore e che suo padre era fortunato a lavorare come operaio d’acciaieria. Vasily cercava di immaginare come potesse essere una fabbrica d’acciaio, con grandi fornaci spalancate come bocche affamate, talmente affamate d’aver portato via un dito della mano destra di Lyubim e due falangi della sinistra. Osservò le proprie mani lunghe e bianche che fino a quel momento avevano conosciuto solo le pagine dei libri e al massimo la fatica di spaccare qualche ceppo di legna. Kalisa ci teneva che preservasse quelle mani, non tanto per un fatto estetico quanto perché, come era solita borbottare quando lavava i piatti “tieni bene le mani Sily, le mani rovinate spaventano le donne e soprattutto portano grandi dolori” e prendeva ad osservare le sue dita artritiche “io ne son ben qualcosa.”
Dopo quello che parve essere un tempo infinito il treno sostò ad una piccola stazione circondata da basse stamberghe, oltre le costruzioni era possibile scorgere le ciminiere dell’acciaieria. Cercando di mantenere il passo veloce di suo padre, senza badare all’ansia che gli faceva risalire quel poco di latte che era riuscito a bere, Vasily realizzò che quello , da quel momento in poi, sarebbe dovuto essere il suo destino, sepolto fino alla vecchiaia nelle mura di una fabbrica, finendo frustrato e arrabbiato con la vita come suo padre. Un moto di ribellione gli salì al petto da costringerlo a bloccarsi in mezzo alla strada.
“Io voglio continuare ad andare a scuola!”
Lyubim non sembrava averlo sentito così che Vasily lo ripeté a voce più alta “Voglio continuare ad andare a scuola!”
E stavolta il messaggio era arrivato forte e chiaro perché Lyubim si era voltato e senza dire una parola l’aveva strattonato per il giacchetto con violenza “voglio!voglio! Ringrazia il cielo che abbiamo fretta altrimenti un paio di cinghiate sulle gambe non te le levava nessuno. Ci sono i sogni Vasily e poi c’è la realtà e la realtà è che per mangiare bisogna lavorare, la poesia non ti metterà il pane nello stomaco, dovevi nascere figlio di qualcun altro ma mala sorte ha voluta che gravidassi tua madre ed ora siamo qui. Cammina su quelle gambe o ti lasco nel primo fosso che incontriamo.”
 
Quando varcarono i cancelli della fabbrica alcuni uomini sostavano all'esterno sotto la neve, seduti sulla base di vecchi tronchi o copertoni rotti si erano ammassati a ridosso dei muri in cemento per ripararsi dal freddo. Lyubim andò spedito verso il più anziano di loro, un uomo massiccio dalla barba scura e il naso rosso che pareva ustionato.
“Compagno Pavlov ho bisogno di parlarti.”
L’interpellato alzò appena lo sguardo mentre rigirava tra le mani un paio di dadi di mollica di pane, “non ora compagno Borgov, siamo presi da una questione seria qui.”
“E’ per mio figlio, vorrei tu mettessi una buona parola per farlo lavorare qui.”
Pavlov lanciò un’occhiata al bambino e lasciò che una risatina ironica gli ravvivasse il viso “con quelle braccine al massimo può vuotare i cessi.”
“Per favore compagno.”
“Ti è sfuggito che stiamo qui fuori tutti a congelarci lo scroto? Anche volessi non si può fare nulla finché dentro non avranno finito i controlli delle fornaci, pare che qualche fenomeno ci nascondesse l’oppio ed ora siamo tutti qua in attesa di sapere che fine si farà.” Scorgendo lo sguardo sconcertato di Lyubim Pavlov scoppiò a ridere, “allegro compagno, non ci capiterà sorte peggiore di questa. Fa avvicinare il marmocchio che gli diamo un’occhiata.”
Senza proferire altra parla Lyubim spinse il ragazzino verso il gruppo di uomini, odoravano di qualcosa che non riusciva ad identificare, e facevano cerchio attorno a Pavlov e ad un altro uomo intento a concentrarsi su di una scacchiera di fortuna. “Vieni ragazzo, intanto che il nostro amico qui pensa vuoi lanciare dei dadi? Bisogna avere più di un’occupazione nella vita sai.”
Ma Vasily teneva la concentrazione sui pedoni di legno grezzo  “come fate a giocare senza i colori?” chiese a bruciapelo e Pavlov esibì una eloquente smorfia “beh questi qui li ha fatti il compagno Smirnov con gli scarti di uno sgabello, purtroppo mancava la vernice e così vedi” indico la sommità di una torre “ci sono queste strisce di gesso per distinguere il bianco dal nero.” Si grattò l’ampia fronte rugosa “conosci gli scacchi piccolo zaichik*?” e senza aspettare risposta gli afferrò una mano come ad esaminarla “ben poco a che vedere con le nostre” rise. Vasily ritrasse la mano “li conosco dai libri.”
“Ah sì? Abbiamo un lettore compagni!” e schiamazzi irrisori si alzarono senza remore “e dimmi i tuoi libri ti hanno insegnato come si gioca?”
Vasily alzò le spalle senza rispondere.
“compagno lascia il posto al piccolo zaichik, tanto non ne esci da quel trappolone che ti ho preparato” senza nascondere una certa contrarietà l’avversario di Pavlov lasciò il posto al piccolo Borgov.
“Qui si fa sul serio zaichik” e volse poi un’occhiata significativa in direzione di Lyubim “ se il tuo topo da biblioteca riesce a muovere in modo sensato può darsi che ce la metta la buona parola, Borgov.”
 
(*zaichik -leprotto)
 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > La regina degli scacchi / Vai alla pagina dell'autore: acchiappanuvole