Film > Operazione U.N.C.L.E.
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Autore: Fuuma    11/03/2021    4 recensioni
Una nuova missione per l’UNCLE. Volgograd, fantasmi e frammenti di un passato che si pensava fosse stato seppellito per sempre tra la neve e il sangue.
Napoleon è diviso tra la missione e quello che sta iniziando a provare per Illya, a cui si rifiuta di dare un nome. Illya è un agglomerato di confusione e rabbia e l’ultima cosa di cui ha bisogno è di scoprire di non essere immune come credeva al fascino dell’americano. Gaby cerca di aprire gli occhi ai due.
Ma, alle volte, i morti non ne vogliono sapere di rimanere tali.
{ napollya | scritta per il BBI 10° edizione }
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Gabriella Teller, Illya Kuryakin, Napoleon Solo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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warning: post-movie; slash; internalized homophobia; h/c;

I personaggi appartengono agli aventi diritto


 

 

Prizrak Volgograda

 

———————— 03. Volgograd secret ————————

 

Napoleon aveva scostato il pesante drappo di velluto nero che dava ingresso al palchetto a loro riservato, si era infilato per primo controllando che tutto fosse perfettamente a posto e aveva lasciato passare Gaby. Solo quando era stato il momento di Ivanov, con finto disinteresse, aveva spostato il braccio e il tendaggio era ricaduto in faccia all’uomo.

Ops.

Sapeva di star sfidando la sorte più di quanto fosse furbo fare, ma essersi fatto cogliere di sorpresa poc’anzi, fuori dal teatro, l’aveva indispettito. Si trattava di un agente russo – un agente russo che non era Peril –, doveva immaginare che la collaborazione con loro non gli avrebbe impedito di dare in escandescenza e venire alle mani.

Lo guardò togliersi di dosso il drappo ed entrare a passo pesante, irritato. Finse di non dar peso alla sua presenza, ma con tutta l’adrenalina che ancora gli circolava in corpo, non c’era senso che non lo percepisse – e non lo considerasse un intruso.

Al contrario di Napoleon, Gaby lo fissava spudorata. Era tornata impassibile, e se Solo non avesse imparato a conoscerla, avrebbe detto che non esistesse nulla al mondo in grado di turbarla: non due spie con lo stesso incarico di rapirla alla sua officina in Berlino, non la morte di suo padre, non di certo un agente del KGB a caso dalle maniere rozze. Ma gli era bastato scorgere la sua mano sinistra – la più vicina a lui – che per un attimo si era tesa a cercarlo, per sapere che sotto la scorza dura da meccanico e dietro all’autocontrollo tedesco, nascondeva la sua paura.

Scostò una delle poltrone dai cuscini bordeaux e le cuciture in oro e la invitò a sedersi. Quando Gaby prese posto, si chinò su di lei e le stuzzicò il collo con un bacio leggero.

«Stai andando bene, hun.» le mormorò sulla pelle calda.

Sentì il respiro attraversarle la gola e scivolare fuori dalle labbra in una lenta esalazione.

Gaby si rilassò contro la sua bocca, tanto che il sorrisetto spavaldo tornò a regnare sulle labbra rosse e le dita che prima avevano cercato Napoleon, affondarono tra i capelli dell’uomo, afferrandone una ciocca tra due polpastrelli e tirandola per dispetto. «Ammettilo, Solo, era tutta una scusa per baciarmi.»

«Touché.» Rise e si rialzò, rimanendo in piedi, accanto a una delle colonne di legno intagliato. Da quella postazione poteva vedere senza problemi le balconate di fronte, la galleria, la platea e il palcoscenico. E, oltre a poter inquadrare l’ingresso al loro palchetto, aveva occhi anche su Agente Comunista Numero Due.

Doveva ammettere che in quella missione iniziavano a esserci troppi russi fastidiosi, e pensare che il peggiore della compagnia di allegri coinquilini della Lubjanka[1] doveva ancora entrare in scena.

Dmitriy.

Era curioso di scoprire che razza di creatura soprannaturale fosse – cosa di quel bastardo poteva piacere così tanto a Illya da aver abbassato la guardia, e perché aveva l’orribile sensazione che, anche con la condanna a morte sentenziata dal KGB, Peril continuasse a considerarlo migliore di lui.

Kiselyov  aveva il vantaggio di essere russo, d’accordo, ma Napoleon era… Napoleon! Aveva sedotto terroristi, fanatici fascisti, soldati, medici di guerra, poliziotti e perfino un paio di suore – Dmitriy poteva aver sedotto l’unica persona inarrivabile per Solo, ma era anche riuscito a deluderla e a ferirla come lui non si sarebbe mai permesso di fare.

Non si meritava l’amore di Peril. Dannazione, non meritava nemmeno che Peril sprecasse pallottole per lui!

Portò una mano sotto la giacca, tastando la pistola. Fantasma o no, lo avrebbe rispedito nella tomba da cui era uscito, anche a costo di trascinarcelo di peso e ficcargli un paletto di frassino nel petto, così!, per buona misura contro i non-morti.

Dal palco, viole e violini aprirono lo spettacolo, dominando nell’allegro di Vivaldi. Era il segnale di via: il drappo si sollevò, rivelando la presenza del compratore.

 

«Avete portato i progetti?»

 

Tutto procedeva secondo i piani.

Finché…

 

«È uno di loro

 

La missione fallì ancor prima di cominciare.

Ci fu un pugno, uno spintone violento, un bottone saltato dalla giacca di Napoleon insieme alla cimice russa; uno dei presenti perse la pistola, mentre Ivanov si piegò in due per aver ricevuto un calcio tra le gambe da Gaby.

Napoleon uscì dallo scontro con due pistole tra le mani, una delle quali una Marakova, calibro 9. e provvista di silenziatore – la pistola in dotazione agli agenti del KGB[2].

«Ivanov, Ivanov, Ivanov. Abbiamo così tanto di cui parlare.»

Avrebbero dovuto, l’avrebbero fatto, ma il mondo intorno a loro si sfaldò prima.

Il rombo di un tuono riecheggiò per l’intero teatro e le pareti tremarono, come quelle di un castello di carta che minacciava di crollare su se stesso da un momento all’altro.

Il soffitto piovve sul pubblico e, dal basso, giunsero le prime grida di panico: “Tam bomba! Tam bomba!”.

C’è una bomba!

Un secondo tuono scoppiò più feroce del primo.

Il palchetto tremò, Napoleon spalancò le braccia cercando di rimanere in equilibrio, ma aveva la sensazione di trovarsi in alto mare durante una tempesta, su una nave che stava colando a picco.

Una delle colonne si spezzò in due. La vide crollare tra Gaby e Ivanov e, ancor prima che nel pavimento si aprissero le prime crepe, seppe già cosa stava per accadere.

«Gaby! NO!»

Il vuoto la ingoiò.

 

 

 

Rivoli cremisi imbrattavano la parte sinistra del volto di Illya; le orecchie fischiavano e sopra di lui fiocchi di neve ondeggiavano a rallentatore, scivolando bianchi dal cielo e tingendosi di sangue una volta posati sulla sua pelle.

Buttò fuori fiato e nuvole bianche di vapore. La pallottola lo aveva sfiorato, grattandogli la tempia e la punta dell’orecchio ma, cecchino a parte, stava bene, meglio di chi invece si era trovato a teatro. Meglio di Gaby e di Solo.

Non c’era tempo – non serviva a nessuno là sopra.

Contò sino a tre.

Une[3]. Imbracciò il fucile.

Dva[4]. Tolse la sicura e scattò seduto con la schiena in avanti.

Tri[5]. Sparò alla finestra da cui aveva scorto il bagliore.

Non si preoccupò di prendere la mira, e quando dall’altro lato non ricambiarono il favore decise che erano morti o, con tutta probabilità, fuggiti, approfittando del caos che l’esplosione aveva generato.

Meglio così, aveva altro di cui preoccuparsi.

Appese il fucile alla spalla e si precipitò verso le scale, gettandosi a capofitto giù per i gradini, saltandoli a tre o quattro alla volta per tuffarsi in strada, dove la polvere, i calcinacci e le grida della gente che sgorgava dallo Tsaritsynskaya occludevano l’accesso alla piazza.

Si guardò intorno, spintonò sconosciuti, facendosi largo tra la folla, ma Gaby e il cowboy non c’erano.

«Gaby! Cowboy!» urlò, le grida intorno a lui soffocavano la sua voce e ogni volto che gli appariva davanti, sporco di sangue, lacrima e paura, non era quello dei suoi compagni, ma un presagio per come li avrebbe potuti trovare.

Se li avesse trovati.

Si aggrappò con forza alla cintura del fucile – in quel momento si sarebbe aggrappato a qualsiasi cosa, mentre serrava la mascella e avanzava controcorrente, colpito ai fianchi e alle gambe da braccia, gomiti e scalciate che si agitavano per uscire da quell’inferno.

Da vicino, l’ingresso del teatro era un cumulo di macerie crollate – inginocchio, un uomo scavava e urlava il nome di qualcuno. Illya per un attimo lo fissò inorridito, sentì il sangue gelare nelle vene e traballò in avanti, scattando di colpo indietro quando si accorse di aver calpestato i resti di una borsetta elegante.

Cercò di ricordare se Gaby ne possedesse una e di che colore fosse.

Non era quella, vero? No! Non erano lì sotto, si erano salvati. Il Cowboy era in gamba, era un maledetto gattaccio con nove vite, avrebbe trovato il modo.

«Peril! Siamo qui!»

Quasi inciampò sui propri passi, quando Napoleon sbandierò un braccio dal marciapiedi, reggendo a sé Gaby con l’altro e aiutandola ad avanzare.

Illya corse loro incontro.

Erano imbiancati di polvere e di intonaco, il volto e le spalle coperti di graffi e abrasioni, e ora che poteva vederli meglio, non era Napoleon ad aiutare Gaby, ma il contrario. La tedesca gli circondava il costato e, al riparo sotto al suo braccio per evitare che la colpissero, ne sosteneva il peso.

Le ferite del cowboy, escoriazioni lungo le spalle e un taglio alla coscia, erano quasi negli stessi punti di quelle di Gaby, solo più profonde – doveva averla protetta in qualche modo, facendole scudo con il suo corpo.

«Ivanov ci ha traditi, è scappato e Solo si è ferito! Stavo precipitando dal palco e lui si è lanciato per prendermi!» Gaby urlò per farsi sentire.

«E questo è il motivo per cui detesto far comunella coi comunisti… presenti esclusi.» scherzò Solo, ma Illya non l’aveva nemmeno ascoltato. Fermo di fronte a loro, raccolse i loro volti tra le mani, le palme incollate alle guance e le dita premute al collo, che raccoglievano battiti contro i polpastrelli. Che li sentivano vivi. Vicini. Salvi.

Sospirò e il mondo riprese a girare, frenetico, caotico e gonfio di grida, pianti e panico.

«Cercate riparo» li istruì, lasciando il fucile a Napoleon.

I due lo guardarono confusi. «E tu?»

«Io inseguo fantasma.»

Qualsiasi altra domanda si perse nella notte.

Corse via, rincorrendo la scia di uno spettro, scivolando tra vicoli che avevano studiato per la missione e che avrebbero dovuto usare come via di fuga, qualora qualcosa fosse andato storto.

Tutto lo era andato. E lui non si era accorto di niente.

Da qualche parte, rimasta troppo indietro perché potesse aspettarla, sentì la voce di Gaby che lo chiamava.

Imboccò un altro vicolo.

Doveva trovarla. Non si era trattato di un fantasma, era sicuro di aver visto una donna, era sicuro che fosse—

La siluette di una donna dai lunghi capelli biondi comparve sul fondo della strada, come un’apparizione dalle forme eteree e dai colori sbiaditi – vestiva di bianco, un cappotto elegante, ma che a un’ispezione più accurata avrebbe rivelato orli disfatti e punti in cui la pelle si era screpolata, lasciando macchie grigie.  

Quando si accorse di Illya, infilò una mano nella tasca del cappotto, ma lui annientò ogni distanza e l’afferrò per i polsi. Erano sottili, fragili, ma erano reali, la pelle era calda e il sangue rovente.

Non era un fantasma, non più di quanto avrebbe potuto esserlo lui.

La spinse al muro, costringendola ad allentare la presa alla piccola glock nascosta nella tasca. La pistola cadde in terra – contro un uomo della stazza di Illya non avrebbe potuto fare niente, eppure, quando i loro sguardi si incrociarono per la prima volta, fu lui a sentire il vuoto aprirsi nello stomaco e ingoiargli le viscere.

Tutto di quel volto, dai tratti decisi, agli occhi d’argento, era il ritratto di Dmitriy.

Anche la donna lo riconobbe, ma la sorpresa lasciò il posto a uno sguardo spiritato, carico di odio e occhi sbarrati che sembravano conoscere  e detestare ogni cosa di lui.

«Tu… I-Illya Nickovitch Kuryakin[6] sibilò in russo, sputando il suo nome completo come a volerlo maledire. «Cosa aspetti? Uccidimi! Non è quello che hai fatto con mio fratello?!»

Illya non seppe cosa dire – cosa fare. Sbatté le palpebre, disorientato.

Dmitriy aveva una sorella e lui non l’aveva mai saputo…

Allentò la presa e si tirò indietro, traballando su gambe che all’improvviso gli sembravano sprofondare nel cemento.

La donna ne approfittò per estrarre un coltellino nascosto sotto la manica della giacca, e con un urlo animale gli fu addosso, affondando la lama nelle sue carni.

Illya non si difese nemmeno: il pugnale taglio gli abiti, squarciò la pelle, penetrò nella carne e nei muscoli al di sotto della spalla.

Lo sapeva.

Era stato diligente, aveva obbedito agli ordini e aveva portato a termine la missione.

Lo sapeva.

Dmitriy era morto.

Illya lo aveva ucciso.

 

Gloria, gloria, in excelsis deo

 

Serrò la mascella quando le prime ondate di dolore iniziarono a irradiarsi lungo la spalla.

«Perché… perché sei qui… perché sei tu si sentì chiedere.

«Lo sai il perché, non mentire! Lui ti amava come un figlio… e tu invece… come hai potuto?! Ma piuttosto che tornare in quella prigione, preferisco crepare! E anche tu avrai quello che ti meriti!»

Illya crollò con un ginocchio per terra e la donna lo seguì, rigirando la lama nella ferita.

Aveva compiuto il proprio dovere.

Sentì il pugnale scavarsi la strada verso il cuore e i polmoni.

Era stato un buon soldato.

La punta iniziò a scalfire le ossa.

Aveva—

«Peril?»

Solo comparve sull’imboccatura del vicolo insieme a Gaby.

Di colpo, Illya sentì la coscienza riemergere e i riflessi tornare a rispondere: afferrò la mano della donna e la tenne chiusa sul pugnale, impedendole ogni via di fuga.

«La-lasciami!» urlò lei, agitandosi e spingendo la lama più a fondo.

Illya ringhiò per il dolore, ma continuò a tenerla contro di sé, come un automa che perseverava in quell’unica funzione per cui era stato programmato, ignorando la ferita, il dolore e il sangue che apriva boccioli rossi sulla giacca e sul dolcevita.

Gaby lo affiancò e posò una mano sul suo dorso. «Illya, puoi lasciarla ora, non può più scappare. Lascia la presa.»

«È la sorella di Dmitriy…» mormorò lui, la lingua ancora impostata sul russo, la mente inceppata su quell’unico particolare.

 

Gloria

Gloria

 

«Va bene. Ora, però, lasciala, sei ferito.» anche Gaby passò al russo.

«Non importa.»

«Sì che importa!»

«ILLYA!»

Lasciò la presa di scatto, quando Napoleon urlò il suo nome.

Le dita da ladro si insinuarono sotto quelle di tutti, puntando il pugnale, stringendone il manico e, con forza, lo estrasse in un colpo solo.

Ci fu un suono, un singulto sommesso, che Illya non riuscì nemmeno a riconoscere come proprio.

Gettato lontano il pugnale, la mano di Napoleon si premette con forza sulla ferita, imbrattandosi il palmo di sangue e percependo la pelle lacerata e la carne esposta.

Lentamente Illya mosse la testa; lo guardò negli occhi e in quegli occhi vide il timore scivolare via, come ultimi avanzi d’oscurità durante l’alba.

«Non… non è nulla, cowboy. Non morirò.»

Anche Napoleon lo guardò negli occhi e nei suoi, di occhi, Illya non seppe cosa vide, ma l’altro gli sorrise con una nota dolciastra e uno sbuffo a portarsela via – una mezza risata troppo codarda per danzargli oltre le labbra. «Lo voglio ben sperare, perché non ho alcuna intenzione di spaccarmi la schiena per portarti via di peso. Sei tu il commie[7] con la superforza, non dimenticartelo.»

L’offesa s’infranse in terra, dimenticata, accanto a un pugnale sporco di sangue. Illya si concentrò sulla mano del cowboy, sulle dita macchiate di rosso e sull’odore ferroso che invase il vicolo.

Kogda-nibud' i tvoya istoriya zakonchitsya tak zhe, Il’ja: krov'yu[8].

  

 

Angelìka Kiselyov, sorella minore di Dmitriy Kiselyov.

Napoleon riusciva a vederci dell’ironia nella situazione: lei sorella di un morto, che il KGB aveva scomodato dalla tomba e usato per la seconda volta come capro espiatorio per ottenere l’aiuto di Peril; lui, l’agente Ivanov, che possedeva la simpatia da calci sui denti del traditore ipocrita e lo charme di un formichiere, si era fatto fregare dalla stessa donna a cui aveva teso la propria trappola. Senza dimenticare che, a quell’ora, potevano considerarlo sterile, grazie all’intervento provvidenziale di Gaby.

E i russi messi al tappeto dalla sua impavida tedesca salivano a quota due.

L’avevano lasciata insieme ad Angelìka, una volta che quest’ultima li aveva condotti al minuscolo monolocale in cui si era rifugiata negli ultimi mesi, forse l’ultimo posto sicuro di tutta Volgograd.

Napoleon chiuse la porta del bagnetto dietro di sé – un bugigattolo claustrofobico che occupava insieme a Illya e in cui nessuno dei due riusciva a trovare una posizione comoda, che impedisse loro di starsi tra i piedi. Se Illya era seduto sulla tazza del gabinetto, Napoleon si trovava letteralmente tra le sue gambe divaricate, ago e filo in mano con cui lo stava lentamente ricucendo, bende e disinfettante posate sulle cosce dell’altro.

Si era bendato la gamba e ora era il turno del russo.

«Prima il tuo amichetto Dmitriy e ora l’agente Ivanov. Cosa c’è nel vostro DNA che vi porta tutti a tradire chi si fa in quattro per voi?» scherzò, aggiungendo un altro punto sulla ferita.

Era lento, preciso, con una mano teneva pinzati i lembi di pelle e con l’altra penetrava l’ago in punti vicini, così che la cicatrice rimasta fosse più simile alla firma dello scultore che aveva creato l’opera d’arte chiamate Illya e non l’ennesima tacca brutta e rozza, su un corpo che non conosceva altro se non la lotta.

Si aspettò una ribattuta stizzita – una testata, a esser precisi – ma ricevette in cambio solo silenzio e uno sguardo azzurro piantato alla porta chiusa.

Gaby gli aveva confidato da tempo che Illya non amava i luoghi angusti[9], ma questa volta dubitava c’entrassero qualcosa le pareti che rischiavano di restringersi intorno a lui.

Era Angelìka il problema. Erano i segni della prigionia e delle torture subite dal KGB, dopo la morte di Dmitriy. L’avevano catturata, rinchiusa, interrogata, l’avevano picchiata, umiliata e piegata ed eppure non erano mai riusciti a spezzarla e i progetti rubati da suo fratello erano rimasti nascosti lontano dalle loro mani. Nessuno avrebbe mai dovuto possedere armi così pericolose, nemmeno il KGB.

Napoleon tagliò il filo e ammirò soddisfatto il risultato, anche se più che sui punti, lo sguardo seguiva il disegno dei pettorali di Illya, il modo in cui li sollevava a ritmo di un respiro irrequieto, il pallore della pelle, le cicatrici mal trattate che interrompevano una tela altrimenti perfetta, la peluria bionda sul ventre che spariva sotto la cintura dei calzoni, come un sentiero dorato che conduceva in un regno a lui sconosciuto.

Si schiarì la gola, dando la colpa all’astinenza. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era quella di inseguire fantasiose città di smeraldo[10] nei calzoni del suo partner! «Quindi, devo menzionarlo io l’elefante nella stanza o vuoi avere tu l’onore?»

Illya abbandonò l’attenzione alla porta, per inquadrare il suo volto.

Napoleon aspettò che dicesse qualcosa, ma le labbra del russo erano sigillate e se non fosse stato per l’accelerare del respiro, avrebbe pensato non lo avesse nemmeno sentito.

«Ci hanno mentito quando hanno chiesto il nostro aiuto per recuperare i progetti e hanno mentito a te sulle ragioni per uccidere Kiselyov. E come ciliegina sulla torta, Ivanov ha fatto il triplo gioco e si è organizzato per prendere tutto il bottino per sé. Ci ha fregato tutti, Peril.»

«Ho… ho fatto mio dovere…» Da quando avevano lasciato Lenina e il teatro, infilandosi tra vie secondarie che non risultavano sulle mappe stradali, quella fu la prima volta che Illya tornò ad aprire bocca. Ne uscì una voce accartocciata.

Napoleon appoggiò ago, filo e disinfettante sul lavandino.

«Per l’appunto, non è colpa tua se sei un bravo agente.»

«No.» Ne uscì un ringhio animale, più simile al guaito di una bestia ferita. Illya scosse la testa, irrigidì la linea delle spalle e Napoleon temette si preparasse per colpirlo, invece il russo ruotò il capo di lato e fissò il mobiletto incastrato sotto la piccola finestrella dai vetri incrostati, come se stesse ponderando l’idea di sradicarlo a mani nude e gettarlo in strada. Ma anche così, Napoleon poteva scommettere che non sarebbe bastato a far spazio a tutto quel groviglio di rabbia che gli si attorcigliava addosso da Dio solo sapeva quando.

Lo guardò spostare di nuovo lo sguardo, fissarsi le cosce: «Ho obbedito a ordine. Tu non avresti fatto.»

«Ti assicuro, che se prima di oggi mi fosse capitato sotto tiro, avrei ucciso il tuo amico più che volentieri» fu una confessione non voluta, che grondava gelosia da ogni virgola e ogni punto e metteva a nudo tutto l’astio che aveva provato nei confronti del mentore russo. Illya, però, non sembrò nemmeno accorgersene e per Napoleon fu meglio così – la tristezza di Peril poteva gestirla.

«No.» riprese Illya. Sul lato destro del volto, una strisciata di sangue rappreso lo segnava dalla fronte all’orecchio. «A Roma avevamo stessa missione, stessi ordini.»

Napoleon annuì. «E il fatto che siamo entrambi qui a rivangare il nostro romantico passato è la prova che nessuno dei due l’ha portata a termine.»

«Questo perché tu trovato soluzione![11]»

Napoleon gonfiò il petto, sollevò il capo e lo rigettò in avanti, svuotandosi in un’unica pesante boccata. Aveva sottovalutato la cocciutaggine russa, come riuscisse a superare perfino l’orgoglio diamantino di Peril.

Gli sfiorò la tempia col pollice, strofinando piano la pelle, per cancellare le tracce più superficiali di sangue. «Questo fa di me un genio, Peril, non una brava persona.»

La battuta non lo toccò nemmeno di striscio.

Forse si era sbagliato, la tristezza di Kuryakin non era qualcosa che potesse gestire – era una nebbia fitta, che nascondeva mine antiuomo e demoni di cui poteva sentire solo il verso e sperare non fossero così vicini come sembravano. Era un coltello piantato nella schiena che Illya non poteva raggiungere e che, per questo, aveva lasciato lì ad arrugginirgli la pelle e il cuore – nemmeno si aspettava più che qualcuno potesse estrarlo per lui.

«Ti sei fidato dei tuoi superiori e loro ti hanno ingannato. Ma sei un buon partner, Peril. Anche se sei un russo musone che ha più cose in comune con un robot che con un essere umano, non affiderei a nessun altro la mia vita.»

Illya rimase a lungo in silenzio, immobile – una statua di marmo, che iniziò a sgretolarsi, rivelando la vita al di sotto e braccia umane, lunghe e forti, che si tesero in avanti, stringendosi alla vita di Napoleon e premendo il volto al suo petto.

Solo temporeggiò. Reclinò il capo dall’uno all’altro lato, ma da qualsiasi angolazione lo si guardasse, quello era un abbraccio.

Peril lo stava abbracciando!

«Questo perché se… se qualcuno deve uccidere te, Cowboy, io deve essere quel qualcuno.» La voce di Illya gli attraversò la camicia, depositandosi sul torace insieme a un tenero calore.

Sorrise. «Non ho intenzione di farmi uccidere da nessun altro. Beh, al massimo da Gaby, nei giorni in cui la irrito più del solito.»

Sentì le mani di Illya aprirsi ai suoi fianchi: «Se dici a qualcuno di questa conversazione, ti strappo lingua.»

Ed eccolo tornato il solito russo musone che gli aveva rubato il cuore. A lui, che era un ladro ancor prima che un uomo e aveva passato la vita a conquistare gli altri, senza mai esser conquistato.

Gli accarezzò i capelli con una lentezza calcolata, assaporando ogni istante in cui le dita erano libere di passare tra le ciocche bionde.

«Tranquillo, Peril, quello che accade nei bagni angusti di Volgograd, rimane nei bagni angusti di Volgograd[12].» Si chinò, posandogli un bacio alla fronte.

Dovette funzionare da codice d’accensione: Illya alzò la testa e tuffò occhi di un azzurro scintillante in quelli di Napoleon – enormi zaffiri, accarezzati da una luce famelica, che Solo avrebbe volentieri rubato per sé, se non fosse stato troppo occupato a temere per la propria vita.

Forse, questa volta, aveva osato troppo.

Eppure non fu sicuro di chi dei due si mosse per primo: nel tempo di un respiro, le loro labbra si erano toccate, si erano incontrate e si erano incastrate.

Su una cosa doveva dare ragione a Peril: il suo bacio e The kiss non potevano essere più diversi.

Napoleon aveva battuto i denti con i suoi e aveva trattenuto ogni lamento e ogni risa per timore di farlo scappare, e Illya premeva semplicemente le labbra contro le sue, la bocca immobile, il volto rigido, il respiro trattenuto e gli occhi chiusi. Non era chiaro se aspettasse un permesso, o che qualcuno gli dicesse cosa fare.

Passò un’intera eternità, finché Illya non sfiatò direttamente nella bocca di Napoleon e quell’incontro di labbra si trasformò in un bacio vero, profondo, ustionante, che bruciò come la capocchia infiammata di un fiammifero e si consumò altrettanto in fretta.

Proteso in avanti, Napoleon aveva appena fatto scorrere le dita dietro la nuca di Illya, gemendo nella sua bocca, così disperatamente bisognoso di quella vicinanza, della sua lingua che succhiava tra le labbra, del suo sapore, del suo respiro mozzato. Aveva appena iniziato a scoprire tutto un nuovo lato di Peril, fatto di gusto e tatto, di saliva e morsi, di passione e delicatezza, che il russo lo scostò bruscamente da sé.

Si guardarono in silenzio, lo stesso lucore negli occhi e la stessa voglia inconfessata.

Napoleon era pronto a riprendere esattamente da dove aveva lasciato; ma Illya si alzò dal gabinetto, lo costrinse a scansarsi, afferrò i resti del suo dolcevita e uscì dal bagno.

«Pe-Peril?»

Che diavolo era successo?

Il russo non si voltò nemmeno quando parlò: «Quello che accade in bagno di Volgograd, cowboy.»

Eppure Napoleon non avrebbe saputo spiegarsi cosa di preciso fosse accaduto.

 

 

Illya scostò con una mano le tende ingrigite dell’unica finestrella presente nell’appartamento di Angelìka. Aveva ricominciato a nevicare e la neve aveva ricoperto le loro impronte, stendendo sulla strada un nuovo candido manto.

La casa era minuscola, il bagno era l’unica stanza appartata, mentre tutto il resto si accalcava in pochi metri quadrati di spazio: nella zona cucina c’era un singolo fornelletto, un lavandino e un frigorifero arrugginito dal motore assordante; in un angolo era stato sistemato un tavolino quadrato con due seggiole soltanto, una delle quali occupata dalla padrona di casa; alla parte opposta vi era un divanetto che a malapena avrebbe potuto ospitare due persone e accanto c’era una brandina, l’unico letto disponibile di tutta la casa.

Attaccato a una presa, vi era un radiatore elettrico – quando Illya si era guardato intorno, non aveva trovato nessun altra fonte di riscaldamento se non quella. Ora che quel buco era riempito da quattro persone, poteva sembrare sufficienti, ma le pareti della casa erano sottili, ammuffite, rosicchiate dai topi e dalla finestra chiusa il freddo sibilava insinuandosi tra le fessure.

Non doveva essere stato facile per Angelìka vivere in quelle condizioni.

Sentì la ferocia delle sue occhiate che, da quando era uscito dal bagno precedendo il cowboy, non lo avevano abbandonato un secondo. Illya aveva scorto occhi arrossati, lucidi di pianto, ma quando aveva tentato di parlarle, aveva visto l’odio tornare vivo a lacerarle un volto pelle e ossa, che non avrebbe dovuto avere più di trent’anni e che invece ne dimostrava cinquanta. Il fascino militare di Dmitriy, in lei, era quasi una presa in giro: una parodia dell’agente che era stato e che penzolava come un impiccato tra i tratti troppo spigolosi del volto scavato di Angelìka.

«Anche se Ivanov ha tradito sia noi che il KGB, chiedere aiuto a quelli è fuori discussione, vero?» Gaby calcò con rabbia sul nome del servizio segreto russo, mostrando lo stesso disgusto che era stato della Kiselyov quando aveva affrontato Illya. Condivideva con Napoleon lo stesso divanetto scassato, anche se il cowboy sedeva su uno dei braccioli e, curvo su Gaby, si reggeva con una mano allo schienale.

«Già. Inoltre non sappiamo quanti altri sono coinvolti nel tradimento dell’Agente Yevnukh[13].» Nonostante stesse dando le spalle alla finestra e a Illya, il russo riuscì a notare il suo ghigno soddisfatto per il nuovo soprannome di Ivanov.

Non riuscì a fare a meno di trovarlo divertente a sua volta, anche se nel momento in cui sentì il sorriso increspargli le labbra, si sforzò di rimandarlo indietro.

«Rinforzi di Direttore Waverly arriveranno in dieci ore. Finché rimaniamo qui, saremo a sicuro.» si intromise.

Sentì Angelìka agitarsi nervosamente sulla seggiola, mentre gli altri due si voltarono a guardarlo. Non appena incrociò lo sguardo di Solo, Illya tornò a guardare la finestra, osservando i fiocchi di neve e pregando perché raffreddassero il calore che gli stava cuocendo il ventre da quando aveva baciato il cowboy.

Era stato debole.

Era stato stupido.

Era stato un errore.

Un’imperdonabile, stupido, soffice, errore.

Gaby allungò un braccio oltre il fianco di Solo, per pungolare quello di Illya. Le sue dita si appesero a uno dei passanti dei calzoni, pizzicandoli prima e tirandoli poi, in una pretesa d’attenzione che il russo non era sicuro di volerle dare: «Si può sapere cos’è successo tra voi due?»

«Niente» rispose tagliente, più di quanto avrebbe voluto.

«A-ah. Solo, hai qualcosa da aggiungere?» Gaby cambiò bersaglio.

Ma nemmeno il cowboy aveva intenzione di sbottonarsi e la sua risposta giunse con una scrollata di spalle e un’occhiata di sbieco che Illya scansò come le precedenti: «Nulla di diverso dal solito: è soltanto Peril che ama farsi desiderare.»

Illya si aggrappò alla tenda, la strinse così forte che sentì uno degli anelli a cui era appesa cedere e venir giù, penzolando contro il vetro della finestra. Si impose di non voltarsi e non ribattere, anche se aveva percepito benissimo il tono offeso nelle parole dell’americano – lui, che era un ricettacolo di peccati e perversioni e che con il suo fare lo aveva infettato!

Si era lasciato vincere in quel bagno. Il suo corpo si era mosso da solo e quando aveva baciato il cowboy, i confini di quella stanzetta troppo piccola che sembrava poterlo schiacciare da un momento all’altro si erano dissolti, colati via insieme all’intero monolocale, all’edificio, alle strade, a Volgograd tutta. Aveva sentito la carezza della lingua di Solo leccargli le labbra, spennellarle di saliva e i suoi denti morderlo giocosi, aveva sentito il respiro accelerato confondersi con il suo, l’ossigeno farsi irrespirabile e riempirsi di ansimi, e contro di sé aveva sentito le minuscole pieghe delle labbra soffici di Solo, che avrebbe potuto contare una ad una.

L’aveva baciato perché l’aveva voluto. L’aveva voluto e si era teso per prenderlo. E ora che aveva scoperto quanto gli fosse piaciuto, non sapeva più come smettere di volerlo.

Un altro anello si staccò dalla finestra.

Chto sluchilos' v volgogradskom sanuzle ostat'sya tam! Si ripeté.

Baci. Peccato. Vergogna.

Tutto!

Chto sluchilos' v volgogradskom sanuzle ostat'sya tam.

Quello che accade nei bagni di Volgograd, lì rimane.

 

 

Un tempo – tre ore e venticinque minuti prima – quella che Napoleon indossava era una giacca elegante tagliata su misura per lui, acquistata nella sua bottega di fiducia di New York, nello stesso quartiere in cui suo padre si era trasferito quando era immigrato in America. Ora valeva quanto uno straccio e se la stava ancora indossando era solo perché non voleva morire assiderato. Eppure sulle spalle continuava a raccogliersi neve e astio – davvero troppo per una notte soltanto.

Bussò alla porta della finta izba e sollevò una ventiquattrore oltre la testa, sorridendo all’occhio della telecamera che lo stava inquadrando.

Se quel posto era uguale alla safe house che Ivanov aveva preparato per loro, era inutile cercare di fare irruzione con la forza. Non sapevano quanti uomini aveva a disposizione quell’agente castrato e nei minuti che sarebbe servito a Napoleon per scassinare l’ingresso, quelli avrebbero fatto in tempo a ucciderlo.

Sospirò.

Partivano in svantaggio e dovevano giocare d’astuzia, considerato che quella notte, per un motivo o per l’altro, tutti avevano perso la testa, compresa la nuova best friend russa di Peril.

 

«Angelìka è scappata!»

«Grandioso. Se qualcos’altro va storto, vi prego sparatem—»

«Illya, metti via la pistola, Solo stava facendo l’idiota.»

«Volevo soltanto mettere fine a sua miseria.»

 

Napoleon bussò più forte alla porta rinforzata, le nocche arrossate dal freddo e i capelli ricoperti di brina.

«Non farmi attendere troppo Igor, lo sappiamo entrambi che non vedi l’ora di mettermi le mani addosso. E anche se non è il tuo compleanno, ti ho portato un regalo.» cantilenò, agitando la valigetta.

 

«Qualcuno ha specificato alla bestie di Peril che i buoni siamo noi?»

«Non puoi biasimarla. È passata dall’essere ricercata dagli agenti segreti russi a ritrovarsi in casa altrettanti agenti segreti che vogliono esattamente ciò che voleva il KGB. Non può fidarsi di nessuno.»

«Ma così Ivanov avrà catturata.»

«Perché trovano sempre tutti il modo di complicare le cose?»

«…perché guardi me, Cowboy?»

«Nessun motivo in particolare.»

«Se avete finito di tirarvi le trecce l’un l’altro come due bambini alla loro prima cotta, possiamo pensare a come salvare Angelìka.»

 

Riabbassò la valigetta, chinò il capo e notò schizzi di sangue sull’orlo dei calzoni – perché non era sufficiente lo strappo all’altezza della coscia, da cui facevano capolino le bende bianche della fasciatura.

Accanto ai suoi piedi, riversi in terra contro la parete di legno, due uomini fissavano il vuoto – le iridi lattescenti quanto la pupilla si confondevano con il bianco del bulbo e la bocca era rimasta aperta in un’ultima smorfia di dolore. C’era stato il singhiozzo di due proiettili, l’unico suono che Napoleon era riuscito a distinguere, e gli uomini erano caduti, con il cranio trafitto; Illya non aveva permesso loro nemmeno di sfiorare la pistola, colpiti nel momento stesso in cui avevano avvistato la lenta avanzata dell’americano.

Non ci sarebbe voluto molto perché anche il resto degli scagnozzi rimasti all’interno del bunker si facessero avanti, reclamando il loro sangue, forti del vantaggio di avere Angelìka come ostaggio.

 

«Come fai a sapere che ci cascheranno e crederanno che la valigetta con i progetti sia in mano nostra?»

«Non lo faranno, ma hanno già mandato a monte l’occasione giusta e con il KGB alle calcagna e altri agenti dell’U.N.C.L.E. in dirittura d’arrivo, vorranno giocare sul sicuro.»

«Cowboy ha ragione: prenderanno valigetta e uccideranno noi.»

 

Napoleon schiacciò la schiena contro la parete, reclinando il collo in avanti per riuscire ad inquadrare la porta.

«Mi sto spazientendo, Iachin. Ho quasi l’impressione che tu non li voglia questi progetti!» esclamò.

La porta si spalancò con un cigolio sinistro, familiare, e sulla soglia comparve Angelìka – il volto pesto, le labbra spaccate e le ossa tremanti sotto quella poca pelle che ancora le restava addosso. Dietro di lei, a usarla come scudo umano, Ivanov si assicurò di rimanere in un punto cieco al mirino dei cecchini e guardò il profilo sorridente di Napoleon con odio.

«Il mio nome è Ivanov, porco americano, e tu non sei nella posizione di contrattare!»

Napoleon rimpianse la sua parlata russa; il suo americano era così corretto da essere fastidioso, non era così che un russo avrebbe dovuto parlare la sua lingua – mancavano gli errori basilari e la forma semplice e scolastica usata da Illya.

Guardò davanti a sé. Di fronte all’edificio si estendevano ettari di bosco, mentre sul lato destro si apriva la strada: una striscia di terra battuta su cui nessuno si era mai preoccupato di stendere una pavimentazione decente.

Loro ci erano arrivati con una Berlina rubata, ma il percorso era più adatto ai fuoristrada e due di essi, pesanti e dalle ruote imponenti, erano parcheggiati lì vicino.

Sorrise.

Il celodurismo russo, per una volta, tornava utile.

«Suvvia Ivan, credevo fossimo amici. No?» lo canzonò.

«Lo diventeremo quando ti avrò ucciso e avrò pisciato sul tuo cadavere.»

«Vedi, ecco perché vi piace tradirvi l’un l’altro, la vostra amicizia è penosa.»

«Pensa ai tuoi di amici, Solo. Lo so che sono qui da qualche parte! Quella piccola puttana e quel verme di Kuryakin. Dì loro di uscire!»

«Ora che mi ci fai pensare, come stanno le tue parti basse? Non sarai ancora arrabbiato per quel calcio, guarda che Gaby non ti ha privato di nulla, la virilità già ti mancava.» ridacchiò.

«Falli uscire, ora!»

«Io ti faccio vedere i miei, se tu mi fai vedere i tuoi?» Innervosire l’ex agente era la parte migliore del piano e avrebbe potuto andare avanti per ore. Ma il divertimento finì quando sentì il rumore del cane della pistola che veniva caricato e Angelìka sussultare a labbra chiuse: Ivanov le aveva premuto la canna gelida alla tempia.

Appoggiò la ventiquattrore a terra e ne approfittò per chinarsi a prendere una pistola da uno dei cadaveri, infilandola nella cintola, coperta dalla giacca. A loro non sarebbe dispiaciuto e, dopo l’esplosione dello Tsaritsynskaya, dopo aver dovuto abbandonare valigia e vestiti in una safe house non più così safe, quello era il minimo che gli spettasse.

«Non vuoi dirmi nemmeno in quanti siete? Peril sostiene che non possiate essere più di quattro, io invece credo che tu sia solo un povero fallito che non piace a nessuno e ho scommesso che foste soltanto in tre. E visto che due sono già passati a miglior vita, immagino il gran party che starete facendo lì dentro.»

Ivanov non apprezzò l’umorismo. «Se non li fai uscire, giuro che ammazzo Angelìka e poi ammazzo te!»

Napoleon schiuse le labbra, guardando il fiato trasformarsi in vapore bianco e perdersi nel buio. «Se proprio insisti.»

Fece un cenno con la mano libera e si scansò dalla parete, fronteggiando la porta.

Tra gli alberi si fece avanti la sagoma scura di Illya che, sotto al pallore lunare, riconquistò il candore della pelle e dei capelli biondi. Poggiò a terra il fucile di precisione e avanzò con le mani in alto.

«Dov’è la puttana?» sibilò Ivanov, assaporando il momento in cui avrebbe fatto pagare alla donna ogni affronto.

Illya storse il naso. «Rimasta a sicuro. Certe missioni non adatte a donna.»

Ivanov sembrò accontentarsi della spiegazione e spostò la canna della pistola dalla tempia di Angelìka a Napoleon. «Spingi la valigetta verso di me con il piede.»

Solo obbedì: con la punta delle eleganti Oxford – ormai infangate, graffiate e ricoperte di cenere e calcestruzzo, cosa che aveva strappato un sospiro affranto all’americano – spinse la base della valigetta in avanti.

«Lentamente.» Ivanov godeva della posizione di potere che aveva conquistato, mentre li teneva sotto tiro entrambi. Spintonò Angelìka in avanti e le face segno di prendere la valigetta.

La donna tremò e guardò Napoleon con sguardo tradito – nel suo silenzio l’accusa scoppiava con la forza di una bomba, la stessa che aveva piazzato lei all’ingresso del teatro quando aveva scoperto la trappola del KGB.

Controvoglia afferrò il manico della valigetta.

Ivanov le stritolò il braccio, e con uno strattone prepotente, la tirò di nuovo a sé. «Sei un idiota americano. Ora che ho i progetti, posso uccidervi tutti quanti, andrò perfino a cercare quella cagna tedesca e le porterò i vostri saluti. E se anche non fossero quelli originali, mi basterà tenere in vita Angelìka.»

Napoleon fu più irritato che dispiaciuto, non aveva gradito il modo in cui l’altro aveva appellato Gaby. Abbassò le braccia, ignorano la minaccia della pistola, e si voltò verso Illya: «Non ti dispiace, vero?»

Illya scrollò le spalle. «No, ha offeso più te e Gaby che me, posso lasciare a voi piacere.»

Lo ringraziò con un cenno del capo, inarcò un sopracciglio e, con l’aria sorniona di una volpe giunta innanzi al recinto delle galline, studiò il volto confuso di Ivanov: «Per pura curiosità, Ignac, era tuo il fuoristrada parcheggiato qui fuori?»

 

«Quindi come gli impediamo di ucciderci tutti? Non so voi, ma io ho altri programmi dopo la missione che non venir seppellita in un cimitero russo.»

 

«Cos—»

 

«Hun, mia cara, è qui che entri in scena tu.»

 

Una coppia di fari abbagliò la notte e illuminò le spalle di Illya e Napoleon.

Il motore di un’auto rombò con prepotenza e un fuoristrada si precipitò in corsa, dritto dritto, contro l’izba, contro l’ingresso, contro Ivanov e Angelìka.

L’ex Agente sussultò, confuso, e anche se durò un solo attimo, fu più che sufficiente a dare il tempo a Napoleon di afferrare la mano di Angelìka e tirarla a sé, mentre Illya li cingeva entrambi tra le braccia, gettandosi con loro di lato, lontano dalla traiettoria del veicolo.

L’impatto fu duro. Un buco grande quanto il muso ammaccato del fuoristrada allargò l’ingresso, cadaveri di tronchi tranciati penzolavano dall’alto e la porta sradicata era piombata sul cofano.

Al sicuro, nel punto in cui l’auto era partita, Gaby agitava la mano lasciando cadere in terra il resto dei sassi che non le erano serviti per bloccare il pedale dell’acceleratore.

«Grazie per aver scelto di lavorare con la U.N.C.L.E., Agente Ivanov. Ora brucia pure all’inferno~» chiocciò soddisfatta.

Sotto il peso di Illya e di Angelìka, Napoleon ridacchiò dolorante, ma soddisfatto. «Ok, Peril, ora puoi—»

«Levati.» il sibilo russo di Angelìka arrivò prima.

Illya si alzò.

«Questo non cambia niente. Sei e sarai per sempre nulla più che un assassino!»

«Lo so.» C’era poco ormai che potesse dire, che Illya già non sapeva.

«Non ti perdonerò mai per quello che hai fatto!»

«Lo so.»

«Non…»

Napoleon si chiese se fosse il caso di intervenire, ma Gaby le raccolse una mano e Angelìka tacque di colpo, come se quel contatto umano le avesse ricordato che esisteva altro al di fuori dell’odio per Kuryakin. Non disse più nulla, si fece da parte insieme alla tedesca, che rifilò uno sguardo d’intesa ai due partner e poi si assicurò che le condizioni di Angelìka non fossero gravi.

«Spero che Gaby si assicuri non abbia nulla di affilato addosso, non vorrei finisse come l’ultima volta.» commentò Napoleon.

Ancora seduto tra la neve, si ritrovò la mano di Illya tesa davanti a sé, in un invito ad afferrarla.

Rimase a fissarla, dubbioso, come se accettandola ci fosse il rischio di rimanere fulminato.

Con tutto quello che era accaduto, non avevano avuto il tempo di chiarirsi. No, Napoleon non voleva chiarezza, voleva delle scuse messe per iscritto in cui Peril ammetteva di averlo sedotto e abbandonato, perché era questo ciò che era successo in quel bagno e nessuno, nessuno può sedurre e abbandonare Napoleon Solo! Quello era compito suo!

«Cowboy?»

«Seah, seah, ci sono.» Riluttante gli strinse la mano.

Ci volle uno strattone e mezzo secondo: Illya lo trascinò in piedi con una facilità imbarazzante. Va bene che era un supersoldato che fermava le macchine a mani nude, ma avrebbe potuto avere la decenza di fingere un minimo di sforzo nel sollevare con un braccio solo un uomo di novanta chili!

Napoleon si coprì il volto con una mano. Se questo era un modo tutto russo di eccitarlo… stava funzionando!

Dando le spalle all’ingresso distrutto dell’izba, si sistemò il colletto di una camicia che ne aveva viste troppe perché un viaggio in tintoria potesse rimetterla a nuovo. Praticamente tutto quello che indossava, sarebbe finito nell’inceneritore una volta tornati alla base – che spreco.

Non si accorse dell’ombra scura che gocciolò sangue e si erse dalle macerie dell’izba, né del pugnale sollevato contro di lui: Ivanov gridò, un verso incomprensibile, un insulto in russo e gli diede addosso.

Napoleon fu troppo lento a voltarsi, sentì soltanto un peso al proprio fianco, qualcosa che gli veniva strappato via e qualcuno che lo spintonava con violenza di lato. Perse l’equilibrio e in quel momento inquadrò Illya, parato davanti a lui e la lama del pugnale che trovava il suo corpo invece di quello di Napoleon.

Un colpo di pistola risuonò nell’aria gelida di Volgograd.

Ivanov fu il primo a cadere, un peso morto che crollava all’indietro e tornava tra le macerie in un tonfo sordo.

Illya lo seguì poco dopo; fece cadere in terra la pistola che aveva strappato dalla cintura di Napoleon, oscillò lentamente verso sinistra, un ginocchio cedette facendolo piombare a terra, seguito dal secondo.

Con occhi sbarrati, Napoleon guardò il sangue imbrattargli gli abiti. Proprio come quando lo aveva trovato nel vicolo, pugnalato da Angelìka, si sentì sommerso da un’onda di impotenza e terrore.

«Peril!»

 

 

Illya ingoiò un gemito di dolore.

Due pugnalate in una stessa serata doveva essere un record perfino per lui.

Rabbrividì – perfino il sangue colava ghiacciato lungo i suoi abiti.

«Peril, parlami.» Napoleon scattò accanto a lui, le mani occupate a spogliarlo della giacca con una frenesia sgraziata che non gli riconobbe.

Avrebbe voluto dirgli che ci voleva ben altro per ucciderlo, ma sentì il respiro risalire la gola e trasformarsi in un gorgoglio stanco. A pensarci bene, aveva perso troppo sangue – forse dopotutto non era poi così difficile ucciderlo, se ad aiutare c’erano di mezzo scelte poco intelligenti sul lasciarsi pugnalare.

Afferrò una mano del cowboy, premendosela al petto, lì dove i punti con cui l’aveva ricucito con tanta pazienza erano saltati, tagliati dalla lama di un pugnale. «Dovrai ricucirmi… cowboy…»

Napoleon lo fissò in silenzio, premette più forte la mano alla ferita. «Mi fai sempre faticare.»

Illya decise che quella non era fatica – era preoccupazione. E paura. La stessa paura che aveva provato lui quando aveva visto Ivanov mirare al cowboy e il proprio corpo si era mosso da solo per difenderlo.

Lo guardò chinare il capo e poggiare la fronte sulla sua spalla.

Da quella posizione poteva inquadrarne soltanto il capo, ma trovò confortante sentire il peso della sua testa su di sé e i suoi capelli che gli solleticavano il mento e la mascella. Provò la stessa sensazione di benessere di quando Gaby gli stringeva una mano o si sedeva accanto a lui, la stessa voglia di abbandonarsi a quel contatto, se non addirittura, osare chiederne di più.

Anche se non era Gaby e lui, come aveva detto Ivanov, non era che un depravato che preferiva gli uomini, per di più americani.

Ed era stanco. Stanco fisicamente, ma stanco anche di combattere il battito accelerato del proprio cuore.

«Forse… volevo solo altra scusa per tornare in stupido bagnetto angusto con te.» mormorò, tra le ciocche castane – e quasi perfettamente acconciate – di Napoleon.

Non ne fu sicuro, la vista iniziava a farsi appannata, ma gli sembrò che le spalle del cowboy si distendessero e quando Napoleon sollevò lo sguardo, negli occhi era sbocciata una dolcezza tutta nuova, che non gli aveva mai visto in faccia prima d’ora.

«Oh, Illyusha

Congelò.

E la dolcezza del momento si spezzò all’istante.

Gli occhi sbarrati di Illya – mare e ghiaccio cristallizzato intorno alla pupilla – fissarono Solo come se avesse appena bestemmiato in chiesa; la linea delle labbra si era spezzata, piegandosi in un’espressione nauseata.

C’erano decine di ragioni per cui quel nome, tra le labbra del cowboy, era la cosa più sbagliata che avesse mai sentito – sbagliata, stupida, infantile, perculatoria, e nondimeno con una pronuncia che aveva lasciato le sue orecchie sanguinanti.

«Niet[14].» sibilò inorridito.

L’ “uh” a mezza bocca di Napoleon, servì almeno a confermare la buona fede dell’americano. «Non era esattamente la reazione che mi aspettavo. Credevo fosse un modo carino di chiamarti, un vezzeggiativo tenero. Non era il nome che usava tua madre?»

«Quando avevo otto anni. Poi compiuti nove.»

Napoleon lo fissò accigliato, in attesa.

Illya si chiese cosa non fosse chiaro, per lui era un concetto elementare da capire.

«Affascinante.» riprese il cowboy «E dovrebbe suggerirmi, cosa? Che compiuti i nove anni, in Russia, è fatto divieto di usare vezzeggiativi, pena la morte per occhiatacce?»

«No, sto dicendo che a nove anni anche tu non vorresti più che tua madre chiami te “Napoleonino”

«Eww, Dio me ne scampi.»

Lo guardò reprimere una smorfia che conteneva disgusto e riso insieme, in un connubio stravagante che sul volto di Solo riusciva comunque ad esaltarne la bellezza sfacciata. Non gli promise di non chiamarlo più a quel modo, ma a Illya andava bene anche così.

Socchiuse gli occhi.

Non gli dispiaceva nemmeno sentire il braccio libero dell’uomo salire alle sue spalle e cingerle, stringendosi a lui, mentre Gaby una volta assicurato ad Angelìka che nessuno le avrebbe più fatto del male, si univa a loro, inginocchiandosi sul lato opposto di Napoleon e incrociando delicatamente le dita che premevano al petto di Illya.

«Sto bene» ripeté loro.

Gaby gli baciò una tempia e propose: «Se nessuno ha niente in contrario, questo potrebbe essere un buon momento per raggiungere Waverly.»

«Ci sto. E una volta tornati in patria, non sarebbe male se ci fosse ad attenderci un bagno caldo, magari profumato di petali di rose, e una bottiglia di Dom Perignon.» Il cowboy aveva iniziato a fantasticare ad occhi aperti.

Illya lo guardò di scorcio e quello ghignò. «Il plurale era solo per rendervi partecipi delle mie intenzioni. Ma se ci tieni, possiamo trovare una vasca abbastanza grande per ospitare tutti e due»

Nonostante il pallore del volto e il torpore che aveva interessato tutti i muscoli, riuscì a sentire quel poco sangue che ancora gli scorreva nelle vene iniziare a dirigersi al volto, colorando le guance e le punte delle orecchie di un imbarazzante rosa intenso.

Sperare che Napoleon non se ne accorgesse fu pura utopia, quel demonio lussurioso gli morse la carne morbida del lobo e lasciò scivolare un sussurro roco e irriverente al suo orecchio: «Illyusha~»[15]

Il pugno di Illya, troppo debole e senza convinzione, non lo sfiorò nemmeno. Non che ce ne fosse bisogno, Gaby intercedette per lui: Gaby e una tirata d’orecchi al cowboy, che lo trascinò di nuovo vicino a loro, in una sequela di lamentosi “ahiahiahi”. «Illya, smettila di agitarti e conserva le forze. Solo, smettila di infastidire Illya e comportarti come un cretino, ti ricordo che anche tu sei ferito; e se finite per svenire e vi illudete che io non vi abbandoni qui alla mercé del freddo e di Baba Yaga, vi sbagliate di grosso!»

«…ha cominciato cowboy…»

«…lo dicevo io che questi posti sono infestati dalle streghe…»

I borbottii mesti dei due uomini si accavallarono e le loro sfiatate leggere si unirono.

Gaby scosse il capo, ma tornò ad abbracciarli.

Illya sentì le labbra incresparsi e il sorriso affacciarsi tra gli angoli della bocca. Era ferito, sfinito, tradito dalla sua stessa gente, che lo avevano costretto a uccidere il suo eroe e seppellire il suo fantasma; eppure, davanti a un’izba distrutta, tra la neve gelida di Volgograd e tra le braccia di una meccanica manesca e un casanova incallito, aveva trovato la sua pace.

 

[ 8.179w ]



[1] Il Palazzo della Lubjanka, a Mosca, è conosciuto per essere la sede del KGB (fino al ’91 e dell’FSB, i Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa, poi)

[2] In un’altra mia fic, avevo scritto che la pistola di Illya nel film si basa sulla Walther GSP e questo rimane invariato. La Pistolet Makarova era la pistola di polizia e militari russi dal ’51 fino al 91; ma è venne sviluppata una sua versione speciale apposta per il KGB: la PB 6P9, dotata di default di un silenziatore.

[3] Uno

[4] Due

[5] Tre

[6] Nickovitch è il patronimico del personaggio di Illya nella serie televisiva. Nel film sono quasi sicura non venga mai pronunciato, ma essendo russo è quasi scontato che lo abbia e quindi tanto vale considerarlo canon everywhere – e sì, ho pensato che Angelìka, dopo tutti questi anni, non potesse non conoscere nome, cognome e patronomico dell’uomo che le ha ucciso il fratello.

[7] Comunista. Di solito usato in maniera dispregiativa (non che per gli americani di quell’epoca esistessero accezioni positive della parola comunista XD)

[8] Un giorno la tua storia finirà nello stesso modo, Illya: nel sangue.

[9] Illya che soffre di claustrofobia è un mio personale headcanon, e chi mi conosce sa che l’ho usato in altre mie fic. Un giorno forse mi deciderò anche a spiegare da dove nasce – per ora prendetelo come viene

[10] Come trasformare Il mago di Oz in un porno by Napoleon Solo. Lo so che dovrei essere migliore di così (should I, though?) ma non ho proprio resistito.

[11] Nel film si sa soltanto che la decisione di bruciare il film è stata presa di comune accordo tra Illya e Napoleon; ma c’mon, se c’è da decidere da chi è nata l’idea, possiamo puntare tutto su Napoleon, vero? Ecco.

[12] La frase “Quello che succede a Las Vegas, resta a Las Vegas” (a cui ovviamente si ispira quella di Napoleon, duh) diventa lo slogan di Las Vegas nei primi anni 2000… ma al solito, mi sono presa una licenza poetica e faccio quel che voglio.

[13] Eunuco.

[14] No

[15] Illyusha~. Anche questo nomignolo viene usato in una puntata della serie televisiva, Illya viene chiamato così da una signora anziana che lo usa con una nota “materna”. Questo perché Illyusha è un diminutivo che si usa per i bambini – da qui il paragone a Napoleonino… che è orribile, ma non sapevo come poterlo tradurre in italiano e almeno così si capisce il cringe di Illya XD In ogni caso, mi piace troppo per rinunciarci e nel mio cuore è diventato un altro modo che Napoleon usa per dargli fastidio – e, in fondo, anche perché gli fa tenerezza


 

Io boh, più cercavo di accorciare e limare questo capitolo, più si è allungato in modo spropositato. Ho perfino dovuto tagliare l'epilogo e rimandarlo al capitolo seguente, per non sovraccaricare ulteriormente questo... e quel che mi fa ridere è che, in realtà, ci sono molte altre cose che avrei voluto inserire, ma iniziava a diventare ridicola la cosa.

Quindi niente, tecnicamente non è più l'ultimo capitolo, ma visto che in origine lo era, possiamo dire che la maledizione dell'ultimo capitolo ha colpito ancora!

Se il secondo capitolo mi ha fatto dannare il POV di Illya, potete ben immaginare quanto questo, in cui è un continuo passarsi la palla tra lui e Napoleon, mi abbia dannata. Non è qualcosa che faccio di solito, saltellare da un POV all'altro e non so quanto qui sia riuscita a rimanere comunque fluida, ma era la soluzione più veloce e comoda che ho trovato durante il BBI, quando l'ho scritto.

In realtà la fic doveva essere molto più lunga, Angelìka avere un ruolo molto più rilevante e più complesso e la missione doveva essere molto meno banale di così, ma per mancanza di tempo ho tagliato un sacco di parti e l'ho dovuta riadattare in quella che è stata la prima stesura. Ma alla fine va bene così, anche solo perché - con il prossimo capitolo - è un prodotto finito e di questo sarò per sempre grata al BBI, perché sono la peggio procrastinatrice e autosabotatrice del creato, che trova miliardi di scuse per non concludere mai le sue long (o minilong).

Nonostante le mille revisioni (non dirò quante ne ho fatte per questo stupido capitolo, anche ora che lo sto pubblicando ho trovato il modo di risistemare coseh, perché non mi piacevano XD), è una storia piena di difetti e me ne rendo conto, però è la mia prima long dedicata a questi tre e alla Napollya e le voglio bene anche così.

Per concludere, il prossimo capitolo sarà l'epilogo, ho intenzione di aggiungere un altro pezzo oltre a quello che già avevo scritto, ma nulla di trascendentale e punto a mantenerlo corto e piccolino ❤

 

Credevate non lo avrei ripetuto anche in questo capitolo? Certo che no! Perché la bellissima fanart di Miryel va lodata fino alla morte e, per chi è interessato, può kudarla qui

 

Scritta per il BBI10 @LandediFandom

 

   
 
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