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Autore: Gaia Bessie    07/04/2021    2 recensioni
Ogni mattina, Asahi si sveglia con la memoria che gli ha cancellato i suoi ultimi dieci anni di vita.
Ogni mattina, Asahi deve ricostruire tutto quel tempo tramite i post-it, le fotografie e le registrazioni del suo coinquilino, Suga.
Ogni singola mattina. In un appartamentino a New York, Asahi e Suga ricostruiscono loro stessi, giorno dopo giorno.
[AsaNoya, Suga/Shimizu | Mini-Long di tre capitoli | Angst, possibile OOC | Terza classificata al Contest "Let’s cliché!" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP]
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Yaoi, Slash | Personaggi: Asahi Azumane, Kiyoko Shimizu, Koushi Sugawara
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Senza ghiaccio, per favore



3.
Old Fashioned aromatizzato al cacao amaro
 
Sottovoce nasce il sole
La scia che ti porterà dentro
Nel centro dell'universo
E l'armonia del silenzio
Sarà una genesi
La genesi del tuo colore
Mai smetterai canterai
Perderai la voce
Andrai, Piangerai, ballerai
Scoppierà il colore
 
Il silenzio delle sei di mattina sa di bicchieri infranti: Asahi s’alza dal letto per scoprire che, al suo fianco, il suo coinquilino s’è addormentato con il viso nascosto tra le braccia – vorrebbe urlare, di fronte a quello sconosciuto nel letto, ma la somiglianza con Suga è così forte da farlo tentennare.
Così, Asahi si alza: non v’è fastidio, negli arti, non v’è dolore nel cuore e solamente quello appanna il (fastidio, dolore) tremore che gli alberga nel cuore: non ha niente a che fare con Yū. Non c’è tradimento, Suga è vestito – invecchiato? – e sussurra un nome nel sonno, ed è quello di lei.
Silenziosamente, Asahi cerca a tentoni una camera dove nascondersi, e silenziosamente si chiude in bagno. Sotto lo specchio, una cassetta.
Qualcosa gli urla di non prenderla, di non metterla nel registratore che l’accompagna, ma le mani procedono – tremano, su quell’etichetta (tre) – e fanno partire la voce di Sugawara. Stanca, sfibrata. Sempre la sua.
Asahi si guarda allo specchio, mentre le prime frasi tagliano l’aria, e reprime un urlo che rischierebbe di fargli perdere la voce.
«Ciao Asahi» sussurra Suga, come se si vergognasse di quelle parole. «Se stai ascoltando questa cassetta, vuol dire che sei pronto».
Pronto a cosa, vorrebbe gridare Asahi, sfiorandosi le rughe sulla fronte con aria distratta, pronto a cosa?
Si siede sul wc, la testa tra le mani, mentre quelle parole sfregiano l’aria e l’anima – sono dolci, prima, amare dopo. Insopportabile, il tono conciliante con cui Asahi inizia a raccontarglielo, come se quell’avvenimento non gli appartenesse (non l’ha mai fatto).
«Ti ho registrato tre cassette, sai, sperando che un giorno arrivassi a questa qui» sussurra Suga. «E che capissi».
Asahi si guarda allo specchio, dentro di sé già lo sa – che Nishinoya l’ha lasciato e adesso Sugawara lo dirà, che è finita. Che non c’è più.
«Hai avuto un incidente, dieci anni fa» sussurra Suga, con la voce incrinata. «Ti hanno diagnosticato un’amnesia anterograda».
Lui trattiene il fiato, le mani tremano sulla cassetta: non sa cosa sia, un’amnesia anterograda, ma comprende – che quell’uomo che piange nello specchio, con rughe nuove, adesso è lui. Che l’uomo nel suo letto, è Suga.
E sono passati dieci anni che lui non ricorda, che sono spariti nel nulla e sono sbiaditi, scolorati, inutili.
«Vuol dire che, ogni mattina, ti svegli senza ricordare gli ultimi dieci anni della tua vita» continua Suga, piano. «Non ricordi nemmeno le ventiquattro ore precedenti».
Asahi vorrebbe dire che non è vero – che ventiquattro ore prima aveva ancora vent’anni e non un pensiero per la testa, e un appuntamento con Noya, un picnic e. E uno schianto, forse. Uno schianto?
«Siamo coinquilini da quando è successo, anche se per te è sempre il primo giorno» commenta Suga, con voce carezzevole. «Siamo scappati in America, e abbiamo dovuto ricostruire ogni giorno che ti sei perso, in un album di fotografie».
Qualcuno bussa alla porta.
«Un attimo» sussurra Asahi, ha la voce sporcata dal pianto. «Ti prego, Suga, un attimo».
Ma Suga apre comunque la porta, il viso ancora sfregiato dal sonno, e lo guarda mentre le sue parole risuonano nel piccolo bagno turchese.
«Scappavamo da cose diverse» commenta la registrazione, in un soffio metallico. «Dalla donna che amo, io».
«Non sei pronto» sussurra Kōshi, allungando la mano per cercare di interrompere la registrazione. «Per favore, Asahi, per favore».
Ma lui scuote il capo, capelli un po’ sporchi che gli tagliano il viso: ha gli occhi spalancati, è intontito, senza parole. Quante ventiquattr’ore sono passate, quanti anni separano Asahi dall’eco di uno schianto.
Un lampo di luce gli taglia lo sguardo – ragazzo, riesci a sentirmi? – e fa male al cuore, voci che s’accavallano.
«Dov’è Noya, Suga?» sussurra Asahi, chiudendo gli occhi e le orecchie a quella registrazione. «Cosa è successo?».
Suga apre la bocca, ma non ne esce alcun suono – Mio Dio! Asahi! Asahi! Apri gli occhi, ti prego – e allora rimane ad ascoltare il suono della sua stessa voce, intervallato da singhiozzi metallici.
«Siete usciti, una mattina» sussurra Suga, nella registrazione. «Tu e Nishinoya. Volevate andare al mare, fare un picnic sulla sabbia».
La testa di Asahi sta esplodendo lentamente – lei conosce questo ragazzo? – mentre Suga respira con una fatica tale da fargli pensare che stia soffocando. Certo che lo conosco, è uno dei miei migliori amici!
«No» sussurra Asahi, le lacrime che gli colano come sangue sul volto (come quella volta che si espande a chiazza d’olio nella sua mente). «Dimmi che non è vero».
Sugawara scuote il capo, muto, mai sordo, cieco. Asahi, riesci a sentirmi?
«Spegnilo» sussurra, indicando il registratore. «Oggi non ne vale la pena, Asahi, lascia perdere».
Lui per un momento ci pensa, sfiora il tasto di spegnimento con il pollice, ma la voce del suo coinquilino lo paralizza nuovamente. Suga ha le maglietta sporca di caffè è cacao amaro, puzza di alcol e disperazione – Daichi, ti prego, devi venire subito: Asahi ha avuto un incidente!
«Avete avuto un incidente» sussurra la registrazione, con tono di voce sempre più bassa. «Tu… sei finito subito in ospedale, Daichi è rimasto con te tutto il tempo».
Asahi si volta a guardare il proprio coinquilino: Suga sta piangendo in silenzio, il viso nascosto tra le mani, e singhiozzi dolorosissimi gli s’infrangono nell’anima.
«Noya non ce l’ha fatta» conclude la registrazione, in un colpo di tosse. «Hanno detto che è morto sul colpo, non ha sentito niente».
Un attimo di silenzio crepa i respiri – come i quattro bicchieri rotti (tre vuoti, uno pieno) che giacciono come cadaveri sul pavimento del tinello – e Asahi chiede silenziosa conferma a Sugawara, che annuisce tra le lacrime.
«Non ce l’ha fatta» singhiozza metallicamente la registrazione. «Mi dispiace così tanto, Asahi, mi dispiace».
La registrazione s’interrompe con un sibilo – Suga tende le braccia al suo coinquilino, ma Asahi non riesce a muoversi.
Noya non ce l’ha fatta.
 
***
 
«Perché non me lo dici mai?» Asahi s’è seduto davanti a una tazza di latte e cacao amaro. «Perché?».
Suga scuote la testa, tirando via la tazza e rimpiazzandolo con un bicchiere di liquido ambrato: Asahi se ne accorge a stento, aggiungendovi un generoso cucchiaio di cacao amaro.
Il suo coinquilino si prende la testa tra le mani, e capelli argentei gli feriscono le mani come spine d’acciaio. Suga sta ancora piangendo.
«Le prime volte» tossisce, insieme a un bolo d’acqua salata. «Te l’ho sempre detto. Ogni singolo giorno».
Asahi non risponde – Noya non ce l’ha fatta e lui nemmeno ricorda l’ultimo sguardo che si saranno lanciati, prima dello schianto – e beve un sorso generoso: fa schifo, il cacao nell’Old Fashioned, ma non dice niente e inghiotte anche un pesciolino di ghiaccio che gli congela l’anima.
«Faceva schifo, Asahi» sussurra Suga, prendendo un bicchiere per sé. «Perché nessuno di noi due rimaneva in piedi, a ricordarlo».
Asahi sospira – una parte di lui sa che è la verità – e inghiotte in un sol sorso il fondo del bicchiere e due pezzi di ghiaccio, pesciolini senza più la coda.
«Ne vuoi un altro?» domanda Suga, con in mano la bottiglia del Bourbon. «Io… credo serva a entrambi».
La donna che amo è incinta, vorrebbe dire lui, e non sono nemmeno sicuro che potrò guardare crescere quel bambino che è mio.
Noya non ce l’ha fatta, vorrebbe rispondere Asahi, ma semplicemente scuote il capo e passa il bicchiere al proprio coinquilino.
«Senza ghiaccio, per favore» è l’unica frase che riesce a pronunciare. «Oggi è sabato» sussurra. «Cosa facciamo di sabato?».
«La trovi sempre di sabato, la terza cassetta» commenta Suga, piano. «E allora piangiamo un po’ e beviamo un cocktail che sinceramente fa schifo ad entrambi e allora, tu mi guardi e mi chiedi…».
«Pensi che lo psicologo del giovedì mi riceverà?» lo interrompe Asahi, vuotando il secondo bicchiere. «Anche se è sabato».
Sugawara sorride, conciliante – non gli dirà mai che, in realtà, ogni sabato lo psicologo li aspetta nel proprio studio, perché quello è sempre il giorno in cui Asahi trova il coraggio e ascolta la terza cassetta.
Il giorno in cui scopre che Noya è andato via, ma non tornerà indietro (non più) e questa certezza lascia residui ferrosi nella memoria.
Asahi beve un sorso di Old Fashioned – ci ha versato sopra un cucchiaio di cacao amaro e a stento se n’è reso conto.
 
***
 
«Buongiorno, Asahi» lo saluta il Dr. Robertson, facendogli cenno di accomodarsi. «Vedo che anche questo sabato è deciso a farmi fare gli straordinari».
Asahi vorrebbe ridere della battuta, ma ha i polmoni pieni di polvere – e cacao amaro – e allora gli esce solamente un colpo di tosse che sa di cioccolata e disagio, forse anche di alcol, e obnubila ogni altro odore. Lo psicologo mastica una caramella balsamica al lampone, sistemandosi gli occhiali sul naso: lui sa, realizza Asahi, ha sempre saputo – che Noya non c’è più.
«Lei lo sapeva» mormora, coprendosi con la coperta in pile (una certezza in più). «E non me lo ha detto».
Lo psicologo annuisce, gli porge una ciotola ripiena di caramelle (menta, lampone) e cioccolatini: come se il dolce riuscisse in qualche modo a coprire l’amaro che la vita gli ha regalato, ma Asahi comunque prende tra le mani un piccolo gioiello dall’incarto dorato – cioccolata fondente, l’ha sempre odiata.
O forse un tempo gli piaceva, ma Nishinoya ha pestato i piedi così tanto sull’inutilità di una cioccolata senza latte che, alla fine, non gli è piaciuta più.
«No, non te l’ho detto» ammette lo psicologo, calmo. «Non spettava a me, Asahi: io ricompongo, non spezzo».
Lui srotola l’incarto, rivelando un cuore di cioccolato scurissimo: non c’è latte, urla il Noya della sua testa, e nemmeno le nocciole o qualunque altra cosa che possa dare un senso a un dolce amaro. È amaro anche il suo cuore dolorante, mentre mastica lentamente e inghiotte un bolo di delusione insapore.
«Non è stato Suga, non è vero?» domanda, piano. «Sono stato io a cancellare Yū dal mio quaderno dei compiti».
«A volte, lo capisci prima di ascoltare la cassetta» commenta lo psicologo, calmo. «E allora ti arrabbi molto».
Con Suga, pensa distrattamente Asahi, per avergli nascosto giorno dopo giorno il fatto che l’assenza di Noya non fosse ingiustificata, ma ingiusta.
Con Shimizu, si convince in silenzio, perché gli ha portato via Sugawara giorno dopo giorno – che l’abbia convinto lei, a nascondere il rumore di uno schianto e Nishinoya che è semplicemente scivolato via?
Con Daichi, che chiama una volta a settimana e spedisce pacchi con dolci, centrini e altre stronzate. Ma notizie di Yū, quelle mani.
E, alla fine, anche con sé stesso. Basta un pennarello a ricordare alla sua memoria destrutturata che non è odio, quello che prova per Noya, ma banale nostalgica dimenticanza e, allora, una cancellatura non vuol dire amnesia ma solamente (morte) un’altra cosa?
«Lo sono anche adesso» commenta Asahi, stringendo le mani sulla coperta di pile. «Arrabbiato, intendo».
Il Dr. Robertson annuisce, serio. «Hai saputo cos’è successo?» domanda, calmo. «Del perché non riesci a ricordare?».
«Sì» conferma Asahi, chinando il capo. «Suga dice che non è stata colpa mia, ma… vorrei tornare indietro, solo per un addio».
E dirgli che tutto quello che ho adesso sono io, e il suo ricordo è rimasto bloccato a dieci anni fa eppure, lo sento ancora. Ma questo, ogni sabato mattina, non lo dice mai.
«Sei venuto qui per poterti permettere di dimenticare» commenta lo psicologo, conciliante. «Forse la tua memoria non è rotta come pensi, ma questo è l’unico modo che conosce per autoripararsi».
Asahi sospira, non riesce a dargli torto: ma c’è il rumore di uno schianto che gli sibila ancora nelle orecchie, un urlo e un telefono che squilla – Suga.
Kiyoko! Devi chiamare Tanaka e… io e Daichi stiamo andando in ospedale con Asahi… lui e Noya hanno avuto un incidente.
«Ne vale la pena?» domanda Asahi, tossendo un altro po’ di cenere e cacao amaro. «Ricordare una volta a settimana, intendo».
Noya… Non ce l’ha fatta.
«Credo di no» ammette lo psicologo. «Temo che non servirà a migliorare l’amnesia, finché non riuscirai a ricordare tutto da solo».
 
***
 
Le ha detto vai via, non farti vedere più – Shimizu ha chinato il capo, ma non s’è arresa: quello mai.
S’è seduta al bar più vicino, a gambe incrociate sotto il vestito blu, che scura è la notte ma lei l’è di più, e ha ordinato un analcolico.
Senza sciroppo di lampone, o foglioline di menta, men che mai cucchiaiate di cacao amaro: solamente l’arancia le ha sfiorato la lingua, ustionandole la gola di sussurri – forse, l’Old Fashioned non potrà berlo per qualche mese, ma sicuramente non sarà quel sapore a mancarle. Perché Suga, quando dimentica per un momento i preconcetti e la morale, ha esattamente quel gusto che gli rimane impresso tra le labbra spaccate.
Oggi, e Kiyoko lo sa come è conscia d’avere tutti gli arti al loro posto e una testa che vaga chissà dove, Suga starà piangendo sul tavolo della cucina – tra le mani, una bottiglia di Bourbon o di Rhum, se sarà tornato al Mojito. Magari, si dice, il Gin: il preferito di Asahi, quand’ancora era in grado di riconoscere con certezza i propri gusti.
Sugawara starà bevendo senza cognizione di causa che non sia il pensiero che, forse, l’alcol cancella ciò che la memoria s’impegna a preservare: ha sempre odiato bere, lui, finché un giorno non ha scoperto che un tempo le ferite si disinfettavano così (fuoco e una bottiglia di Rhum).
L’ha cancellata dall’album delle fotografie di Asahi, con la strisciata di un indelebile nero, con la stessa rabbia repressa con cui anche Noya aveva ricevuto lo stesso trattamento: e dire, pensa Shimizu distrattamente, che sia lei sia Nishinoya s’erano sentiti dire ti amo dalla persona che brutalmente li ha cancellati.
Ma lei, che dolorosamente respira in un letto che non è quello di Suga, nella mente di quest’ultimo è semplicemente incancellabile. E non basta liquore, menta, cacao amaro e lampone – lei forse non sa amare, non n’è mai stata capace, ma quello per Kōshi Sugawara allora cosa è?
Quando finalmente s’è stancata d’attendere, con la certezza inossidabile che questa volta lui (non verrà) sarà troppo stanco persino per pensare, e pensare a lei.
Ma, quando Kiyoko si volta, e gli occhiali sono semplicemente appannati di sonno arretrato e alcol che non ha bevuto – quando si volta, lui è lì. Suga la guarda, seduto da solo a un tavolino, e ha un bicchiere ancora pieno davanti.
Le fa un cenno con il capo – vieni, ma ti prego non farlo – e beve in un sorso il contenuto del proprio bicchiere: saprà di lampone, menta o cioccolato?
Shimizu sospira, nel prendere posto di fronte a lui, e facendo cenno al cameriere di portarle un secondo analcolico all’arancia: l’uomo la guarda ed ha dipinto in fronte il (non volerla lì) dispiacere che ogni sabato gl’incide addosso come l’ennesima coltellata.
«Ancora sabato?» domanda lei, un po’ scioccamente.
Lui annuisce, silenziosamente, il cameriere posa di fronte ad entrambi un bicchiere – in quello di Suga, una spolverata di cacao. Disgustoso, pensa lei, ma necessario.
«Asahi?» chiede Shimizu, giocherellando con la ciliegina del proprio bicchiere. «Come sta?».
Suga ride, l’ennesimo suono amaro e disincantato che il suo corpo si rivela in grado di produrre, frantumandolo.
«Fa i compiti» sussurra, con la voce spezzata. «Sta guardando le ultime foto come se… come se cambiasse qualcosa. Come se non avessimo perso entrambi, alla fine».
«Tu non hai perso» lo rimbrotta lei, con piglio severo. «E nemmeno Asahi».
Suga la guarda, alzando il proprio bicchiere in una parodia di brindisi. «Lui non ricorda niente» commenta. «Io vorrei essere come lui».
Shimizu gli prende una mano, la stringe con forza, cercando di scuoterlo – ma lo sguardo di Suga è perso a un decennio prima.
«Io sono qui» sussurra, calma. «E forse non ci siamo sposati per davvero, ma…».
Lui ride nuovamente, ma le mani di Kiyoko non riesce proprio a lasciarle: bloccato nel momento in cui ha sognato di sposarla, non riesce a ricordare che a volte i sogni s’infrangono e non si ricostruiscono più.
«Poteva essere amore» commenta Suga, guardandola negli occhi e scrollando le spalle. «Poteva essere amore».
«La tragedia è il verbo al passato» constata lei, calma. «Mi stai dicendo che è finita?».
Suga la guarda, e negli occhi ha un silenzio che annichilisce: senti così freddo che non senti più, pare dirle, mentre Shimizu si sfrega le braccia per cancellare le tracce di quel gelo improvviso.
«Ti sto dicendo che oggi è il momento in cui scegli» commenta, calmo. «Scegli a chi promettere».
Promettimi che resterai, le ha domandato Suga dopo l’incidente, promettimi che non te ne andrai via. E lei forse non se ne era andata, ma nemmeno era rimasta: Shimizu s’era sposata con un altro, ed era sparita tra le pareti del cuore di Suga come una rimembranza sbiadita.
«Io ho già promesso che sarei rimasta» commenta, calma. «Non me ne sono mai andata, o sbaglio?».
Lui la guarda. «Scegli me» sussurra, semplicemente. «Noi… possiamo ancora essere una famiglia».
Suga beve l’ultimo sorso del proprio cocktail, tossendo leggermente per la polvere di cacao – ma, quando si asciuga il viso con la manica della camicia, forse non è solamente la tosse ad avergli fatto lacrimare gli occhi.
«Che futuro abbiamo?» domanda Kiyoko, calma. «Tu hai Asahi a cui badare e io… io non so dividere».
Lui ride, piano, e s’alza: ha portato una giacca – ma come, Suga, si domanda Shimizu distrattamente: l’estate è qui – e la indossa a fatica, come se fosse l’ennesimo peso che la vita gli ha messo sulle spalle. Forse, si dice lei, è così.
«No, Kiyoko» la contraddice lui, dolcemente.
Si china verso di lei, carezzandole il viso con il dorso della mano – quando la bacia, sa di alcol e promesse infrante. È un contatto lieve come un battito d’ali, perché lui s’allontana (l’ennesima folata di gelo) e la guarda.
Lei conosce già le sue parole ancor prima di udirle – poteva essere amore, le ha sussurrato pochi istanti prima, poteva essere amore.
Apre la bocca per impedirgli di pronunciare quella frase: la fine arriva comunque, facendole venire gli occhi lucidi.
«Tu non sai amarmi».
 
***
 
Quel giorno non conta.
Si dice così, Asahi, quel giorno non conta – che sia la prima, la seconda, la terza o perfino la quarta fotografia. Non serve domandarsi delle frasi scritte di Suga (ha smesso di amarti? No, non l’ha mai fatto) né delle cancellature.
Oggi è quel giorno in cui Asahi prende e apre l’album da rovescio, scoprendo un mondo che non aveva mai nemmeno lontanamente immaginato prima: è il giorno in cui salta le foto del matrimonio di Tanaka (e Suga che non c’è), di anniversari, compleanni, il figlio di Daichi, e persino di Suga circondato dai bambini nell’asilo dove lavora. Quel giorno non serve.
Asahi gira il quaderno: oggi niente compiti, solamente soluzioni prescritte da chi ha composto l’eserciziario.
L’ultima pagina è bianca, ma si sentono i residui di colla di una fotografia che è stata strappata ed è lì, nella copertina a prendere polvere. Tra le mani di Asahi, respira.
Yū Nishinoya sorride, in una delle poche istantanee sobrie del matrimonio di Tanaka e Shimizu, con la cravatta e il completo blu – serio e distinto, se solamente la cravatta non fosse stata disegnata a ghiaccioli rosa e verde (lampone, menta).
Sono qui, sembra sussurrargli con quel sorriso contagioso, eccomi: Asahi lo sfiora con il dorso della mano e si dice che, semplicemente, l’ultima foto non sa di qualcosa, ma è mancanza cieca e insondabile. È il motivo per cui ha pensato che l’America fosse possibilità, di dimenticare, quello sì.
È per questo che, in un momento di lucidità (l’ultimo) sul letto d’ospedale, ha afferrato la mano del suo migliore amico – e Daichi vegliava Noya, incapace di smettere di piangere – e gli ha detto. Ti prego, andiamo via di qui.
Non c’è voluto molto: Suga è sempre stato il mago delle valigie fatte in fretta e furia, così che il mese dopo c’era già tutto il necessario, e la volontà, per trasferirsi negli States.
«Oggi non dovresti guardarlo» commenta il diretto interessato, lasciandosi scivolare sulla sponda del letto. «Non pensi di aver avuto abbastanza emozioni?».
Suga ha l’ombra di un morso stantio sulla spalla e la camicia che ha abbottonato storta ore prima, perché a quella cicatrice non s’aggiunge niente che faccia pensare che potrebbe essere quasi amore: Shimizu è rimasta seduta a un tavolino, con un bicchiere mezzo pieno di ghiaccio sciolto, e una ciliegina che non avrebbe mangiato.
«E tu oggi non dovresti essere qui» risponde Asahi, calmo. «Non fa mai bene mettere insieme due persone che vorrebbero piangere e basta, credo».
Il suo coinquilino sorride. «Oggi non conta» esala, convinto. «Oggi possiamo semplicemente lamentarci perché ci hanno lasciato andare via senza dire una parola?».
Nella mente di Asahi, Yū è una macchia di colore – bellissima, ma che non dice una parola.
Nella mente di Suga, Kiyoko è semplicemente persa – sempre bella, sempre muta di fronte alle sue richieste.
L’avrebbe voluta, Asahi, una lettera da Noya? In cui si scusava per essere semplicemente volato via troppo presto, senza lasciare un’impronta che fosse anche solamente tangibile, una fotografia di quegli ultimi istanti?
L’avrebbe voluta, Suga, una lettera da Shimizu? In cui si scusava per non aver semplicemente avuto abbastanza coraggio per scegliere, spezzare uno dei due cuori che ha sempre avuto in mano, sfilarsi un anello che è sempre stata restia a portare al dito?
Sì, si dicono entrambi: oggi è quel giorno.
«Mi chiedo cosa siamo venuti a fare qui, se sono in grado di seguirci comunque» commenta Asahi, piano. «Forse, l’America non è stata la nostra idea migliore».
Suga ride – ringiovanisce per un momento, come quando ha riso di fronte a Kageyama per dirgli che non si sarebbe lasciato battere1 – e scuote il capo.
«Per i primi mesi, forse un anno, ha funzionato» ammette, calmo. «Prima che anche Tanaka decidesse che gli States fanno un sacco figo».
«E adesso lei semplicemente non la vedrai più?» domanda Asahi, giocherellando distrattamente con i propri compiti. «Così, da domani come estreanei?».
Suga annuisce, compito, anche se quel semplicemente movimento ha il potere di lacerargli il cuore a metà di un battito.
«Lo siamo sempre stati, credo» mormora, scrollando le spalle. «Siamo tutti estranei, se non si guardano i ricordi».
Asahi ride. «Non eri tu quello che diceva che era l’amore l’unica occasione?2» commenta, calmo. «Che per uscire da tutto questo ti serviva una persona e quella persona era lei?».
Ma Shimizu sente troppo freddo e non ha parole gentili da rivolgergli – sceglimi – e allora Suga semplicemente scuote il capo, calmo.
«Sono solo ricordi» commenta, senza scomporsi. «E, lo sai meglio di me, c’è un momento in cui nemmeno i ricordi contano più».
«Io qualcosa di Noya ricordo» commenta Asahi, con il medesimo tono. «A volte, basta. Non oggi, comunque».
Non oggi che tutto ferisce – Nishinoya che gli salta addosso dopo una partita, un bacio rubato negli spogliatoi, uno schianto.
Mi dispiace, Asahi, Noya non ce l’ha fatta.
«Il problema sta nel fatto che un “a volte” non è mai “per sempre”» commenta Suga, amaramente. «Potremmo andar via di qui».
Asahi ride, sommessamente. «Ancora?» domanda, ironicamente. «Esiste un posto che faccia più figo dell’America?».
Suga scuote il capo, con aria divertita. «Rimaniamo» commenta. «Che domani arriva il pacco di Daichi con i centrini nuovi».
Asahi ride: oggi non conta, pensa, può permettersi di ridere perché oggi ricorda quel che silenziosamente l’ha fatto piangere per il resto della settimana – che Noya non ce l’ha fatta, ma è morto nella convinzione (giusta, giustissima) che s’amassero a vicenda.
«Imperdibili» commenta, divertito. «E tu come farai domani?».
Suga non ride: oggi conta, persa, e deve fare i conti che con Shimizu è tutto perso (tutto da dimenticare) – e lei viva ancora nella sciocca convinzione che un amore a metà possa funzionare.
Oggi conta, si dicono entrambi – che sono lì, insieme, in una stanza che odora di cacao e caffè-latte: l’album dei ricordi possono anche chiuderlo, quel giorno non servirà. Dall’ultima pagina, staccato dal resto, Yū Nishinoya sorride con entusiasmo e una cravatta decisamente orripilante.
Oggi conta, sembra urlare, oggi conta.
 
***
 
La penultima foto dell’album dei ricordi è semplicemente insensata: sotto un referto medico che Asahi legge e non comprende, un suo ritratto. La penna è quella di Shimizu, è sempre stata brava a disegnare – e inclemente ha colto con un tratto di matita e carboncino il suo volto tumefatto, l’occhio destro semichiuso. E il cuore spezzato?
Asahi del ritratto piange e non se ne rende conto, ma ha una lacrima di carbone che gli scivola dolcemente lungo lo zigomo ricucito, finendo sul petto – quello, suturato, non lo è stato mai.
Suga non sa dargli spiegazioni: all’infuori di lui, sembra quasi che quel disegno non sia mai esistito, Asahi è l’unico per cui esso sia rimasto traccia tangibile di quel periodo.
Eppure, si dice suonando quel campanello, lei deve saperlo: Shimizu lo guarda, spaesata, cercando Suga con lo sguardo (e lui che non c’è).
«Asahi» commenta, spalancando gli occhi. «Va tutto bene? Suga… sta bene?».
Lui annuisce, non ha abbastanza aria per parlare, così che ogni suono si rivela semplicemente orrendamente raschiato e innaturale – la fa rabbrividire ma Shimizu, che ha l’anima fatta d’acciaio, non si ritrae mai.
«Sono qui per me» tossisce, guardandola negli occhi. «Voglio sapere del ritratto».
Per un momento, Noya gli ha prestato tutta la determinazione di cui era capace, e allora lei sorride di malinconia e apre la porta, facendogli segno d’entrare.
L’appartamento di Kiyoko e Tanaka è una casa delle bambole – lei l’ha tappezzato di pizzi, merletti, centrini spediti da Daichi con troppo amore, e fiori freschi – ma, la stanza in cui lo conduce, sa solamente di nero. Bianche, le pareti, asettiche. Tappezzate di schizzi a carboncino che guardano Asahi come per rimproverarlo d’aver dimenticato ogni cosa: sono quelli, si dice silenziosamente, i compiti di Shimizu.
Un Kageyama lo guarda, di fianco a due Hinata, tre Daichi, almeno una decina di Tanaka, due Noya e mezzo (uno non finito, di fianco a un terzo Hinata), e una miriade di Suga usciti dalla stessa mano con cui adesso lei si massaggia la tempia, sfinita.
«Non ricordavo disegnassi» commenta Asahi, lo sguardo fisso su Nishinoya che sorride sbiadito. «Al liceo non lo facevi».
«Una volta, una persona troppo ottimista mi ha detto che tutti hanno un talento» commenta lei, accarezzando un disegno di Suga con la punta delle dita. «Basta trovarlo».
Asahi ride, ricambiando lo sguardo di quel ritratto – piuttosto somigliante – colorato in acquerello azzurro.
«Suga non è troppo ottimista» commenta, piano. «Deve solo riuscire a tenerci tutti insieme, quando non ci riuscirebbe nessun altro».
«Credo che sia la cosa più vera che ti sento dire in questi dieci anni» commenta Kiyoko, con un cenno dell’antica dolcezza. «A volte, penso che semplicemente non dovrebbe farsi carico di tutto questo».
Asahi si guarda attorno, pensieroso – Suga che ride, Suga che piange di fronte una pietra spoglia (Noya?), Suga con la divisa del Karasuno.
E, infine, al centro della parete: Suga in smoking, di fronte a un altare ad aspettare una sposa che non arriva. Asahi non ricorda quel momento, se è avvenuto o viva nella fantasia di Shimizu, ma sa che comunque lei non arriverà mai.
«No, è solo simbolico» lei gli legge i pensieri in un sussurro. «Ma l’avrei ferito di meno, se l’avessi fatto, no?».
Per un momento, lui è quasi sul punto di darle ragione – ma nel suo sguardo rivede Suga piegato su un tavolo, con la bottiglia del Bourbon (ormai è vuota) in mano e un bicchiere che sa di lampone, menta, cacao. Senza ghiaccio, sussurra il suo coinquilino guardandolo, per favore.
Per favore, si dice Asahi, per favore.
«Non puoi semplicemente permetterti di scegliere?» domanda, ingenuamente. «Lo sapevo anch’io, che era quello che preferivi tra tutti noi».
E Suga, dipinto in mille pose diverse – in bianco e nero, carboncino, matite colorate, acquerelli, pittura a olio – semplicemente sorride. È tutto quello che le è rimasto, il ricordo di un sorriso e nient’altro.
Anche se, da qualche tempo, Suga non sorride più. Sua, una smorfia insoddisfatta, voglia di dimenticare?
Un Old Fashioned, mettici dentro quel che ti pare: e senza ghiaccio, per favore.
«E anche se fosse?» domanda lei, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Cosa contano, le preferenze, se poi il mondo va come gli pare?».
Lui sospira – quelle parole gli scivolano via dalla bocca come il ghiaccio dal bicchiere e, allora, Shimizu spalanca gli occhi disorientata.
«Forse, potresti andar via di qui» commenta. «Andare in un posto che fa meno figo dell’America, ma che abbia un senso».
«Pensi che io adesso ti dirò che non posso vivere senza di lui?» domanda Kiyoko, calma. «E che rimarrò qui perché ho bisogno di vederlo?».
Ma ad Asahi è chiarissimo: lei lo vede sempre, anche a occhi chiusi, e tutti quei disegni ne sono la prova. Suga in arancio, rosso e blu. Suga con un bicchiere in mano, senza ghiaccio, che brinda a una vita che non ha assaporato mai.
Suga nelle sue stagioni senza Asahi – e, lui lo capisce in quel momento, Kiyoko dopo l’incidente non l’ha amato mai. Ne ha portato avanti il ricordo con ammirevole perseveranza, ha raccolto i cocci, ma l’amore?
L’amore è lo sguardo pieno di comprensione che lei lancia a uno dei suoi ritratti – Suga in primavera, con una sciarpa azzurra, gli occhi che ne assorbono il colore come spugne e le foglie rifiorite che gli proiettano una luce verdina addosso. È rifiorito, su carta.
Lo capisce, in quel momento, Asahi: uno di loro due – lui, Shimizu – deve lasciarlo andare, perché le stagioni sono quattro ma, con entrambi, è sempre e solo inverno.
«Ti ama» commenta Asahi, piano. «Da una vita, e tu lo sai benissimo».
Lei ride. «Tu sei il suo migliore amico» commenta. «E non puoi vivere senza di lui, e lo sa altrettanto bene».
È uno stallo alla messicana, pensa distrattamente lui, e non si schioderanno mai più da quel punto morto – quello dove Suga sorride in un foglio di carta spiegazzata e beve un bicchiere d’acqua, o alcol, o veleno.
Ma senza ghiaccio, per favore.
 
***
 
C’è musica, nel silenzio.
Se ne rende conto, Suga, nel momento in cui entra in casa e non c’è nessuno ad attenderlo, solamente l’album dei ricordi aperto sulle ultime pagine. La terzultima foto, la conosce bene, è la nota stonata prima del ritratto firmato da Shimizu e conservato per quel momento in cui Asahi sarebbe stato pronto a vederlo.
È un’istantanea del giorno in cui lui e Kiyoko hanno perso tutto quanto e ogni promessa, ogni debito, si è sciolta come un cubetto di ghiaccio in un cocktail con poco alcol (e per favore, per favore, non berlo). È stata di Daichi, l’idea, perché quei pensieri del cazzo potevano essere solamente suoi – ed è un pensiero ingiusto, Suga lo sa,  ma è anche la cosa più vera che il suo cervello riesce a partorire tra quei baritoni che silenziosamente urlano. Per favore.
C’è musica, nel silenzio, e v’era anche il giorno del funerale di Nishinoya – quando Daichi ha pensato che fosse giusto, rispettoso e… niente di tutto questo, forse, ma che lui l’avrebbe voluto e avrebbe riso per incitarli a compiere quel gesto blasfemo. È solamente una fotografia, gridava da sottoterra, ehi ragazzi mi sentite?
«Credi ancora in un Dio, dopo tutto questo?» aveva sibilato Kageyama, con rabbia. «Facciamolo e basta».
Hinata non aveva protestato allegramente, né allegramente né protestato, Tanaka aveva annuito e Daichi allargato le braccia con gli occhi pieni di lacrime. In tralice, guardavano tutti Asahi che non c’era, il suo guscio vuoto che cercava di assimilare quella notizia – l’avrebbe dimenticata nelle ventiquattro ore successive.
Tobio aveva sollevato un punto valido: esisteva davvero, un Dio incapace di salvare la vita di chi, quella vita, se la meritava più di tutti loro messi assieme?
Nella foto sulla lapide, Yū Nishinoya rideva di tutti loro, come per urlare: ma siete rimasti laggiù, ho vinto anche questa gara?
Sì, pensa Suga voltando pagina con un peso che gli comprime dolorosamente il petto, hai vinto anche questa volta Noya – ci hai lasciato come degli idioti a cercare la vita sul fondo bucato di un bicchiere pieno di gelo.
In quel silenzio musicale, foto dopo foto, la mente di Suga ricompone il dolore che Asahi deve affrontare ogni giorno: non basterà un Old Fashioned, forse, ma una cucchiaiata di cacao amaro gli farà tossir via il dolore. Composto, Suga torna indietro nel tempo: quando la moglie di Daichi ha partorito – e lui aveva ventisette anni e si faceva chiamare ragazzo padre – e quando Hinata si propose a Kageyama ricevendo un sonoro no (e una nottata di cui tutti sanno troppo poco). E ancora Shimizu in estate che indica il mare, un ombrellone che ripara Asahi dal sole mentre Noya corre sulla sabbia che scotta un po’ troppo.
Ci sono troppe stagioni, pensa distrattamente Suga, per sentire sempre così tanto freddo: e Tanaka corre sotto un acquazzone, mentre Noya spalanca le braccia per cingere la pioggia e Asahi prova inutilmente a ripararlo con un ombrello.
Silenziosamente – perché tutti loro l’hanno sempre dato un po’ per scontato – Asahi e Nishinoya si sono amati in tutte le stagioni che hanno conosciuto: anche nella quinta, la stagione dei cieli incongruenti. Ci sarà una porticina per loro?
«Devi andare via, Suga».
Lui alza lo sguardo – Asahi è sulla soglia, i capelli bagnati di una pioggia estiva inattesa, lo sguardo fieramente asciutto: lo dice abbracciando la stanza con le mani, indicando il divano. Quand’è che gli ha preparato la valigia, quand’è che ha smesso di avere bisogno di lui?
Eppure, una parte di Suga scalpita e grida Shimizu, il Giappone, Daichi e tutti gli altri: ma Asahi, anche mentre lo guarda, è così crepato e dissipato, così rotto, che lui non riesce a dirgli sì, il ghiaccio non ce lo voglio più, in questa vita.
«Verrai con me?» domanda, invece. «Penso che tornare in Giappone ti aiuterebbe, lì abbiamo i nostri amici, le famiglie e…».
E Asahi scuote il capo. «Resto qui» risponde, con un sorriso un po’ storto. «Farò i compiti, Suga, ma è tempo che tu vada via».
«E mi hai preparato la valigia» constata Kōshi, con aria turbata. «Non pensavo che volessi mandarmi via in questo modo».
Ma l’altro scuote il capo, e i capelli ondeggiano come mossi dalla brezza, mentre gli porge un foglio ripiegato – un disegno.
Mentre lo guarda, a Suga tremano le mani: è l’ennesimo schizzo che Shimizu gli ha sottratto a tradimento, imprimendogli l’anima sul foglio con pochi precisissimi tratti. È di quella sera, quella dello schianto.
Quando s’è addormentato su una sedia – che non era divano e nemmeno letto – con la testa poggiata sul muro, la mano stretta sul braccio di Asahi, come per impedirgli di scappare via durante quei momenti di sonno. Shimizu l’ha colto così. Come un fiore e una promessa, la testa ciondoloni sul petto e la bocca aperta a sussurrare (che fosse contro quel freddo che li aveva invasi?).
«Tu, così, non devi finirci più» commenta Asahi, con una durezza che non lo caratterizzava da anni. «Vai da lei e portala via di qui. Forse nemmeno questo le basterà per volerti sposare, ma sarebbe un inizio».
Suga lo guarda e non osa porgli quella domanda: così si avvia verso il mobiletto dei liquori – e scopre che il Bourbon è semplicemente finito la notte precedente – per poi arrendersi a una coca zero. Prende il contenitore dei ghiaccioli, piccoli pesciolini che lo guardano fiduciosi: ma, qualcosa lo frena e gli fa dire che è finito il tempo di dire per favore e lui, tutto quel ghiaccio, non lo vuole e basta.
«E tu?» sospira, bevendo un sorso di bevanda. «Come farai?».
In un primo momento, Asahi non risponde: ha il cuore vuoto, svuotato, e la maglietta sporca da una strisciata di cacao amaro – amarissima, anche la vita.
C’è musica, nel silenzio, ma ogni strumento grida quando Asahi finalmente lo dice.
«Sarò più figo di te» commenta, divertito. «Io rimango qui, Suga. C’è… c’è una struttura dove possono occuparsi di me».
Suga scuote il capo, vorrebbe urlare e dire che no – lo rivuole indietro, tutto quel ghiaccio.
Ma Asahi gli indica la valigia e poi la porta.
 
***
 
«A che pensi?».
Asahi dondola le gambe nel vuoto, domandandosi cosa accadrebbe se semplicemente si lasciasse cadere giù – in un luogo che è e non è, forse non è, forse è.
Sospira: c’è poesia anche in una voce, al pari della musica silenziosa, e quella voce per lui contiene la massima poesia che Dio può aver pensato – se esiste un Dio, e se può pensare a queste cazzate, si dice.
E lui a cosa pensa? Pensa che, dopotutto, ha fatto meno male di quant’avesse pensato: l’America è sogno, sì, ma anche possibilità. Ed erano anni che lui non guidava uno scooter.
«Penso che alcuni rumori sono più dolorosi se li pensi e basta» commenta, osservando il cielo tingersi di una delicata tonalità color pesca. «Alla fine, sempre musica è»
E uno schianto, per quanto cacofonicamente doloroso, è solamente l’ennesima nota – stonata, intonata – che potrà mai sperimentare. La durata? A malapena un frammento d’istante, nemmeno il tempo di chiudere gli occhi: il pensiero, doloroso, più di ogni altra ferita – Suga non me lo perdonerà mai, s’è detto, ed è così.
Suga non l’ha perdonato e vaga tra America e Giappone trafiggendosi con aghi d’acqua, in un urlo che non ha voce, ma gelo soltanto. Suga ha preso ed è andato via, Shimizu non l’ha seguito – solo amanti, si sono detti, mai amore. Hanno mentito in una maniera così sconsiderata da far male al cuore.
«Pensi che verrà anche domani?» domanda, Asahi, osservando quella pioggia che ancora scende (ed è sempre giugno). «O inizierà a dimenticare, magari, e si riscoprirà… cambiato?».
«Non preferiresti qualcosa da bere? Inizia a far caldo, ormai l’estate è cominciata da un pezzo».
Asahi, che non ama più bere, sospira e sta per rifiutare – ma Suga grida e grida fino a rimanere senza voce, fino a dimenticare qual è il suo nome e qual è quello di Asahi. E, allora, lo dice.
«Un Old Fashioned con una spolverata di cacao amaro, una fogliolina di menta e sciroppo al lampone» borbotta, atono. «Ah, aspetta».
«Senza ghiaccio, immagino. Per favore».
Asahi annuisce, piano, senza distogliere il proprio sguardo dal proprio ex coinquilino, che singhiozza con il capo nascosto tra le braccia – fa stringere il cuore, si dice, ma è necessario: così come il ghiaccio nei cocktail, quei pesciolini con le code monche che aveva giurato di non usare mai più.
L’Old Fashioned sa ancora di quell’America che ha lasciato, chissà quanti secoli prima – non lo sa, son passati tre giorni a malapena.
«A che pensi?».
Asahi guarda Noya, tendendogli la mano: le urla di Suga sono un sottofondo attutito in un paradiso che, al contrario di quanto s’era immaginato, è congruente a quello di lui.
«Ho fatto bene» commenta. «A fingere».
Una lacrima scivola dagli occhi di entrambi ed ha il colore dell’arcobaleno, ma soprattutto di.
Lampone, menta e cacao amaro.
 
 
Colora l'anima
Con una lacrima
(Irama, La Genesi del tuo colore)



1. Dal manga
2. Irama, Sceglimi

Ed eccomi qui per l'ultima volta (vi giuro che oggi rispondo alle recensioni del precedente capitolo, purtroppo ho dovuto lavorare)!
Spero che questa storia vi sia piaciuta, perché presto ne preparerò un'altra e spero di ritrovare alcuni di voi anche lì.
Un bacio e una buona colazione!
Gaia
   
 
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