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Autore: Verfall    18/04/2021    6 recensioni
Sappiamo bene come si siano svolti i due incontri del 26 marzo, ma cosa è avvenuto subito dopo entrambi? In questa serie di missing moments cercheremo di ripercorrere i pensieri e le azioni non solo di Ryo e Kaori, ma anche di altri personaggi che nell’opera non hanno avuto modo di esprimersi tanto quanto avrei desiderato. Un intimo viaggio corale alle origini della storia che tanto amiamo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hideyuki Makimura, Kaori Makimura, Ryo Saeba, Saeko Nogami
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: City Hunter
Capitoli:
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Sierra de los Cuchumatanes, aprile 1956 – Shin’ichi1 Kaibara
 
La detonazione di un mortaio seguita poco dopo da un boato tremendo risuonarono nel placido mattino primaverile, scuotendo lievemente il terreno. Shin alzò pigramente gli occhi in direzione della sottile scia di fumo che si stagliava tra gli alberi della foresta, a meno di dieci chilometri dal loro accampamento e, senza scomporsi, tornò a passare lo scovolino nelle camere di scoppio della sua Colt Python con estrema cura. Erano quasi due anni che si trovava in quel posto infernale ma solo negli ultimi mesi i vari commando di guerriglieri sparsi per la regione avevano iniziato ad abbattere aerei più o meno grandi; all’inizio non ne capiva il senso, era un’ulteriore strage di civili che lui avrebbe volentieri evitato, ma sapeva bene che in guerra la logica semplicemente spariva dinanzi alla bramosia di sangue e morte. Sbuffò lievemente e, mentre si chinava per riporre lo scovolino nel contenitore, risollevò per un attimo gli occhi verso quella montagna. Non poteva fare a meno di incupirsi ogni volta che assisteva a uno spettacolo del genere, il pensiero di quante vite ignare venissero tranciate di netto in pochi secondi per i capricci dei signori della guerra lo faceva soffrire, anche se non l’aveva mai dato a vedere. Era molto bravo a fingersi quello che non era, lo aveva imparato col tempo. Alla fine, se si ritrovava in quel posto dimenticato da qualsiasi Dio era perché nella famiglia Kaibara non si era visto un uomo che non si fosse dedicato al bene del proprio Paese; la carriera militare era un obbligo da tre generazioni e non era contemplato un rifiuto.
Con rapidi gesti esperti rimontò l’arma e, mentre iniziava a inserire i proiettili negli appositi alloggi, un rumore di passi ruppe il silenzio.

«E con questo siamo arrivati a dieci. A giudicare dal fumo l’aereo non è esploso, la caduta sarà stata frenata dagli alberi; meglio, un incendio in meno questo mese»

Shin piegò le labbra in un lieve sorriso.

«Complimenti Frank, non ti facevo così attento»

«Beh, a parte contare quante volte Carlos sputacchia dentro la minestra, non ci sono molti divertimenti quaggiù e i disastri aerei sono sicuramente il diversivo più interessante»

«Hai dimenticato gli urli di Ramon quando si sveglia con i ragni addosso»

«Vero come ho fatto a dimenticarlo!» esclamò l’amico per poi tornare subito serio «Secondo te chi è il responsabile ‘sta volta?»

«Mmmh, difficile dirlo con esattezza» e senza interrompere la sua operazione certosina aggiunse «Facendo un calcolo approssimativo, se si considera il punto in cui è precipitato l’aereo e l’intervallo di tempo trascorso dallo scoppio del mortaio alla sua caduta, si può ipotizzare che i colpi siano partiti da quelle montagne a Nord-Est… Dovrebbe essere la zona controllata dagli uomini di Montoya se non mi sbaglio»

«Ah, sei proprio impossibile» sbuffò arreso mentre si accendeva una sigaretta.

«Che intendi Frank?»

«Quello attento sarei io?! Saresti capace di dirmi il modello dell’aereo e da dove è partito! Non cambierai mai… Ti mostri disinteressato a tutto ma in realtà non ti sfugge niente»

Shin si limitò a incontrare gli occhi dell’amico e gli sorrise; odiava ammetterlo ma Frank era l’unico uomo che fosse riuscito a capirlo da quando era nato e, non a caso, era l’unico amico che avesse mai avuto. Così diversi – uno figlio della buona società newyorkese e l’altro un ex delinquente, cresciuto nelle periferie malfamate di San Francisco – eppure così simili nelle loro solitudini, tanto da creare un duo affiatato, specialmente in battaglia.

«Ehilà signorine avete finito di fare salotto? Solo perché oggi non si combatte non vuol dire che dovete battere la fiacca! Moon non ti avevo detto di andare a sistemare il motore della Jeep? Quando si tratta di lavorare sei il primo che scappa come un coyote, che ti prenda un accidente da restare secco e-»

«Ahh Pablo prendi fiato tra una parola e l’altra, altrimenti un giorno di questi ci rimetterai la pellaccia!» esclamò l’americano roteando gli occhi esasperato «Arrivo, arrivo, non posso neanche fumare una sigaretta in santa pace! Sei proprio uno schiavista»

«IO?! Fino a prova contraria siete tu e i tuoi compari i veri schiavisti, hijo de puta» borbottò il mastodontico guerrigliero, rosso in volto da fare spavento.

«Stavo scherzando vecchio mio!» esclamò Frank divertito e dopo avergli dato una pacca sulla spalla aggiunse «Su, dimmi che è successo, perché il tuo culo è agitato stamattina Pablito?»

Fu troppo per l’uomo che esplose come un vulcano.

«TU, tu sei un porco insolente! Corri subito al lavoro se non vuoi diventare cibo per vermi ora!»

Shin, che nel frattempo aveva riordinato il suo materiale e stava scendendo verso il campo, se la rideva sotto i baffi. Frank era talmente diverso da lui, sempre così estroverso e con la battuta pronta, non si faceva problemi a prendere in giro persino il capo gruppo; era sorprendente vedere come Pablo lasciasse correre, forse perché Frank era un elemento troppo valido per farlo fuori e forse, in fondo, perché grazie a lui aveva la possibilità di sfogare i suoi malumori sbraitandogli contro.
Intanto il campo brulicava di vita, con gli uomini impegnati nei vari lavori di manutenzione che venivano inevitabilmente rimandati ai brevi momenti di stasi che si verificavano tra i diversi attacchi. Tutto ciò lo fece tornare con la mente ancora una volta a quell’aereo abbattuto, a quanta vita c’era anche lì dentro e che era stata annullata da uomini come loro. Era stato un marine eccellente, il primo del suo corso, temprato a gestire con freddezza anche le situazioni più estreme, tuttavia non riusciva a non pensare all’incidente di poco prima con una punta di amarezza; era inutile, in cuor suo ogni giorno sperava di svegliarsi e assistere alla fine della guerra, di non vedere più morte e distruzione. Avrebbe potuto ricominciare, magari approfondire gli studi con il Professore e dedicarsi attivamente alla ricerca medica, diventare uno strumento di vita anziché di morte… Pensieri sciocchi e ingenui, lo sapeva, ma intimamente non smetteva di sperare che un giorno si sarebbero potuti realizzare. Immerso nei sue riflessioni raggiunse la capanna-laboratorio e bussò lievemente alla porticina fatta di canne, che si aprì pochi istanti dopo.

«Ah eccoti Shin, sei arrivato giusto in tempo, stavo preparando gli anestetici»

Il Professore era l’uomo più indecifrabile che avesse mai conosciuto. Basso e snello, i capelli corvini raccolti in una coda bassa e occhi penetranti nascosti da due piccole lenti sferiche: dietro tale aspetto si celava una persona brillante e acuta, dalle infinite competenze, capace di grandi slanci di altruismo ma freddo e calcolatore quando era necessario. Si riteneva fortunato per essere riuscito a entrare nelle grazie di quell’uomo schivo e riservato, grazie al quale aveva potuto continuare gli studi di chimica e biologia che era stato costretto a interrompere per entrare nell’esercito; emanava un’aurea di rispetto così palpabile che tutti i guerriglieri gli davano del lei naturalmente, come se fosse la cosa più scontata del mondo. E lui non faceva eccezione.

«Sarei venuto prima ma la Colt mi ha preso più tempo del previsto Professore» disse alzando lievemente la sacchetta con gli attrezzi di pulizia.

«Non hai di che scusarti Shin, la manutenzione della propria arma è un elemento prioritario, hai fatto bene a impiegarci tutto il tempo necessario. E poi la tua è un bel gioiellino di cui devi avere la massima cura2» e tornando dietro ai vari lambicchi fumanti gli lanciò una rapida occhiata «Beh, che stai a fare ancora lì impalato?»

Il giovane uomo si riscosse e, dopo essersi lavato le mani, prese posto davanti agli strumenti di lavoro. I due rimasero per un’oretta in un silenzio rotto solo dall’occasionale vociare proveniente dall’esterno, ognuno concentrato sulle proprie mansioni ma con la testa segretamente altrove.

«Ti ho visto stranamente impreciso Shin, c’è qualche problema?» chiese con noncuranza il Professore a fine operazione mentre iniziava a sistemare la postazione.

«No, nessun problema in particolare…» rispose leggermente scocciato per essere stato sorpreso così facilmente.

D’altronde con una persona acuta come il Professore era impossibile scamparla.

«Ma…»

«Solo non capisco perché i gruppi stazionati sul fronte orientale abbiano iniziato ad abbattere in modo sistematico gli arei civili. All’inizio li avevo creduti degli incidenti isolati, ma ormai è fin troppo palese che non si tratti di errore» ammise con stizza mentre richiudeva il piccolo mobiletto ricolmo di provette e becher.
Per quanto il Professore fosse una persona degna di stima e fiducia, Shin non amava palesare a nessuno i suoi veri pensieri; era come aprire una finestra nel suo animo, rendendolo vulnerabile. Una debolezza da non commettere mai.

«Si vede che non hai ancora la mentalità di un guerrigliero Shin» rispose l’uomo tranquillo e, guardandolo serio, proseguì «L’intento iniziale era colpire solo gli aerei americani per impedire i rifornimenti e scoraggiare possibili attacchi, però dopo si sono resi conto che abbattendo quelli civili si raggiunge una maggiore eco nella stampa internazionale»

«Si ammazza gente innocente a caso per un po’ di pubblicità… Bello schifo»

«La guerriglia in fin dei conti è solo quello e noi ne facciamo parte» e dopo aver aperto la porta della capanna concluse in un soffio «Solo perché combattiamo per i più deboli non vuol dire che noi siamo meglio di coloro che ci sono nemici. Siamo tutti uomini deboli e sporchi di sangue, ognuno con i propri fantasmi e le nostre colpe. Non siamo certo dei santi, tra noi si annida la società peggiore, non dobbiamo dimenticarlo, e il fatto che non abbiamo ancora iniziato a giocare al tiro a bersaglio non vuol dire che non potremmo iniziare presto»

Shin lo guardò con un misto di stupore e turbamento: quell’uomo riusciva sempre a sorprenderlo, sfoderando ogni volta le parole giuste al momento giusto. Lui si ostinava a credersi migliore degli altri perché la sua indole lo portava a cercare il buono anche in quel manipolo di guerriglieri sguaiati e senza scrupoli, ma era giusto che si ricordasse chi fosse davvero e cosa stesse facendo. Era un ex marine, un uomo addestrato a uccidere e a non provare sentimenti; era quellaa la sua vita, non doveva dimenticarlo.

«Ah sei qui Shin» la voce roboante di Pablo lo riportò alla realtà e, affacciandosi dentro il laboratorio, aggiunse perentorio «Vieni subito, dobbiamo organizzare i turni di ronda»
 
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In quel tratto la foresta era fitta a tal punto che dovette utilizzare il machete per farsi strada nell’impenetrabile vegetazione del sottobosco. Si era offerto volontario, come sempre, per perlustrare il territorio in modo da sincerarsi che nelle vicinanze non ci fossero nuovi accampamenti di soldati che – secondo le intercettazioni del Professare – stavano iniziando a popolare quelle alture selvagge alla ricerca dei vari villaggi dei guerriglieri. Gli piaceva andare in avanscoperta, muoversi furtivo tra la natura incontaminata, in quanto lo aiutava a ritrovare una calma seppur apparente. Quello, inoltre, era un ottimo modo quello per restare in esercizio, per mantenere e anche affinare le sue abilità, con i sensi sempre tesi al massimo, attento a cogliere il minimo rumore sospetto nel marasma di suoni che caratterizzava quella immensa distesa verdeggiante. Continuò la sua ascesa impervia e, dopo aver spazzato via l’ennesimo groviglio di tronchi e rampicanti, si concesse qualche attimo per riprendere fiato. Con la mano si deterse il sudore che gli imperlava la fronte, poi raggiunse la borraccia che portava a tracolla per prendere un sorso d’acqua. Aveva percorso all’incirca cinque chilometri ma a causa del terreno così impervio gli sembrava di averne fatti più del doppio; doveva sbrigarsi, aveva ancora molta strada da fare e avrebbe dovuto essere di ritorno prima di sera, perciò si rimise in marcia con rinnovato vigore. Dopo qualche passo, però, il rumore secco di un ramo spezzato lo mise in allerta e in un attimo sfoderò la pistola dalla fondina, il colpo già in canna.
“Che sia qualche bestia? Un soldato non potrebbe fare un errore così grossolano” si disse mentre si appiattiva contro il tronco di un albero imponente e chiuse gli occhi per concentrarsi meglio. Attese alcuni istanti e nuovamente avvertì un fruscio, segno inequivocabile che qualcosa si stava dirigendo proprio verso di lui. Riaprì gli occhi e silenzioso come un’ombra sporse leggermente il capo oltre la spessa corteccia, quanto bastava per permettere all’occhio destro di prendere la mira, pronto a sparare. Quel colpo, però, non partì. Davanti a lui si stava muovendo un bambino che, con passo strascicato, stava scendendo il crinale della montagna.
“Che ci fa un bambino in mezzo a questa giungla?!” si chiese stupito mentre riponeva l’arma al proprio posto. Lentamente uscì dal suo nascondiglio e in pochi passi gli fu di fronte: era davvero piccolo, piuttosto magro, il volto – sporco di terra e sangue rappreso – era incorniciato da folti capelli corvini spettinati, tra cui spuntavano alcune foglie secche. Anche i suoi vestiti non erano in condizioni migliori, con la maglietta e i pantaloncini sporchi e strappati in più punti, e si chiese cosa potesse essergli successo. Il bambino, appena lo vide, si fermò piantandogli addosso due occhi dal taglio orientale, seri come quelli di un adulto e, per nulla intimorito, attese che il guerrigliero si avvicinasse.

«Hola niño» gli disse, cercando di sembrare il più affabile possibile, ma non fu certo di esserci riuscito.

Il bimbo non emise un fiato e continuò a fissarlo serio, la piccola bocca stretta tanto da far sparire le labbra. Non si diede per vinto e continuò a parlargli in spagnolo.

«Che ci fai qui da solo? Ti sei perso?» domandò ma si diede mentalmente dello stupido.

Che razza di domande faceva?! Era chiaro come il sole che un bambino così piccolo e abbastanza malconcio non poteva trovarsi nel mezzo della foresta – completamente solo tra l’altro – per una scampagnata. Intuiva che doveva essergli successo qualcosa di molto grave, ma il piccolo continuava a guardalo ostinatamente muto; stava per riparlare quando vide un lampo di dolore attraversare quegli occhietti scuri e, pochi attimi dopo, il bambino si accasciò a terra come un sacco vuoto.
Shin in uno scatto lo raggiunse e gli appoggiò la testa sulle ginocchia; era freddissimo e appena scorse le labbra secche e spaccate capì che doveva essere molto disidratato così, con l’acqua della borraccia, gli inumidì la bocca per poi passare delicatamente la mano bagnata sul viso, cercando di pulirlo in modo grossolano.
«Devi essere proprio giunto al limite piccolino» emise in un sussurro, avvertendo una punta di tenerezza per quell’essere così minuscolo e indifeso.
Il bambino emise un debole lamento mentre con evidente sforzo riapriva gli occhi.

«Hi… Hikōk-» disse in un soffio e le pupille si strinsero nuovamente in un dolore sordo.

L’uomo fu sollevato nel vederlo riacquistare coscienza e allo stesso tempo incredulo nel sentirgli pronunciare quella parola che gli sembrava giapponese. Non poté fare a meno di allargare gli occhi per la sorpresa; tutta quella situazione gli sembrava così surreale, non pensava che oltre a lui e il Professore avrebbe potuto incontrare altri giapponesi tra quelle montagne così selvagge.

«Onamae wa nan desu ka?3» gli chiese gentilmente.

Il bambino si illuminò a quelle parole e con un filo di voce rispose «Ryo»

«Ryo» ripeté accarezzandogli la testa «Goryōshin wa doko ni imasu ka?»

«Hikōki…» disse tornando mortalmente triste.

Quell’unica parola bastò per avere un quadro chiaro della situazione e la sua meraviglia aumentò nel rendersi conto di avere tra le mani, con molta probabilità, l’unico superstite di quell’aereo che stato abbattuto tre giorni prima; il turbamento che gli aveva causato quell’evento era nulla in confronto a quello che avvertì quando realizzò che si era imbattuto in un autentico miracolo. Il bambino era sopravvissuto tre giorni in quel luogo inospitale: sarebbe dovuto essere morto e invece era lì, stremato ma vivo, e quella consapevolezza gli gonfiò il petto di felicità. La vita poteva trionfare anche quando la morte era considerata l’unica possibilità.

«Eu» sussurrò il piccolo, rompendo il silenzio «Estou com fome…4» concluse con fatica prima di svenire.

“Ma questo non è mica giapponese!” pensò basito mentre si rialzava tenendo il bambino saldamente in braccio.
Cosa doveva fare? Il suo dovere di soldato gli imponeva di proseguire l’esplorazione ma il suo cuore gli diceva di non perdere tempo prezioso e di portare Ryo subito al villaggio. Si ritrovò immobile per qualche istante, profondamente combattuto, ma infine le gambe si mossero da sole, facendolo voltare.
«Ah, al diavolo il dovere!» e iniziò a correre.
Aveva avuto la possibilità di salvare almeno una vita e non l’avrebbe sprecata.
 
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«Shin ti ha dato di volta il cervello?» gli domandò Pablo secco «Da quando in qua saremmo diventati un asilo per marmocchi?»

Già prima di arrivare al campo aveva intuito che la sua proposta non avrebbe riscosso molti consensi, ma non avrebbe immaginato che praticamente tutti gli sarebbero stati contro.

«Non è una scelta che si può prendere alla leggera. Forse sarebbe meglio portarlo al villaggio più vicino» commentò il Professore greve.

Era l’imbrunire e tutti gli uomini si erano radunati come sempre nello spiazzo centrale dell’accampamento in attesa del rancio serale; solo una mezz’ora prima Shin si era presentato con un bambino in braccio, creando un certo scompiglio nel gruppo che ora stava discutendo per decidere il suo destino.

«Io ritengo che non sia una scelta del tutto insensata. È sopravvissuto a un incidente aereo e ha vagato per tre giorni senza né cibo né acqua per la foresta… Insomma non stiamo certo parlando di un bambino debole, tutt’altro! Non vedo nessun problema nel farlo restare qui»

«Ma perché ti stai ostinando tanto? Non starebbe meglio con i civili?» chiese Paco perplesso.

«Come perché?! Non vedi che tutti piangono miseria? Hanno appena di che sopravvivere e portandolo da loro lo condanneremmo a una vita di stenti!» sbottò Shin con rabbia.

Si sentiva terribilmente frustato nel constatare come tutti gli andavano contro. Certo, in fin dei conti erano guerriglieri e la loro quotidianità era pregna di morte e violenza, però… Non sarebbe riuscito a spiegarlo a parole, ma avvertiva una vocina interiore suggerirgli di non demordere. Avrebbe voluto urlare a tutti che, se lo avessero lasciato tra i civili, Ryo avrebbe rischiato davvero di morire o condurre un’esistenza miserevole come quella di tutti gli orfani abbandonati a loro stessi, ma si sforzò per rimanere il più calmo possibile.

«Rifletti Shin» la voce pacata del Professore lo riportò alla realtà «Anche restando con noi che vita condurrebbe? Diventerebbe un bambino soldato, è inevitabile. È questo che vuoi per lui?»

“Io voglio solo che viva” pensò amaramente, non riuscendo a dirlo a voce. Si alzò lentamente e, sentendo il bisogno di fare due passi, si diresse verso la sua capanna. Man mano che si allontanava avvertì il brusio degli uomini farsi più forte, quasi come se volessero voltare pagina e riprendere i soliti discorsi. A nessuno interessava quella giovane vita, nessuno sembrava percepire l’importanza di quel ritrovamento fortuito e iniziò a temere concretamente di non riuscire a farcela. Aprì la porta con cautela e si affacciò dentro il piccolo ambiente; scorse sul misero giaciglio la piccola sagoma raggomitolata su se stessa, il respiro calmo a segnalare che fosse profondamente addormentato, ignaro che perfetti sconosciuti stessero decretando il suo futuro.
«Che cosa devo fare…» emise in un sussurro mentre appoggiava stancamente la fronte allo stipite della porta. Cosa sarebbe stato meglio per lui? Quella sua vocina irrazionale non si era affatto spenta, anzi, ma d’altro canto l’osservazione del Professore lo aveva fatto vacillare. Non era così idiota da non pensare a cosa ne sarebbe stato del bambino se fosse riuscito a farlo restare; un guerrigliero e per di più bambino, non era certo una vita invidiabile, tuttavia continuava a considerarla una soluzione nettamente migliore rispetto a quella suggerita dagli altri uomini. Il Guatemala era in piena guerra civile, l’esercito governativo aveva iniziato terribili repressioni nei confronti della popolazione, la povertà dilagava in modo incontrollato e la situazione sembrava aggravarsi ogni giorno.
“Portarlo in un villaggio… Certo, come se non avessero gli occhi per vedere che vita fanno!”
Le condizioni di vita nei villaggi indigeni era miserevoli già prima dell’inizio della guerra, ma col tempo stavano ulteriormente peggiorando. Un bambino orfano, per giunta straniero, che non parlava una parola di spagnolo – figurarsi di K’iche’5 – sarebbe stato una preda troppo ghiotta per criminali di ogni tipo, come facevano a non capirlo? Con loro, invece, il bambino avrebbe potuto imparare a combattere, sarebbe stato capace di difendersi – condizione essenziale per sopravvivere in quell’ambiente infernale – e, soprattutto, lui avrebbe potuto vederlo crescere, aiutarlo; era inutile, tra le due opzioni continuava a preferire la sua idea.
Non poté fare a meno di sorridere amaramente: proprio lui, che aveva sofferto molto a causa delle imposizioni paterne che lo avevano privato della possibilità di scegliere il suo futuro per seguire una stupida tradizione familiare, si ritrovava a decidere in modo arbitrario del destino di un bambino.
Richiuse delicatamente la porta e, con passo deciso, raggiunse il gruppo fattosi più silenzioso, segnale che avevano iniziato a cenare. Tenendo gli occhi bassi si sedette sulla nuda terra accanto a Frank, che gli porse la scodella col rancio che gli aveva tenuto da parte. Lo ringraziò con un lieve cenno del capo e iniziò a rimestare il cucchiaio nella minestra con poca convinzione, non riuscendo a mangiare; avvertiva gli occhi di tutti puntati addosso ma continuò imperterrito a fissare l’oscura brodaglia, come se all’interno vi potesse trovare tutte le risposte. Alla fine sbottò deciso.

«Un mese» disse semplicemente, fissando Pablo negli occhi.

L’uomo, seduto dalla parte opposta del fuoco, non si scompose e continuò a passarsi un pezzetto di legno tra i denti.

«Un mese cosa?» fece il capo gruppo continuando la sua pulizia.

«Chiedo un mese di tempo per preparare il bambino. Se entro questo periodo si dimostrerà un peso per il gruppo lo lascerò al villaggio più vicino, in caso contrario resterà con noi»

Il capo gruppo gli rivolse un mezzo sorriso, carico di sorpresa e curiosità.

«Bene, ha tutta l’aria di una scommessa e a me piacciono molto. Vedremo se saprai renderlo un guerrillero» e dopo essere balzato in piedi con grande agilità a dispetto dell’imponente stazza proseguì «Non so per quale motivo tu ti sia incaponito così tanto Shin, però attento: hai sì un mese ma sappi che il moccioso non dovrà mai mostrarsi una zavorra per noi. Non posso tollerare nessun elemento debole, bambino o uomo che sia, intesi?»

L’ex marine annuì semplicemente a quello che aveva tutta l’aria di un ordine.

«Bene signorine, sbrigatevi a mangiare questa schifezza e poi tutti dritti nelle proprie baracche, domani sveglia all’alba» e così dicendo si allontanò, entrando nella sua capanna.

Shin si sentì finalmente libero da tutta la tensione accumulatasi durante la giornata e, dopo essersi stiracchiato, si apprestò a mangiare; appena, però, riuscì a mandar già un boccone non riuscì a nascondere una smorfia di disgusto.

«Terribile vero? Sembra che ci abbia bollito dentro gli scarponi» gli disse Frank sorridendo.

«Davvero pessima… Temo che oggi si sia superato» rispose gettando via la gavetta.

«Qualcosa da ridire sul cibo gringo?» chiese lapidario Carlos, famoso per la sua permalosità, a cui non era sfuggito il gesto.

«Nulla» rispose subito Shin «Non ho fame, tutto qui»

«Sì, niente da ridire sulla tua ottima cucina» si affrettò a fargli eco Moon.

In una situazione normale sapeva che Frank non avrebbe perso tempo per colpirlo con la sua linguaccia, ma scatenare una rissa – con annessa ira di Pablo – era certo l’ultimo dei loro pensieri, soprattutto dopo quanto era successo. Purtroppo il cuoco non sembrò particolarmente convinto.

«Non mi starai prendendo per il culo, vero?» sibilò stringendo gli occhi.

«Cosa?! Ma come puoi pensare una roba del genere! Non mi permetterei mai» esclamò fintamente sorpreso l’americano, alzando solennemente la mano destra a mo’ di giuramento e facendo sghignazzare così alcuni uomini.

«Suvvia Carlos, non lo considerare» intervenne Shin prontamente e, onde evitare che l’amico peggiorasse la situazione, raccolse il piccolo recipiente di latta «La conservo per il bambino, nel caso si svegli durante la notte gli farò mangiare qualcosa»

La sua risposta sembrò soddisfare il corpulento cileno che si limitò a grugnire parole incomprensibili prima di riprende la conversazione con i suoi vicini.

«Ma che sei impazzito? Vuoi davvero ammazzare quella povera creatura?» gli chiese sottovoce un Frank sconvolto.

«Certo che no, ma era l’unico modo per spegnere la questione, se fosse per te a quest’ora avresti già scatenato una rissa! Sei sempre il solito» disse a mezza voce mentre cercava nel taschino della mimetica il pacchetto di sigarette.

«Comunque Shin sappi che ti aiuterò con il bambino; per quel poco che l’ho visto devo dire che mi è simpatico e poi mi piace l’idea di avere una mascotte»

«Ne parli come se fossimo una squadra di football» emise sarcastico per poi passargli la sigaretta.

Frank fece un tiro lungo e, fattosi improvvisamente più serio, proseguì «In realtà, appena ti ho visto arrivare con quel fagotto sulle spalle mi è preso un colpo, mi ha fatto ricordare mia figlia… Io purtroppo non l’ho vista nascere, di lei ho solo una foto che la madre mi ha inviato quando siamo arrivati qui. Quel bambino avrà più o meno l’età di Mary… So che è stupido ma se posso aiutarlo a crescere mi sembrerà di passare del tempo con lei, visto che non ne ho avuto la possibilità e non so se potrò mai farlo» concluse in sussurro, evidentemente imbarazzato.

«No Frank, non lo trovo affatto stupido» e dandogli un’amichevole pacca sulla spalla aggiunse «Ti ringrazio, sapere che almeno tu non mi sei contro mi conforta molto. E avrò bisogno di tutto l’aiuto possibile, non so proprio da che parte iniziare, io non ne so nulla di bambini. Penso di averla sparata un po’ grossa prima»

«Si vede che alla fine qualcosa te l’ho insegnata»

I due uomini si ritrovarono a ridere senza motivo, volendosi concedere qualche attimo di leggerezza, attirando così l’attenzione dei loro commilitoni che li guardarono perplessi, non capendo cosa trovassero così divertente quei due americani che non facevano altro che starsene in disparte a parlottare in inglese tra loro. A mettere fine al momento conviviale ci pensò il Professore che era rimasto silenzioso e meditabondo per tutto il tempo.

«Ora basta, ognuno torni alle proprie capanne! Avete sentito cosa ha detto Pablo e avete indugiato fin troppo» esclamò perentorio, alzandosi in piedi per dare l’esempio.

Pigramente il gruppo iniziò a disperdersi e anche Shin, che in realtà si sentiva molto stanco, raccolse la gavetta – si sarebbe premurato di svuotarla nella latrina – e a passo lento si incamminò verso la sua capanna, che era proprio accanto al laboratorio.

«Vorrei parlarti un attimo» la voce del Professore lo raggiunse da dietro, poco prima che potesse aprire la porta.

Si voltò ma non fu in grado di leggere alcuna emozione negli occhi dell’uomo minuto che lo fronteggiava.

«Certo Prof, mi dica»

«So che la questione è ormai chiusa, ma mi sento in dovere di dirti che sono preoccupato per la proposta che hai avanzato poco fa»

«Intende il limite del mese?»

«Esattamente» e sistemandosi furtivamente gli occhiali con l’indice continuò «Quando hai portato il bambino non ci ho pensato due volte a soccorrerlo – e per fortuna ti sei mostrato così celere, altrimenti non credo sarebbe arrivato a domani –, però il pensiero che possa restare e crescere con noi mi preoccupa»

«E non la preoccupa il fatto che lasciandolo in qualche villaggio possa rischiare molto di più?» sbottò senza riuscire a nascondere la sua frustrazione.

Perché non riusciva a capirlo? Il Professore si era sempre dimostrato l’unica persona dotata di buonsenso in tutto il gruppo e il fatto che nutrisse remore circa la sua scelta lo scoraggiava enormemente.
“Che stia sbagliando davvero?” si chiese abbattuto.
L’uomo si limitò a osservarlo per pochi secondi che parvero interminabili, scrutandolo intensamente attraverso le lenti, per poi sospirare con un mezzo sorriso.

«Ci tieni davvero così tanto… Però ho un’ultima domanda, rispondimi onestamente. Perché?»

Shin rimase un attimo sovrappensiero e alzò lo sguardo verso quel cielo stellato così luminoso che era possibile godere solo in quei territori lontani dalla civiltà. Doveva essere sincero, sapeva che se fosse riuscito a portare il Professore dalla sua parte non avrebbe avuto più nulla da temere.

«Sarebbe difficile spiegarlo a parole, ma sento che il mio incontro con Ryo non è stato dettato dal caso. La guerra in Corea6 è stata il mio battesimo di fuoco, come ci aveva anticipato il nostro sergente istruttore, e lì ho sperimentato per la prima volta le atrocità della violenza… Ah, sapesse quanti bambini ho visto morire, quanta gente innocente piangere senza lacrime perché ormai le avevano terminate tutte. Sono stato lì due anni ma me ne sono sembrati venti»

«Non mi hai mai raccontato che eri stato in Corea. Com’è possibile ch-»

«Che un soldato come me rimanga ancora turbato dalle violenze sui civili?» lo interruppe guardandolo negli occhi «È questo che voleva dire, vero?» sorrise amaro.

L’uomo si limitò ad annuire.

«La verità è che non riesco ancora ad accettare la violenza fine a se stessa: se un nemico ci attacca è giusto rispondere, o se siamo noi in azione puntiamo sempre a uomini armati come noi. Questo io lo accetto, uccidere oramai fa parte di me, è un aspetto che per quanto mi addolori non potrò eliminare, però… Però quando vedo sparare sulla folla inerme, violentare donne indiscriminatamente e ora abbattere aerei di linea, non posso fare a meno di chiedermi se tutto ciò sia necessario. Tutta questa violenza gratuita dove ci condurrà?» chiese angosciato.

Stava facendo un grande sforzo per mantenersi calmo e parlare con un tono di voce bassissimo ma le ultime parole gli uscirono leggermente tremanti. Era la prima volta che si metteva a nudo in quel modo ma era per una buona causa.

«Proprio dopo l’ennesimo disastro aereo ecco che mi imbatto in un bambino, sicuramente unico superstite di quella tragedia. Il suo attaccamento alla vita, l’essere quell’unica eccezione, mi ha profondamente colpito, perciò voglio preservare questo germoglio, aiutarlo a crescere piuttosto che abbandonarlo a morte certa» sospirò pesantemente prima di concludere «So che il nostro commando non è il posto ideale per un bambino ma non me la sento di lasciarlo… Ne ho bisogno io. Il poter veder crescere una giovane vita mi darà la forza di tollerare la morte che ci circonda»

Si sentì improvvisamente più leggero ma anche profondamente imbarazzato: era stato troppo sentimentale? Forse agli occhi del medico era diventato uno stupido ma non importava, gli aveva parlato francamente e sperò ardentemente che avesse capito le sue ragioni. Dopo qualche istante di silenzio, il Professore gli si avvicinò, aprì la piccola sacca che portava a tracolla e gli porse due manghi maturi.

«Se si sveglia prima della colazione faglieli mangiare, ha bisogno di zuccheri» disse in un sussurro per poi allontanarsi.

Con quel gesto il Professore gli aveva manifestato indirettamente il suo consenso e Shin sentì di avercela fatta finalmente. Aveva poco di cui gioire, però, l’indomani sarebbe iniziata la vera sfida e si chiese se non fosse stato davvero troppo ottimista nel valutare le sue capacità e quelle del bambino. Entrò nella capanna e vide il piccolo raggomitolato ancora nella stessa posizione e cautamente si sdraiò poco lontano. Sentì il cuore riempirsi di un sentimento agrodolce al pensiero che quel bambino presto non avrebbe più dormito così profondamente, che il momento dei giochi era terminato e che avrebbe dovuto imparare a combattere per poter sopravvivere.
«Io farò quello che devo Ryo, ma tutto dipende da te. Mi raccomando, metticela tutta» emise in un sussurro impercettibile prima di abbandonarsi al dormiveglia.
 
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«Forza Ryo, più veloce!» gridò Shin battendo le mani con enfasi.

Il bambino accelerò ulteriormente la corsa sebbene fosse palesemente esausto.

«Non mi sarei mai aspettato che tu fossi un uomo senza cuore» lo accusò Frank mentre gli si avvicinava «Con questo ritmo non arriverà vivo al mese, altro che farne un guerrigliero!»

«Non credere che ne sia contento, ma non ho molta scelta. C’è tanto da fare e bisogna approfittare di ogni ritaglio di tempo possibile; se avessi a disposizione almeno mezza giornata sarebbe diverso, ma Pablo è diventato una iena e non fa che starmi addosso, dandomi compiti su compiti. E temo lo faccia apposta» disse amaramente.

Era trascorsa poco più di una settimana dal giorno in cui aveva portato Ryo al villaggio e già si sentiva profondamente legato a quel bambino che, fin da subito, si era mostrato terribilmente sveglio e obbediente. Sempre energico e di buon umore, era impossibile non volergli bene, non a caso anche gli stessi guerriglieri – che all’inizio si erano mostrati molto diffidenti nei confronti di quella novità – si erano poi ricreduti in un paio di giorni, tanto che alcuni interagivano con Ryo in un modo che rasentava l’affabilità. Pablo, però, si manteneva fermo nella sua posizione sprezzante, non perdendo occasione per rimproverarlo per ogni minima inezia e lasciandogli così poco tempo libero per addestrare il bambino che si ritrovava costretto a imporgli ritmi estenuanti persino per un adulto pur di farcela con le tempistiche. E Ryo, contro ogni aspettativa, non si lamentava mai se ogni giorno aumentava il numero di giri da fare intorno al perimetro del campo e i pesi nello zaino, se durante le arrampicate sugli alberi si riempiva di graffi, se gli urlava contro perché non riusciva ancora a far bene le flessioni. Shin era genuinamente stupito da quell’attitudine così insolita per un bambino che, stando alle parole del Professore, non doveva avere più di quattro anni; più lo vedeva concentrato, più vedeva il suo visino sporco di terra ma mai di lacrime, più sentiva crescere in lui una profonda stima per quell’ometto. Lui non era stato certo così forte durante l’infanzia, e si chiedeva quanto la non completa consapevolezza degli eventi influisse su quel comportamento così maturo. In cuor suo sperava che il bambino avesse intuito che quelle non erano angherie gratuite ma semplicemente la sua nuova vita in quel posto in cui era arrivato per caso e di cui non faceva mai domande. Non aveva mai parlato dei genitori, di come si fosse salvato dallo schianto e Shin non se la sentiva di intavolare il discorso per primo; forse il forte shock aveva contribuito a oscurare i dettagli più dolorosi o era una scelta consapevole, ad ogni modo non sarebbe stato lui ad aprire quel capitolo, sebbene nutrisse una certa curiosità.
Il rumore di un tonfo secco lo strappò dai suoi pensieri e i suoi occhi si focalizzarono su Ryo riverso per terra, la schiena che sollevava a fatica il pesante zaino sopra di lui; forse aveva esagerato, in fin dei conti era pur sempre un bambino e lo stava trattando alla stregua di una recluta. Fece per avvicinarsi ma fu preceduto da Frank che aveva già preso il bambino tra le braccia con impacciata delicatezza.

«Ha perso i sensi… Shin credo proprio che dovresti darti una calmata, il tuo zelo lo trovo non solo eccessivo ma anche dannoso» gli disse duro «Lo porto dal Professore. Per i prossimi giorni penserò io a lui, così avrete entrambi modo di riprendervi»

«Ma io in realt-» iniziò, sentendosi colto in fallo.

«Kaibara!» la voce di Pablo, proveniente oltre gli alti cespugli lo interruppe «Dove diavolo si è cacciato quel buono a nulla? KAIBARA!» sbraitò il mercenario.

«Che cazzo vuole ancora quella piaga?» emise esasperato e rivolgendosi a Frank aggiunse «Va bene, appena mi sarò liberato parlerò con il Professore» e si avviò veloce verso l’accampamento, dove sapeva lo attendeva una bestia furente.

Era già sera quando riuscì finalmente a liberarsi e a raggiungere il laboratorio; era stata una giornata intensa, avevano pianificato l’attacco che avrebbero condotto il giorno successivo e che, con buona probabilità, sarebbe proseguito per un paio di giorni. Erano stati fermi per troppo tempo e necessitavano di armi, munizioni e di qualsiasi cosa potessero rivendere al mercato nero: si tendeva a dimenticarlo, ma in guerra il vil denaro si mostrava più importante di quanto si potesse immaginare. L’occasione giusta era arrivata proprio con quel plotone che si era da poco insediato a valle per controllare e sedare le rivolte dei facinorosi che si stavano facendo sempre più intense e incisive, grazie soprattutto all’appoggio delle varie squadre di guerriglieri disseminate nel territorio. Sarebbe stata la loro ultima azione prima di smontare il campo e stabilirsi verso sud-est, avvicinandosi, seppur di poco, alla capitale; oramai si era abituato a quella vita nomade, senza avere la possibilità di mettere radici in nessun luogo, senza poter progettare la propria vita. “Il domani non esiste, conta solo l’oggi” diceva sempre il suo sergente istruttore nelle ultime settimane del corso, poco prima che la sua sorte e quella dei compagni venisse decisa dai loro superiori, che li avrebbero smistati nei vari reparti prima di partire per il fronte.
La maggior parte dei suoi commilitoni era morta in Corea del Nord ma lui era sopravvissuto a tutto; si era tramutato in un’arma, il fucile come un naturale prolungamento dei suoi arti, e aveva ucciso un numero imprecisato di uomini, non si era azzardato a tener il conto. Per quanto si fosse distinto come cecchino di prim’ordine, per quante vite avesse falciato, non era riuscito a riplasmarsi come i suoi familiari e superiori avrebbero auspicato. Il suo cuore era ancora capace di compassione, di provare tenerezza e rabbia verso le ingiustizie e ciò lo rincuorava perché ciò significava che non aveva ancora perso la sua parte più umana, in cui risiedeva il vero lui. Duranti i due lunghi e interminabili anni di guerra si era chiesto più volte cosa suo padre e suo nonno avessero trovato di esaltante nell’esercito, tanto da difendere con le unghie e con i denti quella che sembrava una dinastia militare, a cui nessun uomo della famiglia Kaibara poteva sottrarsi. Per un istante ricordò il salone della casa di suo nonno che era tappezzato dai ritratti di figli, fratelli, nipoti e antenati, tutti fieri nel posare impettiti nella bella uniforme; un posto speciale era dedicato agli “eroi”, ovvero coloro che erano morti in guerra, dando così onore alla famiglia che era misurato a suon di medaglie e onorificenze. Naturalmente c’era anche lui in quella nutrita galleria ma il suo volto, serio e triste, strideva in quel contesto, ragion per cui era stato relegato nell’angolo più defilato – e la cosa non gli era mai dispiaciuta.
“Sicuramente avranno prontamente rimosso la foto della pecora nera della famiglia e fatto cerimonie di purificazione… Che patetici” pensò cupo.
Fosse dipeso da lui avrebbe gettato immediatamente la mimetica in un bidone e le avrebbe dato fuoco. Trovava tutto così stupido – la guerra, l’onore, l’orgoglio – ma non poteva far altro che camminare, andare incontro al suo destino che lo voleva il giorno dopo al comando della squadra che avrebbe condotto l’attacco frontale. Totalmente perso nei suoi pensieri arrivò al laboratorio e avvertì un certo nervosismo al pensiero che avrebbe dovuto affrontare Ryo; per quanto tenesse a lui si era scoperto totalmente impacciato nell’interagirci, mostrandosi più duro di quanto non fosse davvero e riuscendo a rivolgergli pochissime parole nel corso della giornata, e solo se strettamente necessario. La porta era socchiusa e riuscì a captare il discorso che si stava svolgendo all’interno della capanna e, non volendo interrompere, si appiattì con la schiena contro la parete di legno.

«Lo vedi questo Ryo?» chiese il Professore tranquillo.

«Sì, che cos’è?» una vocina vispa e allegra segnalò che il bambino si era ripreso del tutto.

Shin sorrise lievemente nel sentirlo: era davvero incredibile quanta vitalità e gioia potesse sprigionare nonostante tutto ciò che gli fosse successo e considerando come conduceva le sue giornate. Erano così tutti i bambini? Lui non ricordava di aver passato molti giorni felici durante l’infanzia, al contrario…  Scosse il capo per impedirsi di ricordare.
“Sicuramente Ryo non ha ancora realizzato qual è la sua situazione, penserà che tutto questo sia un gioco; devo fargli capire al più presto che cosa lo attende” pensò amaramente.

«Questo è un filo particolare, serve per chiudere tagli molto grandi come questo che ti sei fatto sulla coscia. La vedi questa linea più scura? È segno che la ferita si sta rimarginando. Quando sarà diventata più chiara vorrà dire che sei guarito e ti toglierò il filo»

«Ma farà male come quando me l’hai messo?» fece la voce con una punta di preoccupazione.

«No Ryo, sentirai giusto un po’ di fastidio ma non ti farò male»

Shin fu sorpreso dal tono che il Professore stava usando: se qualcuno si fosse trovato a passare di lì per caso avrebbe pensato che il medico si stesse rivolgendo a un uomo e il bambino sembrava apprezzare molto questo suo modo di fare.

«Quindi per sistemare tutte le ferite basta cucire… Se imparo a usare il filo poi posso tornare da mamma e papà per guarirli?» chiese esitante.

Un silenzio scomodo scese nella capanna e Shin si chiese come il medico ne sarebbe uscito fuori. Era la prima volta che il bambino nominava i suoi genitori e nella sua ingenuità sperava di poter essere utile per risanare le loro ferite mortali... Fino a quel momento li aveva considerati vivi e ciò lo fece sentire a disagio; mentalmente ringraziò che quella domanda scomoda non l’avesse fatta a lui. Sentì un lieve sospiro e il rumore di un passo.

«No Ryo, loro sono morti; non c’è più niente che tu possa fare per loro»

«Ah… E perché?»

«Vedi, ci sono casi in cui le ferite sono troppo gravi ed è impossibile curarle»

«E come si fa a capirlo?»

«Con il tempo lo capirai Ryo, non avere fretta. Ora cerca di non pensarci, concentrati invece sui tuoi allenamenti e ascolta sempre quello che ti dicono Shin e Frank, intesi?»

«Va bene Prof»

«Bravo e ora -» ma venne interrotto da un sonoro brontolio.

«Ah credo proprio che qualcuno abbia fame!» esclamò l’uomo divertito.

«Un po’ sì» e dopo l’ennesimo rumoroso reclamo chiese imbarazzato «Posso andare a mangiare?»

«Certo Ryo, va’ pure»

Dopo un tonfo – segno che si era buttato giù dal tavolaccio su cui era stato seduto con le gambe a penzoloni – la porta si spalancò lasciando uscire il bambino che, correndo veloce, percorse la breve discesa che portava al centro dell’accampamento in cui era già stato acceso il fuoco per la cena. Shin lo seguì con lo sguardo fin quando non lo vide parlare con Carlos; apparentemente sembrava il Ryo di sempre, ma come poteva essere nuovamente allegro se poco prima aveva parlato dei suoi genitori? Quel bambino era un completo mistero per lui.

«Potevi anche bussare Shin, sai che non è buona educazione origliare?» la voce del Professore lo raggiunse dall’interno.

«Stavate parlando e non volevo disturbarvi» rispose con un mezzo sorriso mentre entrava nella piccola capanna quadrata.

«Non ti facevo così timido» commentò l’uomo ironico, accovacciato davanti l’armadietto di metallo in cui stava ultimando di riporre il materiale medico «Credo che dovresti rivedere il tuo programma di allenamento se non vuoi far venire al bambino un’ernia»

Shin sospirò: possibile che non ne stesse combinando una giusta? Ci teneva davvero a Ryo e l’ultimo dei suoi pensieri era nuocergli in qualche modo, ma sentiva l’urgenza di addestrarlo e renderlo forte quanto prima.

«Ho preso un impegno e devo mantenerlo. Il tempo a disposizione è molto limitato perciò…»

«Ma è un bambino Shin!» esclamò il Professore esasperato «So bene che hai fatto la cazzata di chiedere un mese di tempo, ma credi davvero di poter fare il miracolo? Davvero pensi che nel giro di un mese Ryo possa diventare un soldato? Scordatelo!»

Lo fissò esterrefatto: anche quell’uomo all’apparenza freddo e distaccato doveva tener molto al bambino se gli parlava in quel modo.

«Tu ci sei diventato in un mese quello che sei? Beh, a maggior ragione non dovresti meravigliarti se un bambino che fino a un mese fa giocava nel parco con i genitori non sia reattivo e forte come tu desideri» e così dicendo si tolse gli occhiali e portò una mano alla tempia per massaggiarsela.

«So perfettamente che è piccolo, ma prima si abitua a questa vita e diventa abile e prima potrà essere autonomo, pronto a combattere»

«Per questo motivo lo fai correre attorno al perimetro del fossato con uno zaino pesante più di cinque chili fin quando non stramazza per terra?» sbottò caustico «Frank quando me lo ha portato mi ha esposto i suoi dubbi sul tuo modo di fare e, in tutta onestà, li condivido pienamente»

«Io…E va bene, non succederà più le do la parola mia» mormorò mesto, sentendosi sconfitto su tutta la linea.

Il Professore gli si avvicinò dandogli qualche pacca bonaria sulla spalla ma lui continuò a tenere gli occhi fissi sul pavimento in terra battuta dove poteva ancora scorgere le impronte delle scarpette.

«Ho parlato con Pablo, o meglio lui si è lasciato sfuggire qualche parola in mia presenza. Come credo tu abbia intuito, se ti ha concesso questi trenta giorni è giusto per divertirsi nel vederti fallire. Non so che gli avete fatto tu e quel pazzo di Moon ma vi ammazzerebbe nel sonno oggi stesso se non fosse che siete tra i suoi uomini migliori»

«Devo dire che l’affetto è ricambiato» commentò sprezzante.

«E proprio per questo non si è lasciato perdere l’occasione per darti una bella lezione, facendoti ritirare con la coda tra le gambe» e avvicinandosi alla porta aggiunse «Ti sta mettendo fretta, ti sta togliendo tempo proprio perché sa che le cazzate peggiori si fanno quando non si ragiona con calma e tu hai abboccato perfettamente. È vero che il tempo a disposizione è poco ma tu ti stai ostinando a volerlo rendere subito un guerrigliero; ragiona lucidamente, non vedi che gli allenamenti estenuanti a cui lo stai sottoponendo sono frustranti per te e deleteri per lui? Il punto che Pablo ha sottolineato più volte è quello del peso e allora ciò che bisogna fare nell’immediato è impedire che Ryo lo sia. Non dico che devi sospendere l’addestramento ma cerca di andarci piano, punta più nello sviluppare la sua naturale flessibilità, Frank ti aiuterebbe nell’insegnargli le migliori tecniche per mimetizzarsi tra la vegetazione – lui è il maestro al riguardo, nessuno sa nascondersi meglio di lui quando si tratta di pulire le latrine – e poi potrà imparare a difendersi attivamente con un’arma. Concentrati su queste piccole cose indispensabili, esercitalo al rigore e alla disciplina, elementi essenziali per far continuare la sua permanenza tra noi. Anche il fatto che passi del tempo da solo con alcuni uomini come Carlos o Paco per esempio è un ottimo modo affinché possa imparare a relazionarsi con loro e, allo stesso tempo, ad aiutarli nello svolgimento dei loro compiti… Insomma, nelle settimane che restano punta a renderlo un jolly capace di essere utile un po’ per tutto, in modo che nessuno potrà avere motivo di lamentarsi del bambino quando si tratterà di parlare con Pablo. Una volta entrato definitivamente nel gruppo si potrà procedere ad addestrarlo seriamente»

Shin aveva ascoltato in religioso silenzio quelle parole che, con forza, avevano sradicato l’ansia che lo aveva ingabbiato per tutti quei giorni; finalmente aveva una visione più chiara della situazione e si maledisse per non essersi confrontato prima con lui, si sarebbero risparmiati molti incidenti spiacevoli per il bambino. Aveva sbagliato proprio come un novellino, venendo meno a tutti gli insegnamenti che aveva appreso, lasciandosi prendere troppo dall’emotività: con che coraggio aveva preteso così tanto da Ryo quando era lui stesso il primo a essersi mostrato debole? Guardò con ammirazione il piccolo uomo che gli aveva parlato lucidamente e avvertì la stima e rispetto accrescere ulteriormente nei suoi confronti; non sarebbe mai riuscito a essere infallibile come lui.

«La ringrazio Professore per avermi parlato con tanta franchezza. Sono io il primo a biasimare la mia condotta avuta fino a oggi e, mi creda, condivido tutto ciò che mi ha esposto; non posso tornare indietro ma da domani seguirò i suoi consigli e le prossime settimane mi impegnerò seriamente»

«Non mi devi ringraziare» e osservando il bambino che rideva insieme a Carlos accanto al focolare aggiunse «Sai, oramai capisco perfettamente i motivi che ti hanno spinto a insistere affinché Ryo restasse… È davvero un bimbo eccezionale, un vero raggio di sole in questa giungla, mi spiace solo che molto presto dovrà fare i conti con la dura realtà. Mi chiedo se troverà ancora la forza di ridere»

«Se ci riesce adesso, dopo che gli avete detto esplicitamente che i suoi genitori sono morti, credo che potrà farlo anche in futuro» commentò raggiungendolo accanto all’uscio della porta.

«Non ne sarei così convinto, per ora la sua concezione della morte è parecchio confusa data la sua età e credo non abbia ancora realizzato cosa significhi davvero ciò che gli ho detto. Quando, però, vedrà uomini morire davanti ai suoi occhi, quando sarà lui stesso a uccidere, in quel momento risiederà la grande sfida. Spero non perda mai quel suo lato così giovale»

«Me lo auguro anch’io» mormorò per poi aggiungere subito dopo «Comunque è davvero un bambino intelligente, sta già imparando un po’ di spagnolo e di questo passo tra qualche mese non ci sarà più bisogno di parlargli in giapponese»

«I bambini sono delle spugne Shin, soprattutto piccoli come Ryo. Poi lui parlottava anche un po’ di portoghese, quindi parte già agevolato nell’essere quasi bilingue»

«Già…Mi chiedo da dove venga davvero»

«Non potremo mai saperlo con esattezza, però direi che il volo su cui viaggiava con molta probabilità era partito dal Brasile7. Chissà, forse lui e i suoi genitori tornavano in Giappone dopo aver fatto visita a dei parenti, oppure vivevano lì e andavano in Giappone… Ad ogni modo questo non ha più molta importanza, ciò che conta è aiutare Ryo a sopravvivere»

Shin si limitò ad annuire e, una volta congedatosi, si avviò verso il centro dell’accampamento dove gli uomini iniziavano a radunarsi per la cena. Lì trovò Ryo che, lesto come una lepre, porgeva a Carlos le scodelle vuote e, una volta riempite di arrosto, correva a distribuirle tra i guerriglieri che si erano già seduti.

«Bravo Ryo, vali più tu che quei due soldatini americani. Devo dire a Pablo di cacciare loro e farti restare» grugnì con evidente buonumore e, dopo avergli allungato un piatto strabordante di arrosto aggiunse «Ecco a te chiquito, te lo sei meritato. Ora corri a mangiare, gli altri si serviranno da soli»

Ryo non se lo fece ripetere due volte e, dopo avergli regalato un sorrisone, si allontanò con cautela, quasi come se stesse trasportando un carico prezioso.
“È davvero un bravo bambino” si disse Shin mentre lo vedeva avvicinarsi e poi sedersi a gambe incrociate accanto a lui, come faceva tutte le sere. Con la coda dell’occhio scorse Pablo osservarli con sguardo duro; sicuramente a lui non erano sfuggita la scena e probabilmente era impensierito dalla possibilità che Carlos potesse mostrarsi favorevole a Ryo e, con lui, tutta la sua cricca.
“Ah caro mio, puoi incenerirci con gli occhi quanto vuoi ma mi dispiace, questa volta non l’avrai vinta” pensò risoluto e, senza pensarci, appoggiò una mano sul capo del bambino, accarezzandogli i capelli.

«Scusami per stamattina Ryo» disse un soffio e il bambino a quelle parole spalancò gli occhietti, guardandolo con sorpresa «Ero preoccupato e ho fatto tanti errori… Non succederà più, te lo prometto»

«Perché eri preoccupato?» gli chiese dopo una breve pausa durante la quale non aveva smesso di fissarlo.

«Beh, ecco…» borbottò leggermente imbarazzato.

Non aveva certo intenzione di dirgli tutto e così, messo alle strette non sapeva proprio cosa rispondere. Il Professore prima era stato sincero, gli aveva detto la verità e Ryo sembrava averla accettata senza troppi problemi ma lui era troppo codardo per potergli dire quanto fosse preoccupato per lui. In suo soccorso, però, sopraggiunse Frank che, senza saperlo, con il suo arrivo gli evitò quel discorso scomodo.

«Ehilà voi due, iniziate a mangiare senza aspettarmi, che modi!» esclamò sorridente e con la mano libera fece il solletico a Ryo, che rise sputacchiando pezzetti di carne in giro.

In quel momento l’amico gli lanciò uno sguardo significativo a cui rispose con altrettanta intensità; in quel breve scambio muto i due uomini si dissero che dal giorno dopo la musica sarebbe cambiata, che le parole del Professore avevano sortito l’effetto sperato e che il bambino non sarebbe stato bistrattato ulteriormente. Evidentemente soddisfatto l’americano si lasciò cadere accanto al bambino che, in quel momento si trovò tra i due uomini, e iniziò a mangiare tranquillo.

«Ah, devo ammettere che da quando c’è Ryo anche la cucina di Carlos è migliorata. Questo arrosto è quasi buono, almeno non sembra di masticare cuoio. Di questo passo tra qualche mese potremo mangiare finalmente qualcosa di decente» disse Frank sornione, con un tono sufficientemente alto per farsi udire dal diretto interessato che, nel sentire quelle parole, strinse gli occhi.

«Quand’è così Moon» urlò brandendo uno spiedo di legno «La prossima volta ti infilo uno di questi su per il culo e ti butto sul fuoco, così vediamo se vali qualcosa come cibo visto che come uomo sei il verme più schifoso che abbia mai visto in vita mia!»

«Sei proprio un adulatore, non ti smentisci mai!» esclamò fingendo un atteggiamento pudico che scatenò la generale ilarità «Attento, però, perché è più probabile che sia tu il prossimo porcello allo spiedo» aggiunse facendogli l’occhiolino.

«Ah non te le manda certo a dire!» commentò Paco ridendo mentre dava una gomitata al rubicondo cileno, che aveva strabuzzato gli occhi a quell’affermazione.

«Sei più infido di un coyote» gli sibilò contro.

«Insomma, proprio non riuscite a fare casini ogni sera voi due! Frank se impegnassi metà delle energie che usi per dire boiate negli incarichi, a quest’ora la guerra sarebbe finita» intimò Pablo evidentemente esasperato «Risparmiate le forze per domani, ne avrete bisogno»

Un silenzio carico di tensione si diffuse tra gli uomini che, fino a qualche istante prima, erano stati allegri e spensierati. L’attacco del giorno seguente impensieriva un po’ tutti in quanto non sarebbe stata una passeggiata e, per alcuni di loro, quella sarebbe stata l’ultima sera passata accanto al fuoco. Sebbene fossero uomini avvezzi alla guerra, provavano sempre un certo disagio ogni qual volta si avvicinava un probabile appuntamento con la morte; in fin dei conti era la natura umana, era meglio pensarsi vivi che morti, nonostante tutto.  

«Che succede?» pigolò Ryo con la bocca piena, colpito da quel cambio di atmosfera.

«Te lo spiegherò più tardi, ora pensa a mangiare» gli sussurrò Shin tranquillo.

A differenza dei suoi commilitoni lui si sentiva stranamente tranquillo – non che fosse mai stato particolarmente spaventato all’idea di morire – ma avvertiva la solida certezza che quella non sarebbe stata la sua ultima cena. Il pasto proseguì in relativo silenzio e, appena vide che bambino ebbe terminato di mangiare, si alzò in piedi.

«Andiamo Ryo, domani ci aspetta una lunga giornata» e, senza aspettarlo, si congedò dal gruppo con un cenno della mano.

Solo dopo pochi passi avvertì l’ormai familiare scalpiccio alle sue spalle, segno che il bambino lo stava seguendo lungo la breve salita che portava alla loro capanna. Anche Ryo si era mostrato più serio quella sera e non aveva urlato la sua consueta buonanotte, dando l’impressione di aver intuito che la sua allegria avrebbe stonato in quel frangente.
“È proprio un bravo bambino… Forse troppo” si ritrovò a pensare quando una vocina lo raggiunse.

«Ora me lo dici cosa è successo?»

L’uomo continuò a camminare silenzioso e, una volta entrati dentro la baracca e richiusa la porta, si avvicinò al lume ad olio e lo accese in modo da illuminare – se pur flebilmente – la piccola stanza quadrata che altrimenti sarebbe stata nell’oscurità quasi completa.

«Sai cos’è la morte Ryo?» domandò serio mentre si sedeva per terra, invitando il bambino a fare altrettanto.

Il piccolo sembrò leggermente confuso da quella domanda; si limitò ad abbassare gli occhi e con le dita seguì il bordo dei suoi calzoncini strappati in più punti.

«Sai cosa significa quando una persona è morta?» lo incalzò mantenendosi calmo.

«Ah» esclamò il bambino, rialzando la testa come se si fosse acceso «Sì, me l’ha detto il Prof… Ecco, una persona è morta quando ha delle ferite che non si possono cucire, giusto?»

«Sì, è più o meno così»

«E come si capisce se si è morti?»

«Beh, lo capisci perché ti addormenti e non ti svegli più» disse piano e un triste sorriso gli piegò le labbra.

«Ma non ci si annoia a dormire sempre?»

«No, proprio perché sei morto»

Ryo lo guardò accigliato e Shin intuì che il loro breve dialogo lo aveva lasciato perplesso; non era un discorso leggero, in particolar modo per un bambino della sua età, perciò decise di fornirgli un esempio. Si alzò e raccolse una formica dal muro, poi tornò vicino al bambino e, dopo essersi accovacciato, la appoggiò per terra.

«Vedi, questa formica adesso è viva, si muove e mangia proprio come me e te» spiegò e, appena lo vide fissare l’insetto incuriosito, proseguì «A un certo punto, però, ogni essere vivente si scontra con una forza superiore, ovvero la morte» e così dicendo schiacciò l’insetto col piede.

Ryo continuò ad osservare la scena concentrato, senza emettere un fiato.

«In questo mondo tutti, prima o poi, faremo la stessa fine di questa formica. Per lei la morte è sopraggiunta a causa mia, per gli uomini può essere una malattia, un incidente o una pistola… Il nostro incontro inevitabile con la morte avviene in tantissimi modi; prima o poi tutti moriremo, i nostri pensieri si perderanno nel nulla e tutto ciò che rimarrà non è che un corpo riverso sulla nuda terra» concluse amaro, dimenticandosi per un attimo con chi stesse parlando.

Ryo restò impassibile, gli occhietti grevi fissi sull’insetto spiaccicato a terra. Rimase così per qualche minuto perso in una profonda riflessione e Shin si domandò quali pensieri potessero frullare dentro quella testolina; forse era stato troppo eccessivo ma almeno era stato onesto con lui e voleva che quel concetto, per quanto poco adatto alla sua tenera età, gli diventasse familiare.

«Non si muove proprio più… Quindi morire fa male?» chiese serio.

«Un po’ sì»

«Allora anche mamma e papà hanno sofferto?»

A quelle parole sentì stringersi il cuore «Non preoccuparti per loro, il dolore passa subito… Ora non soffrono più»

«Sai» disse dopo un breve silenzio «Un po’ mi dispiace per la formica… Poverina» emise timido mentre si rannicchiava prendendosi le ginocchia con le braccia.

“Dovrai imparare a non compatire più nessuno piccolino” pensò tra sé l’uomo e, con la punta dell’anfibio, portò un po’ di terra sopra il minuscolo cadavere.

«Domani la maggior parte degli uomini sarà via per una battaglia abbastanza impegnativa. Qualcuno potrebbe anche morire nello scontro, ecco perché durante la cena si sono fatti a un tratto tristi e seri» riprese mantenendosi il più sereno possibile «Ci sveglieremo all’alba perché partirò subito. Resterai con il Professore tutta la giornata, mi raccomando non ti allontanare e fa’ tutto quello che ti dice»

Ryo annuì con energia, scuotendo il lungo ciuffo corvino che gli ricadeva sulla fronte.

«Bravo bambino» e nuovamente si trovò ad accarezzargli la testa spontaneamente, in un modo che voleva essere affettuoso.

«Non morirai domani, vero?» gli chiese improvvisamente serio.

Shin fissò per qualche istante le sue iridi scure e limpide prima di rispondere.

«No Ryo, non morirò»
 
«Shin! Shin corri la mamma sta male!» gli urlò Yoko, la sua sorellina, che era arrivata trafelata nel garage.
Si sentì mancare l’aria per un attimo: un altro malore, era già il secondo nel giro di una settimana, e ciò non gli fece presagire nulla di buono. In preda all’ansia lanciò via la bicicletta che stava sistemando e corse veloce per la stretta rampa di scale, fino a raggiungere la cucina dove trovò sua madre riversa per terra.
«Mamma! Mamma!» le urlò preoccupato.
Si buttò a terra e iniziò a scuoterla concitato, cercando allo stesso tempo di non essere troppo brusco, ma sua madre – pallida come una bambola di porcellana – non rispondeva ai suoi richiami e fissava il soffitto con occhi velati, annaspando dolorosamente.
«Mamma… Perché non parli? Le altre volte ti sei ripresa subito» mormorò con voce tremante e sentì le lacrime offuscargli la vista.
«Shin che cosa ha la mamma?» chiese preoccupata la bambina, avvicinandosi quasi intimorita.
«Niente Yoko, è il solito malessere. Anche questa volta si riprenderà subito, non preoccuparti» le rispose poco convinto.
In quel momento la madre girò lievemente il capo verso di lui e, dopo aver emesso tre respiri rochi, reclinò il capo leggermente all’indietro. Appena il bambino vide i suoi occhi farsi vitrei, e la sentì irrigidirsi tra le sue braccia, non riuscì a fermare le lacrime che iniziarono a scorrere copiose.
«Mamma non ci abbandonare…» riuscì a dire prima di scoppiare in un pianto disperato.
 
Shin riaprì gli occhi e si mise subito a sedere portandosi una mano alla fronte. Alla fine il triste ricordo che aveva cacciato via con forza durante la giornata si era presentato nelle sembianze di un sogno, o meglio, di un incubo. Sospirò e nel buio della stanza riuscì a distinguere la sagoma di Ryo che, dandogli le spalle, dormiva rannicchiato poco lontano da lui; era immobile come sempre e si augurò che almeno i suoi sogni fossero più sereni. Si alzò e silenziosamente scivolò fuori la capanna; aveva bisogno di aria, ogni volta che ricordava quell’episodio sentiva la gola stringersi in un nodo d’acciaio, non importava che fossero passati molti anni e che non fosse più quel bambino timido e debole.
Tutto era quiete nel campo avvolto dalle tenebre; fece qualche passo, attento a non emettere il minimo rumore per non rompere la perfezione di quel momento e si sedette sulla radice sporgente di un alto albero proprio accanto alla sua baracca. Era solito sedere lì quando non riusciva a dormire, quel posto lo aiutava a distendere i nervi, a recuperare un po’ di pace – parola che non riusciva più a pronunciare tanto strideva nel contesto in cui viveva. Si sporse in avanti appoggiando gli avambracci sulle ginocchia e fece un respiro profondo, lasciandosi invadere da quell’odore silvestre così diverso – e allo stesso tempo così simile – a quello dei sterminati querceti in cui amava rifugiarsi durante l’infanzia. Quella vita passata non gli era mai sembrata così distante: erano anni che non scorrazzava più con la bicicletta tra i viali verdeggianti, cinti da eleganti villette col prato ben curato; anni che non passeggiava tra le strade brulicanti di Manhattan. Si era emozionato quando, al termine della guerra – e con essa anche le ostilità verso i giapponesi8 – era tornato nella metropoli, beandosi del caleidoscopico turbinio di colori e di vitalità che esplodeva in ogni strada, non immaginando che poco più di sei anni dopo avrebbe vissuto solo tra i campi di battaglia. Il ragazzino entusiasta era morto da tempo e sapeva che, se fosse riuscito a tornare vivo negli Stati Uniti, non avrebbe più tollerato tutto il caos che lo aveva attratto in passato; sarebbe stato infastidito dal modo frivolo in cui vivevano gli abitanti di quella parte fortunata del globo, incuranti delle tragedie che si svolgevano sotto i loro occhi. No, se mai fosse tornato, avrebbe raggiunto solo sua sorella e sperò in cuor suo che almeno lei ogni tanto si ricordasse del suo fratellone, la “vergona della famiglia Kaibara” per citare suo nonno.
Quando sua madre era morta d’infarto, in quel caldo pomeriggio di giugno del ’42, lui aveva pianto ininterrottamente fino al giorno seguente, fin quando non si era addormentato distrutto da un mal di testa lancinante; con lei aveva perso il suo unico rifugio, l’unica persona che gli era affine e che non lo aveva mai biasimato per la sua sensibilità e curiosità, incoraggiandole in ogni modo. Non a caso era stata additata a lungo come l’anello debole della famiglia, un “pessimo acquisto” – sempre per citare l’amorevole nonno che non aveva mai perso l’occasione per sottolineare quanto fosse troppo malaticcia e capace di fare solo due figli, di cui un maschio rammollito. Il sorriso di sua madre lo aveva sempre sostenuto e confortato dopo le sfuriate paterne durante le quali gli venivano rimproverati la sua debolezza, la sua insensata riservatezza e il suo ridicolo sogno di diventare uno scienziato. L’antica tradizione familiare andava rispettata e il suo futuro sarebbe stato nelle forze armate, che a lui piacesse o meno non importava Se il suo cuore di bambino aveva sempre intimamente sperato di riuscire a scampare a quel destino già segnato, quando si era ritrovato tra le mani il viso dolce e mortalmente pallido della sua amata madre aveva compreso che non avrebbe avuto scampo; con suo padre al fronte la loro custodia sarebbe passata al temibile nonno, l’ufficiale integerrimo e tutto di un pezzo che aveva cresciuto i suoi figli come se fossero stati in accademia. Aveva dovuto cambiare, aveva dovuto sopportare, aveva dovuto accettare decisioni che non condivideva pur di non sentire più parole di biasimo nei confronti di sua madre, ritenuta colpevole di quel fallimento di nome Shin’ichi. Per quanto con gli anni si fosse impegnato negli studi, vincendo premi e borse di studio, dopo l’ennesimo litigio, per punizione fu costretto a entrare nei Marines invece che all’accademia; quell’anno durissimo gli era sembrato interminabile, ma si era impegnato anima e corpo, deciso a mostrare il suo valore. I suoi sforzi furono ampiamente ripagati, il sergente istruttore fu impressionato dal suo rigore e dalle sue abilità, tanto da fargli guadagnare una medaglia e una lettera di benmerito; era stata una fatica inutile. Non avrebbe mai dimenticato i volti scettici di suo padre e suo nonno mentre leggevano quelle righe, come se quelle parole fossero state uno scherzo di cattivo gusto: la sua debolezza non sarebbe mai stata dimenticata, ormai era diventato il capro espiatorio di ogni insuccesso familiare e così sarebbe stato fino alla fine. Quel giorno stesso era andato via di casa in piena notte, non salutando nessuno, e nel giro di una settimana era già in viaggio verso la Corea, deciso a troncare per sempre i rapporti con la sua famiglia.
Si schienò contro il ruvido tronco e sospirò nuovamente. In sere come quella sentiva l’animo farsi pesante, schiacciato dalle tante scelte che aveva subìto – e poi compiuto – nel corso degli anni. Pensò al bambino che era stato, ai suoi sogni, e si chiese cosa avrebbe pensato se lo avesse visto in quel momento, un guerrigliero con le mani perennemente sporche sangue; in realtà lo immaginava fin troppo bene e, per non soffermarsi troppo su quell’idea scomoda, gli tornò in mente il piccolo ospite che da nove giorni condivideva la sua capanna. Era stato molto duro con Ryo, se ne rendeva conto in quel momento, ma in fin dei conti non aveva nessuna esperienza in fatto di bambini e a ventitré anni a stento ricordava cosa volesse dire avere una carezza. Avrebbe rimediato ai suoi errori nei giorni a venire, si sarebbe mostrato sì duro, ma anche comprensivo, non mancando di incoraggiarlo e spronarlo a far sempre meglio; non si sarebbe mostrato come suo padre o suo nonno. No, sarebbe diventato una figura autorevole per il bambino, un punto di riferimento per aiutarlo a far fronte alle mille insidie che quel luogo nascondeva e che, molto presto, anche Ryo avrebbe imparato a conoscere.
Riemerse dai suoi pensieri rincuorato dalla sua risoluzione e, appena intravide tra le fronde degli alberi la timida luce lattiginosa che preannunciava l’arrivo dell’aurora, decise di rientrare. Come un’ombra entrò dentro la capanna e, prima di ristendersi, si accovacciò accanto al bambino che sembrava non essersi mosso di un millimetro da quando si era addormentato. Per controllare se stesse ancora respirando, avvicinò una mano all’altezza del viso e subito leggerissimi soffi solleticarono le sue dita, confutando il suo stupido dubbio. Sfiorando la stuoia, però, avvertì una sensazione di umido; decise quindi di tastarla meglio e si accorse che era bagnata. Osservò attentamente il volto del bambino più da vicino e riuscì a distinguere abbastanza nitidamente la lucida scia che le lacrime avevano lasciato sulla guancia prima di riversarsi sul pagliericcio. Si allontanò di scatto, come se avesse preso la corrente e, leggermente turbato, si ridistese supino portando un braccio dietro la testa a mo’ di cuscino. Gli passarono davanti come fotogrammi le immagini di quel visetto che ogni giorno aveva visto sorridente, serio, corrucciato, anche triste ma mai lo aveva visto piangere. I primi giorni ne era rimasto sorpreso ma poi aveva collegato quella mancanza di lacrime al fatto che Ryo non avesse ancora realizzato la situazione in cui si trovava… Certo che si era sbagliato, aveva fin troppo sottovalutato la sua intelligenza. Forse quella non era neanche l’unica notte in cui inzuppava il pagliericcio di lacrime ma lui, troppo preso da altro, non se n’era mai accorto e la consapevolezza che, al sorriso del giorno faceva da contraltare il pianto nel buio della capanna, gli fece male come un pugno nello stomaco.
“Credo proprio che tu sia più forte di me Ryo… Pensavo di aver capito tutto e invece non ho capito proprio niente” si disse tristemente prima di chiudere gli occhi senza, però, riuscire a riposare.
 
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L’alba del trentesimo giorno arrivò in una serena giornata di maggio e Shin si augurò che fosse di buon auspicio. Si sentiva assolutamente tranquillo, certo che il dialogo che stava per affrontare sarebbe stato una pura formalità; aveva seguito i consigli del Professore e, odiava ammetterlo, i risultati ottenuti confermavano che quell’uomo non sbagliava mai. Ryo aveva continuato i suoi allenamenti, ma in modo più moderato, e aveva già sviluppato una notevole resistenza fisica, migliorato la sua flessibilità e con la fionda aveva dato prova di avere una buona mira. Naturalmente tutto ciò non sarebbe stato possibile se il bambino non fosse stato predisposto all’attività fisica e, il fatto che caratterialmente non fosse timido, gli aveva permesso di interagire col passare dei giorni – seppur in modo minimo – con la maggior parte degli uomini. Frank si era rivelato come sempre un ottimo amico e un supporto prezioso; aveva instaurato un bel rapporto con Ryo e con le sue battute riusciva a strappargli un sorriso ogni giorno, dandogli qualche attimo di allegria che lui, terribilmente serio, non sarebbe mai stato in grado di dargli. Anche il Professore, seppur mantenendosi più defilato, aveva giocato un ruolo fondamentale attraverso i suoi preziosi consigli e si era sempre mostrato disponibile a passere del tempo con il bambino, di cui iniziava ad apprezzare sempre più la compagnia.
Ripensando a tutto il lavoro svolto, Shin bevette il suo caffè di buon umore, umore che non accennò a sparire quando vide il capo dei guerriglieri passarsi il dorso della mano sulle labbra mentre lo fissava, pronto a parlare.

«Bene il mese è terminato» esordì Pablo schiarendosi la voce «Direi che è arrivato il momento di decidere»

«Credo che non sia neanche più necessario» gli rispose avvicinandosi a lui «In questi trenta giorni non si è registrato nessun problema» e scandendo bene le parole aggiunse «Nessuna zavorra ha rallentato il gruppo e penso nessuno possa dire il contrario»

Indistinte affermazioni di assenso si sollevarono tra gli uomini, confermando ciò che era stato detto.

«Se non sei ancora convinto dai fatti Pablo chiedi pure agli altri e, stanne certo, ripeteranno le mie parole, anzi. Ryo non solo non si è mostrato elemento di disturbo ma in alcuni casi si è anche dimostrato di aiuto. Non è vero Carlos?»

Il guerrigliero chiamato in causa si passò una mano sotto il mento, guardando ora Shin ora il bambino che, accanto a Frank, osservava la scena incuriosito.

«Ah beh, il chiquito sta insieme a due figli di coyote della peggior specie, ma devo dire che è stato l’unico – e ribadisco l’unico – ad aiutarmi ogni sera, che possiate essere fulminati tutti quanti! Perciò sì, per me può restare» concluse facendo un leggero occhiolino in direzione di Ryo, che gli rispose con un sorrisone.

«Grazie Carlos, e potrei aggiungere che Ryo si è mostrato molto disponibile anche con Paco e il Professore; è volenteroso, rispettoso e ha molta voglia di imparare. Sono certo che in poco tempo saprà essere davvero un elemento importante per il nostro commando» proseguì Shin guardando il capo gruppo dritto negli occhi.

«Sì, potrà essere d’aiuto ma è pur sempre un bambino» replicò Pablo, distogliendo lo sguardo in evidente difficoltà.

«Non puoi appigliarti solo a questo, sai anche tu che è un’argomentazione debole» lo incalzò Shin «Anzi, ritengo che proprio il fatto che sia così piccolo possa essere un punto a suo favore; imparerà più in fretta e saprà combattere meglio di tutti noi. Adesso sa già mimetizzarsi perfettamente nel sottobosco e sugli alberi, e con la fionda ha fatto progressi notevoli; di questo passo a breve potrà passare al pugnale, e così via»

«Io ritengo che dopo questo mese sia impossibile lasciare Ryo in qualche villaggio» si inserì il Professore «Anche perché, per quanto piccolo, sa troppo bene chi siamo e come svolgiamo le nostre attività… Potrebbe riferire dettagli preziosi che è meglio non andassero nelle mani sbagliate, non so se mi spiego» aggiunse con uno sguardo eloquente.

L’uomo, sentendosi palesemente sconfitto, guardò con una punta di rabbia prima il piccolo e poi il guerrigliero che lo fronteggiava ed emise un rantolo frustrato.

«Argh e va bene! Che resti pure, ma continuerò a tenerlo d’occhio. Non avrà nessun trattamento privilegiato e il prima possibile si unirà alle nostre azioni. E ora tutti al lavoro, dobbiamo scendere al villaggio prima di mezzogiorno! Professore lei venga con me» e così dicendo si allontanò sbuffando, dirigendosi verso il laboratorio seguito dal medico.

«Ah sapevo che l’avremmo spuntata contro quell’impiastro!» esclamò Frank mentre sollevava Ryo, facendolo dondolare pericolosamente a testa in giù.

«Ahh Frank mettimi giù!» gli urlò il bambino divertito «Ora movito!»

«Ehi ragazzo niente scherzi, non voglio andare puzzando fino alla prossima pioggia! E si dice vomito» gli disse sorridente e con una leggera rotazione lo rimise a terra.

Shin li guardò mentre si avvicinava; era riuscito nell’intento che si era prefissato, Ryo sarebbe rimasto con loro ma, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a far festa. Non era certo una passeggiata far parte di un commando di guerriglieri e il bambino doveva averlo capito, visto che trovava la stuoia bagnata ogni mattina. Nonostante tutto, però, aveva ancora la forza di sorridere per piccole cose, di gioire spensierato come se si trovasse in un enorme parco giochi. Ammirava profondamente la forza d’animo di quell’ometto; lui non sarebbe mai stato capace di comportarsi così né da piccolo né da adulto. Si concesse qualche attimo per imprimere nella memoria quel sorriso e quegli occhi luminosi, avvertendo che non li avrebbe visti ancora per molto e, dopo aver scompigliato affettuosamente i capelli del piccolo guerrigliero, andò verso la sua capanna per prepararsi per la giornata.
 
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1 Bentornati alla rubrica “Cris che sclera con i kanji” (Perdonatemi ma non posso farne a meno!) Nell’opera originale Shin è scritto  神  e ciò mi ha incuriosita non poco, in quanto tale ideogramma ha il significato di “dio, divinità” con la pronuncia “kami”, ma anche spirito, psiche con la pronuncia “shin” (es. Shinto  神道). Insomma, l’ho trovato un nome abbastanza impegnativo, per cui sono andata a fare un po’ di ricerche e, spulciando diverse fonti, è emerso che tra i molti ideogrammi utilizzati per scrivere il nome Shin non risulta  神  (esiste invece come cognome). Solo in due varianti ho trovato il kanji incriminato, Shin’ichi e Shinnosuke, perciò ho pensato che Shin sia il diminutivo di uno dei due nomi (per gusto personale ho preferito il primo). Il significato di Shin’ichi “神一”  è il medesimo Shin – “ichi” sta per uno – perciò anche Shin’ichi Kaibara resta un nome “mitologico”, da divinità marina alla stregua di Umibōzu (Kaibara significa “mare aperto/selvaggio ed entrambi i nomi condividono il kanji  海  che sta per “mare/oceano”). Concludo il mio sproloquio dicendo che mi ha colpito molto come il suono “shin” ricorra più volte nella storia: lo troviamo in Shinjuku, in Shin Kaibara e, in modo più indiretto, in Makimura poiché l’ideogramma 槇 “maki” con la lettura On è reso “shin”. Sicuramente sarà una pura coincidenza ma mi ha affascinato tutto ciò.
 
2 La Colt Python iniziò a essere prodotta nel 1955 (quindi era nuovissima nel tempo in cui è ambientata questa parte) e subito riscosse ampi consensi, tanto da essere definita tra i più bei revolver mai realizzati, aggiudicandosi il titolo di “Rolls-Royce dei revolver Colt”.
 
3 «Come ti chiami?» / «Dove sono i tuoi genitori?» / «Aereo»
 
4 «Io ho fame»
 
5 Il K’iche’ è una delle miriadi di lingue maya parlate in Guatemala (prevalentemente nella regione Quiché) e tra le più diffuse in Mesoamerica. Per avere un’idea della sua prosodia, un ottimo esempio è il film Apocalypto che è girato in lingua yucateca (questa appartiene allo stesso ceppo linguistico del K’iche’ e perciò sono molto affini).
 
6 La guerra di Corea durò dal 1950 al 1953 e a seguito di questa si stabilì l’attuale confine tra le due nazioni che si attesta attorno al 38° parallelo (area che a sua volta si mostrò scenario di buona parte degli scontri). Ebbe un costo non indifferente dal punto di vista umano con quasi tre milioni di morti tra civili e militari; non ebbe, però, una grande risonanza mediatica per questo è stata definita “The Forgotten War”.
 
7 In Brasile risiede la più grande comunità di immigrati giapponesi al mondo, con circa due milioni di nippo-brasiliani concentrati prevalentemente nella zona di San Paolo. Il flusso migratorio iniziò verso il 1907 quando la richiesta di manodopera nella piantagioni di caffè, e la mancanza di lavoro nel Giappone dell’età Meiji, portò a un accordo tra i due Paesi. Non mi dispiace pensare che Ryo possa appartenere a una famiglia di “nisei” (alias immigrati di seconda generazione).
 
8 A seguito dell’attacco di Pearl Harbor il governo statunitense decise di trasferire e internare in appositi campi i giapponesi (anche di seconda generazione) che vivevano principalmente lungo la costa occidentale del Paese, in quanto considerati potenziali nemici per la sicurezza nazionale. I campi, nelle fattezze simile a quelli di concentramento, erano disposti negli Stati centrali, in zone prevalentemente desertiche e vide centinaia di donne, anziani e bambini vivere in condizioni non facili. Solo nel 1946 gli oltre 120.000 internati poterono tornare liberi.
   
 
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