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Autore: Soul of Paper    28/04/2021    5 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 59 - Lividi


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“E quindi, dottore, che ha da dire sulle indagini in corso nella sua abitazione?”

 

Si bloccò di botto, mentre stava cambiando compulsivamente canale senza realmente vedere nulla, tutto pur di non pensare ossessivamente a qualcuno - Ottavia che, sentendola scattare, le fece un mezzo balzo sulle ginocchia, sulle quali era stata mollemente sdraiata per le coccole, come era ormai da qualche giorno la loro routine serale.

 

Riconosceva il volto dell’uomo intervistato al TG: era il proprietario della villa dove c’era stata la festa durante la quale Giulia era stata violentata.

 

Il padre di uno dei ragazzi presenti nonché un commercialista molto benestante, uno di quelli con un giro di clienti importante.

 

“Ho da dire che le indagini e le ispezioni sono state un’inutile violazione della mia abitazione e della vita privata non solo mia, ma anche e soprattutto di mio figlio e dei suoi amici, per niente. La ragazza ha solamente bevuto un po’ troppo o forse è in cerca di pubblicità o di soldi. Ma non li avrà: non è successo niente quella sera e sfido chiunque a provare il contrario! Mio figlio ed i suoi amici sono dei bravi ragazzi ed erano pure loro in buona compagnia, quindi… non avevano di certo bisogno di andare con qualcuna contro la sua volontà, con tutte le belle ragazze che corrono loro dietro.”

 

“Che schifo!” esclamò, ed Ottavia fece un altro mezzo salto, mentre lei spegneva il televisore e buttava pure il telecomando, che rimbalzò dal divano schiantandosi per fortuna sul tappeto.

 

Brutto schifoso!

 

Aveva tirato fuori tutto il repertorio dei parenti dei bravi ragazzi quando venivano beccati.

 

Il peggio era che effettivamente prove concrete in mano al momento non ne avevano e tanta gente, comprese donne, avrebbe creduto a lui e a quei ragazzi così fighi che le donne dovevano scansarle.

 

Come se lo stupro fosse una questione di necessità fisica e non di controllo, di potere e-

 

I miagolii insistenti di Ottavia ed il suo picchiarle la testa sul seno interruppero l’incazzatura che stava crescendo.

 

Gli occhioni sembravano dirle - non ne vale la pena!

 

“E c’hai ragione c’hai!! concordò, grattandole dietro le orecchie, che era uno dei punti che la ruffiana più gradiva, “è inutile arrabbiarsi. Domani mi rimetto al lavoro con Mariani e… ride bene chi ride ultimo, Ottà!”

 

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“Pietto!!!”

 

Gli venne da sorridere ancora prima di vederla, anzi, di vederle.

 

Era all’ingresso di una specie di piccolo parco divertimenti con tanti giochi per bimbi dell’età di Noemi: gonfiabili, tappeti elastici, vasche piene di palline colorate e giostrine tranquille.

 

Ancora ricordava come il cuore gli era andato a mille quando gli era arrivato il messaggio con il quale Rosa accettava la sua proposta di andarci insieme.

 

Si abbassò appena in tempo per prenderla in braccio e, al suo ormai tradizionale “leccalecca?” rispose estraendone uno dalla tasca del giaccone e venendo travolto, come accadeva sempre più spesso ultimamente, dall’assalto di bacini sulla guancia.

 

“Però lo mangi dopo. Prima vai sulle giostre, se no poi vomiti!” intervenne Rosa, prendendole il leccalecca con un, “te lo conservo per dopo!”

 

“Ma io non gomito!” protestò Noemi, indignatissima, con le braccia incrociate in un modo che stranamente gli ricordava Imma.

 

Chissà se passavano ancora del tempo insieme ultimamente.

 

“Dai, che se fai la brava magari prendiamo qualcosa qua al parco,” sospirò Rosa, sorridendo però, non vista, quando Noemi iniziò a invocare lo zuccheo filato.

 

“Grazie per… per l’invito… anche se potresti pentirtene prima della fine del pomeriggio,” scherzò Rosa, sedendosi accanto a lui su una panchina mentre osservavano Noemi che saltellava come una cavalletta in mezzo ad altri bimbi, tra un tappeto elastico e le palline, “ma come lo hai trovato questo posto?”

 

“Internet. E poi con tutta l’energia che brucerà altro che zucchero filato! Che, lo confesso, piace pure a me. Molto,” le disse, guardandola negli occhi, e le guance di Rosa si fecero rosse come quelle della giostra a forma di clown poco distante.

 

“E allora lo prenderemo doppio. Per i bambini. Che tanto si sa che voi uomini non crescete mai!”

 

“Magari! Che in alcune di queste giostre vorrei entrarci pure io, ma le sfonderei!” scherzò, guadagnandosi un altro sorriso bellissimo ed un tocco sul braccio che gli fece venire una voglia assurda di provare ad abbracciarla almeno di lato.

 

Ma non voleva esagerare e spaventarla, in pubblico poi.

 

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Plic

 

Una goccia, ma chiara, udibile, pure con lo scroscio in sottofondo dell’acqua per la doccia nella quale si accingeva ad entrare.

 

Plic

 

Guardò per terra, d’istinto, e vide il rosso e stavolta non era per la furia.

 

Fu come un pugno dritto alla pancia.

 

A quella pancia che era vuota e vuota sarebbe rimasta.

 

Si fece due calcoli mentali ed aveva ritardato di quasi una settimana. Lo stress, sicuramente, oltre all’età che non aiutava.

 

Mentre si lasciava cadere sulla tavoletta del water, si rese conto che una parte di lei, inconscia, forse se n’era resa conto.

 

E, se il suo cervello ne era sollevato - la Imma razionale - c’era una parte di lei invece che sanguinava, e non solo letteralmente, per quell’ennesimo sogno impossibile infranto. Che ci aveva sperato e che quella creatura l’avrebbe cresciuta e amata troppo, anche se forse male, con o senza di lui.

 

Ma era meglio così, era sicuramente meglio così. La natura era stata saggia, molto più saggia di lei.

 

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“Allora, ti piace, signorina?”

 

Due occhioni azzurri andarono su e giù, Noemi che annuiva senza riuscire a parlare, mentre masticava un boccone enorme di zucchero filato dai colori dell’arcobaleno.

 

Sentì lo stecco che teneva in mano venire tirato e beccò Rosa prenderne un bel po’ e poi anche lei se lo portò alle labbra, emettendo un lieve mugolio soddisfatto e poi leccando le dita dai residui di zucchero.

 

E sentì pure un qualcosa dentro di lui che mo però se ne doveva stare buono. Chiuse gli occhi, cercando di perdersi nello zucchero e di ignorare tutto il resto, che con Rosa doveva aspettare e lo sapeva, anche se… i mesi di astinenza post parentesi internazionale iniziavano a farsi sentire.

 

Ma non voleva quello da lei, non solo quello almeno, e quindi si concentrò sulle facce buffe di Noemi, che aveva uno sbaffo arcobaleno fin sopra la fronte, cercando di guardare Rosa il meno possibile.

 

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Aveva gli occhi che gli bruciavano ma non poteva arrendersi.

 

Stava cercando tutto il cercabile sull’agriturismo in cui erano stati lui ed Imma, prima che Irene ci facesse un sopralluogo.

 

Movimenti bancari, conti, proprietari. Però, in apparenza, non sembrava esserci nulla di strano. Un’azienda familiare, come tante, un podere agricolo diventato agriturismo e maneggio dopo il boom degli anni Duemila.

 

Un altro pizzicore agli occhi, non ne poteva più, ma doveva riuscire in qualche modo a scagionarsi, a dimostrare a tutti, soprattutto a lei, la sua innocenza.

 

Gli sembrava quasi di sentire la sua voce, incazzosa, gridare ordini e-

 

E realizzò di colpo che la voce c’era sul serio.

 

E veniva dalla camera accanto alla sua.

 

La speranza che fosse realmente lei durò il tempo di un secondo, prima di realizzare che si trattasse della televisione, una presentatrice che interveniva per dire qualcosa.

 

Andò in automatico sul canale online dove sapeva che stavano trasmettendo il telegiornale, ignorò la diretta e fece ricominciare da capo il video, fino ad arrivare a pochi minuti prima.


Gli occhi gli bruciarono sì, ma gli si appannarono pure, al vederla, bellissima e fiera come sempre, anche se con gli occhi stanchi, cerchiati e la fronte sempre corrugata, che diceva ai giornalisti di farle fare il suo mestiere, e di occuparsi di più e meglio di cronaca, invece che di pettegolezzi come i giornaletti.

 

Gli venne da sorridere ed un magone tremendo solo ad udire l’accento mentre pronunciava quella parola.

 

Riuscì ancora a vederla qualche secondo, sparire in auto, scortata da Mariani e da…

 

Da quello stronzo!

 

Sperava che almeno Mariani, anche se ce l’aveva con lui, gliela tenesse al sicuro, da tutti i pericoli, compreso qualcuno che evidentemente stava già cercando di approfittarsene.

 

Prima che Imma si giocasse la carriera per aggressione al procuratore capo, conoscendola.

 

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“Pietto….”

 

L’aveva appena posata sul lettuccio, Rosa che cercava di metterla in pigiama senza svegliarla, quando aveva aperto gli occhi azzurri sonnacchiosi e lo aveva guardato in un modo strano.

 

“Dormi adesso, che è tardi,” le disse, facendole l’occhiolino.

 

“Mi sono divettita tanto. Ci tonniamo?” domandò, tra uno sbadiglio e l’altro.

 

Lanciò un’occhiata a Rosa che sorrise e annuì.

 

“Quando vuoi. Ora dormi però,” le ripetè e lei sorrise e gli afferrò l’indice della mano destra, lo tenne per poco, stretto stretto, e poi crollò a dormire con la bocca aperta.

 

Rosa sorrise e gli fece segno di alzarsi. Lui, piano piano, lo fece e la seguì fuori dalla stanza, osservandola mentre chiudeva pianissimo la porta.

 

Quanti ricordi delle nottate passate appresso a Valentina!

 

“Grazie… per la pazienza. Era da tanto che non la vedevo così contenta, anche se sembra sempre felice ma… lo so che sente che c’è qualcosa che non va.”

 

“Mi sono divertito anche io. E poi ci ho guadagnato lo zucchero filato.”

 

“Mica tanto… tra me e l’ingorda ce lo siamo mangiate quasi tutto,” rise lei, toccandosi una tasca ed estraendone il contenuto, “tanto che si è pure scordata di questo.”

 

Il leccalecca.

 

Lo zucchero filato gigante e poi il trancio di pizza avevano prodotto la dimenticanza quasi miracolosa.

 

“Sai che sono curiosa? Sono secoli che non li mangio. Quasi quasi…” proclamò Rosa, facendo per aprirlo, ma in quel momento, alla sola immagine mentale che ne conseguì, tutto il sangue gli finì in un punto ed allungò la mano per bloccarla con un “no, aspetta!” quasi disperato.

 

Rosa fece un mezzo salto e lui ritrasse subito la mano, perché si era preso pure una scossa, e ci mancava solo quella per peggiorare la situazione.

 

Lo guardò stupita e sorrise con un, “ma che non ne tieni altri? Capisco il non voler togliere il pane di bocca all’ingorda, ma….”

 

E fu in quel momento che avvenne il disastro. Come diceva quel cretino di Freud - che c’aveva solo una cosa in testa ma teneva sempre ragione teneva - gli occhi gli caddero in basso… all’origine del problema.

 

Li rialzò subito, ma era già troppo tardi: perché nel frattempo li aveva abbassati pure Rosa e poi li aveva spalancati ed era diventata più rossa dell’incarto del maledetto leccalecca alla fragola.

 

Pure lui percepì il sangue residuo finirgli nelle guance, tanto che gli girò la testa.

 

Un attimo infinito di silenzio e di panico.

 

“Va beh… forse è meglio che vado,” proclamò alla fine, ritrovando la voce, mortificato, desiderando solo levarsi da quella situazione.

 

Non fece in tempo a voltarsi che di nuovo il calore troppo forte di una mano che tratteneva la sua.

 

“Aspetta!”

 

I loro sguardi si incrociarono e negli occhi di Rosa c’era ancora imbarazzo, ma non sembrava arrabbiata, anzi, pareva quasi divertita.

 

“Anche se… anche se strozzerei mio fratello, una cosa buona da tutto sto casino è venuta,” gli sussurrò, incrociando le dita con le sue, “mo non ci stanno più legami di parentela acquisita e quindi….”

 

“E quindi?” ripeté, con voce strozzata, perché Rosa era sempre più vicina e non riusciva a staccare gli occhi da quelle labbra carnose.

 

“E quindi ci ho pensato, te l’avevo promesso, no?”

 

Il rumore di qualcosa sul pavimento ed unghie sulla barba, che gli causarono l’ennesima scossa.

 

Non ce la faceva più.

 

“E-”

 

“E mi vuoi baciare o devo sempre fare tutto io?!”

 

Gli venne per un secondo da ridere, ma non se lo fece ripetere due volte e praticamente ci si buttò su quelle labbra, che ancora sorridevano.

 

La strinse più forte che poteva, ora che poteva farlo veramente, senza più remore, le mani che se ne andavano per conto loro, dopo essersi trattenute per tanti mesi, e non sapeva se amasse di più farla ridere o quando faceva quei mugolii che… altro che lo zucchero filato!


Si sentì trascinare nell’unica stanza della casa nella quale non era ancora stato, e non perse tempo a chiudere la porta con un piede ed a buttarsi con lei sopra il materasso.

 

Non aveva mai provato niente del genere, forse per i mesi di astinenza, forse perché Rosa era allo stesso tempo rossa molto più del fiore da cui prendeva il soprannome, ma con uno sguardo da assassina.

 

Era giovane, come gli ricordava la pelle rosata e le curve che scopriva con meno lentezza di come avrebbe voluto, ma non poteva fare altrimenti. Ed era ancora più bella di come si era immaginato nei sogni, che erano stati il suo unico sfogo per troppo tempo.

 

Ma era anche una donna, passionale, molto passionale: il modo in cui lo baciava senza tregua, in cui gli levava del tutto il fiato, bloccandolo sul materasso per strappargli di dosso i vestiti con ancora più impazienza di quella che aveva avuto lui.


Si chiese come ci sarebbe tornato a casa di Valentina e se sarebbe sopravvissuto alla nottata, che mica c’aveva più vent’anni, ed il cuore gli batteva all’impazzata. Ma, dopo l’ennesimo sguardo provocante di lei, ribaltò la situazione, con solletico misto a baci, deciso a vendere cara la pelle fino all’ultimo e a provocare quei gemiti che lo facevano diventare pazzo, ancora, ancora e ancora.

 

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Era distrutto, completamente distrutto, ma ne era valsa la pena anche se… sperava che fosse stato lo stesso pure per lei.

 

Non riusciva a smettere di sfiorare quella pelle morbidissima con la punta delle dita e si trovò stretto più forte per la vita, un risolino sul collo.

 

Cercò lo sguardo di lei nel buio della stanza, per chiederle perché ridesse - che va bene che il suo segreto con le donne era sempre stato quello di farle ridere, ma non in certi momenti.

 

“No, niente… meglio che non te lo dico,” gli sussurrò, ridendo di nuovo, ma poi si fece più seria, forse avendo notato la preoccupazione di lui, “che c’è?”

 

“No… è che… tu ridi spesso, dopo aver fatto l’amore?”

 

“E chi se lo ricorda più?!” esclamò lei, facendo un’altra risata, che però poi diventò un sospiro, “non dirmi che hai paura che non mi sia piaciuto?”

 

Lui non disse niente ma lei sospirò ancora di più e alzò gli occhi al soffitto, con un “uomini!” prima di trovarsela seduta a cavalcioni sopra di lui che, se non fosse stato stremato… era una visione irresistibile.

 

“Se proprio lo vuoi sapere… anche se non volevo parlare di lei mo… stavo pensando che Imma è matta ad averti mollato per quel carciofone di mio fratello!”

 

Le guance gli ritornarono bollenti, e faticò pure lui a trattenere una risata, nonostante sì, forse non era il momento migliore per ripensare ad Imma e a… a quel cretino del suo cognatino, che già si immaginava come l’avrebbe presa di lui e Rosa.

 

“No, è che… insomma… sei tanto più giovane, quindi… insomma… temevo di non riuscire ad essere all’altezza che… che chissà a che cos’eri abituata e-”

 

Si trovò soffocato da un altro bacio.

 

“Niente che si avvicini, ma manco alla lontana: due pianeti diversi, proprio!” gli mormorò, praticamente nella bocca, e poi non la sentì più ma la vide accasciarsi sul suo lato del materasso, con sguardo effettivamente molto soddisfatto.

 

Il sollievo e l’orgoglio gli riempirono il petto in egual misura.

 

“Beh, ancora di meglio posso fare, se mi ci applico…” le disse, dandole un pizzicotto e lei rise di nuovo e poi si voltò a guardarlo, “non vedo l’ora ma… mi sa che tra poco è meglio vai, non che la peste si svegli e poi….”

 

Sospirò ma sapeva che aveva ragione: non era il caso che Noemi sapesse di loro, non ancora almeno.

 

“E… e quindi come facciamo mo?”

 

“Con la separazione e… tutto quello che sta accadendo con mio fratello… forse è meglio che ce lo teniamo per noi due, almeno per un po’. Ti… ti dispiace?” gli domandò, con uno sguardo che lo intenerì tantissimo.

 

Lo sguardo dei Calogiuri era indubbiamente una delle armi più letali del mondo.


“Va bene… allora vorrà dire che… avrò un’altra ottima ragione, oltre a Valentina, per farmi più fine settimana romani.”

 

Il bacio di lei fu talmente travolgente che… forse forse, in fondo, l’energia per un ultimo encore ce l’aveva.

 

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“Ci sono novità?”

 

“La casa purtroppo era ripulita davvero benissimo. Nessuna traccia di DNA. Probabilmente hanno usato la candeggina.”

 

Imma sospirò: come previsto.


“Questo è già sospetto: quando si è mai sentito che dopo una festa di ragazzi si igienizzi tutto tipo sala operatoria? A meno che il commercialista sia un maniaco dell’igiene, ma non mi sembra proprio il tipo.”

 

“Sì, è molto sospetto, dottoressa. Ma ovviamente ora il dottor Luciani sosterrà ancora di più che la ragazza si sia inventata tutto.”

 

“I vestiti? Hanno dato riscontri?”

 

“Sì, dottoressa, una traccia di DNA.”

 

“Ma?” chiese, perché Mariani non aveva l’espressione esultante che avrebbe dovuto indossare per una notizia del genere.


“Non corrisponde a nessuno dei sospettati, dottoressa.”

 

“Allora magari… potevano esserci altri ragazzi a quella festa, qualcuno che Giulia non ha visto. Certo non è facile. Dobbiamo ricontrollare le telecamere del traffico vicine alla villa, controllare anche internet… magari qualcuno ha fatto dei filmati alla festa e li ha pubblicati lo stesso, nonostante quello che è successo.”

 

“Va bene, dottoressa, procedo subito.”

 

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“Ci sono ancora giornalisti, dottoressa?”

 

Si voltò di scatto e si trovò di fronte Mancini, con la valigetta in mano, pronto al rientro a casa dopo la fine della giornata.

 

“Un paio: non si arrendono,” sospirò, spiando la strada.

 

“Non si preoccupi: l’accompagno,” cercò di rassicurarla con un sorriso.


“Dottore… magari chiedo a Mariani e-”

 

“Mariani è fuori per un sopralluogo con Santoro, dottoressa. Non si preoccupi, lo sa che non è un disturbo.”

 

Ed era proprio quello il problema, in realtà.

 

Mancini era molto gentile e premuroso con lei ultimamente, ma non voleva fraintendesse. Però non era un discorso da fare lì in procura.

 

E quindi annuì e si lasciò accompagnare fino all’auto del procuratore capo, che partì poi rapidamente, seminando i due scalzacani rimasti.

 

“Facciamo un giro un poco più ampio e poi la riporto a casa.”

 

Il sorriso di Mancini e la sua gentilezza la facevano sentire in colpa assurdamente, non sapeva se verso di lui o se, peggio, verso qualcun altro. Che non si meritava proprio nessun senso di colpa, anzi. Gli sarebbe stato solo che bene, gli sarebbe stato, provare un po’ della sua stessa medicina, per una volta.

 

Ma lei non era così e… e poi Mancini non si meritava di essere preso in giro.

 

E quindi la lingua parlò prima del cervello, “dottore….”


“Sì?”

 

“Io la ringrazio moltissimo per la sua gentilezza di questi giorni ma… considerati i… precedenti tra noi… lei lo sa che… insomma… cioè, magari nel frattempo le è pure passata, cosa che sarebbe comprensibile, ma… se così non fosse… io al momento non posso ricambiare nessun tipo di interesse che vada oltre ad una collaborazione lavorativa.”

 

Mancini rimase con gli occhi fissi sulla strada per un attimo, ma poi si girò verso di lei e le sorrise, con quel suo modo rassicurante, “dottoressa, lo so benissimo che donna è lei e… non mi aspettavo altro da lei. Non è per… quel motivo che le sto vicino, almeno non solo per quello. Il mio interesse per lei non l’ho mai nascosto, ma posso aspettare tutto il tempo che serve, senza impegno da parte sua, ovviamente. Nel frattempo… oltre alla collaborazione lavorativa, che non è in discussione, mi piacerebbe se potesse considerarmi almeno come un amico, un supporto in questo periodo difficile. Prima di… insomma, prima di Milano, mi sembrava che i presupposti almeno per quello ci fossero, no?”

 

Sentì una specie di fitta al petto: Mancini era gentile, intelligente, colto, sensibile, un vero gentiluomo.

 

Insomma l’uomo perfetto.

 

Perché non si era innamorata di lui, invece che di quel cretino?

 

“Dottore, col mio carattere… ho pochissimi amici, lo sa. Ne è proprio sicuro? Io non glielo consiglio!” scherzò, anche se c’era più di un fondo di verità nelle sue parole ed il procuratore capo rise.

 

“Vorrà dire che correrò questo rischio, dottoressa.”

 

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“Mi vedete e mi sentite fino a qua?”


“Forte e chiaro!”

 

“Ecco, ora vado nella SPA, quindi levo la telecamera, ma tengo l’audio, prima che tu ti distrai e lui mi sviene!”

 

Si sentì arrossire, un colpo di tosse che quasi lo assordò nelle cuffie: Ranieri, in collegamento da Bari dove era dovuto tornare per lavoro, sembrava pure lui parecchio in imbarazzo.

 

Lo aveva visto sempre e solo tramite una telecamera ultimamente… del resto non volevano attirare l’attenzione su dove si trovasse lui con più visite del necessario.


Ma non poteva fare a meno di chiedersi che rapporto ci fosse tra il capitano e Irene. Sapeva che lei ce l’aveva con lui e molto, quando l’aveva conosciuta, ma ultimamente stavano collaborando spesso.

 

Irene era all’agriturismo, per indagare di più sui dipendenti e sui proprietari.

 

La telecamera si spense effettivamente, appena in tempo prima di sentire lo sfrusciare del tessuto.

 

Gli venne in mente la famosa sauna e… tutto quello che ne era conseguito con Imma.

 

Doveva assolutamente trovare il modo di farsi credere da lei, fosse stata l’ultima cosa che faceva.

 

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“La ringrazio per il passaggio, dottore.”

 

Lui le sorrise, ma non si affrettò a scendere dall’auto per aprirle la portiera, come aveva fatto le sere precedenti.


“Senta… le andrebbe se andassimo a cena da qualche parte? In amicizia, ovviamente. Conosco un ristorante qui vicino che cucina il pesce in modo eccezionale. Atmosfera molto informale, stia tranquilla.”

 

Esitò: forse non era il caso, anzi, sicuramente non era il caso.

 

Ma perché avrebbe dovuto rinunciare ad una serata diversa dal restarsene chiusa a casa a coccolare Ottavia e a disperarsi per tutto quello che le era successo?

 

Alla fine non stava facendo nulla di male, e le cose con Mancini le aveva messe in chiaro.


“Va bene, dottore, ma solo se facciamo alla romana.”

 

“Lo sa che è contrario a tutta l’educazione che mi è stata impartita far pagare una signora, sì?”

 

“E lei lo sa che, o così, o di andare a cena con me se lo scorda, dottore? E signora a chi?” ribatté, ironica ma con un reale avvertimento, e lui sembrò in imbarazzo, ma anche un poco divertito.


“Va bene, ha vinto. Però… a patto che la smettiamo con dottore e dottoressa e ci diamo del tu, almeno fuori dal lavoro.”

 

Di nuovo, un attimo di dubbio: il lei ed i titoli erano un modo per mantenere una distanza, un rigore.

 

Anche se con qualcuno manco tutti i titoli del mondo ed il voi erano serviti a niente, in fondo.

 

“Mi ci dovrò abituare, quindi non prometto niente,” rispose, ma lui sorrise lo stesso e fece ripartire l’auto.

 

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Trattenne il fiato, anche se era assolutamente inutile farlo, mentre osservava il corridoio in penombra andare su e giù con ogni passo che prendeva Irene.


Era ormai notte e stava andando verso gli uffici, che aveva individuato durante il giorno, per fare un’ispezione ai documenti, di nascosto.

 

Il modo in cui scassinò la serratura, di precisione, dopo essersi nascosta da due cameriere notturne che passavano, era da manuale.

 

Sarebbe stata un’ottima carabiniera dei reparti speciali o forse pure dei servizi segreti: ce la vedeva benissimo in un film di spionaggio.

 

E alla fine fu negli uffici e prese a scartabellare documenti per memorizzarli sulla telecamera, e poi ad accedere al computer del direttore e a farne una copia su chiavetta.


Sapeva che si stava prendendo un rischio enorme e soltanto per scagionarlo.

 

Lanciò un’occhiata a Ranieri sull’altro schermo, e pure lui sembrava molto in apprensione ma… pur conoscendolo poco, aveva sul viso uno sguardo di ammirazione completa, quasi adorante.

 

Ma, quando Irene parlò per chiedere se avessero individuato altro da cercare, l’espressione di Ranieri tornò serissima e professionale, mentre dava indicazioni su angoli che lui a malapena aveva notato, col buio che c’era.

 

Era proprio bravo Ranieri, e si rese conto di non essere al suo livello e che, se mai avesse riavuto il suo lavoro, per essere davvero un capitano degno di questo nome, avrebbe dovuto lavorare un sacco.

 

Ma prima doveva pensare ad Imma, che stava malissimo per colpa sua e doveva provarle che non solo non l’aveva tradita, ma che non era più l’ingenuo ragazzo di Grottaminarda, che poteva e doveva tirarsi fuori dai guai.

 

Certo, non proprio da solo, ma si ripromise di leggere subito i file che Irene gli avrebbe inviato, a costo di farsi la nottata in bianco.

 

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Stava cercando di pulire il meraviglioso misto di crostacei e frutti di mare che Mancini aveva ordinato per entrambi.

 

I prezzi almeno non erano da usura, il locale molto carino ed il vino ed il pesce ottimi. Ma lei era abituata a posti ancora più terra terra, soprattutto per quel genere di cose, e con forchetta e coltello era un poco in difficoltà.

 

“Se non le dispiace… anzi… se non ti dispiace… i frutti di mare vanno colti con le mani.”

 

Sollevò gli occhi, stupita, verso Mancini, che aveva preso in mano un gamberone dall’aria invitantissima.

 

Le venne da sorridere, grata, ed annuì, abbandonando forchetta e coltello e prendendo una delle cozze - cotte per fortuna, come tutto il resto di quel ben di dio.

 

“Che c’è? Da me non se lo aspettava? Cioè non te lo aspettavi?”

 

“In pubblico? No, dottore. Spero solo non si macchi il completo,” rispose, visto che Mancini indossava ancora l’abbigliamento da lavoro, che tra giacca, camicia e pantaloni doveva costare non poco.

 

“In caso, ne sarà valsa la pena e ho un’ottima tintoria,” ribatté lui, facendole l’occhiolino e poi mangiando avidamente i frutti di mare, prima di pulirsi le mani e sollevare il calice di vino bianco, “alle cose inattese della vita, che sono pure le più belle.”

 

Si pulì a sua volta nella salvietta umidificata e ricambiò il brindisi, dovendo ammettere che questo lato di Mancini, più genuino, non era niente male, affatto.

 

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“Arriva qualcuno!”

 

Irene si era abbassata sotto la scrivania: effettivamente si sentiva rumore di passi.

 

Le luci si accesero all’improvviso ed udirono una voce maschile, forse il direttore, che si chiedeva dove avesse lasciato le chiavi della macchina.

 

Il respiro di Irene gli sembrò fortissimo nel microfono. Se si fosse avvicinato alla scrivania….

 

Gli venne in mente che lui il cellulare del direttore lo aveva, nell’elenco dei contatti controllati.

 

Con il cuore in gola, compose il numero da un account anonimo di messaggistica istantanea, pregando ce lo avesse pure lui.


Sentì il telefono squillare ed il “pronto?” del direttore sia al pc che nella registrazione.

 

E mo che si inventava?

 

“Direttore! Abbiamo trovato le sue chiavi, le devono essere cadute nel parcheggio!” disse, cercando di camuffare la voce e pregando che lo scambiasse per uno degli addetti dell’agriturismo.

 

“Ma chi parla? Antonio, sei tu?” chiese, ma lui mise giù subito.

 

“Ci mancava anche questa…” lo sentì sospirare dal microfono di Irene, e poi il rumore di una porta che si chiudeva e la luce si spense.

 

“Grazie…” la udì mormorare, la voce bassa rispetto al solito, mentre Ranieri era bianco come un lenzuolo, ma gli disse un, “ottimo lavoro, Calogiuri! Ha avuto una prontezza incredibile!” che gli parve realmente sincero e gli ridiede un po’ di orgoglio, dopo tante batoste.

 

“Irene, esci da lì, subito!” ordinò poi il capitano, e lei non se lo fece ripetere due volte, spegnendo il computer, riforzando la serratura dall’interno e poi richiudendola dall’esterno, prima di avviarsi molto rapidamente verso la sua stanza.

 

Per fortuna era andata bene.

 

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Lo osservò scendere dall’auto e fare il giro intorno, per farla scendere.

 

Le faceva strano, pure se non era una novità, anzi, ma l’orario e le circostanze erano diverse.


Uscì dalla macchina e se lo trovò un po’ troppo vicino, visto che teneva la portiera, quindi fece un paio di passi indietro per ripristinare le distanze di sicurezza.

 

“Allora la ringrazio… ti ringrazio,” si corresse, notando lo sguardo di lui.

 

Era tutta la sera che alternavano tra il lei ed il tu.

 

“Figuriamoci, visto che hai voluto pure pagare la tua parte, non ho fatto niente. Grazie a te della compagnia, spero che… magari potremo ripetere qualche volta.”

 

“Magari…” rispose lei, senza fare promesse ma nemmeno respingere del tutto l’idea.

 

Perché era stata una serata piacevole e l’aveva distratta dai suoi casini.

 

“Allora buonanotte, a domani,” si congedò, avviandosi rapidamente verso il portoncino ed aprendolo, vedendo poi Mancini salutarla con la mano e rimettersi al volante.

 

L’ascensore per fortuna era già lì, ed arrivò rapidamente davanti alla porta di casa.

 

Si sentiva un poco in colpa, anche se mica aveva fatto niente di che, e qualcuno non se lo meritava proprio che lei rimanesse tutto il tempo a disperarsi pensandolo.

 

Ma, tant’è, neanche due minuti che era da sola e ci pensava lo stesso. A che cosa stava facendo, a dov’era, a come stava.

 

Scosse la testa, girò la chiave nella toppa e stava per accendere la luce, quando si trovò assaltata da una cosa pelosa e miagolante.

 

“Ottà?” chiese, trovandosi con i collant a brandelli e le gambe graffiate prima di riuscire a prenderla in braccio ed accendere la luce.

 

La guardò ed Ottavia miagolò fortissimo, poi le mise la testa nel vestito e poi riprese a miagolare, sembrando incazzosissima.

 

“Che c’è? Senti l’odore del pesce?” le chiese, divertita e un po’ stupita, ma Ottavia miagolò ancora più forte e poi, con aria offesa, le saltò giù da in braccio e si avviò verso il corridoio dandole le spalle.

 

“Ottà, guarda che non è un posto da cui mi potevo portare gli avanzi!” cercò di spiegarle, chiudendosi la porta alle spalle, ma la testona proseguì imperterrita verso il bagno.

 

Che ci si metteva pure lei a fare l’offesa, mo?

 

Sospirando nel vedere com’erano ridotte le sue gambe e le calze leopardate, che giusto per un concerto punk ormai potevano essere usate, andò in camera, si mise il pigiama e poi andò in bagno per cercare di stanarla.

 

“Eddai, ti sei offesa? Non potevo portare gli avanzi, te l’ho detto!”

 

Certo che stava proprio messa male, a giustificarsi con una micia.

 

Ma Ottavia continuò a miagolare forte, fece pure due soffi e poi le ridiede le spalle.

 

“Se è perché sono tornata tardi, lo sai che può capitare. Dai, non vuoi venire nel letto con me?” le chiese, lavandosi rapidamente i denti e poi lasciando la porta del bagno e della stanza aperte.

 

Stava per arrendersi e prendersi in mano il libro su cui era ferma da settimane, quando uno spostamento d’aria ed un peso sui piedi le segnalarono che qualcuna si era decisa.

 

Ma le rimase sulle caviglie, acciambellata, senza andarle al collo, come faceva ultimamente.

 

“Va beh… come vuoi, buonanotte!” sospirò, spegnendo la luce e cercando di prendere sonno, ma non riuscendoci, tanto per cambiare.

 

Dopo un po’ di rigiri nel letto, peggio di una cotoletta, si trovò con qualcosa di caldo, morbido e pulsante attaccato alla schiena.

 

Sorrise tra sé e sé, si voltò e l’abbracciò, il ronzio delle fusa che le conciliò finalmente il sonno.

 

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“Allora, signor...?”

 

“Raniero.”

 

La voce di Ranieri era imbarazzata, del resto, per dove si trovava, lo capiva pure. Niente telecamera stavolta, per ovvi motivi, solo il microfono.

 

“C’è un motivo in particolare per la visita? Dolori, qualche sintomo?”

 

“In realtà… ho tre figli e vorrei evitare di averne altri. Stavo valutando la possibilità di una vasectomia, ma volevo capire le conseguenze.”

 

Spiò l’espressione di Irene, seduta accanto a lui, che però alzò soltanto un sopracciglio.


Era una buona scusa, effettivamente, per evitare procedure invasive.

 

“Dipende dal suo stato di salute generale. Devo farle una visita e le prescriverò alcune analisi del sangue.”

 

Ecco, come non detto!

 

Lanciò di nuovo un’occhiata ad Irene e la vide fare un mezzo sorrisetto soddisfatto.

 

Probabilmente, nonostante tutto, un poco di risentimento ancora c’era.

 

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“Allora, è andata bene la visita?”

 

Il tono di Irene era molto ironico.

 

Il capitano aveva staccato l’audio mentre il dottore lo visitava, poi aveva ripreso e ora era uscito dallo studio dell’andrologo.

 

“Mai più!” le rispose, con un tono che gli fece venire da ridere, “comunque ho visto dove tiene i documenti e credo anche di avere la sua password, da quando è entrato nel suo account. Ho fatto un calco delle chiavi, ora vado a farne una copia. Ed il sistema d’allarme è molto semplice, non sarà un problema.”

 

“Va bene. Allora stanotte entriamo,” rispose Irene, senza fare una piega, “gli orari della sicurezza li abbiamo, e prima capiamo se possa essere lui e meglio è, visto che l’agriturismo è stato un buco nell’acqua.”

 

“D’accordo. Ti aspetto al luogo e all’orario convenuti allora, a dopo.”

 

Sentì addosso un’agitazione fortissima: dopo che l’agriturismo si era rivelato un’attività tranquillissima e manco particolarmente redditizia, con un giro di email e documentazioni assolutamente nella norma, al di là di qualche errore contabile, forse volontario, forse no, questa era la sua ultima speranza concreta.

 

Il Giappone… la locanda dove erano stati lui ed Imma era centenaria ed avevano telecamere di sicurezza lungo tutto il perimetro proprio per evitare maniaci. Avevano pure scomodato i corrispondenti locali di Brian Martino, ma dai filmati non era emerso niente e neanche dai nominativi delle persone ospiti nella locanda quella sera. Tutta gente tranquilla, padri e madri di famiglia in ferie per l’o-bon.

 

“Adesso devo andare, Calogiuri. Tu tutto bene? Hai un’espressione….”

 

“Voglio solo riuscire a capire chi mi ha incastrato e come….”

 

“E noi ci stiamo provando. Ma tu devi tenere il morale in alto, va bene? E stai mangiando? Che a parte la puzza di sta stanza, ma mi sembri sempre più magro.”

 

“Mangio… mangio… tranquilla…” sospirò lui, anche se, tra il poco moto e l’ansia di riuscire a scagionarsi e di come poteva stare Imma, lo stava facendo poco e male.

 

Sperò davvero che l’andrologo fosse l’anello mancante della catena, doveva esserlo, se no non sapeva più che pesci pigliare.

 

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“Valentina!”

 

Per poco non le cascarono i libri di mano.

 

Si voltò e non si era sbagliata: Carlo Vitali.

 

“Carlo? Che ci fai qui?”

 

Era nel corridoio dell’università, pronta per andare in pausa pranzo.

 

“Avevo un paio di ore libere e oggi sono alla sede qua di fianco. E allora sono passato per vedere se c’eri,” le spiegò, toccandosi i capelli, “ti andrebbe di andare a mangiare qualcosa insieme?”

 

“Volentieri! Avviso le mie compagne e andiamo!”

 

Le faceva sempre piacere chiacchierare con Carlo, forse perché capiva bene la sua vita da figlia di PM ed aveva presente l’ambiente materano, o forse perché era uno dei pochi con cui se la sentiva di confidarsi riguardo a Penelope, dato che conosceva entrambe.

 

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“Avete trovato qualcosa?”

 

La domanda di Irene aveva un tono che faceva presagire che non si aspettasse nulla di buono dalla risposta.


“Purtroppo no. Niente che colleghi l’andrologo ad attività sospette. Pure qua un po’ di evasione fiscale, incrociando gli appuntamenti con le fatture fatte, ma niente che faccia pensare ad altro.”

 

La risposta di Ranieri non era altro che la conferma di quello che già temeva.

 

“Neanch’io ho trovato niente. I contatti che ha avuto nelle ultime settimane, sembra tutta gente incensurata: clienti, colleghi, amici e familiari,” ammise, le ultime speranze che ormai se ne erano già andate.

 

“Lo temevo. Ma Calogiuri, non ti devi abbattere! Dobbiamo cercare più indietro nel tempo, più ad ampio raggio.”

 

“Più andiamo indietro nel tempo e più è difficile trovare qualcosa, lo sai anche tu, figuriamoci dimostrarlo!” esclamò, forse con un po’ troppa forza, perché Irene fece un mezzo balzo e pure Ranieri, da remoto, parve stupito.

 

“Usa questa energia per cercare di ricordarti tutti i posti in cui possono averti visto nudo, invece che a disperarti. Io non ti mollo, chiaro?”

 

Sentì il tocco di Irene sulla spalla ed annuì, perché sapeva che lei stava facendo il possibile e pure l’impossibile per lui, ma… non era il tocco che avrebbe voluto, e quella frase avrebbe tanto voluto ascoltarla ma da una voce roca che gli mancava da morire.

 

“Possiamo mandare qualcuna sotto copertura con l’avvocato, nel frattempo. Magari ora che pensa di aver vinto, ha abbassato un po’ la guardia. E credo di avere la persona adatta.”

 

Si voltò verso lo schermo perché era stato Ranieri a parlare ed aveva uno sguardo un poco strano.

 

“Cioè?” chiese Irene, lasciandogli la spalla e girandosi anche lei verso il pc.

 

“Una collega che è stata nei reparti speciali per molti anni, in polizia. Ora è tornata in questura qua a Bari. Potrebbe essere un poco fuori età per l’avvocato, ma… c’ha la fila e di solito nessuno le resiste,” spiegò Ranieri e a Calogiuri sembrò come se un interruttore ad alta tensione si fosse appena acceso nella stanza, e ci fosse qualcosa nell’aria.

 

“E come sarebbe questa collega, per essere così irresistibile?” domandò Irene, incrociando le braccia, con un sopracciglio alzato.

 

“Bella, mora, mediterranea, molto formosa e si veste in un modo… appariscente, quando non è sotto copertura. E poi… insomma è una che con gli uomini ci sa fare, sa come prenderli.”

 

“Immagino!” ribatté lei, sembrando un poco irritata, “comunque per me va bene, se oltre ad essere irresistibile è anche brava nel suo lavoro. E discreta soprattutto, anche se magari non nell’abbigliamento.”

 

“Bravissima, almeno a giudicare dalle missioni che ha fatto in passato.”

 

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“Vale!!!”

 

Era appena rientrata dalla pausa pranzo con Carlo: alla fine se l’era presa un po’ più lunga ed aveva perso la prima lezione, tanto era una materia di puro studio.

 

Ma si era ritrovata con le compagne di università appostate dietro la porta.

 

“Che c’è? Sono stata via di più, ma-”

 

“Eeeeeh… che chissà che ci combini con quel bel ragazzo… beata te! Dev’essere una cosa di famiglia attirare così tanto, qual è il vostro segreto?” rispose Laura, con aria sognante e un po’ invidiosa.

 

“Di famiglia? E io comunque sono fidanzata e fedele, Carlo è un amico e basta!”

 

“Sì, un amico da pause pranzo di tre ore,” rise Ludovica, agitando all’indietro la chioma mora.


“Avevamo molto da raccontarci, perché era da un bel po’ che non ci vedevamo. Ma che c’entra la mia famiglia? Se è ancora per la storia di mia madre e del maresciallo, non-”

 

“No, macché, il maresciallo è una storia vecchia! Poi, dopo che ha fatto quello che ha fatto! Ma tua madre recupera subito, non molla il colpo! Certo, questo è un po’ vecchio per me, ma ha quell’aria da Richard Gere in Pretty Woman….”

 

“Ma chi? Di che cosa state parlando?”

 

“Ma tua madre non ti ha detto della sua nuova conquista? Guarda!” disse Ludovica, mostrandole il telefonino con su la cover costosissima di una nota influencer che Ludovica sperava di eguagliare prima o poi.

 

La Pantera di Matera graffia ancora! Nuovo triangolo in procura?

 

La Pantera di Matera, accantonato il toyboy, si dà ad uscite romantiche con una vecchia volpe

 

La Pantera di Matera e lo scapolo d’oro della procura. Straordinari d’amore?

 

Il terzo titolo le fece domandare se avessero assunto una scrittrice di Harmony come titolista.

 

Le sarebbe venuto da ridere, se le foto sotto i titoli non avessero ritratto sua madre a cena ed in auto con un bell’uomo, alto e brizzolato.

 

Il procuratore capo.

 

“Va beh, è il capo di mia madre… staranno lavorando…” cercò di minimizzare lei, sebbene sapesse quanto sua madre fosse allergica alle cenette con i colleghi.

 

Tranne uno a cui meno pensava e meglio era, che si era un poco pentita di non essere andata a tirargli un calcio ben assestato dove non batteva il sole, prima che sparisse.

 

“Qua dicono che escono dalla procura tutte le sere insieme, ed una sera sono pure andati a cena. Poi… ma hai visto quanto è figo per l’età che deve avere? Pace all’anima sua! E c’ha pure un fisico!”

 

“E questo lo noti da due foto in auto con mia madre?”

 

“Ma no!” disse Laura, mostrandole a sua volta il suo telefono, “ma dicono che è un triatleta, allora l’ho cercato su google, e guarda che foto.”

 

Effettivamente c’erano alcune immagini di Mancini che correva all’ultima gara di thriatlon a Roma e poi che nuotava e… il fisico c’era, eccome.

 

Ma sua madre non era una che assorbiva così facilmente le batoste e lei quel pirla lo amava molto, lo sapeva.

 

A meno che non avesse deciso di fargliela pagare in quel modo, per orgoglio.

 

Avrebbe dovuto sentirla quella sera.

 

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Controllò il cellulare, come faceva ormai di rado, perché aveva perso le speranze che l’unica persona da cui avrebbe voluto ricevere un messaggio lo sbloccasse.

 

Ci trovò un sacco di messaggi persi.

 

Giornalisti, maledetti!

 

Ultimamente sembrava averli seminati davvero, anche grazie all’aiuto di Irene che gli evitava di dover uscire per le cose di prima necessità.

 

Ma chissà che volevano ora, tutti insieme… che Melita ne avesse sparate ancora altre delle sue?

 

Aprì il primo messaggio, a caso, e ci trovò un link e la domanda:

 

Qualcosa da dichiarare? Si è consolata in fretta, mi pare! Forse ha già fatto troppo la vittima, no? Perché non ci dà la sua versione?

 

Rimase per un attimo senza parole, ma poi notò due cose in contemporanea.

 

Che la foto profilo era di quello stronzo di Zazza.

 

E che il link aveva un’immaginetta con una foto in piccolo e il titolo

 

La Pantera di Matera e la sua nuova preda

 

Il cuore gli finì nello stomaco ma aprì subito, in automatico.


E si trovò davanti una foto di Imma con quel maiale di Mancini, a cena insieme in un posto che non riconosceva, intenti a fare un brindisi col vino bianco.

 

Fu peggio di un cazzotto in faccia: non ci poteva credere, che ci faceva con quello?! Dopo tutto quello che aveva fatto!

 

Guardò le altre foto ed erano di loro in auto, che se ne andavano dalla procura.

 

Cercò di calmarsi, anche se aveva il battito a mille, un magone tremendo e le mani gelide.

 

Magari Mancini insisteva sempre per accompagnarla ed aveva insistito anche per la cena. Ma non c’erano foto più intime e, se ci fosse stato qualcosa di più, lo avrebbe pubblicato.

 

Ma non poteva lasciare che Mancini si approfittasse così della situazione e del dolore di Imma e non poteva perderla senza combattere.

 

Non aveva niente in mano, era vero, ma doveva riuscire a farsi ascoltare da lei, una volta per tutte.

 

Dopo tutti gli anni insieme almeno di starlo a sentire glielo doveva, nonostante tutti i casini successi.

 

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“Che vergogna! Vergogna!!”

 

Asia fece un balzo sulla sedia dove era accomodata per fare le trascrizioni, e le disse un timoroso “dottoressa, se per stasera abbiamo finito, io andrei!” che le ricordò un poco Diana.

 

“Vada! Vada!” la congedò con un cenno della mano, concentrandosi sull’articolo di giornale che aveva davanti e bollendo nuovamente per l’indignazione.

 

C’era una foto di Giulia che usciva dalla scuola, piangendo, e poi venivano intervistate le sue compagne ed i suoi compagni, che sostenevano che era esagerata e che a quella festa non era sicuramente successo niente.

 

La preside aveva inoltre comunicato ufficialmente che Giulia si era ritirata.

 

E, seppure fosse solo un articolo scritto, lo vedeva dalla faccia di quella megera che doveva essere stato un sollievo per lei, che la patata bollente se ne fosse andata.

 

Le avevano sicuramente reso la vita talmente impossibile da costringerla a mollare la scuola.

 

Prese il telefono e provò a chiamarla, ma era staccato.

 

Doveva parlarle assolutamente. Chiamò la PG per chiedere di Mariani, ma le fu riferito che già era andata a casa.

 

Le sarebbe toccato aspettare il giorno dopo, purtroppo.

 

Il rumore di nocche alla porta.

 

“Avanti!” gridò, più forte del necessario, ma era troppo arrabbiata, e vide comparire Mancini, con aria preoccupata.

 

“Dottoressa! Tutto bene? La vedo… alterata ecco. Se è per gli articoli che sono usciti su noi due-”

 

“Ma che vuole che me ne freghi di quelli! Ci sono abituata!” esclamò, perché gli articoli le erano ovviamente arrivati, cortesia di tutti i giornalisti, Lucania News in primis, e pure di Diana e la Moliterni che si erano fatte sentire.

 

La prima per dirle che Mancini era un grande acchiappo ma se era proprio sicura, che chiodo scaccia chiodo non sempre funziona, la seconda per congratularsi sul suo gusto in fatto di uomini, e che non pensava che sarebbe tornata in sella così presto.

 

A Diana aveva scritto un ma che non mi conosci?! e alla Moliterni non aveva risposto, che era già una risposta.

 

Una fitta dritta al petto quando le venne in mente lui davanti alla caserma di Matera, che aveva appena mollato quella scema di Maria Luisa.

 

“Allora non ce l’ha con me?”

 

La voce di Mancini la riportò al presente e scosse il capo, non solo come diniego ma anche per levarsi dalla testa quei pensieri, “no, no, che quelli con me ce l’hanno! Ma tanto scriverebbero comunque, almeno non sono più la povera cornuta ferita, è già qualcosa, suppongo.”

 

Mancini sorrise leggermente e poi, dopo un attimo di esitazione, aggiunse, “allora le va se l’accompagno a casa? Mariani è già andata.”

 

“Sì, me l’hanno detto. E va bene, dottore, ma a patto che prima mi accompagni in un posto.”

 

“E dove?”

 

Imma gli passò il giornale e disse “a casa di Giulia Angelucci.”

 

Mancini fece scorrere rapidamente l’articolo, poi annuì e le aprì la porta, con il suo solito modo cavalleresco, senza dire nient’altro.

 

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Si strinse di più nella felpa con il cappuccio, infilando la bocca nel dolcevita che si era infilato in tutta fretta.

 

Ma, pure con quegli strati più il cappotto, sentiva freddo, molto più del solito.

 

Forse perché non era più abituato all’aria aperta, o forse perché aveva perso peso.

 

Si sentiva idiota ed in colpa al tempo stesso ad aspettare Imma sotto casa, manco fosse un maniaco o un criminale, ma sapeva che era l’unico modo di avere una possibilità di parlarle.

 

Solo che… ormai erano quasi le otto di sera ed Imma ancora non si vedeva.

 

Sapeva che lavorava fino a tardi ma… cominciava ad essere strano pure per lei.

 

Mille scenari gli passarono per la mente, di Imma con quello stronzo di Mancini, che magari erano a fare un’altra cena, a brindare insieme alla faccia sua, mentre lui stava lì a surgelarsi.

 

Ma non poteva arrendersi e doveva sapere la verità, a tutti i costi, per quanto potesse fargli male.

 

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“Giulia, tu non devi permettere a quegli stronzi di condizionarti il futuro, hai capito? Puoi andare in un’altra scuola, ma non devi mollare!”

 

“E che senso ha? Tanto quelli non ci sono, è vero, ma tutti… tutti comunque mi tratterebbero solo come quella che si è inventata palle sui giornali.”

 

“Ma noi cercheremo di dimostrare a tutti che non ti sei inventata niente,” ribadì Imma, mettendosi quasi in ginocchio davanti alla ragazza, che stava seduta sul divano, sua madre silenziosa in un angolo della stanza.

 

Il padre non pervenuto, ma a quanto pare erano divorziati da anni.

 

“Senti, ci sono pure i corsi a distanza, no? Almeno non perdi lezioni e poi, quando questa storia sarà risolta, puoi andare in un’altra scuola più serenamente.”

 

“I corsi privati costano molto e non ce lo possiamo permettere,” si inserì la madre di Giulia, con aria di chi, alla fine, del fatto che sua figlia andasse o meno a scuola fregava relativamente, “io non ho il diploma e lavoro lo stesso. Con tutti i laureati che ci sono in giro a spasso oggi-”

 

“Sua figlia ha degli ottimi voti, o li aveva, e se ci sono a spasso tanti laureati, figuriamoci con la terza media. Possiamo fare una borsa di studio per sua figlia, sono sicura che in molti contribuirebbero,” intervenne Imma, col desiderio di strozzare la signora.

 

Aveva la netta impressione che manco a lei credesse alla figlia e che la denuncia fatta da Giulia fosse per lei una scocciatura ed un inconveniente.

 

“Certamente! Conosco una fondazione che assegna borse di studio per persone meritevoli con situazioni di emergenza, sono certo che potranno pagare la retta a sua figlia entro pochi giorni.”

 

Guardò Mancini, stupita: che era sta storia della fondazione, mo?

 

“Allora? Se troviamo il modo di pagare la retta, mi prometti che frequenterai i corsi da casa?”

 

Giulia si morse il labbro e poi annuì. Vide chiaramente che la madre sollevò gli occhi al soffitto ma poi disse “come volete! Basta che non mi tocca pagare, che qua già arriviamo a fatica a fine mese con le spese!”


Almeno una piccola vittoria l’aveva ottenuta.

 

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“Dottore, ovviamente mi aspetto la mia parte del conto.”

 

“Come?” chiese Mancini, guardando però dritto davanti a sé.

 

Gli era molto grata ed aveva colto al volo l’occasione per convincere Giulia, ma mica era nata ieri.


“Sta fondazione, non esiste, vero? O c’ha un solo socio, lei.”

 

Mancini la guardò e le sorrise con un, “ma non ci davamo del tu? E comunque non ti sfugge niente, lo so. Ma posso permettermi tranquillamente di pagare la retta per quella ragazza e-”

 

“E io no? O facciamo una fondazione cinquanta e cinquanta o scordati che io risalga di nuovo in auto con te!” lo minacciò, sapendo che fosse la cosa più efficace.

 

Ma Mancini di nuovo sorrise.


“Imma,” pronunciò, in un modo affettuoso che le fece stranissimo, così come il sentirsi chiamare per il nome di battesimo, “lo so che sei indipendente ed orgogliosa, e fai bene ad esserlo. Ma hai una figlia a carico ed un appartamento in affitto. Io non ho nessuno e posso tenermi praticamente tutto lo stipendio. Posso permettermelo, poi sarà per pochi mesi. Al massimo un settantacinque - venticinque, se vuoi contribuire.”

 

Sospirò, sapendo che Mancini era un osso duro sui conti.

 

“Va bene,” acconsentì, anche perché erano quasi arrivati davanti al suo condominio.

 

Infatti accostò l’auto e le sorrise.


“Bene… allora domani faccio predisporre le carte per la donazione. E non mi chiedere di dividere anche i costi notarili, che il notaio è un amico e per beneficenza sicuramente mi fa un favore.”

 

Sospirò: non sapeva se crederci ma aveva già tenuto il punto, quindi annuì.

 

Mancini sorrise e scese dall’auto, come al suo solito, girandoci intorno per aprirle la portiera.

 

Mise i piedi sull’asfalto e pronunciò un “allora grazie per tutto… è… sei stato provvidenziale.”

 

“Ma figurati! E poi… lo sai che mi fa piacere. Ti accompagno alla porta, che è tardi? Ti avrei proposto di mangiare qualcosa ma… considerando gli articoli sui giornali….”

 

“Sì, meglio evitare per un po’,” concordò e le venne da sorridere per la premura di lui: era sempre solertissimo, pure troppo.

 

Però almeno poteva risparmiarsi le scuse per sottrarsi ad altre cenette nel futuro prossimo: le faceva piacere passare del tempo con lui ma… non voleva dargli illusioni e non era pronta per altro, finché c’aveva in testa soltanto una persona.

 

Mancini richiuse la portiera ed attraversò insieme a lei la strada, quando si parò davanti al portone una figura alta e scura. All’inizio le parve un barbone, poi pensò ad un giornalista.

 

Ma, quando si avvicinò di più e vide quegli occhi, il cuore le rimbombò fortissimo nel petto, un qualcosa che le rimescolò lo stomaco.

 

“Non ci posso credere! Ho visto i giornali ma… non ci potevo credere, e invece!”

 

Maresciallo?” domandò Mancini, gelido, bloccandosi sui suoi passi, stupito.

 

“Calogiuri, non-” provò a dire, anche se non aveva alcun motivo di giustificarsi con lui, anzi, era lui che era in torto marcio e non poteva pretendere niente, mo.

 

Ma non fece in tempo, perché Calogiuri ignorò completamente il procuratore capo e si rivolse diretto a lei, come un fiume in piena.

 

“Non mi hai nemmeno voluto ascoltare! Ma mo mi ascolti! Se pensi che… che posso davvero averti tradita in quel modo, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, dopo tutto quello che ho fatto per stare con te… dopo tutto quello che tu hai fatto per stare con me… mi fa malissimo perché… vuol dire che non mi conosci, per niente. Che non hai neanche un poco... nemmeno di stima, ma di considerazione per me, zero. Capisco che sia stata un’umiliazione tremenda per te, e ti giuro che avrei preferito morire che vederti stare così male, ma non ti ho mai tradita, MAI, e mi hanno incastrato, fino in fondo. E tu, invece di credermi e di aiutarmi a provare la mia innocenza, come stanno facendo altri, che di me se ne sarebbero pure potuti fregare, non hai perso tempo a farti corteggiare da uno che ancora un po’ voleva farti perdere il lavoro e che non ha esitato un attimo a vendicarsi, di te e di me, finché gli faceva comodo e-!”

 

“Ma come si permette?!”

 

Mancini si era messo in mezzo, letteralmente, come una furia, ma lei riusciva soltanto a guardare gli occhi di Calogiuri, che continuava a fissare unicamente lei, occhi negli occhi, come una volta.

 

Si rese conto che una parte di lei forse ci aveva sperato, che lui aggirasse i blocchi che gli aveva messo e che lottasse, che venisse da lei a dirle quello che le stava dicendo ma… poteva davvero credergli?

 

“Come si permette di parlarmi così!”

 

Calogiuri infine ruppe il contatto visivo, rivolgendosi a Mancini, che gli era sempre più vicino, e pure lei guardò il procuratore capo, che pareva incazzatissimo.

 

Merda!

 

“Non è più il mio capo! E mi permetto eccome, perché si sta approfittando della situazione, come il vigliacco che è ed è sempre stato!”

 

Un secondo, una specie di grido da parte di Mancini, e precipitò tutto.

 

Vide il procuratore capo spintonare Calogiuri, che barcollò all’indietro, fino a finire contro al portone.

 

Ma poi si spinse in avanti con le mani e, prima che lei potesse anche solo muoversi, sentì il rumore di carne contro carne, ossa contro ossa, in un destro da manuale che finì dritto in faccia a Mancini.

 

Occhiali che volarono e si infransero sul marciapiede e poi un urlo di dolore, ma stavolta di lui, perché Mancini aveva risposto con un sinistro dritto in pancia e, con un tonfo tremendo, Calogiuri finì di schiena sul marciapiede.

 

Vide Mancini, il volto trasfigurato in una smorfia di furia, sollevare di nuovo un pugno in aria, flettere le ginocchia e-

 

“Basta!” urlò, i piedi che si erano praticamente mossi in automatico, spingendo indietro Mancini, e mettendosi tra di loro, le braccia tese ai lati, facendo da scudo a Calogiuri, che stava ancora in terra, “basta!”

 

Mancini si bloccò, sembrando all’improvviso mortificato e spaventato - o almeno così le pareva per la metà del viso ancora buona, perché il lato sinistro era già rosso e stava rapidamente gonfiandosi e diventando blu.

 

E poi si voltò verso di lui, che era ancora fermo a terra, il cappuccio caduto dal viso, mentre si teneva la pancia in una smorfia di dolore.

 

“Ma sei impazzito?! Ti ci manca solo questo, ti ci manca!” esclamò, inginocchiandosi davanti a lui per aiutarlo a sollevarsi, e capire se si fosse fatto molto male, provando ad allungare una mano verso lo stomaco, che ancora si toccava.

 

Ma lui le bloccò la mano, spingendogliela via e mettendosi da solo a sedere, con un, “io non ho fatto niente! Ma tu ancora non mi credi, non è vero?”

 

Quegli occhi disperati erano di nuovo nei suoi ed avrebbe voluto credergli fino in fondo, lo avrebbe voluto tanto, ma una parte di lei, quella indurita e ferita da quarantasette anni di delusioni e fregature, continuava a darle il tormento.

 

“Lo sapevo…” sussurrò lui, in un modo deluso che fu peggio dei pugni che erano appena volati.


“Ti credo su tante cose, Calogiuri, e lo so che ti hanno incastrato ma… sul tradimento… come faccio a crederti? Se almeno mi avessi detto subito la verità, io-”


“Ma ti ho detto la verità, te l’ho sempre detta, tutta! Ma se credi di più a quelli che mi hanno incastrato che a me, dopo… dopo tutto quello che ti ho dimostrato in questi anni… giusto uno come lui ti meriti!” le sibilò contro, gelido, fulminando poi Mancini con lo sguardo e tirandosi in piedi, seppur barcollante, dando loro le spalle ed iniziando ad allontanarsi.

 

Balzò in piedi, con l’istinto di seguirlo, di parlargli, ma qualcosa la trattenne per il polso. Si voltò ed era Mancini, l’occhio sinistro che era messo sempre peggio, ormai ridotto ad una fessura.

 

“Meglio di no: è chiaro che ha dei problemi, e grossi pure, e-”

 

“E la prego- ti prego di non dargliene altri,” lo interruppe, rendendosi improvvisamente conto fino in fondo di quali potevano essere le conseguenze per Calogiuri, se Mancini lo denunciava.

 

Mancini sospirò, facendo poi una smorfia di dolore, probabilmente avendo mosso qualche muscolo del viso che era stato coinvolto dal pugno, “se lo faccio, lo faccio solo per te.”

 

Imma annuì e comprese in quel momento che non poteva mollare Mancini, conciato così, per strada.


Gli occhiali gli si erano pure rotti e giacevano infranti tra il marciapiede e la ruota di un motorino.

 

“Non sono un granché come infermiera ma… posso medicarti e poi chiamarti un taxi, che senza occhiali non puoi guidare,” propose, sapendo che fosse la cosa migliore da fare, per tutti, soprattutto per Calogiuri.

 

Il procuratore capo annuì leggermente, con un’altra smorfia di dolore, ed Imma con un sospiro recuperò le chiavi dalla borsa e gli fece strada.

 

Dopo un viaggio sull’ascensore a dir poco imbarazzante, in un silenzio tombale, aprì la porta di casa e si trovò accolta da una coda tra le caviglie.

 

Ottavia fece pure un accenno di fusa, ma la sentì bloccarsi ed irrigidirsi ed udì una specie di fischio tipo pentola a pressione.

 

Guardò verso le caviglie ed Ottavia stava fissando Mancini, il pelo sulla schiena alzato e gonfio, che sembrava tre volte più grossa di quella che era, la coda dritta dritta.

 

“Ottà… sta buona…” sospirò, abbassandosi per prenderla in braccio ed ignorando la grattata con gli artigli di avvertimento, che di solito precedeva la zampata vera e propria.

 

La ricambiò con uno sguardo dei suoi e le disse, “fai la brava, che abbiamo un ospite da medicare, su!”

 

Ottavia, come risposta, si rivolse direttamente a Mancini, con un altro soffio fortissimo, le zanne di fuori.


“Ma fa sempre così?” chiese lui, preoccupato.

 

In realtà no, ma mica poteva dirglielo, quindi si limitò ad un, “a volte con gli estranei è sospettosa, vieni!”

 

Trattenendo Ottavia, chiuse la porta alle loro spalle e si avviò verso il bagno, “accomodati sul divano, torno subito!”

 

Ignorò le proteste della micia, la mise nella sua cuccetta, dicendole “ma che ti prende, mo? Mancini è un ospite e si è fatto male, ed è il mio capo.”

 

Ma Ottavia fece un altro soffio e la guardò in modo incazzoso.

 

“Va beh, ho capito, non ti va proprio a genio…” sospirò, aprendo l’armadietto con le cose di primo soccorso ed estraendone una busta di ghiaccio secco, una pomata per i lividi, bende, garze, disinfettante e cotone.

 

Le venne un poco di magone perché di solito quelle cose le usava lui.

 

Si avviò verso la sala, chiudendo la porta del bagno alle sue spalle, e trovò Mancini sul divano, che si guardava intorno toccandosi la guancia.

 

“Bella casa! Ora che la posso vedere con più calma!” si complimentò lui, con lo sguardo puntato verso la statua di un leopardo.

 

“Grazie per la bugia,” ironizzò Imma, sedendoglisi vicino ed armeggiando con cotone e disinfettante.

 

“No, dico davvero. Si vede che è tua: c’è il tuo tocco in ogni cosa.”

 

Un’altra fitta di magone, perché non c’era solo il suo di tocco in ogni cosa, anzi, ma la ignorò e poggiò il cotone sulla guancia di Mancini, dove aveva l’abrasione principale, e lui fece un mezzo salto.

 

“Per fortuna la ferita non è particolarmente profonda, qualche giorno e penso non si vedrà più. Il livido invece…” sospirò, dopo aver finito con garza e cerotto, dando un pugno al ghiaccio secco, prima di porgerglielo, “ora ti metto una pomata apposita, ma devi tenere il ghiaccio il più possibile, con le dovute pause.”

 

“Lo so. Qualche… qualche momento di azione l’ho avuto pure io nella mia carriera ed in gioventù. Certo, a quest’età non pensavo più mi sarebbe servito.”

 

Provò a mettergli la pomata sulla guancia e lui fece una specie di mugolio di dolore e poi lo vide mordersi le labbra, probabilmente per non lamentarsi.

 

“E mo, il ghiaccio,” ordinò, prendendo la borsa per piazzargliela sulla guancia, ma si trovò con la mano afferrata in quella di Mancini, che ancora teneva il ghiaccio, e poi incastrata tra la borsa del ghiaccio e la mano di lui, sulla sua guancia.

 

Si sentiva in forte imbarazzo e non sapeva come uscirne - non era per quello che lo aveva invitato a salire, anzi -, quando Mancini piantò un urlo e mollò mano e ghiaccio.

 

Si alzò dal divano, spaventata, e lo vide afferrarsi il polpaccio, guardando verso il pavimento.

 

Notò due cose allo stesso tempo: la gamba del pantalone, che nella parte finale pareva fatta di stelle filanti, ed un filo rosso appena sotto.

 

E poi un fischio fortissimo: Ottavia, che stava sul piede di Mancini, ancora a terra, e fischiava.


E poi… una pozza gialla che si allargava sotto di lei e sopra, sotto e probabilmente dentro la costosissima scarpa di pelle del procuratore capo.

 

Vide Ottavia risfoderare gli artigli e prepararsi al salto, e si chinò appena in tempo per intercettarla, prima che... altro che il polpaccio… a finire sfilettato fosse ben altro.

 

“Ottà! Buona! Buona! Ma che è! Sta calma!” cercò di trattenerla, ma mica era facile, e per poco non si beccò un’artigliata pure lei.

 

“Forse… forse è meglio che vado…” disse Mancini, che parve improvvisamente terrorizzato, “che la sua micia… altro che qualche momento di azione! Potrebbero usarla al posto dei cani poliziotto. Di sicuro è un’ottima guardia del corpo.”

 

Da un lato era mortificata e temeva la reazione di Mancini. Dall’altro però… Ottavia le aveva levato le castagne dal fuoco, ma fin troppo.

 

“Dottore… mi dispiace… disinfetti almeno il polpaccio, mentre la tengo ferma. E se vuole… qualche paio di scarpe da ginnastica dovrei avercelo, numero 46.”

 

“Troppo grande per me,” rispose Mancini con un sospiro, prima di darsi giusto una rapida disinfettata ed alzarsi, “non si preoccupi: tengo sempre un cambio nel bagagliaio, per ogni evenienza.”

 

Imma sospirò di rimando ed annuì, continuando a tenere ferma la piccola palla di pelo soffiante.

 

“Allora ci vediamo domani, dottoressa.”


“Mi dispiace ancora, dottore e… per quanto riguarda… quello…” disse, indicandogli con un cenno l’occhio, dove lui ancora teneva il ghiaccio.


“Non si preoccupi, non sporgerò denuncia contro al maresciallo. Non mi è mai piaciuto sparare sulla Croce Rossa. Però lei stia attenta, dottoressa, non si metta in pericolo, mi raccomando! A domani!”

 

E, con un ultimo sguardo ed un ultimo soffio di Ottavia di risposta, Mancini uscì dalla porta principale. In quel momento, Ottavia si sgonfiò proprio visibilmente, fece un’espressione soddisfatta che manco quando le metteva davanti la sua scatoletta preferita, quella carissima al salmone, e le si voltò in braccio, leccandole il polso e facendo le fusa.

 

“Seee… le fusa mo. Ma che t’è preso? Quello è il mio capo, Ottà, ancora un po’ e mi fai licenziare.”

 

Ma Ottavia continuò a leccarle la mano, e si rese conto che era quella che aveva trattenuto Mancini e che Ottavia la stava pulendo.

 

“Ho capito: ti sta proprio antipatico, eh?” le chiese, con un mezzo sorriso, ed Ottavia la guardò in un modo, come a dire ma ovvio!

 

Qualcuno sarebbe stato orgoglioso di lei, molto.

 

E, come il pensiero tornò a lui, le venne una fitta al petto: chissà come stava… Mancini l’aveva preso alla pancia ma… ma Calogiuri era forte, muscoloso, aveva visto di peggio.

 

Ma ciò non toglieva nulla alla preoccupazione, anzi, e poi… e poi quello che le aveva detto… come glielo aveva detto. Non solo la delusione, e poi la rabbia, il modo in cui aveva tirato fuori il carattere, con quella decisione che l’aveva fatta innamorare di lui, insieme alla dolcezza e alla timidezza. Ma, soprattutto… le era sembrato così maledettamente sincero!

 

Mentre Ottavia si spostava dalla mano, arrampicandosi per farle le fusa sul collo, un qualcosa in lei si smosse, sentendo l’urgenza, anzi no, la necessità assoluta, di trovare Calogiuri, di parlargli.

 

Ma chissà dove stava mo.

 

Si risedette sul divano, lontano dalla pozza di urina che avrebbe dovuto pulire - menomale che avevano le piastrelle e non il parquet! - estrasse il cellulare dalla tasca del cappotto, andò sulla rubrica e sbloccò Calogiuri.

 

Provò a chiamare, ma finì direttamente in segreteria, una, due, tre volte.

 

Provò a mandargli un messaggio e scoprì di essere stata bloccata pure lei.

 

Calogiuri non lo aveva mai fatto, mai, neanche quando era incazzosissimo per Lolita o per Milano.

 

Doveva proprio essere furente.

 

Ma doveva parlargli, assolutamente. E quindi fece scorrere i contatti in rubrica fino alla M.

 

“Mariani? Mi scusi per il disturbo a quest’ora ma… lei sa dove si trova Calogiuri?”

 

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Sentì come qualcosa rimbombargli nel cranio.

 

Prese un’altra sorsata di vodka, orribile, il gusto gli faceva schifo, ma almeno soffocava il dolore alla pancia, e soprattutto al cuore, sotto al bruciore alla gola ed allo stomaco.

 

La testa gli scoppiava, ma non gli importava, non gli importava più di niente.

 

E poi, di nuovo, come un qualcosa che gli bussava nel cranio.


“Ca… ri!”

 

Udì una voce prima lontana, poi più vicina, poi lancinante, un “Calogiuri!” che quasi gli perforò il cranio.


Capì che a venire bussato non era il suo cranio, ma la porta.

 

Provò a tirarsi in piedi, ma non era facile, per niente, la stanza che sembrava ballargli tutto intorno.

 

“Calogiuri!”

 

Un altro grido da trapanargli il cervello.

 

“A- aivo!” provò a dire, ma la bocca era impastatissima, nonostante tutto quello che aveva bevuto.

 

Con mano tremante, girò la chiave, spalancò la porta e se la trovò davanti, bella come sempre, i capelli rosso fuoco ed un vestitino tigrato.

 

“I- Imma?”

 

“Ma che ti sei bevuto? Puzzi d’alcol da morire! Va bene che l’abbigliamento potrebbe essere pure azzeccato - se Imma avesse deciso di cambiare mestiere, però. Dai, fammi entrare!”

 

“I- rene?” realizzò improvvisamente e sì, la voce, anche se rimbombata ottocento volte, non era quella roca di lei.

 

Del resto, perché avrebbe dovuto stare lì? Come minimo era a godersi la serata con quello.

 

Cercò di farla passare ma per poco non cascò di faccia sul pavimento.

 

Si sentì afferrare e poi mettere di peso su qualcosa di morbido - il letto.

 

“Ma quanto ti sei bevuto? Ma che è successo per ridurti così? Se è per le indagini non-”

 

“Ma che me ne f- fega delle in- indagini. Non c’ho più niente, niente!”

 

“Ma non è vero. Io e Ranieri stiamo lavorando per tirarti fuori e-”


“Ma lei no!” gridò, facendosi male da solo, perché gli parve che una mandria di cavalli impazziti gli galoppasse nella testa.

 

“Imma?”

 

“L’ho vis- ta con… con quel maiale!”

 

“Quel maiale?” gli chiese, e si sentì prendere per una spalla, “ma chi? Mancini? I giornali si inventano le cose, lo sai. La sta solo riportando a casa e-”

 

“Ma oggi stavano per entrare... a casa, insieme, e… e lei gli dava del tu e… e non mi crede e… e lui mi ha spinto, ma io l’ho picchiato, solo che poi-”

 

“Frena, frena! Tu hai picchiato Mancini?” gli domandò, e riusciva a percepire pure nella nebbia il suo tono preoccupato.

 

“Un bel destro, sì, che erano anni che lo volevo fare! Ma poi lui e lei-”

 

Gli venne come una fitta allo stomaco, che lo fece piegare in due, il fiato che gli si levò completamente.

 

E poi un bruciore fortissimo, caldo e freddo e-

 

“Ma che c’hai allo stomaco? Sei tutto blu!”

 

“L’amico tuo…” rise, cosa che gli fece ancora più male, ma ormai non gli importava di niente, “e lei… lei ancora non mi crede, non mi crederà mai. Io me ne sono andato e… non mi ha seguito, è rimasta con lui. Di me non gliene frega niente, niente!”

 

“Calogiuri…” l’ennesimo rimbombo, mentre si sentiva prendere per le spalle, “non so quanto hai bevuto ma ti porto da un medico, subito.”

 

“Non mi serve un medico… tanto sono già morto e-”

 

Stavolta il cranio gli rimbombò ma perché la faccia gli si girò dall’altra parte: Irene gli aveva tirato uno schiaffo.


“Non lo dire nemmeno per scherzo! Non ti puoi ridurre così! Sei giovane, c’hai una vita davanti! Sai quante ne troverai ancora, se pure Imma non ti vuole?”

 

Non avrebbe saputo perché, ma gli veniva da piangere. Ed infatti scoppiò in singhiozzi, che gli causarono ulteriori fitte.

 

“Ti ho fatto male?” la sentì chiedergli, preoccupata, dita sulla guancia che un poco gli pulsava e si trovò occhi negli occhi con lei, a pochi centimetri.

 

“No, anzi. Tu… tu sei l’unica che… che mi vuole bene, che mi crede!” esclamò, mentre il peso di quella realizzazione gli esplose dentro.

 

“Calogiuri…” la sentì sospirare con un sorriso intenerito, quegli occhi che lo guardavano non schifati, ma come se fosse qualcosa di importante, di bello, mentre gli accarezzava ancora la guancia, “non-”

 

Non avrebbe mai saputo cosa stesse per dire, perché, d’istinto, le afferrò a sua volta le guance e, dopo aver scontrato il naso con il suo - che vedeva ancora tutto un po’ storto - le tappò la bocca con un bacio.

 

Cercò di baciarla con tutta la rabbia, il dolore, l’affetto che provava, ma la sentì rimanere immobile, anche quando provò ad approfondire il bacio.

 

E poi gli apparve davanti il viso di lei che gli diceva che aveva ragione su di lui, che era un traditore, inaffidabile.

 

Gli salì un conato fortissimo, spinse via Irene, si voltò verso il pavimento, afferrò appena in tempo il cestino dell’immondizia e vomitò fuori pure l’anima, mentre piangeva dal dolore, non solo fisico.

 

I conati a secco, che gli fecero malissimo ai lividi, e poi sentì una mano sulla spalla ed un qualcosa di fresco e profumato sul viso.

 

“Menomale che c’ho sempre dietro le salviette per quando Bianca non sta bene,” gli sospirò nell’orecchio e si voltò verso Irene, che lo guardava preoccupata, mentre estraeva un’altra salvietta dalla borsa, “poi pensiamo ad andare in bagno a pulire sto casino. Bene che hai vomitato, ma meglio che non ti alzi per un po’.”


“S- scusami, io… non so che mi è preso e… vorrei solo dimenticarla ma… ma non ci riesco, proprio fisicamente non ci riesco, e lei invece pensa che-”

 

“Lo so, non mi devi spiegare niente,” lo rassicurò, mentre gli passava la salvietta pulita, “io… se uno mi piace non mi faccio problemi ad andarci a letto, ma a te ci tengo davvero e non voglio rovinare il nostro rapporto, e soprattutto non voglio che tu faccia scemenze di cui poi ti pentirai. E non soltanto con me.”

 

Gli venne di nuovo da piangere e poi un altro conato di vomito e le mani di Irene che gli reggevano le spalle mentre vomitava bile ed acqua nel cestino.

 

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“Ah signò, ma è proprio sicura che è qua che deve venire? Perché… là dentro ce sta de tutto, a quest’ora poi… meglio che nun ne parlamo proprio!”

 

Guardò a bocca spalancata l’edificio squallido e fatiscente dell’hotel che Mariani aveva trovato, grazie ad una ricerca incrociata di posizioni di cellulari e di utilizzo di carta di credito che non aveva capito come funzionasse, e che quasi sicuramente non era legale, ma non era il momento di preoccuparsi di quello.

 

Ma che ci fai qua, Calogiù? - si chiese, sconvolta: quello era uno di quegli alberghetti frequentati soprattutto da professioniste e dai loro clienti.

 

“Signò, che volete fare? Stiamo ancora a tempo per andare da n’altra parte e-”

 

“No! Va benissimo, scendo qua. Mi dica quanto le devo, naturalmente con regolare ricevuta fiscale.”

 

Il tassista sbuffò ma alla fine le staccò il foglietto e lei gli diede i soldi della corsa.

 

Uscì rapidamente dal taxi e si avviò quasi di corsa verso l’hotel.

 

Andò alla reception e chiese di Calogiuri. Il tizio la guardò interrogativo.

 

“Un… un bel ragazzo sulla trentina. Alto, moro, occhi azzurri. Dovrebbe stare qua da pochi giorni.”

 

“Aaah, sì, mo ho capito! Certo che ci dà proprio dentro il ragazzo!” esclamò poi, guardandola dall’alto in basso, dicendole con un sorrisetto, “secondo piano, stanza 247.”

 

Avrebbe voluto chiedergli che volesse dire, ma il modo in cui la guardava la metteva a disagio. Quindi non perse tempo e si avviò al secondo piano, usando le scale che, in un posto del genere, erano indubbiamente più sicure dell’ascensore.

 

Se l’hotel le era sembrato squallido da fuori, dentro era pure peggio: moquette scrostata e macchiata, muffa visibile in diversi punti.

 

Che ci fai in un hotel così, Calogiù? - si chiese, rendendosi però anche conto che non potesse permettersi un hotel di fascia buona per tanti giorni.

 

Ma avrebbe potuto almeno andare in un residence, che, per quanto triste, lo sarebbe stato sicuramente meno di quel posto.

 

Contò i numeri delle camere e stava per arrivare alla 247, quando vide una porta spalancarsi. Si nascose di riflesso dietro ad un angolo del corridoio, dato l’orario - erano le quattro del mattino - ed in quel momento tre cose le balzarono agli occhi.

 

La porta che si era aperta era proprio quella della 247. Chi ne era uscito però non era Calogiuri, ma una che sembrava fare il mestiere più antico del mondo, con una parrucca rossa ed un vestitino tigrato, talmente corto ed attillato che sarebbe stato troppo pure per lei, più una pelliccia rosa che le ricordò Lolita.

 

Per un attimo, assurdamente, pensò fosse lei, ma la donna si voltò abbastanza da riconoscerne il volto.

 

La Cara Irene.

 

Che, evidentemente, di notte usava un guardaroba molto diverso che di giorno.

 

“S- sei sicura di poter tornare da sola?” udì la voce di Calogiuri chiederle, anche se era coperto dall’anta della porta.

 

“Sì, non ti preoccupare. Tu ora fatti una doccia e cerca di riposarti, che dopo stanotte… ne avrai bisogno,” rispose lei, facendogli l’occhiolino.

 

Vide due mani, terribilmente familiari, allungarsi verso le spalle di lei e trascinare Irene oltre il legno sbeccato della porta.

 

Rimase per un attimo impietrita, come se il cervello non volesse rielaborare quelle informazioni, che gli occhi e le orecchie le inviavano in modo inequivocabile.

 

Bastardo! - fu il primo pensiero.

 

Scema, cretina, deficiente! - fu il secondo.


Come aveva potuto essere così idiota da credergli ancora, da lasciarsi convincere da due occhioni blu e dalle solite parole al vento?

 

E lei che si era sentita in colpa anche solo a far entrare Mancini in casa, mentre lui… prima le faceva le scenate di gelosia e poi… si consolava, altroché se si consolava!

 

Scema lei ad essersi preoccupata!

 

Ma non sarebbe più successo, mai più!

 

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“Signorina Fusco! Dove pensa di andare?!”


“A… a casa, dottoressa… sono le diciotto passate.”

 

“Saranno pure le diciotto passate, ma lei il fascicolo sul caso Angelucci non me l’ha aggiornato come le avevo chiesto!”

 

“Ho quasi finito, dottoressa, ma terminerò domattina. Ora devo proprio andare: avrei un appuntamento e-”

 

“E gli appuntamenti li può prendere pure più tardi, che questo è il suo lavoro, non un hobby, per cui viene retribuita coi soldi dei contribuenti! E, se deve uscire con un uomo, dovrebbe concordare un orario consono a non intralciare le sue funzioni!”

 

Era nera, nera! E dire che Asia ultimamente qualche punto lo aveva guadagnato, ma restava una lavativa.

 

“Veramente… ho appuntamento dal dentista. Mi sono già fatta dare l’orario più tardi possibile, per non intralciare le mie funzioni, ma non posso certo farlo lavorare di notte per me. Ed ora vado, a domani!”

 

Rimase a bocca aperta, vedendola uscire dall’ufficio, i tacchi che sbattevano sul pavimento quasi peggio dei suoi.

 

Si lasciò cadere sulla sedia.

 

In effetti negli ultimi giorni forse aveva un po’ esagerato, e non solo con Asia, ma… la rabbia non la mollava mai, e a sentire parlare di appuntamenti galanti, poi….

 

Per fortuna non aveva ancora incrociato la gattamorta, che era sempre in giro ultimamente, e chissà come mai….

 

Il rumore secco di nocche sul legno.

 

Non sapeva chi fosse il malcapitato o la malcapitata, ma marcava proprio male, malissimo.

 

“Avanti!!!”

 

“Dottoressa, buonasera.”

 

Mancini. Con il suo solito sorriso gentile, nonostante mezza faccia fosse ancora tra il blu ed il verde.

 

Aveva raccontato a tutti di un incidente a tennis con il lanciapalle, ma dubitava in molti ci avessero creduto.

 

“Le andrebbe un passaggio? Mariani è fuori con Santoro, e quindi….”

 

Pareva un poco timoroso, forse visto quello che era successo l’ultima volta con Ottavia.

 

“Il polpaccio si è ripreso, dottore?” gli chiese, in fondo in fondo intenerita.

 

“Abbastanza. L’orgoglio un poco meno. Ha una vera tigre in casa, altro che le statue in ceramica!”

 

“Eh lo so….”

 

“Se ha preso da lei la combattività, non mi stupisce.”

 

“E le scarpe?” gli chiese, ignorando il complimento, anche se ovviamente le faceva molto piacere.

 

“Temo quelle siano irrecuperabili. Ma non si preoccupi, per fortuna ne ho parecchie paia ancora integre. Allora, posso accompagnarti?”

 

Il passaggio al tu la coglieva sempre di sorpresa.

 

Da un lato temeva per lui e Ottavia ma… perché no? Perché avrebbe dovuto dirgli di no, dopo tutto quello che combinava qualcun altro?

 

“Va bene. Dammi due minuti, che spengo e arrivo.”

 

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“Senti… non voglio insistere ma… che ne diresti di andare a mangiare da qualche parte?”

 

Erano quasi sotto casa, quando Mancini le aveva fatto la fatidica domanda.

 

L’istinto le diceva di dire di no. Qualcos’altro, che le bruciava la gola e il petto, le diceva che non c’era motivo di non rispondere sì.

 

E per cosa? Per chi?

 

Per qualcuno che solo una lezione si sarebbe meritato e pure bella grossa!

 

“Per me va bene,” acconsentì quindi, zittendo la parte di lei che protestava, “ma… visto che i fotografi sono sempre in agguato… perché non sali? Ti preparo qualcosa.”

 

Mancini spalancò la bocca, chiaramente preso in contropiede.

 

Del resto, non se lo aspettava manco lei fino a pochi minuti prima.

 

“Che… che ne dici se andassimo a casa mia?” propose lui, in un modo che le fece venire da ridere.


“Paura degli artigli di Ottavia?”

 

“Non solo, ma è che… magari da me saresti più a tuo agio, no?”

 

Doveva riconoscergli che aveva ragione, ed apprezzò molto la sensibilità del gesto.


“Va… va bene.”

 

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“Com’è il sushi?”

 

“Sempre buonissimo,” si complimentò, anche se la verità era che… rispetto a quello mangiato in Giappone, non c’era paragone proprio.

 

Ma non poteva certo dirglielo e non voleva più pensare a qualcuno.

 

“Un altro po’ di champagne?” propose poi lui e lei sorrise ed annuì, bevendosi il calice quasi di un sorso, che ne aveva proprio bisogno.

 

“Allora… che mi racconti? E non di lavoro. Tua figlia, come sta? Tutto bene?”

 

Imma si stupì della scelta di argomento.

 

“Valentina sta bene, grazie, anche se… ultimamente è un po’ triste perché le manca la sua fidanzata, che è molto impegnata con l’accademia a Milano. Tu?”

 

“Le solite cose… sveglia presto, corsa mattutina, lavoro, cena… anche se almeno ultimamente in ottima compagnia,” le rispose, facendole uno sguardo che chissà quante donne aveva steso. Letteralmente.

 

Mancini continuò a parlare di politica, di alcune sue esperienze lavorative, dei luoghi in cui aveva vissuto, tra un gunkan, un nigiri, un uramaki e molto champagne prima, e dopo con un passito a dir poco delizioso, gustato sul divano con degli ottimi biscotti fatti in casa. Imma non potè che rimanerne impressionata.

 

Aveva proprio tutto, mannaggia a lui, tutto: era bello, ricco, colto, affascinante, generoso, intraprendente, interessante.

 

L’uomo perfetto.

 

Fisicamente non le dispiaceva affatto, anzi, era inutile negarlo - del resto a chi non sarebbe piaciuto? - e… e doveva buttarsi tutto alle spalle, soprattutto qualcuno.

 

Lo vide sporgersi verso di lei, toccandole il braccio, mentre faceva una battuta su come, “il passito dà a questi semplici biscotti al burro tutto un altro sapore. Mi ricorda molto te e… non soltanto per il colore ambrato.”

 

“Ah no? Ah, giusto: perché è maturo fino quasi al limite del marcire!” si schernì, un poco imbarazzata, anche se ovviamente tutti quei complimenti le facevano piacere, “ma è troppo dolce per assomigliarmi.”

 

“Ma tu sei dolce, in fondo, in fondo. E poi è maturo, sì, corposo,” le sussurrò, e si sentì accarezzare il braccio da cima a fondo con due dita, “ed infatti fa girare la testa, proprio come te!”

 

E pure a lei stava un po’ girando la testa: non sapeva se per tutto l’alcol o se perché Mancini era così vicino da sentirne il respiro e… ci sapeva proprio fare!

 

Il braccio le pizzicava piacevolmente.

 

Perché no? - si chiese di nuovo, e non trovò una risposta.

 

E quindi chiuse gli occhi, allungò la mano per tenergli la guancia buona e poi il collo, fino a catturare quelle labbra ancora semi aperte con le sue.

 

Sentì l’esclamazione di sorpresa fino in bocca, e poi un mugolio di dolore. Aprì gli occhi per guardarlo, preoccupata, e vide che gli occhiali nuovi gli erano finiti contro la zona mezza tumefatta del volto.

 

Stava per chiedergli se gli avesse fatto male, quando Mancini si staccò leggermente, levò gli occhiali in un unico gesto, buttandoli sul tavolino, e poi si trovò travolta da un altro bacio, stavolta vero, verissimo.

 

Cercò di staccare i pensieri e di perdercisi dentro, e non le fu difficile, perché… il procuratore capo ci sapeva fare pure in quello. Sapeva esattamente come muoversi, quando e come toccare, sfiorare, accarezzare.


Tanto che si trovò con le mani di lui sotto il maglione e le sue che gli slacciavano giacca e camicia, senza quasi rendersene conto, persa in quelle sensazioni piacevoli e nella nebbia da cui si sentiva avvolta.

 

Prese un forte respiro quando la bocca abbandonò la sua, soltanto per iniziare a tormentarle il collo, giù, sempre più giù, le mani sotto al maglione che invece salivano sempre più su.


E poteva forse lei starsene con le mani in mano? No! Gli levò la cravatta e gli aprì del tutto la camicia, scoprendo la muscolatura da atleta, sebbene la pelle morbida tradisse gli anni e non fosse soda come quella di-

 

Un pensiero improvviso, mentre labbra e mani smettevano di solleticarle la pelle, per farle passare il maglione sopra alla testa.

 

Freddo e brividi, quando dita abili ed esperte le si infilarono sotto al laccio del reggiseno, sganciandoglielo in un’unica mossa.

 

Ma non erano brividi di piacere, anzi: si sentì nuda e corse a tenere ferme le coppe con le mani, rendendosi improvvisamente conto del tutto di quello che stava facendo.

 

E, mentre una mano ancora teneva il reggiseno, l’altra spinse indietro sul petto di Mancini, forte, mentre urlava un “no!”

 

Mancini finì di schiena sul divano - la camicia slacciata ed uno sguardo prima stupito e poi preoccupato.

 

“No,” ripetè lei, allacciandosi il reggiseno e coprendosi come poteva col tessuto del maglione, “mi dispiace, ma… ma non ce la faccio!”

 

Vide il dolore e lo spavento sul viso di Mancini, ancora prima di notare pure altro… un po’ più in basso e... quanto era stata vicina a… e, anche se non sapeva del tutto perché, scoppiò a piangere.


“Imma, io… io non volevo… mi dispiace, io…” balbettò lui, mentre si sentì coprire le spalle e realizzò che era la giacca di Mancini, “credimi, io non-”

 

“No, dottore, è… è pure colpa mia, ma… non ci riesco…. Fisicamente mi piaci ma… resto innamorata di quel cretino e... non ce la faccio.”

 

“Ho sbagliato anch’io… forse ho accelerato troppo le cose… dovevo darti più tempo, ma... è che… non è facile resisterti, per niente!” le disse in un modo che, nonostante tutto, le strappò un sorriso, “ma posso darti tutto il tempo che ti serve e-”

 

“Temo che ne servirà troppo, veramente troppo.”

 

“Non ti devi preoccupare. Se… se vuoi usare il bagno e… e poi ti riaccompagno a casa, che ormai è tardi per i taxi.”

 

Annuì e non perse tempo ad alzarsi dal divano, quasi correndo fino in bagno, ansiosa di levarsi da lì e da quella situazione che si era fatta insopportabile.


Nota dell’autrice: Ed eccoci alla fine di questo capitolo, che è stato tostissimo da scrivere, veramente. Imma e Calogiuri hanno provato a lasciarsi tutto alle spalle, spinti dalla rabbia, ma… non ci sono riusciti, solo che pensano che l’altro li abbia traditi. Riusciranno a chiarire tutti i malintesi che si sono accumulati? Prometto che questo è stato l’ultimo capitolo più duro, dal prossimo le cose cominceranno pian piano a tornare più serene, anche se Imma e Calogiuri hanno ancora molti scogli da superare, ma chissà che non possano arrivare a farlo insieme.

Vi ringrazio per avermi seguita fin qui, quasi non posso credere che il prossimo capitolo sarà il numero sessanta, e spero che la storia continui ad appassionarvi e ad intrattenervi, oltre a risultare credibile.

Ringrazio di cuore chi mi ha lasciato una recensione, che mi fanno sempre molto piacere e sono fondamentali per capire come va la scrittura ed il vostro gradimento o meno della storia.

Un grazie anche a chi ha messo la mia storia nei preferiti o nei seguiti.

Il prossimo capitolo arriverà in teoria domenica 9 maggio. In caso di ritardi sarà mia premura avvisarvi, come già fatto domenica, alla mia pagina autore.

Grazie mille ancora!

 
   
 
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