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Autore: Saelde_und_Ehre    21/05/2021    5 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XXII.
Meine Ehre heißt Treue


Se la sua vita fosse esplosa come quell’obice, disintegrandosi in una miriade di frammenti luminosi, avrebbe cancellato anche il passato, il presente e quel futuro che non ci sarebbe più stato. La pira funebre era il crepuscolo dei suoi sogni e dei suoi ideali, mentre il mondo indifferente andava avanti senza di lui.
Friedrich si rialzò, ripulendosi con un gesto sommario: aveva l’uniforme sporca di mota, rovinata sui gomiti dove i sassi gli avevano grattato anche la pelle, ma il suo corpo pareva insensibile a ogni forma di dolore. Sollevò una mano per comunicare ai soldati che stava bene e allontanò da sé chiunque mostrasse preoccupazione.
La nebbia sollevata dall’esplosione si stava diradando e, insieme a essa, anche quella che opprimeva la sua mente. I contorni dello scenario, che si facevano via via più nitidi ai suoi occhi, apparivano invariati, in una scala di grigi: la foresta era un’informe massa scura e intricata; il villaggio si stagliava contro il cielo plumbeo come una schiera irregolare di edifici sventrati dalle bombe.
La pistola, sgusciatagli dalla mano, era rotolata nel fango; von Kleist la raccolse e la ripulì come se fosse un cimelio prezioso, quindi iniziò a percorrere avanti e indietro lo schieramento. I fucilieri, sistemati in fila ordinata sull’orlo di quello che, più che una trincea, era un fosso protetto da sacchi di sabbia, si limitarono a rivolgergli un rispettoso saluto, mentre il chiacchiericcio di Hanke e Schreiber, che avevano ormai il loro posto fisso alla mitragliatrice di nome Erika, fu interrotto da una sua occhiataccia.
Un portaordini lo raggiunse di corsa, recando l’ordine di avanzare.
“Tenetevi pronti,” ordinò. “Fuoco a volontà!”
La sparatoria riprese con ancora maggiore veemenza, in un frastuono di rumori dissonanti che non era mai del tutto cessato. Friedrich ordinò l’assalto e i fanti eruppero dalla trincea, strisciando con gomiti e ginocchia nel fango melmoso, soffocando imprecazioni tra i denti quando il filo spinato s’impigliava tra i vestiti e li strappava. Le raffiche fischiavano e sibilavano sopra le loro teste, una pallottola rimbalzò tintinnando contro l’elmetto del capitano. Un soldato fu colpito e finì a faccia in giù nel pantano, dove ristette immobile; von Kleist individuò il mitragliere e lo abbatté con un colpo di pistola, poi si risollevò e si mise a correre schivando le grandinate di proiettili, imitato dai suoi uomini.
Invasero la postazione polacca come un’ondata di marea, mentre l’artiglieria tagliava la loro ritirata per impedire che si ricongiungessero al resto dello schieramento asserragliato alle porte di Grabnik. Assaltarono le mitragliatrici, occuparono le postazioni e fecero i primi prigionieri. Si scatenò una mischia furiosa in cui i polacchi furono costretti a combattere con baionette, vanghe da trincea e armi da fuoco, simili a una muta di cani che si difendeva abbaiando contro il branco di lupi che scopriva le zanne già sporche di sangue.
Mentre l’odore del fumo, delle ferite e della polvere da sparo s’addensava nell’aria umida, iniziò a cadere dal cielo una pioggerellina che trasformò la trincea in una palude scivolosa.
Due fanti alzarono le mani e si consegnarono al capitano; un terzo, ferito, implorò pietà col volto rigato di lacrime. A Friedrich riuscì difficile non provare compassione dinanzi alla sofferenza di quel ragazzino, ma una voce interiore lo avvertì della trappola prima ancora che un boato lacerante, terribilmente vicino al suo orecchio, lo facesse sobbalzare.
I soldati che lo accompagnavano, uomini che lui non aveva mai visto prima, si fecero subito avanti per proteggerlo; von Kleist si guardò intorno febbrilmente, rimpiangendo di non avere con sé il suo MP38; sparò due colpi in rapida successione che per un attimo disorientarono i nemici, poi la sua pistola emise un rumore sordo.
Uno dei suoi compagni, rimasto ferito a una spalla, gemette di dolore; un altro giaceva esanime al suolo con l’elmetto sfondato. Friedrich deglutì col cuore in gola: erano rimasti in quattro contro almeno il doppio dei polacchi, e lui aveva finito i colpi.
“Copritemi!” urlò, la sua voce coperta dalle detonazioni dei fucili Mauser. Con le mani umide di sudore, fango e pioggia inserì un altro caricatore, ordinando a chiunque fosse in ascolto di mandare a chiamare il sottotenente Kühn.
Un soldato imprecò; altri rinforzi giunsero dalla parte avversaria, costringendoli ad arretrare. Si ritrovò isolato, e la canna di un fucile gli si premette contro la schiena. “Dalej,” gli ingiunse una voce aspra, mentre un braccio lo strattonava di malagrazia. “Venga con noi, capitano.”
Von Kleist vide i suoi uomini, spaventati e zuppi di pioggia, che esitavano di fronte ai fucili puntati degli avversari, in attesa di un suo ordine: arrendersi o combattere? Era meglio morire come topi in trappola o rassegnarsi alla prigionia, pur di aver salva la vita? L’unica certezza che aveva era che non avrebbe accettato che altri si sacrificassero per lui.
Decise di guadagnare tempo, consapevole che presto le sorti si sarebbero ribaltate a loro favore. Notò che si trovavano a ridosso del fianco della trincea, vicino a un tunnel mezzo crollato che conduceva verso il cuore dello schieramento polacco. Il bordo della fossa, che lo sovrastava di almeno un braccio, culminava con una pila di sacchi di sabbia e un giro di filo spinato.
“Signor capitano…” lo supplicò uno dei soldati.
L’unica alternativa che gli restava era tentare un diversivo. “Abbiate fiducia in me,” li rassicurò. “Non opponete resistenza, presto verranno i nostri a liberarvi.”
Si divincolò con uno strattone e una spallata, spiccò un balzo col quale si aggrappò al bordo della trincea. Giunto sulla sommità si graffiò col filo spinato, ma non vi badò: con un calcio rovesciò i sacchi di sabbia addosso ai suoi inseguitori e si lanciò a rotta di collo attraverso la foresta che costeggiava il campo di battaglia.
Come aveva previsto, buona parte dei polacchi lo braccò: sentiva lo scalpiccio dei loro stivali che, come i suoi, sgusciavano e sciaguattavano nel terreno impregnato d’acqua.
“Fermo!” Un fucile sparò come ammonimento, ma Friedrich non si fermò. Curvò bruscamente, zigzagando tra alberi e cespugli, diretto verso la terra di nessuno conquistata dai tedeschi.
La pioggia continuava a scrosciare, avvolgendo la foresta in una cappa umida e opprimente.
Un’altra pallottola agitò le fronde degli alberi sopra di lui, facendogli schizzare addosso goccioline d’acqua e foglie morte, un altro avvertimento riecheggiò invano. La terza pallottola lo indusse ad abbassarsi e si piantò in un tronco a pochi centimetri da lui. Ansante, il capitano si riparò dietro di esso e rispose al fuoco.
Due fanti stramazzarono a terra, una raffica di mitra fendette il velo d’acqua che sgocciolava dai rami. Von Kleist, nonostante i sensi annebbiati, avvertì una sferzata di dolore alla coscia, abbassò lo sguardo e notò che la stoffa dei pantaloni si stava inzuppando di un alone purpureo.
Strinse i denti, appoggiando la schiena al vecchio albero.
Ancora urla in polacco, un altro colpo.
Friedrich esitò: a quel punto i suoi uomini dovevano essere fuori pericolo, e a lui non restava altro che raggiungerli o soccombere nel tentativo di farlo. Non si sarebbe lasciato prendere vivo. Puntò la pistola e sparò un colpo, che la sua presa imprecisa mandò a vuoto.
Soffocando un’imprecazione, si staccò dall’albero e riprese a correre più veloce, sordo al dolore e agli ammonimenti. Corse per un tempo indefinito, fin quando non intravide, tra la nebbia e le cateratte di pioggia, le postazioni tedesche.
Si diede un ultimo slancio, quasi senza toccare terra coi piedi. Sbatté le ciglia imperlate di gocce cercando di scacciare l’oscurità che gli offuscava la vista: i contorni delle cose si fecero sempre più sfumati, indefiniti, il velo d’acqua si confuse con gli alberi e il terreno irto di radici; mise un piede in fallo e finì lungo disteso in una pozza melmosa.
Quando rialzò la testa, ancora frastornato, coi gomiti affondati nel pantano, i polacchi si erano chiusi a cerchio intorno a lui come un branco di lupi. Di fronte a sé, mentre la vista riacquisiva chiarezza, mise a fuoco la canna di una pistola spianata.
D’istinto puntò la propria, come in quei duelli tra cowboy che si vedevano nei film americani, ma esitò prima di premere il grilletto.
“Su le mani, senza fare scherzi,” gli intimò una voce.
Nel volto di chi gli puntava contro quell’arma, riconobbe il tenente con cui si era scontrato qualche settimana prima, in un’altra foresta. I ruoli si erano invertiti: adesso era l’aquila polacca a ghermire quella teutonica. Sembrava passata un’eternità…
Anche l’altro doveva averlo riconosciuto, perché i suoi occhi verdi furono attraversati da un guizzo di sorpresa. “Lei… HerrHauptmann?” azzardò, nel suo tedesco approssimativo.
“Guarda chi si rivede,” replicò von Kleist, in polacco.
“Getti la pistola e si arrenda. Non ho intenzione di farle del male.”
Von Kleist scrollò il capo in segno di diniego, e il braccio armato del tenente tremò mentre lo sguardo saettava dal suo volto alla sua arma, come a volergli chiedere “perché?”.
“Prendetelo,” ordinò infine, abbassando la pistola con esasperante lentezza.
Friedrich strinse la Luger fino a farsi male, ma non ebbe il coraggio di sparare a colui che si era offerto di risparmiarlo. Tutto ciò gli sembrava un’orrenda beffa, ancora più grottesca di quella che lo aveva condotto in quella situazione. Si era chiesto spesso se fosse possibile riconoscere il colpo letale una volta ricevuto, ma non avrebbe mai pensato di finire la guerra in un campo di prigionia. S’impose di arrestare i pensieri e lasciò cadere la pistola nel fango, affondando il volto nell’incavo del braccio.
Era tutto finito, e nel peggiore dei modi.
L’eco di una fucilata squarciò l’aria, l’uomo che lo aveva afferrato ricadde esanime nel fango. Nella radura si scatenò un tafferuglio nel quale il capitano riconobbe le detonazioni dei Mauser, inframezzate dal crepitio di un mitra tedesco, e una voce che dava ordini.
Non ebbe tuttavia la forza di rialzarsi, né di reagire; rimase bocconi lì dov’era, lasciando che la pioggia gli ripulisse il viso. Fu questione di pochi attimi, poi tutto finì con la stessa rapidità con cui era iniziato: una mano gli si poggiò sulla spalla e il sottotenente Kühn lo chiamò a gran voce. “Signor capitano, è ferito?”
Friedrich scosse il capo, senza tuttavia provare alcun sollievo. “Non è niente, sottotenente.” Recuperò la pistola e si risollevò: per terra c’erano soldati di entrambi gli schieramenti, morti o feriti, mentre quelli che restavano dei suoi inseguitori avevano gettato le armi e si erano consegnati. Ciò che più lo colpì, però, fu vedere il tenente polacco riverso per terra con diversi fori di proiettili e un’ampia macchia di sangue sull’uniforme: anche lui era morto.
Quella vista gli provocò una fitta di dispiacere, sulla quale cercò di non indugiare più del dovuto. “Qualcuno si occupi dei feriti e provveda a seppellire i caduti,” ordinò; quindi, rimessosi in piedi, si rivolse al suo subordinato: “Come ha fatto a trovarmi?”
“Un soldato ha detto che la stavano portando via, ho sentito gli spari nella foresta e sono corso a cercarla. Non è stato difficile trovarla: il nostro settore sarà a cento metri da qui.”
“E come procede laggiù?”
“Abbiamo conquistato la postazione, signore,” rispose il ragazzo con orgoglio.
Von Kleist annuì, celando il dolore alla gamba dietro un’espressione tirata. “Venga con me. Mi farà rapporto dell’azione strada facendo.”

La trincea brulicava di fanti tedeschi, che avevano avuto il tempo di rifocillarsi in attesa dei successivi ordini del colonnello. Erich aveva accompagnato il capitano von Kleist al posto di medicazione, aveva provveduto allo smistamento dei prigionieri e, riparato dalla pioggia all’interno di una baracca con un tavolino sbilenco, si era occupato delle solite corrispondenze da Berlino, scrivendo con una mano mentre con l’altra mangiava.
Aveva poi visto il capitano tornare tra i soldati, con passo strascicato ma composto, e un graffio rosseggiante tra la tempia e la guancia. Si era ricomposto, cambiando l’uniforme ormai sbrindellata, ed era rimasto a supervisionare le attività militari.
“Kühn,” si sentì chiamare dall’ingresso. Quando si voltò, gli occhi chiari del capitano lo perforarono come due stiletti, facendolo interiormente trasalire, ma le parole che proferì fugarono ogni preoccupazione: “Ho interrogato i prigionieri, tutto procede secondo i piani. Ha fatto un buon lavoro, sottotenente.”
“La ringrazio, signore.”
Von Kleist annuì, senza lasciar trapelare alcuna emozione. Appoggiò sul tavolo la cartella dei rapporti, pronto a riprendersi la sua postazione di comando, quindi versò del caffè solubile in due tazze e gliene porse una con un gesto meccanico. Erich non gradiva particolarmente quella bevanda annacquata, soprattutto se tiepida, ma si rassegnò comunque ad accettarla, lasciandovi cadere tre zollette di zucchero per camuffare il sapore sgradevole.
Scrutò il capitano da sotto le sopracciglia mentre guardava fuori, appoggiato al fianco del tavolo: il suo contegno si era fatto più grave e nervoso, il suo volto più scavato; perfino i lineamenti si erano induriti.
Sarà per la morte del maggiore…
“Adesso venga con me, Kühn,” lo interruppe il capitano, gettando la tazza di carta ormai vuota nella spazzatura. “Sarà questione di pochi minuti prima che l’assalto ricominci, non vorremmo mica farci trovare qui rintanati come topi?”
“Nossignore!” Sotto lo sguardo attento del suo superiore, Erich si riallacciò l’elmetto e, oltre all’MP38, si procurò alcune granate a manico che infilò nella cintura.
Fuori dal rifugio, la pioggia non dava tregua e le buche nel terreno si erano riempite d’acqua, così profonde che talvolta gli stivali vi affondavano fino alle caviglie.
Come formiche, i soldati si affaccendavano qua e là per prendere posto, i sottufficiali davano e ricevevano ordini, vigilando sulle reclute. Un portaordini li raggiunse correndo: l’assalto stava per ricominciare.

Il sopraggiungere della sera aveva incupito il grigio del cielo, dalle cui cataratte la pioggia continuava a scrosciare inzuppando la terra e le uniformi feldgrau. Ormai non restava che il tiepido lume della torcia sorretta dal capitano, che guizzava tra gli alberi mentre le ombre della foresta si addensavano.
I caduti di quella giornata erano stati seppelliti in un lembo di terra di nessuno tra la trincea e le propaggini del bosco, le croci di legno sovrastate dai loro elmetti. Non avevano neanche cantato, né fatto riecheggiare le salve dei fucili come ultimo saluto.
Giunse fischiando una pallottola; è per me oppure per te?
Friedrich era rimasto in silenzio mentre i soldati scavavano la fossa con le loro vanghe, come in una cerimonia intima a cui avevano preso parte il sottotenente Kühn, Hanke, Krause, il sergente Böhmer e i pochi altri che avevano combattuto più spesso al suo fianco; poi si era attardato lì, incurante della pioggia, a vegliare sulle tombe con le mani affondate nelle tasche del lungo impermeabile nero.
Tra quelle croci, spiccava un elmetto di fattura diversa, sotto di esso una targhetta spoglia recava la scritta “Unbekannter polnischer Oberleutnant. Im Kampf gefallen 22.9.1939”: era il tenente polacco, del quale non aveva mai conosciuto il nome.

Tornò al rifugio solo a tarda ora, infreddolito e zuppo di pioggia, quando le sentinelle montavano la guardia notturna. Si liberò dell’uniforme bagnata, calciò via gli stivali e, alla luce della candela, con calligrafia imprecisa, scarabocchiò questi appunti sul retro di un foglio:

Tra le cicatrici della terra di nessuno,
Le tombe anonime di chi non tornerà più a casa.
Stanotte, soldato solitario, veglio sotto la pioggia
In ricordo di chi, senza sepolcro né croce,
Giace disperso in campi sconosciuti.
L’unica lapide a commemorarlo è il mio cuore,
Pietra bianca e fredda che vi porta scolpito il suo nome.

Sfiderò la furia della tempesta
armato di una pistola e della mia sola volontà.
Colpa, castigo ed espiazione, in un cerchio che si chiude.
Chi cade con coraggio è anch’esso vincitore.”

Gli uomini delle Waffen-SS avanzarono con cautela, preceduti da un corteo di Panzer che rombavano per le vie lasciate deserte dopo la ritirata polacca. Lì, i segni della battaglia erano più evidenti: intere porzioni di selciato erano completamente saltate e il sangue dei cadaveri, che dovevano aver combattuto fino all’ultimo, bagnava le pietre.
Un soldato fece una smorfia e distolse lo sguardo alla vista dei brandelli irriconoscibili di carne e stoffa insanguinata ammucchiati in un angolo della strada: l’unica cosa che si poteva vagamente distinguere era il colore delle uniformi polacche. Un vecchio caporale gli poggiò una mano sulla spalla con aria paterna. “Ho visto di peggio a Verdun, ragazzo mio, credimi. Quelle sono esperienze che ti cambiano per sempre… me lo ricordo come se fosse ieri.”
“Smettetela di fare i rammolliti, che di scemi di guerra ce ne sono già troppi,” si intromise un terzo con aria sprezzante. “Piuttosto, ringraziate di non essere al loro posto.”
Il capitano Greifenberg, infastidito da quel diverbio, impose ai suoi uomini il silenzio. Il suo orecchio attento colse un lontano frastuono di battaglia, che suggeriva una grande mobilitazione di forze: le truppe polacche si erano ricompattate e attendevano il momento propizio per sferrare il contrattacco. Ordinò ai Panzer di mettersi in formazione e rimase a guardare mentre i veicoli si sistemavano a guardia delle vie, poi divise la fanteria in gruppi, inviandone alcuni in copertura dietro i carri armati e altri a ispezionare i palazzi, per occupare le postazioni strategiche alle finestre; infine, prese con sé i suoi uomini più fidati e si appostò all’imboccatura della strada.
Vicino a loro c’era una torre medievale che segnava l’ingresso al centro città, fiancheggiata da una cerchia di mura franate. Al lato della strada, i resti di un’elegante caffetteria che non era stata risparmiata dall’avidità degli sciacalli.
Reinhardt sollevò il binocolo e, nella caligine umida e pesante che si annidava tra i vicoli, intravide alcune barcollanti figure umane che approntavano le barricate. Riconobbe subito la fattura degli elmetti e le canne dei fucili che si sistemavano in posizione di tiro. Erano malconci ed emaciati, ma le espressioni dei loro volti apparivano risolute.
L’artiglieria iniziò a martellare le postazioni tedesche senza farsi annunciare: con un rombo cupo, un obice colpì la facciata di un palazzo, già scalfita da precedenti bombardamenti, e vi aprì una profonda voragine da cui sprizzarono frammenti di mattoni e vetri rotti. I soldati si appiattirono in copertura, il capitano ordinò di aprire il fuoco. “Panzer avanti!”
La strada tremava sotto l’impeto dei grossi calibri, scavandovi crepe che i cingoli dei blindati scavalcavano sferragliando. Proiettili di mitragliatrice piovevano dalle finestre più alte e rimbalzavano contro le loro corazze, per poi rotolare tintinnando sul pavimento.
Tra i soldati dei due schieramenti iniziò un botta e risposta a suon di spari: quel pandemonio di scoppi, tonfi, boati e crepitii era l’unico linguaggio udibile.
Un altro obice si schiantò a poca distanza dalla postazione di Reinhardt, che afferrò Lange per la giubba della divisa e lo trascinò via prima che le schegge di metallo si mischiassero ai pezzi di cemento e pavimentazione. Tossirono, avvolti dal fumo, e Keller, che era finito a faccia in giù, allungò le mani alla cieca per recuperare il berretto che gli era caduto.
“Ragazzi, tutto bene?” gridò il capitano, rialzandosi con cautela.
Richter emise un grugnito. “Con tutto il rispetto, mi sa che andava meglio prima, signore.” Più che distinguere le parole con l’orecchio, gliele lesse sulle labbra. Aveva una ferita alla fronte che gli imbrattava il volto di sangue e, come notò l’ufficiale, una strana rigidità al braccio quando cercò di piegarlo per sistemare la cinghia del fucile.
“Vai al posto di medicazione, ti copriamo noi,” gli suggerì.
Il marconista scosse la testa con vigore, una scintilla risoluta nello sguardo. “Chiedo di poter restare, signor capitano. Potrei comunque rendermi utile in qualche modo…”
Greifenberg rifletté per un istante. “Sì, mi serve qualcuno che si occupi delle comunicazioni e vada a informare il maggiore Wittmann della situazione qui presente. Ce la fai?”
“Certo, signore.”
Con una punta di malinconia, Reinhardt guardò il secondo membro del suo equipaggio che lasciava la squadra: condividere con loro quello spazio angusto all’interno del Panzer li aveva portati a legare in un modo inesprimibile a parole, rafforzati dalla consapevolezza di poter contare l’uno sull’altro. “Voialtri, venite con me,” disse poi, imbracciando l’MP38.
Li guidò con cautela attraverso il reticolato di vie, mantenendosi rasente al muro, poi si appostò all’angolo di una strada. Le belve d’acciaio continuavano ad avanzare imperterrite tra le tempeste di pallottole, abbattendo le barricate; una calpestò una mina anticarro ed esplose, emanando un tanfo di ferraglia carbonizzata mentre i serventi feriti trascinavano fuori un comandante esanime. La carcassa servì da rifugio ad altri fanti.
Con la coda dell’occhio, Reinhardt vide il caporale che si era lamentato degli scemi di guerra cadere all’indietro colpito alla gola da una pallottola, e quello che aveva parlato di Verdun lanciare una granata contro le barricate nemiche, che crollarono con un tramestio assordante.
Fu il primo a lanciarsi all’attacco; i suoi compagni lo seguirono compatti tra i detriti disseminati sul marciapiede.
Minacciati su tre lati, i polacchi perdevano terreno ma non la determinazione. Anziché arretrare, divennero essi stessi la muraglia che doveva bloccare l’avanzata.
Si avventarono su di loro con l’impeto di fiere braccate, e quando finivano le cartucce usavano i fucili per colpire e le baionette per ferire. Reinhardt si riparò dietro una barriera di sacchi sventrati e sparò una raffica per tenerli lontani, i suoi compagni più fidati che gli coprivano le spalle. Sulle prime, essi si ritrassero come un’onda di risacca, ma poi andarono loro incontro, a testa bassa, scavalcando i compagni caduti e lasciando indietro quelli che ancora cadevano. Lo scontro si frammentò in fretta in tanti piccoli gruppi, separati dalla nebbia rovente degli spari, ma il capitano rimase il loro punto di riferimento. Tutto intorno, colpiti dall’artiglieria, i palazzi prendevano fuoco e collassavano come se fossero fatti di carta; il fumo nero oscurava il cielo e la vista del sole.
Non c’era via d’uscita, si poteva solo andare avanti. Reinhardt rammentò il giuramento di fedeltà fino alla morte che tutti loro avevano fatto, e guidò i suoi uomini attraverso la mischia.

Sotto la tela bigia del cielo, screziata da pennellate di luce livida tra le nuvole che intrappolavano il sole, la periferia di Grabnik sembrava un luogo abitato da fantasmi. Si nascondevano tra le rovine dei palazzi, dietro alle carcasse dei mezzi blindati e ai crocicchi, mescolandosi alle poche mitragliatrici silenziose che ancora vegliavano alle finestre. Di tanto in tanto innalzavano singhiozzi e lamenti che di umano sembravano avere poco, ma erano invero gli ultimi residui di umanità in quel cumulo di ruderi inanimati.
Perfino il sommesso rumore degli stivali dei fanti che calpestavano le pozzanghere rimbombava nel vuoto. Niente e nessuno reagì al loro passaggio; attraversare quelle vie dava l’impressione di introdursi in una bolla isolata dallo spazio, ignara dello scorrere del tempo.
“C’è nessuno?” motteggiò il tenente Koch, in tono spento.
Il capitano Bentheim rimase vigile, aspettandosi che qualche cecchino sparasse dall’alto, ma tutto tacque. Qualche istante dopo, una mano riemerse da un mucchio di macerie e una voce mormorò, in tedesco: “Qui.” Per quanto flebile, il silenzio la amplificò.
Konrad rivolse un’occhiata interrogativa a Friedrich, entrambi impugnarono la pistola e si avvicinarono cauti. Il ferito, un uomo sulla trentina, era rimasto intrappolato sotto una trave di legno che gli era crollata addosso. Come constatò dalle mostrine sul colletto e dal nastro nero che portava cucito sulla manica, era un caporale della Leibstandarte.
“Caporale, era con la compagnia di Greifenberg?” gli chiese Bentheim, dopo che i suoi uomini lo ebbero aiutato a liberarsi. Friedrich gli porse la sua borraccia.
Il graduato si sedette sulla trave, stendendo la gamba dolorante, e si bagnò il volto sporco di polvere. “Faccio parte del plotone del tenente von Tannenberg, e so che il capitano era molto più avanti rispetto a noi,” rispose. “Ma non so cosa sia successo dopo. Devo essere svenuto, gli altri non si sono accorti di me e hanno proseguito. È stata una battaglia parecchio cruenta.”
Konrad annuì: dato che non c’erano né polacchi né tedeschi in giro, ne dedusse che l’operazione doveva essersi conclusa con successo prima del tempo, mentre loro erano ancora impegnati nelle trincee. Probabilmente le Waffen-SS si erano già acquartierate nel centro del paese e avevano approntato un’altra linea difensiva, per prepararsi a eventuali contrattacchi che sarebbero potuti sopraggiungere con l’imbrunire. “Ci sa dire in che direzione sono andati?”
“L’ultima volta che li ho visti, signor capitano, erano diretti laggiù.” L’uomo indicò una stradina ostruita dal relitto di un Panzer, poi i soldati della sanità lo aiutarono a rialzarsi e lo caricarono su una barella per condurlo nelle retrovie.
Konrad si accostò al suo parigrado, che si era incupito e stava fissando i resti di una torre medievale. “Quest’aria non mi piace…” lo sentì borbottare.
“Hai visto qualcosa, Friedrich?”
“No, no, è solo…” Scosse la testa, troncando il discorso. “Non lo so, forse sono soltanto diventato troppo suggestionabile. Andiamo?”
Procedettero nella direzione indicata dal caporale, le ombre che si allungavano dietro di loro fondendosi col buio della sera, fino ad arrivare in uno spiazzo in cui trovarono cadaveri di soldati tedeschi e polacchi riversi al suolo, quasi avvinti nell’impeto del corpo a corpo, pietre macchiate di sangue, lampioni divelti, resti di equipaggiamenti, elmetti sfondati con le rune della vittoria dipinte su un lato. I segni della battaglia erano recenti e s’iniziava a sentire più forte il ruggito dei Panzer che manovravano, seguito da un viavai di persone che venivano nella loro direzione.
Quando riconobbe gli uomini della Leibstandarte, Konrad andò loro incontro e Werner von Tannenberg si staccò dal gruppo: era ancora sporco di olio e indossava la divisa da carrista, con le cuffie intorno al collo.
Si salutarono con una scioltezza che trapelava sotto il contegno formale, ma il volto dell’Obersturmführer era cupo. Si tolse la bustina e si passò una mano tra i capelli, esitando sotto il suo sguardo prima di iniziare a spiegare: “Nel pomeriggio siamo stati accerchiati, e resistere al contrattacco ci è costato caro in termini di mezzi e di vite.” Con un cenno alluse ai caduti, che venivano ricomposti e coperti con dei teli; un Panzer giaceva incagliato tra le macerie come un giocattolo rotto. “Anche Reinhardt, è rimasto ferito.”
Le fragili pareti della bolla si sgretolarono come colpite da un proiettile, e nella testa del capitano iniziarono a delinearsi scenari nei quali l’ardore e l’ebbrezza del combattimento non lasciavano spazio a compromessi. “E dov’è lui?” chiese, cercando di mantenere un tono neutro.
Werner chinò la testa. “Non ne ho idea, noi siamo appena arrivati.” Indicò un vicolo stretto, vicino a una facciata in rovina, dove i resti di una barricata erano sormontati da una mitragliatrice. “Provate laggiù. Vado a chiamare i portaferiti, poi vi raggiungo.”
Konrad si avviò e Friedrich lo seguì senza dire una parola, mantenendosi tuttavia a qualche passo di distanza. Cadaveri scomposti erano ammucchiati al di là della barriera, nelle posizioni in cui si erano colpiti a vicenda con le armi bianche. Gli si gelarono le vene quando, tra essi, vide un ufficiale biondo con l’uniforme bucata e inzuppata di sangue; impossibile capire se fosse suo o dei nemici. Accortosi della sua presenza, l’altro cercò di rialzarsi. “Konrad.”
Egli scavalcò la barriera e si inginocchiò, passandogli un braccio dietro le spalle per sostenerlo. “Tieni duro, sono qui.” Con una carezza gli scostò i capelli madidi dalla fronte: non lo aveva mai visto così pallido e privo di forze; i suoi occhi color cielo sembravano aver perso il loro caratteristico lume.
“Ce l’abbiamo fatta,” disse Reinhardt in un sussurro. Sorrise debolmente mentre pronunciava quelle parole, ma ogni respiro pareva squarciargli il petto. “Avrei voluto tanto… poter proseguire insieme a voi… fino a Varsavia.”
Konrad tacque, consapevole che la sua speranza era incerta quanto la mano che si aggrappava alla sua divisa. Lo tenne stretto a sé e non lo lasciò neanche quando sentì la sua presa affievolirsi.
Friedrich gli toccò la spalla e la strinse appena, come per offrirgli del muto conforto. Gli fu grato del fatto che non si perdesse in retorica o vane consolazioni: un amico sapeva anche quando tacere, e Friedrich non diceva mai parole fuori luogo.
Quando i portaferiti arrivarono, era ormai troppo tardi.

Konrad era seduto su una cassa rovesciata, coi gomiti appoggiati sulle ginocchia e lo sguardo perso nel vuoto. Contro l’orbita vuota della finestra, vedeva l’ombra di Friedrich che camminava irrequieta avanti e indietro, intervallando il ticchettio dell’orologio con lo scalpiccio dei suoi passi.
Le voci dei soldati, attutite dalla parete, apparivano più spente, ma là fuori l’orizzonte rombava e si accendeva di bagliori sinistri come ogni notte.
Era la prima veglia senza di lui, che ogni sera intratteneva i suoi uomini bevendo e cantando canzoni insieme a loro. I soldati avevano marciato con passo fiacco e cantato Ich hatt’ einen Kameraden, mentre Konrad e Friedrich, alla testa della schiera, erano rimasti in silenzio. Quella battaglia aveva privato gli uomini di un valido comandante, una guida di cui tutti avevano rispetto e stima, ma a lui aveva tolto molto di più.
Faticava ancora a capacitarsi di quello che era successo, come se la sua parte razionale fosse incapace di accettarlo; era sicuro però che gli avrebbe lasciato un segno indelebile.
Non osò indugiare più del dovuto su quel pensiero, né sulle valanghe di ricordi che lo assalivano ogni volta che distoglieva la mente dalla realtà contingente. Lo rivedeva combattere, svelto e pericoloso come una tigre, oppure lanciarsi per le discese impervie con la sua moto; talvolta gli pareva perfino di udire ancora la sua risata, mentre i suoi occhi riflettevano il chiarore del cielo.
Friedrich, che aveva sicuramente intuito il suo stato d’animo, rispettava il suo silenzio.
“Il mio onore si chiama fedeltà…” ripeté, leggendo assorto le parole incise su una spilla che teneva tra le mani. Richiuse le dita e la strinse nel palmo. “Era il suo giuramento e l’ha rispettato fino alla fine. Non vedrà Varsavia… né tornerà a Berlino.”
Avrebbe potuto recitare decine di passi e aforismi sull’amor di Patria e sul sacrificio eroico, ma non sarebbe mai riuscito a esprimere a parole ciò che provava – e forse, in situazioni simili, era meglio tacere. Non era pronto a perderlo, non così all’improvviso. Una parte di lui continuava a immaginare di vederlo varcare la porta: si sarebbe messo a ridere e avrebbe offerto una birra a lui e a Friedrich, animando la conversazione. Ma Konrad sapeva che non sarebbe tornato, né lo avrebbe fatto il suo spirito incrollabile che non si perdeva mai d’animo.
“Conviviamo quotidianamente col pensiero della morte, ma non si è mai pronti ad affrontarla quando questa tocca qualcuno a noi vicino,” mormorò Friedrich.
Konrad esalò un sospiro. “Reinhardt aveva un fratello più giovane, lo sai?”
“Sì, me ne aveva parlato. Tu lo conoscevi?”
“Di persona no, ma lui ne parlava così spesso che mi sembrava quasi di conoscerlo. Aveva deciso di unirsi alla Leibstandarte per combattere al suo fianco, frequentava una scuola di cadetti. Quando erano entrambi in licenza, Reinhardt lo portava sempre a sparare nei boschi… voleva occuparsi personalmente dell’addestramento di quel ragazzo.”
Konrad tacque di nuovo e gettò un pezzo di legno nella stufa, dove serpenti di fuoco si contorcevano e crepitavano. Quante volte si era seduto sul divano di fronte al camino insieme a lui, quando si ritiravano nella grande sala della tenuta dopo aver raccolto la legna? Quante volte, dopo le battaglie, avevano fatto programmi per l’inverno?
Allontanò con fatica quel pensiero, quindi si alzò e si avvicinò alla finestra: aveva ricominciato a piovere a dirotto, e alcune gocce s’infiltravano all’interno passando attraverso le fessure del tetto. “O nehmt mich, nehmt mich mit in die Reihen auf, damit ich einst nicht sterbe gemeinen Tods!” 1 proclamò, con voce assorta. “Non era così che ci hanno insegnato a scuola?”
“Chi è, Hölderlin?”
Egli annuì. “Und Siegesboten kommen herab: Die Schlacht ist unser! Lebe droben, o Vaterland, und zähle nicht die Toten! Dir ist, Liebes! Nicht einer zu viel gefallen.” 2
Friedrich rimase per un po’ in silenzio, fissando le fiamme che distorcevano i suoi lineamenti stanchi. “Se anche dovessimo vincere… la vittoria avrà tutto un altro sapore.”
Konrad si voltò verso le rovine frustate dalla pioggia, che alla luce della luna sembravano ricoperte di pece liquida. “Dobbiamo combattere, Friedrich. Non ci resta altro.”


  1. “Prendetemi, prendetemi nelle vostre schiere, affinché io non debba morire una morte indegna!”↩︎

  2. “Arrivano i messaggeri della vittoria: la battaglia è nostra! Vivi, mia cara Patria, e non contare i caduti! Nessuno di loro è morto invano.”↩︎

  
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